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Thursday, March 10, 2022

GRICE E JUVALTA: L'ARISKANT CONVERSAZIONALE

 . JUVflliTfl     La Possibilità l     I e i Limiti    MORALE     STUDI     TORIflO   FRATELLI BOCCA EDITORI  1907                     A 1 / VERTENZA    In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati in  più riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio in¬  dimenticabile maestro ed amico Carlo Cantoni, al quale il  profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non  tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei di¬  scepoli, la lil>ertà e la sincerità.   Benché diversi di titolo, i tre studi che ora ripubblico  riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del me¬  desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬  scuno dei successivi, i precedenti.   Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione di  un altro pubblicato anteriormente col, titàlol « Prolegomeni  a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è esa¬  minato il problema della possibilità di un’ Etica normativa  indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o negativa,  dei problemi di natura metafisica. E perciò spero di essere  scusato se mi riferisco qualche volta anche ad esso ; e se in  in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con bre¬  vità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle  quali s’è già discorso in quello.   Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito dello  Studio « La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e  la Morale come Scienza », che — se nella esposizione sia  generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho cercato      %   _ 2 —    studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero dello  Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto  di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico  che assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio  precedente. E per questa ragione ho tralasciato deliberata¬  mente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione  che non fosse strettamente necessaria allo scopo mio parti¬  colare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di accenni  alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.   Pavia, Settembre 1900.    E. Jl’VAI/TA.            e la Morale come Scienza       INDICE    Introduzione .*   1. Movente etico-sociale dell’opera dello Spencer. — 2. Conse¬  guenze nella valutazione delle suo dottrine. 3. Scopo  dello studio presente.   PARTE I"   (Cap. I. e li.)   Esposizione.   Cap. I. — La Dottrina etica in yenerale .P“g- 15   1. 11 concetto informatore. — 2. La distinzione delle due Eti¬  che. — 8. Il metodo dell’ Etica. — 4. I dati dell’ Etica.   — 5. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo , e possi¬  bilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica.   Cap. II. — La dottrina delle due Etiche . P a g- 25   1. Due questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la  dottrina. — 2. Il giusto assoluto. — 3. Il giusto relativo.   — 4. Errore comune nel modo di concepire la condotta  ideale. — 5. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta  «sull’Etica Relativa. — 6. n confronto colle altre scienze.   PARTE H“   (Cap. m.-V.)   Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto  dal quale hanno origine.   Gap. III. — La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico pag. 40  Partizione della Critica. — 1. L’imperative categorico. —  2. L’ obbligo e la giustificazione. — 3. La progiudiziale  dell’ obbligo categorico è estranea alla determinazione e  alla giustificazione della norma. — 4. In che consista la  differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni  precettive. Compito dell’ Etica.         — 6 —    Cai*. IV. — La pregiudiziale, .sul modo di intendere il   compito normativo dell’ Etica .P a S - *   5. La progiudiziale sul compito normativo dell’Etica. G. Co¬  me esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. 7. Due  presupposti arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme  siano già determinate e note. — 8. b) che si accordino  fra di loro. -- Necessità di un criterio per la determina¬  zione. — 9. La soluzione dell’indirizzo sociologico - Suo  difetto capitale: non vale a giustificare le norme. — 10. La  soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. 11.  Difetto capitale : la costruzione metafisica postulata, come  qualsiasi costruzione metafisica, non serve a determinai e   10 norme.   Cap. V. — Il preconcetto fondamentale .P»g- G6   12. Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’an¬  titesi tra esigenza scientifica (determinazione) ed esigenza  etica (giustificazione). — 13. Legittimità di porre il pio-  bleina in una forma diversa. — 14. Conclusione della Cri¬  tica Preliminare.   PARTE III.*   (Cap. Vl.-IX.)   La dottrina delle due Etiche e le esigenze  di una scienza normativa morale.   Cap. VI. — Il criterio del limite dell' evoluzione e del¬  l’adattamento completo non serve a determinare   11 tipo di condotta cercato . l )a S- 71   Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità   dell’ una non dipende da quella dell’ altra. — 1. 11 tipo  di società giusta non è determinato dal limite dell’ evo¬  luzione. — 2. Nè dall’ adattamento completo. — 3. Su  quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga nella  costruzione dello S. il postulato dell adattamento com¬  pleto.   Cap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispondente  all’adattamento completo, non serve a giusti¬  ficare il tipo di condotta proposto .pag. 82          4 e 5. Il piacere puro non può essere il criterio della massima  desiderabilità. — 6. La questione del « fine » e dei fini -  Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equi¬  valenti. — 7. Equivoco nell’identificazione dell’ oggetto  dell’ attività col piacere. — 8. Quale possa essere il fine  che soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e  della giustificazione delle norme.   Vili. — Il tipo di .società giusta dello Spencer . . pag. 94   9. Come concepisca la società giusta lo Spencer. Presupposto  illegittimamente assunto dalla biologia. 10. Difetto  fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c  il tipo della società giusta. — 11. Difetto che ne deriva  nella relazione tra giustizia e beneficenza. — 12. L’ in¬  dividualismo dello Spencer e il postulato della giustizia.   XX. — Ufficio e limiti di una costruzione scienti¬  fica dell' Etica .. • • P a S- 100   13. Come debba concepirsi un tipo ideale di società giusta.   _ 14 . Etica Pura ed Etica Applicata. — 15. Conclusioni   della Critica. — 16. Presupposto fondamentale, e carat¬  tere ipotetico dell’Etica come scienza normativa.         INTRODUZIONE    1. — Pubblicando nel Giugno del 1879 I dati  dell’Etica prima che fossero composti il II e il III  volume dei Principii di Sociologia, lo Spencer giu¬  stificava questa deviazione dall’ordine del suo pro¬  gramma col timore di non poter compiere l’opera  finale della serie: I principii di Etica.   « Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior  frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la  vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima  parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte  è quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti pre¬  cedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo scritto  fin dal 1842 indicava vagamente il mio pensiero intorno a certi  principi generali di bene e di male nella condotta politica ; e da  quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini  prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai prìncipi  del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione.  Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione  cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui proba¬  bilità non posso pensare senza sgomento^_e_sono ansioso di evitarla,  se non del tutto, almeno in parte ». (1).   (1) The Principles of Ethics. Pref. to Part. I. (wheu first issued  separately.) London 1892. Voi. 1. p. VII.         — 10 —    Qualche cosa di simile alla catastrofe preveduta  sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento decadi¬  mento e indebolimento progressivo egli fu costretto  dal 80 al 90 a sospendere qualsiasi lavoro. Fortu¬  natamente nel 90 potè riprenderlo: ed anche allora,    la sua prima preoccupazione fu quella di compiere  i principi di Etica; e pose subito mano a quella  parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più  importante: la IV a (Giustizia) (1).   Colle parole e col fatto egli mostrava dunque  che Tintento supremo al quale consapevolmente  convergevano tutti i risultati della sua specu¬  lazione, era u n intento mor ale. Par che riecheggi  in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis est  unicus ad quem omnes sunt dirigendae (2). E in p   realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬  trano e illuminano tutti gli scritti suoi, anche i  minori, così vi circola dentro e li riscalda il soffio  vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evo¬  luzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto  la comprensione del processo naturale e necessario  che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro una  umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza,  la dottrina prende colore di fede. E veramente egli  la professò come una fede; non soltanto visse per  la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i prin-     (1) Op. cit. Pref. to Part. IV. (wlien first iss. sep.) Voi. 2. p. Vili.   (2) De. Intell. Emend. II, 16 nota.     — 11 —    cipi che pone a fondamento della morale e del diritto,   € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse  dell’universo, ispirano e governano con indomita  costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni,  da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle  carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta  alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle  ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle contro  « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che!  non apron bocca quando la nazione è mossa dalla '  religione dell’odio. »   2. — Quell a unità e solidarietà di pr i ncipi teo¬  r ici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta come  s cienz a ella sua scienza come una morale, e questo  continuo cimentare che egli faceva i suoi principi  con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la  sua dottrina pareva prender veste di programma so¬  ciale e politico, hanno certamente contribuito a pro¬  durre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz ione , »  morali' si insinuasse anche nella critica delle sue  dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata  prevalentemente, se non talora quasi esclusiva-  mente, come l’espressione di certe tendenze e di  un certo indirizzo religioso morale economico poli¬  tico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspi¬  razioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più,  e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso.   E cosi potè facilmente accadere che anche certi   cì tu? ■fot** v* w                 — 12 —    principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati  in disparte, o si stimassero superati e come logori  e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la  falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano con¬  nessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo  che si giudicavano superati.   Ora se è vero che a intendere il significato e il  valore di una dottrina particolare è necessario con¬  siderarla nelle relazioni col sistema di dottrine di  cui fa parte, non è perciò meno legittimo conside¬  rare se essa possa aver valore e segnare un acquisto,  anche all’infuori della validità di quel sistema e di  quelle altre dottrine, colle quali primamente si  svolse.   3. — L’intento di questo scritto ó appunto di  esaminare il valore teorico e metodico della distin¬  zione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale  ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante  del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ra¬  gione di essere, indipendentemente dall’applicazione  che egli ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita.   Perciò si divide naturalmente in due parti: espo¬  sitiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro  le ragioni e il significato della distinzione nel pen¬  siero dello Spencer; la seconda a esaminare la pos¬  sibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto  una forma diversa.   L’esposizione comprenderà pure necessariamente        due parti: una che richiama, in modo breve quanto  è possibile ma esatto, il concetto informatore e i  lineamenti fondamentali di tutta l’Etica; l’altra  che traccia più distesamente la dottrina particolare  esaminata.           Parte I    ESPOSIZIONE    Gap. I. — La dottrina etica in generale.   1. — Q uella legge di evoluzione , che si mani¬  festa nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare  come un tutto, nella terra come parte di questo,  nella vita in generale, e nella vita di ciascun orga-  nismo individuale, nei feno meni ment ali degli esseri  animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si  manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale  é quindi a nche in quei fenomeni della cond otta, dei  q uali tratta la morale . In conformità di questa legge] j^etWnr.<******  e delle leggi via via subordinate in cui essa si ri¬  frangevi produce una el evazione^progres siva nelle **   forme della vita sub-umana ed umana, la quale si  traduce in un a dattamento s empre migliore, più  esteso e più durevole alle condizioni da cui dipende  l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie;  e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della  società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda  tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme; e,  benché si possa astrattamente considerare ciascuna  forma per sè, tuttavia, per la connessione naturale  e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre    V 1- 1 1 hu>«1J * •*» ^    ...J   ìS I f. .V> ( | w   •v.etrii < ut»   ■yjUÌ* Ij.h* fif   Tri Jr « 4* G   VY. »Y * l.    yJ* ^    ' n -r?                   — 16 —    b      ^ '• W\«    ab    yfa c f l<»   Hit , .  UsJS      a j^jr^w<Mitr /***yn«  mi l|«*i# uUli" »    forme d’adattamento nella realtà procedono di con¬  serva con mutue azioni creazioni continue; cosicché  a ogni progresso in una forma di adattamento cor¬  risponde un progresso nelle altre forme. 11_limite,   ver so il q ua le tend ^questo processo, è l’adattamento  completo a tutte le condizioni della vita umana più  elevata; per il quale il massimo svolgimento della  vita individuale, e della parentale, e della sociale,  non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda.   Questo adattamento completo implica non sol¬  tanto una perfetta conformità esteriore dell’operare  alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari  una conformità correlativa e della struttura, e delle  attività, fisiologiche e psichiche; è insomma ad un  tempo adattamento della condotta e adattamento dei  fattori interni della condotta. Quindi anche le idee,  i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e  intensità e gradi di subordinazione, pienamente  adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della  vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle  forme di condotta corrispondenti il loro appaga¬  mento pieno e concordante. 11 che viene a dire che  l’adattamento completo attua in sé le condizioni  della massima felicità .   Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adat¬  tamento eoj puleto . m assima felicità, sono per lo  Spencer tre concetti che coincidono; o, meglio, sono  faccie o aspetti diversi di un medesimo risultato     ò'yrwrC         — 17    finale, ed esprimono il limite verso il quale tende  l’evoluzione della vita umana nello stato sociale.   2. — E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che  sta in fondo al pensiero dello Spencer, tra evoluzione  e aumento di felicità, che egli può porre come ottima  la cpndotta rispondente al limite della evoluzione.  Perchè lo Spencer, come è noto, ammette esplici¬  tamente che il fine ultimo, espresso o so ttinteso,  d ell’operare, non può essere che una forma di co ¬   s cienza desiderab ile, cioè di piacere ; e che la con¬  dotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto  conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra di  sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui  dolori.   Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è  che la forma di condotta che coyà&ponde a quel  limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a  gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite,  non può essere che imperfetta, ossia buona relati¬  vamente, non assolutamente. Quindi due Etiche :  Etica Assoluta che determina le leggi della condotta  ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per  a pprossi mazione quale sia la condotta relativamente  buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni  reali di svolgimento e di adattamento incompleto,  è la migliore, o la meno lontana dalla condotta per¬  fetta. E quindi la necessità, e la priorità logica del¬  l’Etica Assoluta; le cui determinazioni riguardano            <&• at*'*J)*    ch> i V* i rt -. < 'f*    (■    3>u7 PK<kJf   J* fattiti^ , r    f d f I ^ fa t o ^ if       y\               — 18 —    relazioni più generali, più semplici, più esattamente  definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa.   3. — Or come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia  quale sarà il metodo? L o Spencer si accorda cog li  Utilitarist i che lo precedono nell’assumere come cri¬  terio per giudicare la condotta e determinarne le  norme l a natura degli effetti o dei risulta ti. Ma se  ne distingue subito per il pr ocedim ento col quale  egli crede che questi effetti dei diversi modi di con¬  dotta si possano e debbano conoscere. Per gli Utili¬  taristi che lo precedono è l’induzione empirica, per  lui la deduzione.   Non si tratta per lo Spencer di trovare che, in  un certo numero di casi, certi danni o certe utilità  si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di in¬  ferirne che rapporti simili si manterranno nell’av¬  venire; si tratta invece di determinare comee^er-  chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri  utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere  dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque  sopra certe relazioni empiricamente osservate, ma  sulla connessione causale necessaria tra le azioni  ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione  delle norme morali. E, poiché questa connessione  deve essere alla sua volta una conseguenza neces¬  saria della costituzione delle cose, deve essere pos-  sib ile dedu rre da principii fondamentali quali specie  di azioni tendano a produrre felicità e quali a prò-            — 19      durre infelicità. E le deduzioni così ottenute deb¬  bono essere riconosciute come leggi di condotta e  aver valore indipendentemente da una estimazione  diretta (individuale e occasionale) del piacere e del  dolore.   Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che lo  Spencer chiama Razionale, dall’Empirico, e dà ca¬  rattere di rigore scientifico alla ricerca morale, è  il riconoscimento pieno e adeguato della causalità  naturale dei fenomeni della condotta; e il vero me¬  todo scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze  che abbiano superato lo stadio empirico, deve con¬  sistere nel cercare e nel costruire in sistema non  alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le re¬  lazioni necessariamente esistenti tra cause ed ef¬  fetti in tutta quanta la condotta.   4.— Ma se le leggi della condotta debbono de¬  terminarsi per deduzione necessaria, quali sono i  dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ? I  fatti di cui si occupa l’Etica non costituiscono un  ordine nuovo che si distacchi da un ordine infe¬  riore o precedente, come, per es., le formazioni or¬  ganiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni  sociali rispetto ai biologici : ma appartengono per  un verso alla biologia (1) in quanto sono effetti in-    UU 0 If-r'i    (1) Lo Spencer li considera anche come appartenenti alla fisica,  in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti e  combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma di           V-fT *    — 20 —    terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo  più elevato degli animali; e per un altro alla psi¬  cologia in quanto sono coordinamenti di azioni su¬  scitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza ;  finalmente in quanto queste azioni direttamente o  indirettamente riguardano esseri associati, appar¬  tengono alla sociologia. La condotta è adunque ad  un tempo una formazione biologica, una formazione  psichica, e una formazione sociale: e perciò è nei  risultati delle scienze corrispondenti che si devono  cercare i principii fondamentali, i dati dell’Etica. E  quindi i dati da cui si debbono dedurre le norme  dell’Etica Assoluta sono forniti dalle condizioni che  la biologia, la psicologia e la sociologia indicano  rispettivamente come proprie di un adattamento  completo.   Ora, in conformità alle leggi di queste scienze,  la condotta corrispondente a un adattamento com¬  pleto ossia la condotta ottima, è caratterizzata  dalle condizioni che si possono riassumere nei se¬  guenti tre punti :   I. Condizioni biologiche : Co rrispon denza per¬  fetta tra gli organi e facoltà umane e le attività  necessarie alla vita completa. Il che importa che  tutte le attività necessarie al massimo svolgimento   equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬  zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere tra¬  lasciata.          I    — 21 —    della vita per sò e per gli altri trovino il loro com¬  pimento nell’ esercizio spontaneo di facoltà debita¬  mente proporzionate e producenti quando entrano  in azione il loro quantum di soddisfazione (cioè di  piacere).   II. Condizioni psicologiche: Corrispondenza per-  fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai  I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui  danno origine i sentimenti distinti come morali,  siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi  positivi e negativi proporzionati nella loro forza  ai modi di operare richiesti.   III. Condizioni sociologiche : Accordo perfetto  t rp le attività dei consocia ti. Il che importa che  tutte le attività conducenti alla vita completa di  ciascuno non solo non impediscano direttamente nè  indirettamente, ma favoriscano la vita completa di  tutti. (Stato di pace permanente; cooperazione vo¬  lontaria; nessuna aggressione diretta o indiretta;  scambio di servizi gratuiti (1).   La condotta ottima è dunque quella che sod-    (1) Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni sue¬  sposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate  tre antinomie che sotto varie forme compaiono , si può dire , in  tutta la storia della morale ; 1’ antinomia tra il piacere presente e  il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene  proprio e il bene degli altri, tra ciò che è richiesto dalla felicità  individuale e ciò che è richiesto dalla felicità generale ; e 1’ anti-  nojnia tra sentimenti egoistici e sentimenti altruistici, tra la ten¬  denza al piacere e la coscienza del dovere.             _ 22 —    disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e però  compito dell’Etica Assoluta resta quello di dedurre  da queste condizioni le norme a cui tutte le forme  di attività umana, a qualunque fine siano volte,  debbono conformarsi per essere totalmente buone.   5. — Per tal modo sono determinati i principi  o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta:  le condizioni della vita umana, individuale, paren¬  tale e sociale, proprie dello stato di adattamento  perfetto; è determinato il metodo: la deduzione;  ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic  giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta  proposta valore di ottima: la massima felicità uni¬  versale.   Ma restano d ue grandi difflcol tà : una incoc¬  renza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna  da colmare. L’incoerenza è questa : Come si può  sostenere che il fine della condotta buona è la fe¬  licità, se le norme di essa condotta devono essere  dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato  sociale, e devono valere indipendentemente da ogni  estimazione diretta e individuale del piacere e del  dolore ì 0 , in altri termini, come si risolve l’antitesi  tra il fine assunto e il metodo proposto?   La lacuna è la seguente : Le condizioni che si  pongono come proprie della condotta ottima e che  la deduzione morale deve prendere come dati , sono  esse possibili, o non esprimono delle esigenze in    tvT* • **it/«* •>*» Vfi 1    «*»* ■   T^ e       — 23 —    tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma  quello stato finale di adattamento completo sotto  tutti i rispetti, nel quale le condizioni contemplate  sono raggiunte, in qual modo e per qual via può  ottenersi ì (1).   L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità;  ma questa, a mano a mano che la vita si eleva,  dipende da una serie sempre più lunga e compli¬  cata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬  giunta perché sia possibile il fine. Le norme mo¬  rali rappresentano la serie più generale e prelimi¬  nare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie  più lontana dal fine, e quella che deve essere  osservata prima di tutte le altre; la condizione  delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività  necessarie alla vita tendono a diventare una sor¬  gente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono  relativi alla struttura e questa si modifica se¬  condo le attività) così le fo rme di attività morale,  appunto perchè necessarie, debbono diventare una  sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’os¬  servanza delle condizioni che conducono alla fe¬  licità diventa direttamente piacevole, ed è adem¬  piuta. senza che essa felicità (che rimane il fine    (1) L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si  legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna  considerare a parte , occupano i cap. IX-XtV della I.» Parte dei  Principi di Etica.        ultimo) sia lo scopo diretto e immediato della  condotta ; ossia, (ed è un pensiero che fa ricordare  Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge  come una conseguenza, non direttamente voluta nò  chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle atti¬  vità morali divenuto per sè immediatamente gra¬  devole.   La soluzione della seconda difficoltà derivante  dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione  oggettiva , tra bene proprio e bene altrui, e nella  conciliazione soggettiva, tra egoismo e altruismo,  raggiunte per effetto e della solidarietà crescente tra  le condizioni di vita dei singoli e quelle del tutto,  e dello sviluppo concomitante della simpatia.   Colla soluzione di queste due difficoltà lo Spen¬  cer intende dunque che sia dimostrata la possibilità  — dal punto di vista scientifico — e la legittimità  dal punto di vista morale — della sua costruzione;  e con questa dimostrazione il pensiero che informa  la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee generali,  compiuto (1).   Ed ora , tracciato il disegno in cui si inquadra   (1) La II. a Parte (Le induzioni dell’Etica), che nella traduzione  francese porta il titolo di Morale de* differente peuples, dall’esame  delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli rac¬  coglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle  leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema  variabilità dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale  di due tipi opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e coope-      - 25 —    la dottrina particolare che più direttamente ci in¬  teressa, diciamo alquanto piii distintamente di que¬  sta.    Cap. II. — La dottrina delle due Etiche.    I. S’è visto come nel pensiero dello Spencer  la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta,  la condotta che c orrispon de al limite dell’evolu¬  zione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lon¬  tane da quel limite so no, di molto o di poco, meno  adatte, cioè meno buone; onde la distinzione di Etic  A ssoluta ed Eftej> (1). Ora si presentano   spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo  Spencer, contro il modo comune di comprendere  1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Moral e  A ssoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica     (/    razione sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre quattro  parti, Etica della Vita Individuale (IH. a ), ed Etica della Vita So¬  ciale : la Giustizia (IV.»), la Beneficenza Negativa (V. a ) e la Be¬  neficenza Positiva (VL S ) contengono le dednzioni o applicazioni  particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al metodo ac¬  cennati, vogliono essere determinate le norme della vita privata e  deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle condizioni  contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’ Etica  Relativ a.   (1) Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer quasi inu¬  tile , che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a vere  n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui non  hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata quale  si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di pia¬  ceri e di dolori.    2                   — 26 —    quello di stabilire le norme della condotta retta,  della giustizia pura, e, senza curare gli impedi¬  menti e le imperfezioni che i difetti della natura  umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale  di pe rfezio ne al quale ciascuno deve cercare di av¬  vicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e vi-  ziosa la distinzione ?   2.” Ammesso che dal punto di vista speciale  dello Spencer questa distinzione sia legittima, non  è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento  elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬  mento imperfetto, ossia assai diverso da quello che  essa suppone ?   L’esposizione del pensiero dello Spencer intorno  -alle foie Etiche ( 1 ) mi pare si possa acconciamente  raccogliere in due parti, nelle quali trovi succes¬  sivamente risposta ciascuna delle due questioni. Co¬  minciamo dalla prima.   2. — Si crede comunemente che si possa deter¬  minare un tipo di condotta assolutamente giusta  in condizioni reali di esistenza imperfetta, mentre  questa determinazione non è possibile; e, se fosse,  non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei mo¬  ralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono  tacitamente accettati come veri; e pare infatti che  senza di essi non sia possibile giudizio morale, per-    (1) Op. cit. Ch. XV : Absolute and Relative Etkics.              — 27 —    che la distinzione stessa tra atti giusti e atti in¬  giusti sembra implicarli necessariamente. Sono que¬  sti: l.° Che in ogni caso vi sia un modo di operare / \  ^assolutamente giusto. 2.° Che sia possibile stabilire  quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni  dimostra che in casi assai numerosi non è possi¬  bile il giusto, ma soltanto un minimo ingiusto; e  in casi pure numerosi non è nemmeno possibile  determinare in che cosa questo minimo ingiusto  consista.   Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che  è il correlativo di qualche specie di male, di qual¬  che divergenza da quell’adattamento perfetto che  soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita  completa. Se il concetto di condotta buona è, in  ultima analisi (1), il concetto di una condotta che  produce in qualche parte un avanzo di piacere; e  di condotta cattiva, che produce un avanzo di do¬  lore; il bene o il giusto assoluto nella condotta  può esser quello soltanto che produce p iacere pur o,  pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la  condotta che produce qualche conseguenza dolorosa  ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che  una condotta cosifatta può raggiungere ò il mi¬  nimo ingiusto, il giusto relativo.   Ora le forme di adattamento incompleto pre-    (1) Per questa analisi v. op. cit. Parte I.» Cap. IV.                     — 28 —    WÙ («ino;   >1 'è ntiJj 1    sentano, più o meno vasto e grave, un doppio di¬  fetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini di  fini della vita, per la quale atti che producono uti¬  lità o piacere all’ individuo o alla prole portano  danno e dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza  anche nello stesso ordine tra fini immediati e me¬  diati, presenti e futuri ; per la quale 1’ azione ri¬  chiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di  dolore nel presente, o la soddisfazione di un desi¬  derio immediato può impedir di raggiungere un  bene lontano e mediato, o esser causa di un male  futuro. Nella misura in cui queste due specie di  incongruenze (le quali si incrociano e si complicano  fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni  devono produrre una certa somma di dolore sia  sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore  v ’è male ; e la condotta che apporta qualche male  non può esser giusta assolutamente ».   A chiarire questa distinzione lo Spencer cita  degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di  altre solo relativamente giuste. Una madre sana  che allatta un bimbo sano, un padre che, dotato  di eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del  figlio e li guida, sono esempi della prima specie;  nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere  a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo svi¬  luppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro in¬  sieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce di-      — 29 —    rettamente e indirettamente soltanto piacere senza  dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo  e con soddisfazione e utilità reciproca ; e gli atti  di benevolenza di chi fornisce una notizia o un  consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone un  dissidio tra amici, possono essere classificati come  giusti assolutamente per la medesima ragione.   Degli esempi addotti dallo Spencer di azioni  solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono  tipici anche per il contrasto che offrono col modo  di giudicare comune: La cura di molti figli cagiona  a una madre assai dolori, ma le sofferenze imme¬  diate e le lontane che l’incuria apporterebbe supe¬  rerebbero di gran lunga quei dolori. La condotta  giudicata buona in questo caso è quella che pro¬  duce minor male ; ma non è ottima. È la meno in¬  giusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’ allonta¬  namento dei clienti da un negoziante che esiga  prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi  la misura, fa diminuire il suo benessere e forse  apporta danni e dolori ad altre persone a lui con¬  giunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar  quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un  male assai più grave e generale. L’abbandono è  perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente  giusto.   3 — Riconosciuta così la verità che una gran  parte della condotta umana non è giusta assoluta-       — Bu¬  rnente, si deve riconoscere 1’ altra verità che in  molti casi non é possibile stabilire quale sia il mi¬  nimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si  considerano gli effetti che quella stessa discordanza,  già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre.  V’ è un limite fino al quale é relativamente giusto  che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso pel  vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale  l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli ap¬  porti non soltanto a sò ma a tutta la famiglia  danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende ad  impedire. Chi può dire quale sia questo limite?  Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni  delle persone in causa, non è neppure in due casi  il medesimo, e non può essere per ciascun caso più  che una congettura. Un commerciante che sia tra¬  volto nel fallimento d’un suo debitore e posto nella  necessità di fallire egli stesso se non è aiutato,  deve o no domandai^un prestito a un amico? Il  prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo  caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi credi¬  tori non chiederlo ? Ma fors’anco non lo salverebbe,  e allora non è una frode procurarselo? Benché in  casi estremi possa esser facile decidere, come sa¬  rebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il  più intelligente e competente non può calcolare le  probabilità ?   4 — Questo doppio errore del confondere il     r    — 31 —   giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere  che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce  dall’ errore che si commette nel concepire il tipo  della condotta, la condotta dell’ uomo ideale.   Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca  nelle condizioni sociali esistenti.   Ciò che si cerca determinare è, non quali sa¬  rebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme  mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni pre¬  senti. E questa ricerca ò vana per due ragioni :  La coesistenza di un uomo perfetto e di una società  imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesi¬  stere, la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe  il tipo morale cercato.   « In primo luogo, date le leggi della vita come  esse sono, un uomo di natura ideale non può es¬  sere prodotto in una società composta di uomini-  che hanno una natura lontana dall’ ideale. Aspet¬  tarsi che tra uomini organicamente immorali ne-  sorga uno organicamente morale è come aspettarsi  di veder nascere tra i Negri un bambino di tipa  inglese. Se non si vuol negare che il carattere di¬  penda dalla struttura ereditata, si deve ammettere  che in ogni società ciascun individuo discende da  uno stipite, che risalendo a poche generazioni si  ramifica per ogni parte nella società e partecipa  della natura media di questa ; e che quindi, nono¬  stante spiccate differenze individuali, deve conser-    — 32 —    varsi una comunanza di natura tale da impedire  che un uomo, qualunque sia, raggiunga un tipo  ideale, finché il resto della società rimane di gran  lunga inferiore.   « In secondo luogo, la condotta ideale, quale è  contemplata dalla teoria morale, non è possibile  per P uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti  diversamente. Una persona assolutamente giusta c  perfettamente simpatica non potrebbe vivere e  operare in conformità alla natura sua in una tribù  di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto privo  di scrupoli, una intiera veridicità e franchezza deb¬  bono apportare rovina. Se tutti intorno a lui rico¬  nóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui  natura non gli permetta di inlliggere dolore agli  altri deve soccombere. Fra la condotta di ciascun  membro della società e la condotta degli altri vi  deve essere per necessità una certa congruenza.  Un modo di operare interamente diverso dai modi  di operare prevalenti non può continuare con buon  esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o  della sua discendenza, o di ambedue » (1).   Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di  tipo, egli deve essere concepito non a sé, senza re¬  lazione colle condizioni che sono necessarie perchè  la condotta possa essere giusta, ma in corrispon-    (1) Ib. § 106 p. 279-80 dell’ed. cit.    — 33 —    denza con queste ; V uomo ideale deve essere con¬  siderato come esistente in una società ideale.   Perciò, secondo l’idea dello Spencer, il voler,  per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta  deiruomo ideale quando fosse posto nel bivio o di  farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di men¬  tire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfet¬  tamente vano ; perchè le condizioni cosi supposte  contraddicono a quelle richieste dalla definizione  dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale  soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste  violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere  collisione tra i modi di sentire e di operare richiesti  dal bene proprio e della discendenza, e    chiesti dal bene pubblico.     Viene in mente, e lo ricordo perchè  può servire di commento al pensiero delloCéàencer,  ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko ^  dei Promessi Sposi, nel quale il padre Cristoforo  è invitato a far da giudice in una questione di  cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i com¬  mensali di Don Rodrigo su questo punto: se fosse  lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli  consegna un cartello di sfida senza avergliene chie¬  sto licenza ; e il padre Cristoforo, chiamato in causa,  dopo essersi invano schermito, esce finalmente in  quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare  fuor di proposito, tutti quei dialettici della cavai-    S     — 34 —    leria : « 11 mio debole parere sarebbe clic non vi  fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate ».   Ecco riconosciuta nel caso particolare l’esigenza  fondamentale dell’Etica Assoluta dello Spencer:  Non vi può essere condotta giusta finché vi sono  condizioni contrarie alla giustizia.   Ma la realtà presente e viva è appunto così.  « Oh ! questa è grossa », risponde infatti il conte At¬  tilio. « Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede  che lei non conosce il mondo ».   E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a  fare, 1* ufficio dell’ Etica non sarà quello di stabi¬  lire quale deve essere la condotta nel mondo reale  presente, non in un mondo ideale avvenire? 0,  almeno, non ò inutile, anche ammessa la distin¬  zione Spenceriana, correr dietro al fantasma di  una condotta ottima, adatta a uno stato di perfe¬  zione, che l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che  per noi non esiste ?   5 — A questa seconda domanda risponde la di¬  mostrazione della precedenza necessaria — nell’or¬  dine della trattazione scientifica — dell’Etica As¬  soluta sull’ Etica Relativa.   In qualunque ordine di ricerche le verità scien¬  tifiche si sono raggiunte trascurando prima i fat¬  tori di perturbazione, che alterano ed oscurano  l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto  soltanto di questi.    — 35 —    Quando la estimazione di questi fattori fonda¬  mentali, non, come si presentano nella realtà, ma¬  scherati e complicati di elementi secondari, ma  quali si suppongono idealmente con un processo di  astrazione, ha aperto la via a conoscere e formu¬  lare le leggi generali, allora diventa possibile la  estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fat¬  tori accidentali che nella realtà alterano i rapporti  i deali contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi ge¬  nerali, le verità fondamentali, solo per questa via  si possono ricercare e scoprire, e solo con questo  procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬  pirica alla sua forma razionale.   Per ottenere la formula che esprime il potere -ifjicfip»tv*  della leva s i suppone N una leva che non si pieghi , iàz<Jbz   ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non  abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si  suppone che la potenza e la resistenza si esercitino  su un punto, invéce che su una parte più o meno  estesa della leva. Del pari la determinazione del  corso di un proiettile si ottiene trascurando dap¬  prima tutte le deviazioni prodotte dalla sua forma  e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo negli  altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa  possibile tener conto degli elementi dai quali si è  fatta astrazione, delle complicazioni risultanti dal¬  l’attrito, dalla plasticità, dalla coesione, dalla resi¬  stenza dell’aria : e ottenere così una determinazione     ' Jt- ^ "(VOM, P-O               — 36 —    sempre più esattamente approssimata al l'atto reale.  Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute  della meccanica e certe verità relative che impli¬  cano le prime, come è manifesto che non si possono  stabilire scientificamente le verità relative finché  non sieno formulate indipendentemente da queste  le verità assolute. Il che equivale a dire che la   ! scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto  dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale.   Le medesime considerazioni valgono per la  scienza morale. È impossibile determinare con ap¬  prossimazione scientifica quale sia, date certe cir¬  costanze reali, il modo di operare meno ingiusto,  se non si conosce quale sarebbe il modo di operare  giusto ; e questo non si può conoscere se non si  suppongono eliminate tutte le circostanze che lo  impediscono o lo limitano e ne falsano i caratteri  ed i risultati: cioè, in breve, se non si suppongono,  scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali,  nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto.   A chiarir meglio questa relazione tra Etica As¬  soluta ed Etica Relativa lo Spencer ricorre a un  altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze  biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Pa¬  tologia. La Fisiologia, nello studio degli organi e  delle funzioni che combinate costituiscono e con¬  servano la vita, suppone l’organismo sano e le  funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli           — 37 —    eccessi, delle anomalie di cui si occupa la Pato¬  logia : e questa poi presuppone quella, perchè le  idee anche più rozze intorno alle malattie suppon¬  gono idee di stati sani di cui le malattie sono de¬  viazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi  anormali e morbosi può diventare scientifica sol¬  tanto quando vi sia già una conoscenza scientifica  di stati e processi non morbosi.   Si milmeste l a Morale Assolut a deve precedere  laJSl orak ^llclativa ; la quale non deve applicare  sic et simpliciter alle condizioni particolari della  vita reale le conclusioni dell’ Etica Assoluta ; ma  riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta  che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta,  deve determinare di quanto essa si allontana dal  giusto e come si possa ottenere, date queste condi¬  zioni reali imperfette, la massima approssimazione  al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta.   6 — Questi confronti coi quali lo Spencer in¬  tendeva illustrare il suo concetto intorno alla re¬  lazione fra le due Etiche e alla priorità logica del-  1’ Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe che  abbiano servito ad abbuiarlo ; e però non è fuor  di luogo qualche breve chiarimento.   Dall’esposizione che precede deve essere apparso,  spero, che è per una esigenza inerente alla natura  della ricerca scientifica che lo Spencer sostiene la.      V |    necessità che l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì           — 38 —    e appunto por chiarire questa precedenza neces¬  saria egli cita l’esempio della precedenza analoga  della Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica  Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto alla  Fisiologia Fatologica. Nel pensiero dello Spencer la  priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione  a un campo particolare di ricerche di un suo cri-   <--- 7   terio metodico generale; del quale egli trova la  conferma in tutte le scienze, che hanno superato   10 stadio empirico. Il paragone non è dunque, pro¬  priamente, tra la sua Etica Assoluta e la Meccanica  Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua  Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisio¬  logia Patologica; non è, voglio dire, di quelle  scienze pure tra di loro, o di queste scienze appli¬  cate tra di loro ; ma è paragone tra le loro rela¬  zioni. E il significato del confronto è questo : che  tra le due Etiche, come le concepisce lo Spencer,  corre una relazione analoga a quella che intercede  rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo  così) e tra le due Fisiologie.   E in questo senso che il paragone deve essere  inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò,  quando la critica obietta che l’Etica ha caratteri  ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla Fisio¬  logia, può essere che abbia ragione, ma interpreta   11 confronto in un senso diverso da quello voluto  dallo Spencer. Perchè il concetto, per il quale il         — 39 —    paragone è assunto è, nella sua espressione più  semplice, questo: che anche per l’Etica la solu¬  zione scientifica o scientificamente approssimata  dei problemi più complessi richiede la soluzione  dei problemi più semplici. Il paragone non deve  dunque essere staccato da questo concetto e preso  con una significazione diversa; altrimenti si frain¬  tende e paragone e concetto ; e rimane oscurato  uno dei punti più importanti della dottrina par¬  ticolare ora esposta.   La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso  i fautori di una morale scientifica, nè presso gli  av versa ri. Questi, preoccupati forse in generale dal  pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo  naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due  Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una  fi gliazione de l concetto meccanistico, e f’hanno com¬  battuta in nome delle esigenze della Morale; quelli  hanno notato nella affermata necessità di costruire  un’Etica Assoluta, una contraddizione colla teoria  dell’evoluzione, e col principio della relatività della  morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome  delle esigenze della scienza. Gli uni e gli altri hanno  considerato la dottrina particolare unicamente in  relazione colla dottrina generale colla quale si pre¬  sentava connessa, senza badare alle ragioni che la  possono legittimare all’infuori del sistema e della  forma speciale di applicazione che in esso ha trovato.      Parte IJ.    CRITICA PRELIMINARE:   LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI E IL PRECONCETTO  DAL QUALE HANNO ORIGINE.    Cap. III. — La pregiudiziale dell’imperativo categorico.   La dottrina esposta traccia il piano che lo Spen¬  cer si è proposto di seguire per soddisfare al compito  da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,  scientificamente le norme della condotta morale.]   Ma già intorno a questo modo di intendere l’uf¬  ficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni;  le quali devono essere, almeno nel loro contenuto  sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce  la legittimità del suo concetto sull’ufficio dell’Etica  è vano discutere della possibilità e legittimità del  piano proposto per attuarlo.   L’esame critico si distingue perciò naturalmente  in due parti; delle quali la prima potrebbe dirsi  critica preliminare.   » * «   1 — L’Elica può, o non può, essere scienza nor¬  mativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che,  a giudizio di un profano, (solamente dei profani ?) po¬  trebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi  e dei frutti della speculazione morale.         — 41 —    L’opinione se non universalmente, certo gene¬  ralmente. dominante è che non possa. L’opinione  dominante par che si chiuda in questa alternativa:  l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò nor¬  mativa, e non è più scienza. La ragione dell’anti¬  tesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza  e le esigenze della morale, è nota. Dicono i puri  moralisti: — Una morale che non dia alla norma  carattere di obbligatorietà non può essere vera mo¬  rale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza  uscire dal campo della scienza. Nel latto, una con¬  dotta che si ponga scientificamente come morale, è  obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è  ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipotetica- ,  mente, non categoricamente. E se non c’è i m perat ivo  categorico, non c’è m orale. — E i puri scienziati  rincalzano: — La scienza è scienza delle cose e dei  latti come_sonq_e non come dovrebbero essere. Si  può cercare quali sono i caratteri e i fattori, la  formazione e le trasformazioni dei modi di operare,  dei sentimenti delle credenze distinti come morali;  si potrà anche, tracciati i lineamenti generali del  processo di formazione, argomentare induttivamente  una possibile evoluzione ulteriore con qualche pro¬  babilità; ma la scienza non sa di bene e di male;  cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le riesce,  quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipen¬  dono da certe condizioni, ci fa capire che se vo-    3             — 42 —    gliamo gli effetti dobbiamo volere quelle condizioni,  ma non può obbligare nè à volerle nè a disvolerle.   Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere  che la scienza non possa dare un imperativo ca¬  tegorico, par che ammettano esplicitamente o im¬  plicitamente che la morale debba o possa essere  una dottrina che determina la norma obbligatoria,  ossia una teoria da cui si ricava il dovere. Ora.  se hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa,  hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto  di credere che compito dell’Etica possa essere quello  di dimostrare l’obbligatorietà, e di supporre che  una dottrina religiosa o metafisica possa fondare  quel che riconoscono non poter essere fondato da  una dottrina puramente scientifica; possa fondare  il « tu devi » (1).   2 — 11 « tu devi » è un giudizio di constata¬  zione e non può essere altro. Dicendo « tu devi »  io non posso intendere che l’una o l’altra di queste  due cose: o « tu senti dentro di te qualchecosa che   (1) Ho già mostrato altrove, in un capitolo rivolto direttamente  a questo esame (Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metaf쬠 sica Cap. I. Pavia, Bizzoni 1901) come e perchè sia perfettamente  va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica l sojjmtificn  n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma obbligatoria , se  l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta o supposta;  e come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di credere che  non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza ; e ,  del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il mede¬  simo, è fatta da un punto di vista diverso.            — 43 —    ti spinge, senti di essere obbligato a non fare o a  fare »; oppure quest’altra: « c’è una volontà cbe  ha il potere di obbligarti ». Nel primo caso si fa  appello alla coscienza ; a uno stato o a un fatto di  coscienza che esiste o si suppone che esista ; nel  secondo caso si fa appello a un potere, che pari-  menti o esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno  e nell’ altro caso nessuno sforzo dialettico può ri¬  cavare l’obbligo dalla natura della cosa comandata  o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far  esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza,  nè questo potere.   Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un  senso improprio. « Tu devi » può voler dire: « È  giusto che tu faccia; è giusto che ti senta obbli¬  gato a fare, o che ci sia chi ti obbliga ». Ma se  vuol dir questo, l’espressione è equivoca. Che sia  giusto il fare e che sia giusto T obbligo di fare  (quando questo fare sia già sentito come un ob¬  bligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del  comando: e non basta a porre l’obbligo, lo giusti-  fica dato die ci sia, e potrà far desiderare che  esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che  giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza  o il potere o l’impulso (con qualunque nome si  chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due cose  .sono diverse e non confondibili tra di loro, che  non si può ridurre 1’una all’altra senza togliere          44 —     L* <MìWM    una delle due. Non si può derivare l’obbligo dalle  ragioni che giustificano la norma, senza ricono¬  scere che l’obbligo vale solamente in quanto val¬  gono queste ragioni; fcioè senza assegnargli un va¬  lore ipotetico, non più categorico. Nè si può rica¬  vare la giustificazione della norma dall’obbligo ca¬  tegorico, senza riconoscere che la norma vale so lo  i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare qual¬  sivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il con¬  tenuto della norma non avrebbe nessun valore se  P obbligo mancasse.   3 — Gli è che quando si dice essere il dovere  condizione necessaria della morale, si scambia la  morale colla 'moralità, la norma colla conformità  alla norma. Ma l’obbligo riguarda l’osservanza,    <*/J» non ] a determinazione della norma. Ora, che del¬   l’osservanza della norma sia condizione necessaria      e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non  potrà ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso;  che sia essenziale alla determinazione della norma,  non è neppure discutibile, perchè non ha senso.  Sarebbe come dire che è essenziale alla costruzione  della scienza medica l’obbligo di prendere le me¬  dicine. È verissimo che sarebbero perfettamente  inutili le prescrizioni mediche se non si supponesse  che vengano osservate ; ma è non meno vero che  l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non mu¬  terebbe in nulla il contenuto e il valore delle pre-          scrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la  scienza del medico. E le condizioni da cui dipende  l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che  giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le  scienze precettive si fa consistere nel cercare e de¬  terminare le relazioni tra certi mezzi e un certo  fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai-  fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi la  reale esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ ob¬  bligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissi¬  mamente in una scienza precettiva, che, a rigore,  costituisce un capitolo dell’ Etica ; nella quale la  questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ ob¬  bligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente  distinta dalla questione della ricerca e della deter¬  minazione delle norme; forse appunto perchè fu  considerata e trattata indipendentemente dalla mo¬  rale; voglio dire nell’igiene. Dove a nessuno viene  in mente di pretendere' che sia una condizione della  legittimità o del valore delle norme dettate da lei,  questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e  un d over e. E se accade, come può accadere in ef¬  fetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi pre¬  cetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere  che questo precetto è ordinato a un fine, al quale  si dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso ap¬  paia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che  la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a •         — 46 —      questo : a dare un valore ipotetico all’ obbligo ca¬  tegorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osser¬  vare il precetto, anche se non ci fosse V obbligo.   Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la mo¬  rale. Altro è cercare quali siano le norme da os¬  servare per raggiungere un certo ordine di effetti  (quello che la morale ponga come fine) e altro è  cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare  queste norme possa essere sentito e posto come un  dovere. E l’importanza che questo secondo pro¬  blema può avere non toglie che esso sia diverso e  debba essere distinto dal primo.   La pregiudiziale dell’obbligo categorico non tocca  dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in  primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata  o si assume, e non si dimostra, nè si ricava da  una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè se  si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica  deve dare non V obbligo, ma la giustificazione del-  l’obbligo, questa giustificazione non può consistere  che nel mostrare come la norma abbia valore an¬  che indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sa¬  rebbe bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa  anche se il conformarsi non fosse sentito come un  dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il va¬  lore di una norma vuol dire mostrar la deriva¬  zione di una norma da un fine a cui sia ricono¬  sciuto quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a       — 47 —    dire derivare la norma da un fine, il cui valore  si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’ ob¬  bligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea  la considerazione dell’obbligo e delle condizioni che  lo rendono possibile.   A — La caratteristi ca di una dottrina etica no n  sta dunque nell’ obb ligatorietà, ma sta nel valore  d el fine che si assume (1). Ed eccoci alla vera ed  j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni   precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza pre¬  cettiva si riduce a un sistema di relazioni e di leggi  che hanno valore di norme da seguire per chi si  propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di   effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni   $   ed i fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà  valore di fine a quell’effetto; ma non pretende nè  che questa desiderabilità sia riconosciuta univer¬  salmente, nè che essa sia, pure universalmente, ri-  conosciuta come superiore e preminente rispetto a  quella di qualsiasi altro fine. Ma questo appunto   (1) Sono lieto di notare che in un articolo dal titolo Ethic.s, a  xcience pubblicato nella Philo.sophical Review (Novembre 1903, Vo¬  lume XII, G) il prof. E. B. McGilvary insiste sul concetto, clip è  conforme a quel che ho sostenuto e sostengo , che 1’ Etica , come  scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non  si capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di  qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto  di quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earat-  teristica dell’Etica.               — 48 —    pretende l’Etica. Onde il compito dell’Etica si spe¬  cifica in due punti, di cui il primo segna la sua  caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’ef¬  fetto o l’ordine di effetti che possa avere un tal  valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa  la universale desiderabilità sopra ogni altro, 2." de¬  terminare le condizioni e i fattori da cui quell’ ef¬  fetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione  umana individuale e collettiva, determinare la con¬  dotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente.   Se il fine di cui può essera assunta questa uni¬  versale e preminente desiderabilità è umanamente  possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il  raggiungimento senza assumere o postulare nessun  intervento sopranaturale e sopraumano, la costru¬  zione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o  metafisica. E quindi il problema della possibilità di  un’Etica scientifica assume questa forma: se si possa  assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente  possibile, al quale sia riconosciuto un valore supe¬  riore a ogni altro fine. La determinazione delle  norme morali sarebbe data dalle relazioni trovate  o da trovarsi tra quel fine e la condotta indivi¬  duale e collettiva da essa richiesta.   Ed eccoci a una seconda questione pregiudiziale.     Gap. IV. — La pregiudiziale sul modo di intendere   il compito normativo dell’ Etica.   5. — Non è improbabile che qualche lettore  trovi que sto modo di porre il problema intorno al  co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà.  Sento dirmi: «Nella realtà il compito dell’Etica è  concepito e proseguito in modo assai diversp anzi  opposto. Le n prme della condotta morale sono già  d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla deter¬  minazione concreta dei precetti particolari, di quelli  che si chiamano « d over i » e che si raccolgono nella  parte comunemente chiamata Morale Speciale, non  cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i  filosofi della morale ne sdegnano quasi la tratta¬  zione o ne danno soltanto le linee generali. Nella  realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo  di cercare e determinare le norme ricavandole da  un certo fine; ma di costruire la sistemazione teo¬  rica di un codice di condotta già dato, raccogliendo  e unificando le norme particolari in una norma ge¬  nerale, della quale si cerca quale possa essere la  giustificazione; anche se la costruzione induttiva¬  mente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica  di una costruzione deduttiva. Quindi è antiscienti¬  fico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel  campo di una possibilità, ipotetica, un fine — po¬  niamo pure che sia possibile trovarlo — il quale             — 50 —    risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne  delle norme. Le quali, o si accorderanno con quelle  riconosciute in effetto e vigenti come morali, o  discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che  la pretesa derivazione deduttiva delle norme da  quel fine nasconde una reale derivazione induttiva  del fine dalle norme; se discordano, questa discor¬  danza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di  norme elle contrastano con quelle riconosciute e  accettate, e a far respingere come non morali o  utopistiche le norme e il fine dal quale sono rica¬  vate ».   6. — Io non ho difficoltà a riconoscere che i due  indirizzi prevalenti nella speculazione morale con-  temporanea— l’indirizzo sociol ogico-storico. e l’in-  dirizzo idealistico-prammatistico — si accordano fon¬  damentalmente nel respingere le costruzioni etiche  razionali o pure, e nell’assumere come punto di par¬  tenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali  l’uno considera principalmente l’aspetto esterno,  sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma  noto subito che la novità nel punto di partenza e  nel processo di costruzione, è soltanto apparente;  o, per essere più esatto, la novità consiste (1) nel-    (1) Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno quanto  al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento regres¬  sivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, il Kant  avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare.               — 51 —   l’assumere la legittimità di un procedimento, che  inconsapevolmente domina in generale la specula¬  zione etica, e che si scorge più evidente in quei  sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei  diversi tempi e luoghi più largo consenso; (consenso  non verbale, si intende, ma reale). In altri termini  non si fa che seguire in modo consapevole e riflesso  quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha  obbedito in generale la speculazione morale, almeno  nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi  tempi come ortodossa, o retta, o sana che si voglia  dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo di  operare, di sentire e di giudicare già tenuto come  buono. Ora il rendersi conto che la costruzione  etica — sotto l’apparenza logica di una deduzione  progressiva di certi precetti particolari da una nor¬  ma generale e di questa da un fine posto come  supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai  precetti particolari alla norma' generale e da questa  ai principi che la giustificano), segna certamente  un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza  del processo reale storico e psicologico di formazione  dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia  stato il processo realmente seguito, altro ò affermare  la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortis¬  simo argomento di probabilità, se avesse fatto buona  prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piut¬  tosto di pensare il contrario; di pensare, che la     52 —    speculazione morale sia viziata nelle origini appunto  dal preconcetto che la domina e dal procedimento  che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo pre¬  concetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto  della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico,  come di quella a cui fa capo l’indirizzo pramma-  tistico.   7. — In primo luogo importa notare che am¬  bedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune  il presupposto che compito dell’Etica sia quello di  unificare le norme già date, risalendo da esse ai  principi o ai postulati, sembrano ammettere questi  due punti: 1°. Che le norme morali siano già tutte  conosciute e determinate, o che dalle norme cono¬  sciute si ricavi il criterio per quelle non determi¬  nate. 2°. Che le norme date siano fra di loro con¬  cordanti o compatibili, o almeno non in contraddi¬  zione l’una coll’altra.   Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si  avvera nel fatto.   E prima di tutto non è esatto che le norme della  condotta siano già date e conosciute. Anche se lo  Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più in¬  nanzi, di assumere a criterio del giusto l’adatta¬  mento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel  sostenere che in un gran numero di casi la coscienza  non ci dice quale sia il modo di operare giusto o  approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre ai      — 53 —    casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si  potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare  quale sia la migliore applicazione del criterio, sap¬  piamo però quale sia il criterio da usare) vi sono  sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non  saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali  non ci dice, come per altre, «non è giusto» o «è  giusto». Difenderò io il divorzio o lo combatterò?  Approverò o non approverò l’allargamento del suf¬  fragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monar¬  chico o repubblicano, individualista o socialista,  liberista o protezionista? In quali circostanze ed  entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo?  Non serve rispondere che ciascuno deve operare in  queste materie secondo la propria coscienza. Si  tratta di sapere come una coscienza onesta deve  operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è  presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E  abbandonando questo giudizio alla coscienza indi¬  viduale si riconosce o che possono coesistere criteri  morali diversi, o che lo stesso criterio morale può  legittimare ugualmente modi di operare opposti, o  finalmente che quelle parti della condotta escono  dal campo della morale.   Ma se possono legittimamente coesistere per certe  parti della condotta criteri morali opposti, quale  sarà il criterio superiore che serve a decidere fra  questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non     — 54    si ammette che possano del pari legittimamente  coesistere criteri contrastanti anche per le altre  parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale  può legittimare due modi di operare opposti, ciò non  può essere che per mancanza di determinazione delle  circostanze; e prova in ogni modo che le norme  particolari della condotta morale non sono tutte de¬  terminate e conosciute. E se finalmente quelle parti  della condotta escono dal campo della morale, quale  norma suprema è mai quella che non ha nulla da  dire intorno a una parte così grande dell’operare,  come è, per esempio, tutta la condotta politica del¬  l’individuo e della società? Si dirà che per questa  parte, per la quale le norme non sono date, il cri¬  terio si ricava de quelle già date e accettate come  morali? Urtiamo in una seconda difficoltà.   8. — Per ricavare dalle norme già date il cri¬  terio cercato, per unificarle cioè in una norma più  generale, occorre che le norme date concordino fra  di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto  questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di  insistere, perchè è cosa troppo nota, sull’antitesi  fondamentale esistente tra le norme di condotta che  valgono come morali rispettivamente nelle condi¬  zioni di pace e di guerra, o sui contrasti, tragici  talvolta, tra i «doveri» famigliari e i «doveri»  sociali, bisogna osservare che le norme date e accet¬  tate come morali possono contemplare e contemplano        realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi,  secondarie, le quali esistono e sono possibili in gra¬  zia di relazioni primarie e fondamentali, che le  norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito  spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice.  Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle  di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a  cercare quale sia la posizione migliore per il por¬  tante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale  concilia la minima fatica del primo col minimo disa¬  gio del secondo. I l criterio seguito qu i è un criterio  d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto,  o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere  tutte le comodità per sè senza tenere in conto le  comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito  nello stabilire la condotta migliore, data, quella con¬  dizione diversa dei due) fosse applicato a determi¬  nare la relazione tra i due ,prima che siano divenuti  rispettivamente portatore e portato, questa condi¬  zione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue  gambe. Ossia la norma morale regola nel caso sup¬  posto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse  applicata al sorgere di quel rapporto. E può avve¬  rarsi, così, delle norme morali qualchecosa di ana¬  logo a quel che racconta di sé Senofonte, che all’o¬  racolo chiedeva quale via dovesse tenere per giun¬  gere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal  chiedere prima se era bene o male che andasse.       — 56 —    Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e  osservare che è colla realtà data che bisogna fare  i conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe  giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi  alla meno peggio. — Vedremo ora come questa po¬  sizione di puro adattamento passivo sia, per forza  stessa della realtà, che diviene e muta, insosteni¬  bile: ma ò opportuno notar subito che quando si  renda palese un contrasto del genere notato, colla  consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che  nasca nella coscienza morale l’aspirazione a una  realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modifi¬  care la realtà se essa appare mutabile, o a cercare  la ragione della giustizia fuori della realtà.   Queste lacune e queste incongruenze delle norme  in effetto vigenti come morali in un dato tempo e  luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale sia  la condotta migliore in un determinato momento  storico, non è una semplice constatazione da fare,  ma è un problema da risolvere ; e un problema  assai più difficile e complicato di quel che possa  apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in  ogni caso è necessario assumere un criterio il quale  valga come guida a colmare le lacune, e a risol¬  vere o giustificare le incoerenze. Ma un criterio,  comunque assunto, a cui si attribuisca questo uf¬  ficio e questo valore, è un criterio alla stregua del  quale devono essere valutate anche le norme par-       titolari già riconosciute come certe, poiché deve  valere per tutta la condotta. E ciò viene a dire  che il processo di determinazione di tutte lo norme  si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso modo  che se le norme si dovessero tutte determinare ex  novo, astrazion fatta e indipendentemente dalle  norme in effetto già accettate e seguite. (Il che del  resto è precisamente quello che avviene in tutte  le scienze precettive; dove, se anche i precetti scien¬  tificamente stabiliti si trovano a coincidere coi pre¬  cetti empiricamente seguiti, la determinazione scien¬  tifica procede come se spettasse ad essa di deter¬  minarli e giustificarli). E allora il problema torna  ad essere quello del criterio che deve essere as¬  sunto.   9. — Ora il criterio che l’indirizzo sociologico  suggerisce è, come è noto, — e conforme al con¬  cetto , che esso pone in evidenza, della relatività  della morale e del diritto — la corrispondenza alle  esigenze sociali del momento storico che si consi¬  dera. Il codice morale di un dato tempo e luogo  delinca la forma di condotta richiesta dalle condi¬  zioni dell’ esistenza sociale in quel tempo e luogo,  e trova in esso la sua giustificazione.   A nessuno può venire in mente di negare la  reale ed effettiva dipendenza delle norme morali  dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esi¬  genze possono spiegare come si sia formato stori-           — òs¬    camente e psicologicamente il codice di condotta  correlativo finché sono inconsapevolmente identi¬  ficate colle esigenze della coscienza morale, esse  non bastano più, neppure a determinare quale sia  la condotta adatta in un certo momento storico,  una volta che siano assunte come criterio riflesso  e consapevolmente seguito; non bastano, tranne  che in un caso: nel caso che le condizioni di esi¬  stenza, da cui quelle esigenze emergono, siano con¬  siderate come immutabili o come assolutamente  sottratte ad ogni azione od efficacia che possa  esercitare su di esse la condotta umana , indivi¬  duale e collettiva. Perchè quando intervenga la con¬  sapevolezza di una possibile efficacia modificatrice  della condotta umana sulle condizioni sociali e sulle  esigenze che ne nascono, allora entra di necessità  nella valutazione della condotta la considerazione  di questa efficacia; la quale, richiede il confronto  tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno  stato reale e uno stato possibile. E la ragione della  scelta tra i due non può essere data dalla realtà  dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità  dei due stati messi a confronto; e quindi non sol¬  tanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da  quelle dello stato possibile o creduto tale. Per con¬  seguenza, condotta buona apparirà non quella sem¬  plicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto,  ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni     — 59 —    reali, tenda a modificarla nella direzione segnata  dallo stato più desiderabile (1). Soltanto in un caso,  puramente teorico, la condotta tracciata in confor¬  mità con questo criterio, coinciderebbe colla pura  e semplice corrispondenza alla realtà delle condi¬  zioni fiate; nel caso che lo stato reale presente ap¬  parisse universalmente e sotto ogni rispetto più de¬  siderabile di ogni altro. Ma anche in questo caso  la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla  realtà.   Insomma, altro è comprendere che una forma  di condotta è conforme a certe condizioni, altro è   (1) Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente  ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico,  che la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa neces¬  saria dalle condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti  e anche non di rado generosi fautori e propugnatori di riforme e  di innovazioni anche radicalissime nelle condizioni e nella strut¬  tura stessa della società. Sento 1’ obbiezione : « Gli è che noi pre¬  vediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella direzione,  e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno doloroso il  parto del futuro dai fianchi del presente ». Lasciamo, per restare  nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro voler  affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo, questo  futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente ?  E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non appre¬  stare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che  altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste con¬  dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’ opera  vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno  per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiet¬  tiva ed esteriore necessità. — Cosi la condotta corregge la dottrina.   « Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati ».        — 60 —    aver coscienza della bontà di quella condotta ; la  quale non può nascere che dalla coscienza della  bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede che  sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe con¬  dizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è  la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica.   10 — Di questa esigenza di una giustificazione,  alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo ri¬  flesso della comparazione e della critica, nessuna  costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa invece  il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente   successo si deve, come credo, in gran parte, alla  insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico  nel campo della morale. Esso è in sostanza, come  è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle  esigenze pratiche; la affermazione del diritto di cie-  dere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si  pongano come necessarie a dare un fondamento og¬  gettivo al valore delle norme e dei motivi morali.  In questa reazione a difesa della fede il nuovo idea¬  lismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze e  dalla debolezza degli avversari, è passato, come ac¬  cade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo af¬  ferma la legittimità del proprio indirizzo nel campo  della morale e della religione, o, come si dice, nel  campo dei valori pratici; ma anche nel campo della  scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in  ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne             accorga o si dia l’aria di non accorgersene, non ab¬  bia altra ragione per giustificare i principi e i po¬  stulati che assume a fondamento delle sue inter¬  pretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se non  una ragione di convenienza ; il valore che quei  principi hanno come mezzi per la sistemazione del  sapere, cioè in ultimo per la soddisfazione di un  bisogno speculativo.   Qui non è il luogo di discutere ciò che nella  dottrina ci può essere di vero — più come intui¬  zione di un aspetto trascurato della realtà psicolo¬  gica, che come legittimazione di un metodo — per  quel che riguarda la ricerca scientifica (1); la con-   (1) Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio  giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione che  legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo in¬  voca a legittimare i principi pratici. L’ equivoco è questo : E ve¬  rissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può  parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo   cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e  in quanto possono servire. Ma servire a che ? A unificare e siste¬  mare le cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come nono  n on come desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità che  piace a noi di ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non sia  conforme ai nostri desideri e ai nostri capricci. Perchè il bisogno  teoretico o scientifico è appunto il bi sogno di .salier e le cose che  s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come le desideriamo. E  qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione « come sono »  esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’ espres¬  sione « come desideriamo che sieno ». Perciò non è il caso di ripe¬  tere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè  quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì soste-           sidero nel campo della morale, c soltanto rispetto-  ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto  la soluzione che essa dà del problema della giusti¬  ficazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle  altre soluzioni di carattere metafisico, se non per  il fondamento. A proposito del quale, siccome, se  anche se ne ammetta la validità, questa non toglie  il difetto che nasce dal 'carattere metafisico della  soluzione, mi accontento di osservare, per quelli  che credono di sfuggire per questa via all’utilita¬  rismo, che essa conduce a una forma, mistica se  si vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi  alla forma estrema e più radicale : la valutazione  delle stesse credenze metafisiche e religiose dal  punto di vista di un interesse umano ; sia pure  questo interesse il massimo, il termine di confronto  di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la  credenza come un sostegno della moralità, ossia in  ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non    nere che questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ;  ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che  noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi.  E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per ca¬  varci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un  pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guar¬  dano dentro.   Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬  stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profon¬  dità e con chiarezza, c ome suole, il Varisco (V.* in particolare :  Introduzione alla Filosofia Naturale, e Studi di Filosofia Naturale,  Cap. I).      è escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel  mentre ehe si pone il valore della credenza, si venga  a togliere valore all’ oggetto della credenza.   11 — Venendo ora al nostro argomento, è certo  che l a soluzione del prammatism o, come in genere  le altre soluzioni di carattere metafisico, soddisfa  a quella esigenza della giustificazione etica, alla  quale non soddisfa il relativismo storico. Ma an¬  eli’essa presenta — dico all’infuori da ogni con¬  tesa sulla legittimità del fondamento e sulla vali¬  dità teoretica dei principi e dei postulati ammessi  — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche.  Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi po¬  stulato, non può servire a determinare le norme.  Non può servire, per la ragione perentoria che la  relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬  pra della vita umana naturale e finita, e una con¬  dotta, qualunque essa sia, che si deve dispiegare  nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti de¬  terminabili sono contenuti nei limiti della vita  finita individuale e sociale, una relazione di questo  genere, dico, non può essere in nessun modo dimo¬  strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto  che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costru¬  zione metafisica può essere assunta a giustificare  norme concrete di condotta non soltanto diverse,  ma opposte, senza che si possa ricavare da essa  nessuna ragione per la quale tra due forme di     — 64 —    condotta diverse, una possa o debba giudicarsi pre¬  feribile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di  preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due con¬  dotte rispettivamente producono o tendono a pro¬  durre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta cor¬  relativa un valore che sussiste indipendentemente  dal fine sopranaturale, e diventa il fine naturale  della condotta medesima.   Con questa differenza tra i due fini: che mentre  dato il primo, non si può (se non facendo appello  a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a  una pura affermazione) ricavare da esso quale sia  la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine  naturale, le norme si ricavano appunto dalle con¬  dizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione  naturale tra la condotta e gli effetti della condotta.  Ossia un fine sopranaturale non può fornire esso  il criterio per determinare la condotta, se non a  patto che — implicitamente o esplicitamente — si  assuma, come subordinato ad esso e da esso richie¬  sto un fine, o un ordine di fini, naturale, in rela¬  zione al quale in realtà le norme sono stabilite.   Nè concluderebbe nulla in contrario l’osservare  che il criterio desunto dagli effetti che l’azione tende  a produrre, riguarda la condotta esterna, non la  interna, nella quale sopratutto consiste il valore  morale. In primo luogo anche se per le due con¬  dotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,      — 65 —    bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò  anche la condotta esterna conta pure qualchecosa,  sarebbe ancora necessario ammettere un criterio  che valga a determinarla. In secondo luogo, benché  siano, in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni  i sentimenti che hanno valore e danno valore alle  cose e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a  valutazione comparativa di tendenze o sentimenti  diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti,  come le aspirazioni, si distinguono per il loro con¬  tenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui si  riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre  intenzioni di qualche cosa. E finalmente, una forma  di perfezione interiore che si consideri come fine, a  cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non può  essa stessa fornire il criterio per determinare quale  sia la condotta richiesta a questo scopo, se non in  quanto questa perfezione si consideri come un ef¬  fetto o un ordine di effetti che dipende natural¬  mente (in parte al meno se non in tutto) da certe  condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche del¬  l’ascetismo non avrebbero senso se non si ricono¬  scesse a loro questo carattere di mezzi atti a pro¬  durre certi effetti. '   Concludendo: la soluzione metafisica a cui fa  appello l’indirizzo prammatistico, come ogni altra  soluzione di carattere metafisico, non può avere,  anche se non si ponga in dubbio la sua legittimità,    — r,o —    che un ufficio consolatore, non regolatore; può ser¬  vire a dare o aggiunger valore a certe norme e  ai fini umani connessi con queste, ma non può ser¬  vire a determinarle ; può fornire un principio di  giustificazione, non un criterio di derivazione. E  perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema  che riguarda la determinazione delle norme; il che  ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e  la validità delle ragioni per le quali si pone, e se  ne cerca la soluzione.   Cap. V. — Il preconcetto fondamentale.   12 — Così dei due tipi diversi di costruzione  etica corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno  q « — quello del relativismo storico — se anche può   offrire un criterio di determinazione scientifica di  un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza mo¬  rale, ossia non giustifica il valore che ad esse si  vuole attribuire. Perchè, alle norme stabilite in  conformità al criterio della corrispondenza alle esi¬  genze della vita sociale, non si può riconoscere un  valore superiore a ogni altra norma, se non sup¬  ponendo che la forma di esistenza sociale correla¬  tiva si riconosca universalmente e sotto ogni ri¬  spetto più desiderabile di ogni altra; presupposto  che non è per nulla legittimato, nè si può ricavare  . dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i dealism o             — 67 —   prammatistico — in quanto fa capo a principi e  postulati metafisici, serve a giustificare il valore  che si attribuisce alle norme morali, ma ò radi¬  calmente impotente a fornire un criterio di deter¬  minazione delle norme.   Il primo può determinare le norme, ma non  giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non  determinarle.   L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune  il preconcetto fondamentale che compito dell’Etica  debba essere quello di trova re le rag ioni sulle_quali  ò fondata la bont à o la giustiz ia di quella forma  di condotta, che già teniamo come buona. Ammesso  — tacitamente o esplicitamente — questo presup¬  posto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le  connessioni naturali tra quella forma di condotta  e i bisogni della vita sociale del momento storico,  e quindi ad assumere come criterio etico la corri¬  spondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o  giustificativa porta a cercare a quali patti o con¬  dizioni quella forma di condotta possa veramente  essere riconosciuta come buona, e quindi ad assu¬  mere come fine della condotta un bene il quale  soddisfaccia a quel requisito di universale e pre¬  minente desiderabilità, che non si trova in quel  fine , che è in realtà il fine naturale della con¬  dotta (I).    (1) E i moralisti che cercano di conciliarle ambedue, e soddi¬  sfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla esigenza giusti-       — 68 —    13 — E allora la conseguenza legittima è que¬  sta : che una scienza normativa morale è possibile  soltanto se il fine naturale che serve a determi¬  nare le norme vale anche a giustificarle.   Ma il fatto — che questa esigenza non ò sod¬  disfatta finché si cerca la giustificazione di un co¬  dice di condotta già dato, assumendo questo come  punto di partenza, e quindi come fine la forma di  convivenza e di cooperazione sociale alla quale esso  codice corrisponde, — non prova V impossibilità di  una etica normativa scientifica; prova al più la  impossibilità di una tale scienza finche si intende  £0 il compito dell’ Etica in quel modo,   [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il  problema in un modo diverso: cercare quale possa  essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle  condizioni che esso richiede ricavare le norme della  condotta? Il porre il problema in questa forma non  è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto  nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia    ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità  all’ esigenza scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza  morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al  fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si  possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in  apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di  stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando  si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare 1’ altro ;  senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere  cosi pronto a trovar giusto quello che 1’ altro suggerisce.    — 69 —    (che l’esigenza caratteristica della norma etica non  toglie) colle altre scienze precettive ?   Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che  l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò  facile la risposta. In primo luogo, anche se non  servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di  avere un valore teorico il sistema di rapporti che  per tal modo -si venisse a conoscere. In secondo  luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inu¬  tilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure  che riguardi dati ipotetici. (E quale cognizione  scientifica non contempla dati, almeno in parte,  ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni ge¬  nerali se ne può aggiungere una terza particolare.  Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col quale  può essere utile la conoscenza delle relazioni che  esistono tra forme diverse di moralità e condizioni  storiche diverse, non possa tornare utile la cono¬  scenza delle relazioni scientificamente stabilite tra  una forma di condotta possibile c un ordine di con¬  dizioni possibili ?   14 — Concludo : il problema, s e una scienza  normativa etica sia possibile, non è un problema  risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si possa  e si debba risolvere nel modo tenuto dallo Spencer,  è questione diversa e clic rimane da esaminare. E  questa critica preliminare mentre avrà servito, come  spero, a dimostrare che il presupposto fondamen-       — To¬    tale dello Spencer intorno al compito dell’Etica non  può essere a priori escluso, ha posto in chiaro le  esigenze fondamentali alle quali una scienza nor¬  mativa morale deve soddisfare.   E così ci fornisce una guida per la critica della  dottrina.       Parte III.    LA. DOTTRINA DELLE DUE ETICHE  E LE ESIGENZE   DI UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE    Cap. VI. — Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e  dell’ adattamento completo nm^se^e a determi¬  nare il tipo di condotta cercato.   Il p rogra mma che lo Spencer traccia e si pro¬  pone di seguire (non dico che in realtà gli sia ri¬  masto fedele) per costruire una scienza normativa  etica, si può raccogliere, in queste due te si: I.° La  necessità di assumere come tipo della condotta mo¬  rale la condotta dell’ uomo giusto in una Società  giusta ; e la necessità conseguente d ella disti nzione  'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr Assoluta) ed Etica Applicata  parevo*)» f ( Etica_ Relativa) e della precedenza teorica della  prima sulla seconda. II. 0 La identificazione della  condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col  tipo di condotta che egli pone come proprio del  limite dell’evoluzione.   Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due  tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia                ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella  che legittima e rende possibile ad un tempo la sua  costruzione, non ò difficile vedere come da un punto  di vista critico esse possono e debbono essere con¬  siderate a parte. La prima, infatti, formula una  veduta metodica ; la seconda esprime la speciale  applicazione che di quella veduta metodica lo Spen¬  cer ba creduto di fare. In altri termini, è astrat¬  tamente possibile riconoscere che il tipo ideale del-  1’ uomo giusto non possa determinarsi se non in  relazione con una società giusta e clic per deter¬  minare la condotta giusta relativamente a certe  condizioni reali, sia necessario aver prima ricono¬  sciuto quale sarebbe la condotta giusta in condi¬  zioni idealmente supposte, anche se non si accetta  che il tipo ideale di condotta giusta possa essere  concepito in quella forma e su quel fondamento  che lo Spencer crede di dovergli assegnare.   Anzi io penso che la veduta espressa nella prima  tesi non solo si possa, ma si debba accettare come  legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda  come in germe un concetto fecondo. Certo, credo,  se una scienza normativa morale ò possibile, è pos¬  sibile per quella via; e i difetti della costruzione  etica dello Spencer nascono non dall’averla seguita,  ma piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la  critica stessa della seconda tesi riesce a confermare  la legittimità della prima.      — 73 —    1- — As sumendo come tipo ideale di condott a  ^ insta la condotta corrispondente al limite dellV vn-  ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o im¬  plicitamente, alla forma di vita individuale e so¬  ciale che segna quel limite, valore di fine morale.   Ora. lasciando la difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui  insistito, che uno s tato concepito come il risultato  necessario dell’evoluzione naturale possa aver va¬  lore di fine liberamente e deliberatamente voluto  e proseguito? difficoltà che non mi pare insupera- '  bile (1), io credo che questa identificazion e presenta He   due difetti capitali : essa non vale, per se, a for-      O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la possibilità e la  necessità. — Affermare la possibilità die si produca un fatto, non  è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei fattori,  l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli, produrrebbe,  secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel fatto.  Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si am¬  mette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende, '  può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri l'azione  MI'uomo, cioè quando la « necessità . dell’effetto sia condizionata  dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti, aspira¬  zioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata  del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso che l’ef¬  fetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio  1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto  al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione  corrispondente, della volontà di raggiungerlo.   Che questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evo¬  luzionismo Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane  estranea all’ intento di questo studio, e che i più risolvono nega¬  tivamente (cfr., tra gli altri, L. Zeccante : La dottrina della co-                  — 74 —    ni re un criterio per la derivazione delle norme  morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi, il  tipo ideale è determinato dallo Spencer sopra un  altro fondamento); e non è sufficiente come prin¬  cipio di giustificazione. Cominciamo dal primo.   Il concetto di evoluzione, come quello di tempo,  del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la tra¬  duzione in termini di causalità naturale, esclude  l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso,  oltre il quale ogni processo di trasformazione, cioè  di causazione, si arresti. Il processo stesso di dis¬  soluzione che, secondo il pensiero dello Spencer, si  alterna a periodi indefinitamente grandi con quello  di evoluzione, non segna il termine di un periodo  e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista   scienza movale nello Spencer Cap. XXXI, p. 194; e G. V ijiaki :  Rosmini e Spencer p. 209 e seg. Di queste, come di tutte le ob¬  biezioni mosse all' Etica dello Spencer, a cominciare dal Guyau e  dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza  e ricchezza di notizie il Dr. G. Salvadori nell’opàra « L’Etica Evo¬  luzionista » che è una apologia entusiastica di tutto il sistema  Spencer iano).   Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi  da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi, come  di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore  il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si connet¬  tono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo  luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dot¬  trina delle due Etiche è diverso, e diversa la via seguita ; in se¬  condo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata di¬  scutere le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un  breve scritto, tutta, o poco meno, la storia della morale.      — 75 —    di una valutazione umana o teologica. In realtà il  cammino non si arresta per tracciar di segni che  l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto,  quando lo Spencer parla di limite dell’ evoluzione  della vita umana, intende di significare il momento  in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello   in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento.   Senonchò questo massimo svolgimento non può es¬  sere. necessariamente, che relativo a forme date e  conosciute o comunque determinate di vita, cioè  di organi, di funzioni, e di attività ; e, anche in¬  teso cosi, non può venir stabilito se non fissando   un grado che si consideri come massimo; cioè, in¬  somma, segnando nel processo (non importa ora  con quale criterio) un momento , che sia punto di  arrivo di una serie (della quale sia rappresentato  da punto di vista teleologico come fine), ma che  potrebbe essere preso, con un criterio diverso,  come punto di partenza di una serie ulteriore.  È sufficiente a segnare questo momento il criterio  dell’adattamento completo ai tre ordini di fini:  della vita individuale, della vita della specie e della  vita sociale?   2. — È subito chiaro che questo adattamento  completo non può bastare esso stesso, se non si  determina quali siano le sfere di attività e di fini,  l’adattamento ai quali serve di criterio per stabi¬  lire se il limite è raggiunto. Perchè se si intende    per adattamento completo un adattamento definitivo  a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso  e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale  non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi  non potremmo argomentare nò che un tale limite  sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui im¬  porta di più) dato che si raggiunga, quale sia il  grado o la forma di vita, che un tale adattamento  sia per fissare e suggellare come definitivo.   Perchè i fini sono, come ognuno sa, correlativi  ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che  le forme di attività si moltiplicano c si differen¬  ziano, si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò  si può nò induttivamente, nè deduttivamente de¬  terminare a qual punto questo processo possa o  debba arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla  tesi evoluzionista, ogni adattamento implica dimi¬  nuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus, avanzo  di energia; la quale appunto perciò si viene di¬  spiegando in nuoA r e forme di attività, c quindi nella  ricerca di nuovi fini. Anzi il sorgere di ogni forma  più complessa di attività, — ad esempio ogni fun¬  zione più elevata — presuppone normalmente l’a¬  dattamento già avvenuto delle attività meno com¬  plesse e relativamente elementari, — funzioni più  semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione.  Onde per questo rispetto l’adattamento a certi fini,  ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinita-        mente. Oltredichè il processo stesso del conoscere  portando a scoprire sempre nuovi rapporti di cose  e di fatti, viene continuamente riversando la desi¬  derabilità dei beni conosciuti su nuovi oggetti che  acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni,  cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare delle  condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bi¬  sogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre  la via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfa¬  zione già assicurata dei vecchi bisogni, permette  che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adat¬  tamento raggiunto è condizione e stimolo a nuove  forme di attività al modo stesso che ogni cono¬  scenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e na¬  scere « a guisa di rampollo, appiè del vero il dub¬  bio ».   Si dirà che lo Spencer intende l’adattamento  completo nel senso di mutuo adattamento dei tre  ordini di lini fra di loro; intende cioè la concilia¬  zione c 1 accordo tra le esigenze della vita indivi¬  duale quelle della vita della specie e quelle della  vita sociale.   Ma lasciando di notare che la difficoltà sopra  notata risorge a proposito di questa conciliazione  perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si  fa questa conciliazione ?   Perchè se è vero, come lo Spencer ha cura di  ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esi-       — 78 —    stenza i fini di un ordine non possono essere pro¬  se-miti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale  dei fini di un altro ordine, bisogna evidentemente  perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una  cessazione, o una modificazione o una sostituzione  nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini  considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e  nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della  società. Supponiamo ora per semplicità di discorso  che i fini individuali e i fini della specie si possano  considerare fin dal presente conciliati; o, per usare  i termini dall’economia pura, che si possa assu¬  mere 1’ egoismo di specie come comprendente m se  l’egoismo individuale (il che è in gran parte con¬  forme alle vedute stesse dello Spencer); la conci¬  liazione resterebbe da farsi tra i fini della vita  individuale e i fini della vita sociale.   E allora il problema è il seguente: Nello stato  di conciliazione contemplato, fino a qual punto sono  i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti  o immaginati che avranno mutato di specie, di  estensione, di intensità, per adattamento alle esi¬  genze sociali, e fino a qual punto si troveranno  invece modificate le esigenze sociali per adatta¬  mento ai fini della vita individuale? E manifesto  che per conoscere in che cosa la conciliazione sia  per consistere bisogna o che sia definita la sfera  delle esigenze individuali, in corrispondenza colla      aliale si possa determinare la sfera delle „  sociali che con quelle si accordi; o sia definii  sfera delle esigenze sociali per una determinazione  tersa; o finalmente siano definite certe corni z on  (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1  H vacano, esse, a determinare ad un tempo ,   limiti «Ielle une e delle altro.   :ì _ Queste condizioni lo Spencer ricava dalle   esigenze del “r ■» ™<ità induetnale !«<*<»'   cui si suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?»   tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4“““*  il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 ^   della società industriale del suo temp ,  tamento completo consist co¬   struttiva biologica e psicologica 1  nenti la società umana a questo tipo d, convivenza  e di cooperazione (I). Per conseguenza non è un   (1) qua.» riatto «no «i *“   Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que-   biella II. n edizione dei ‘ de i System of   et’ opera fu ^pubblicata come   Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato   lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu   dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo gei-   sostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo   provare la possibilità che le attività ^«isMche ^   colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di-   «e—. - * “           - 80 —    certo tipo di vita completa che serve a determi¬  nare il tipo ideale della società giusta, ma è il tipo  considerato come ideale di società giusta che de¬  termina la vita completa. Adunque, poiché la con¬  ciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata  all’ attuarsi delle condizioni che definiscono il tipo  ideale di società ed è relativa a queste, è il tipo  ideale di società clic in edotto è assunto come fine,  e sono le condizioni proprie di quel tipo che ser¬  vono a determinare le norme.    benessere individuale non maggiore di quello che è necessario alla  conservazione della vita individuale ; ed esser possibile il formarsi  negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle sod¬  disfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle at¬  tività che il benessere della comunità richiede. (Voi. cit. p. 300-302).  Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene questo  passo, lo Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice espli¬  citamente che esso può servire a chiarire e compiere il pensiero  espresso nel testo (ih. p. 2S9).   Un altro luogo in cui è ribadito in forma diversa, ma non meno  recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova nella seconda let¬  tera di risposta alle critiche del Rev. J. L. Davies sull’ obbliga¬  zione morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice  C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale  ho altrove insistito : che appunto come il cibo è giustamente preso  quando è preso per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere  quando manca l’appetito implica uno stato fisico disordinato ; cosi  una buona azione o un atto di dovere è fatto giustamente soltanto  se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ; mentre se è  fatto per la considerazione di certi risultati finali in questo o in  un altro mondo, implica uno stato morale « imperfetto » — (A. Si-  stem ecc. Voi. X. App. C. « The Moral Motive p. 450. — Nella  trad. it. della Giustizia edita dal Lapi questa appendice è omessa).     — 81    Ma se così è, quanto alla determinazione delle  nolane il postulato dell’adattamento completo, posto  clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale  semplicemente a supporre clic tutti gli individui i  quali compongono la società ideale abbiano una na¬  tura così latta, che l’osservanza della condotta cor¬  rispondente costituisca per essi un bisogno o un  desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità  di conflitto con altri bisogni o desideri; cioè, tiene  nella costruzione etica lo stesso posto che nei si¬  stemi morali è comunemente tenuto dal dovere , e  nelle scienze precettive in genere dalla supposizione  che esista un desiderio o un bisogno specifico cor¬  rispondente al fine da cui si ricavano le norme.   E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la  natura specifica dei motivi da cui può dipendere  l’osservanza di una norma, non hanno che fare  colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi  dell’ adattamento completo dei bisogni e desideri  individuali a certe condizioni di convivenza e coo¬  perazione sociale, non ha che fare colla determi¬  nazione di queste norme. Perchè le norme sono ri¬  cavate appunto da quelle condizioni, alle quali si  suppone avvenuto l’adattamento; e che perciò ser¬  vono esse di critetio e per determinare le norme  e per conoscere se l’adattamento è raggiunto.    — 82 —    Uljh&MJ?   Jabot*    Gap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispon¬  dente all’ adattamento completo, n on ser re a  giustificare il tipo di condotta proposto.   ì. — Ma perchè assume lo Spencer come pro¬  prio della Società ideale un adattamento completo,  che, mentre esclude arbitrariamente ogni evolu¬  zione ulteriore, non serve a definire questa Società  ideale perchè è definito esso stesso in relazione con  quella ?   Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la  condotta umana in tutta la sua estensione apporta  a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro pia¬  cere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per  I l o Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude  • il dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dal-  1’ Etica Assoluta non può essere se non quello nel  quale la condotta apporta puro piacere.   L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo  ideale di convivenza e cooperazione sociale quel  carattere di universale e preminente desiderabilità,  che deve avere il fine assunto dall’Etica. Lo dà  veramente ?   Benché a prima vista possa parere strano il  dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere  che un tipo di esistenza individuale e sociale nel  quale tutta quanta la condotta in tutta la sua esten¬  sione porti sempre e soltanto piacere, non è, date      le leggi psisologiche conosciute, e non può essere,  un fine.universalmente desiderabile sopra ogni  altro.   Lascio di discutere se, supposta una condotta,  diciamo così per brevità, totalmente piacevole, il  piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato  di coscienza distinto, per mancanza di quel con¬  trasto e di quell’ alternanza fra gli stati psichici  (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding),  senza della quale anche i godimenti più forti il¬  languidiscono e vaniscono nella ripetizione abituale;  e di considerare se la forma di vita corrispondente  non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni  forma di coscienza riflessiva e di deliberazione vo¬  lontaria, cioè l’intelligenza stessa e la volontà, al¬  meno nelle loro forme più elevate riducendo la  vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale  corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli  d’ uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’at¬  tenzione attiva è sempre, in grado maggiore o mi¬  nore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato princi¬  palmente, se non unicamente, dal dolore e non dal  piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello  sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a  svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’in¬  telligenza si affievolirebbe; come già si può osser¬  vare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le  quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura      — 84    tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo  di altri bisogni, e di aspirazioni diverse.   E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a maggior  ragione per la volontà.   Certamente le leggi psicologiche conosciute ten¬  dono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a  proposito dell’adattamento completo, che un tale  stato possa avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi,  non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in  forza delle medesime leggi, l’eventualità se non  della soppressione, di un oscuramento progressivo  delle facoltà psichiche più elevate. E allora si  presenta subito la questione, se, ammessa pure  soltanto la possibilità che a un tale stato si accom¬  pagnasse questo effetto, potrebbe una forma di  esistenza siffatta apparire desiderabile sopra ogni  altra.   5. — Si potrebbe dire: Che importa l’oscura¬  mento e anche la soppressione dell’ intelligenza e  della volontà, purché sparisca il dolore? E quando  non vi siano altri bisogni e altri desideri che  quelli appunto che trovano già una soddisfazione  adeguata, ossia, quindi, non ci sia più nemmeno  la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni di¬  versi, non è una tal vita nel suo genere beata ;  anzi la sola beata perché é esclusa la capacità di  provare altri bisogni ?   Ora che un tale stato possa, anzi debba apparire    — 85 —    il più desiderabile quando si supponga l’adattamento  già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui  si tratta di vedere se un tale stato possa essere  preferibile per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi  come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi esercita  certe forme di attività possa parere desiderabile  sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per  avventura quelle attività fossero oscurate o sop¬  presse. In questo caso possono valere l’osservazione  notissima del Mill e la ragione colla quale la con¬  forta ; che, certo, non avrebbero valore nel primo  caso (1).   Ma anche lasciando questo aspetto della que¬  stione, non bisogna dimenticare che appunto perchè  il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adat¬  tamento completo, la medesima condizione di una  condotta totalmente piacevole, — per le ragioni  dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero  e nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento    (1) « È meglio essere un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto :  è meglio essere So crate malcontento che un imbecille beato ». Ora  la ragione addotta dal Mill vale per l’uomo, ma non per l’animale,  e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice graziosa-  munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille. E nota  infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione in¬  tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il  suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che  la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo  felice il « desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò che  <pii importa. (Hoffding - Morale, VII. 3 tr. fr. p. 116-119).         — 8(i —    potrebbe essere raggiunto — può concepirsi attuata  non in una sola ma in più forme di vita fra di  loro diverse ; e resterebbe sempre da trovare un  criterio comparativo della desiderabilità, o da am¬  mettere che tutti i tipi di vita, per i quali si  concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini  di fini (anche se la conciliazione fosse ottenuta  allo stesso modo che nelle società animali, cfr. la  nota qui sopra a pag. 79), siano ugualmente desi¬  derabili. Il che importerebbe la legittimazione a  pari titolo di forme di condotta fra di loro diverse  e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde  che dal piacere puro il fondamento della legitti¬  mazione.   E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬  larga fuori del campo particolare della dottrina  dello Spencer e riguarda nello stesso tempo una  questione più generale: la natura del fine.   6. — Siccome il carattere che si richiede nel  fine assunto a giustificare le norme morali è, come  s’è ripetutamente detto, quello della universale e  preminente desiderabilità sopra ogni altro, si pensa  che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo  e supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e  al di là, non ci sia più nulla da desiderare e da  cercare. E allora non resta che questa alternativa :  o si cerca un fine il quale contenga e comprenda  in sò tutti i fini ; e prendono forma i fantasmi di         — 87 —    felicità, di beatitudine, di perfezione, noi quali si fd"-'.-  figurano definitivamente appagati tutti i desideri,  e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano  appagamento ; oppure si considera come fine la  forma colla quale si presenta alla coscienza la  soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere  o la liberazione dal dolore.   Ma tanto 1’ una quanto l’altra delle soluzioni  non sono che apparenti, o si risolvono in una vana  tautologia. Porre come fine la felicità senza deter¬  minare quale sia o in che consista la felicità di  cui si discorre, è certamente un modo per conciliare  verbalmente tutte le differenze di opinioni e supe¬  rare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le  concilia e non le supera, più di quel che valgano  a togliere le diversità di opinioni politiche e a  raccogliere i partiti ad unità di intenti certi « or¬  dini del giorno » in cui si afferma all’ unanimità  essere fine supremo per tutti il « bene della patria »  o la « prosperità della nazione » o altre formule  somiglianti.   E se si determina in che si faccia consistere la  felicità, quali siano i fini che si comprendono nel  fine unico chiamato con questo nome, allora delle  due l’una : o i diversi fini così compendiati e com¬  presi nel fine unico, sono veramente unificati, e,  perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad  uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra    essi è causa o condizione degli altri, o che tutti  dipendono da una medesima condizione o ordine di  condizioni ; e in questo caso la felicità è caratte¬  rizzata o da quel fine o dal conseguimento di  questa condizione, che diventa esso fine, perchè su  esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il ter¬  mine felicità non è che.un duplicato di quel certo  fine o di questa condizione. Oppure i diversi fini  non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno  all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza che  si veda la necessità della loro connessione; e allora  1’ unità non è che verbale, e in realtà invece di  un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere  supremo.   Si dirà che si dà alla felicità non il senso di  un certo contenuto determinato che la costituisca,  ma il senso di appagamento dei desideri, di soddi¬  sfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali  ne siano per essere il numero e le specie; nel qual  senso si può affermare che la felicità rimane sempre  il fine ultimo pur restandone indeterminato il  contenuto ? E si riesce allora alla seconda alterna¬  tiva, di considerare come fine ciò che si ammette  esservi di comune e di costante nel raggiungimento  di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma  sotto la quale si presenta la soddisfazione di qua¬  lunque desiderio : il piacere o la liberazione dal  dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è       — 89 —   come dire che il line ultimo è il godimento che  accompagna il raggiungimento del fine o dei fini,  o che lo scopo dei desideri è.... la soddisfazione dei  desideri. E allora si vede perchè il puro piacere  non possa dare un criterio di legittimazione e di  valutazione comparativa dei fini e quindi delle  forme di condotta. Perchè o si prende come criterio  la quantità del piacere, la intensità della soddisfa¬  zione, senza badare alla natura del desiderio a cui  corrisponde, e non è possibile assegnare un solo  desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per  due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza  in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione  secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che  distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfa¬  zione ma V oggetto a cui il desiderio si rivolge;  non l’effetto soggettivo gradevole, ma le condizioni  che lo producono, non è il godimento del bene, ma  il bene.   7. — Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco :  nell identificare il b ene col piacere ; il fine, cioè  l’ordine di effetti che costituisce l ’oggetto del  desiderio, collo stato soggettivo che è il godimento  (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero  che un bene di cui si concepisse che nessuno mai  potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore  di bene; ma è non meno vero che un godimento  del quale non si sapesse assegnare nessuna causa   n      o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe  mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬  tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un  fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia or¬  dinata la condotta, non si può intendere che un  bene, il quale sia bensì, direttamente o indiretta¬  mente causa o mezzo o condizione di godimento,  senza di che non sarebbe bene; ma che non può  consistere nel godimento stesso, ma in un certo  effetto o ordine di effetti determinabile e possibile,  che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva,  •cioè di una certa condotta (1).   Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso  e quivoco che conduce a riporre il fine nella feli -   cità o nel piacere ; l’equivoco che questo effetto  o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo,  uno stato definitivo, al di là del quale non siano  assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di  effetti definitivo è contraddittorio non soltanto colle  leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col  presupposto stesso fondamentale che si assume di  necessità quando si voglia determinare scientifi¬  camente un sistema di norme. Perchè qualunque   (1) Non altrimenti avviene nel campo speciale dell’economia. E  bensì vero che se non si supponesse la possibilità del consumo,  cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la ricchezza,  questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ; ma  1’ oggetto a cui si volge 1* attività produttrice e del quale si cer¬  cano le leggi, è la ricchezza, non il consumo.      — 91 —    fine rappresentato come umanamente possibile, ap¬  punto perchè deve essere concepito come un effetto,  che si produce, date certe condizioni, è a sua volta  pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo  ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬  sibile che sia ultimo, è come pensare chiusa e fi¬  nita a un momento dato la serie della causazione,  abolita e spenta in un effetto che sia stato pro¬  dotto ogni efficacia causativa ; e allora vien meno  ogni ragione di pensare come dipendente da certi  mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto stesso  che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto  ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di  rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qual¬  siasi determinazione di norme.   Si dirà che si intende « ultimo » rispetto alla  salutazione, cioè talea cui si riconosca valore per sé,  indipendentemente da ogni considerazione ulteriore.  Ma se si ammette che da quel fine, quando sia rag¬  giunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che  lo si pensa condizione di tali effetti ulteriori, la  valutazione di questi (che non può essere esclusa)  •muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo  valore di mezzo.   8. — Dal che nasce questa conseguenza assai  notevole: che la desiderabilità di un ordine di ef¬  fetti, che si assuma come fine, non viene tanto  dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene.       cioè come oggetto diretto e immediato di godimento,  quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali  esso apparisca la condizione necessaria. E che per¬  ciò, mentre è vano andar cercando quale sia il  fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve  in una pura espressione verbale, il fine che può  valere come supremo si deve cercare non nell’uno  o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore  per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema di  condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si  possa riconoscere questo carattere appunto di con¬  dizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei  beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E quindi  il fine che può avere universalmente una deside¬  rabilità superiore a ogni altro, non può consistere  se non in un ordine generale e, si potrebbe dire,  preliminare di condizioni, la cui attuazione appa¬  risca necessaria perchè sia possibile universalmente  la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè  supremo nel senso di una gerarchia, della qiiale  segni il culmine, nè nel senso di una grandezza  o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso  della precedenza necessaria o della indispensebilità;  per la quale venga a raccogliersi su di esso come  in un unico foco la luce e il calore di desiderabi¬  lità che irraggia dai fini ai quali apre universal¬  mente la via.   E perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano     — 93 —    abbia, come ha in realtà, per condizione la convi¬  venza e la cooperazione sociale, il line che può  avere questo valore di precedenza necessaria sugli  altri deve essere di necessità il raggiungimento o  il mantenimento di certe condizioni ili convivenza  e di cooperazione sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè ad una forma di so¬  cietà possa essere riconosciuto questo carattere uni¬  versalmente, occorre che le condizioni della sua  esistenza abbiano per tutti un valore potenzial¬  mente uguale : ossia che nessuno dei fini, dei quali  quella forma di cooperazione pone la possibilità e  dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto  delle esigenze di essa forma, precluso o impedito  a nessuno dei componenti la società. 0, in altri  termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone  cercato, ciascuno trovi nelle condizioni proprie di  quella forma sociale la medesima esteriore possibi-  bilità di rivolgere a quella ricerca l’attività pro¬  pria. che vi trova qualsiasi altro (1).   L’analisi ci ha dunque portato a queste con¬  clusioni : a riconoscere che il limite dell’evoluzione,  1’ adattamento completo, la massima felicità, nè for-    (1) Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una ugua¬  glianza nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una  « uguale distribuzione di felicità » la quale supporrebbe, insieme  colla condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di at¬  tività e di preferenze.      — 94 —    nisce un criterio ili determinazione delle norme,  nò basta come principio di giustificazione; a rico¬  noscere la legittimità del concetto, clic bisogna  assumere come fine un tipo ideale di società ; e a  stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo  tipo deve soddisfare.   Ed ora è facile vedere per quali ragioni i l tipo  sul quale in realtà lo Spencer ha modellato la sua  società giusta non soddisfaccia a queste esigenze.   Gap. Vili. — Il tipo di società giusta dello Spencer .    i). — In un articolo di risposta ad alcune cri¬  tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » lo Spencer po¬  lemizzando col prof. Means così si esprimeva a  proposito del modo di intendere la giustizia: << A  molti sembra ingiusto che la dura fatica di un bi-  folcogli faccia guadagnare in una settimana meno  di quanto un medico guadagna facilmente in un  quarto d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che  i figli del povero non possano avere i vantaggi del  l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e  defi cenze nelle quote di felicità che alcuni ritrag¬  gono dalla cooperazione, sicc ome clerivano da ere¬  ditata inferiorità di natura, o da inferiorità di  c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^ ~ ^  cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io  la intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che               — 95 —     trasmette alla discendenza malattie c deformità,  l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze  penose delle stupidità e della cattiva condotta dei  genitori, la ingiustizia che costringe quelli che  ereditano delle inc apac ità, a lottare colle difficoltà  clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in relativa  p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or -  < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6  una specie di ingiustizia estranea alla mia tesi ».   il i cose stab ilii'-, quantunque in forza di esso, una '  inferiorità della quale l’individuo non ha colpa  produca i suoi mali, e una superiorità della quale  egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi  benefìzi; e dobbiamo accettare, come possiamo,  tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm     vantaggi che i cittadini si procacciane    rispettive attività » (1).   Ho citato questo passo, non perchè gli stessi con¬  cetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬  citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e  la morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun  altro luogo appare piu manifesto il presupposto che  vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬  mendo come elemento del concetto di giustizia —  accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬  li) Replie to Criticism on « The Data of Etihcs » in Mitid  Jan. 1881 p. 93.                 zionc ricavata dalla biologia, che la vita progre¬  disce c si eleva soltanto a patto che gli individui  superiori godano i vantaggi della loro superiorità  e gli inferiori subiscano i danni della loro inferio¬  rità, egli identifica la inferiorità fisiologica e psi¬  chica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi  potrebbe chiamare nativa o costituzionale colla in¬  feriorità clic si potrebbe dire di posizione.   Ora, che un uomo debole non possa vincere le  medesime resistenze che uno forte, che un bambino  poco intelligente impari meno e peggio di un in¬  telligente, è naturale e necessario; ma non si può  dire che sia giusto nè ingiusto. Che i figli eredi¬  tino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o l’in¬  sensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e  che i primi godano i vantaggi e i secondi sop¬  portino i danni che sono conseguenza rispettiva¬  mente di questa loro soperiorità o inferiorità ere¬  ditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma  non è ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì  giusto o ingiusto rispettare o violare questa rela¬  zione naturale, soltanto se si considera questa re¬  lazione come condizione di una elevazione pro¬  gressiva delle specie che sia assunta come effetto  universalmente desiderabile, cioè come fine.   Ma che i figli del contadino non abbiano la pos¬  sibilità di venire istruiti o educati, non dipende  dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ere-    — 97 —    ditata o no, ma dipende da una inferiorità sociale,  la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche  se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attis¬  sima a questa coltura. Ora, mentre l’analogia della  selezione biologica importerebbe che i figli del con¬  tadino al pari di quelli del lord potessero porsi  allo stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro ri¬  spettive capacità e sforzi frutti maggiori o minori,  la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni  dalla gara c toglie non solo la necessita ma la pos¬  sibilità clic l’opera di selezione si rinnovi tra i  superstiti di ogni nuova generazione sull’unico fon¬  damento delle loro rispettive attitudini e attività.  Sul che non è necessario insistere dopo le cri¬  tiche note e ripetute ; ma valga l’accenno per ri¬  levare che a torto lo Spencer identifica colla infe¬  riorità biologica, o meglio, costituzionale, l’infe¬  riorità clic deriva dalle condizioni sociali, e crede  che possa valere a giustificare le conseguenze della  seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare le  conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla  sfera dei beni conseguibili che è imposta da con¬  dizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limi¬  tazione clic nasce dalla capacità e dalle doti in¬  trinseche; e se questa è giusta, posto che si prenda  per fine superiore a ogni altro V elevazione della  specie (e dato che ne sia condizione), quella è giusta  soltanto se si considera come fine superiore quella      certa forma ili cooperazione sociale che la rende  necessaria. Anzi quella limitazione d* origine so¬  ciale che si ponga come giusta per quest’ ultimo  rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere  che sia giusta la condizione « che ciascuno sopporti  i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi  della sua superiorità » non include, ma piuttosto  esclude 1 altra condizione, a torto dallo Spencer  compresa o conglobata con quella ; che ciascuno  sopporti i danni o goda i vantaggi che sono con¬  seguenza di una inferiorità o di una superiorità,  la quale risulta non dalle sue doti fisiche e men¬  tali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe cir¬  costanze esteriori.   E in verità sarebbe da meravigliare che lo  Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne  abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il  punto di partenza, il foco centrale da cui muove  e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è,  come s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi  propriamente sociale e politico; onde l’intento prin¬  cipale diventa quello di trovare la giustificazione  del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse  nelle leggi stesse dell’ universo.   l ( h Ora il suo ideale sociale e politico è in  sostanza quello stesso del liberalismo, in cui crebbe  e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto  e definito nelle sue parti quando uscì il « Pro-         — 99    spectus » (1800); e perciò nel costruire la sua « So¬  cietà di uomini giusti », per quel che si attiene  alla struttura sociale, egli non fa che supporre rea¬  lizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬  samente, o ricavati logicamente dai postulati eco-  n omici e politici di quel liberalismo . 11 quale era  bensì arditamente coerente nella affermazione dei  principi e dei corollari riassunti nella formula della  giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬  rava o come anteriori ed estranee a questa legge,  o come naturali ad un tempo e conformi ad essa,  le dive rsità storicamente date di condizione econ o-  mica degli individui e delle classi socia li. Onde lo  Spencer non tenne conto della disuguaglianza ef¬  fettiva, che nell’ esercizio di quella libertà, formal¬  mente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella  diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi  biologiche . 1 frinii* •   Ne segue che mentre nella sua società ideale  egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione  da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere  di incompatibile non solo colla cooperazione, ma  anche colla simpatia ; n el costruire invece la so -  cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di  aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato  « lo stato di cose stabilito », ma non fa astrazione  da quelle con dizioni che importano una reale li¬  mitazione diversa nella sfera delle attività é dei                            100 —    fini conseguibili dei singoli ; e però la sua non è  una società giusto, ma una società di uomini giusti ;  giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè,  è modellata sulle esigenze di una certa struttura  sociale, nel configurare la quale egli non tien conto  di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel  formare il tipo dell’ uomo giusto.   E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere  che si ò accennato più sopra (IV, 8): che le norme  della sua giustizia siano applicate a regolare delle  relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili  in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che  le norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle. Perchè mentre sup¬  pone che gli individui seguano nella loro condotta  una perfetta imparzialità subordinando alle esi¬  genze della giustizia o dell’ uguale libertà — fine  prossimamente supremo — tutti gli altri fini ge¬  nerali e particolari, suppone poi, come proprie di  una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni  che sono in tutto o in parte la negazione dell’im¬  parzialità, e che non esisterebbero se lo stesso cri¬  terio dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire  il tipo della società giusta.   E in questo senso che, accennando incidental¬  mente altrove all’Etica Assoluta dello Spencer, no¬  tavo come un vizio di essa non un eccesso, ma  piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli as-       — 101    suine abusivamente come esigenze costanti e uni¬  versali di ogni forma di cooperazionc, e quindi  anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di  un certo momento storico; e pone come dati fon¬  damentali di una cooperazione regolata dalla legge  della uguale limitazione per tutti, delle condizioni  che importano una limitazione disuguale.   Stando così le cose, il raggiungimento o l’ap¬  prossimazione a un tale tipo di società, non può  apparire come fine universalmente preferibile, nè  le norme che esprimono la condotta richiesta da  quel tipo possono avere carattere di universale os-  servabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio  punto di vista.   Agli individui delle classi sociali poste, per ef¬  fetto di quella disuguale limitazione, in condizione  di inferiorità, questa inferiorità che non è conse¬  guenza della propria condotta, deve apparire una  menomazione ingiusta dei diritti; agli individui  delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità,  questa superiorità, che parimenti non è conseguenza  della propria condotta, deve apparire, se la coscienza  si elevi a una imparzialità universale e coerente,  una menomazione ingiusta dei doveri,   il. — E nasce di qui quel se greto rancore in  chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e  quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta  dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità       — 102 —    della beneficenza, se la accompagni il dubbio che  essa non sia se non un compenso parziale e tardivo  di ingiustizie patite e di ingiustizie godute.   La simpatia non può essere schietta dove non  regna la giustizia (1); e non si possono definire  le forme e i limiti della beneficenza se non dopo  die siano definite, e siano o si suppongano osser¬    vate le norme della giustizia; onde la necessità  logica che il tipo ideale della società giusta sia  determinato all’ infuori da ogni supposta efficacia  modificatrice che la simpatia e la beneficenza eser¬  citino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli  e della società. Soltanto così è possibile accertare  se il tipo di cooperazione assunto come ideale possa  essere universalmente desiderabile, e soltanto così  è possibile determinare dove la giustizia finisca e  la beneficenza cominci ; dove finiscano le relazioni  di diritto e dove comincino le relazioni di simpatia.   * ^ _ Ora il tipo di società ideale dello Spencer pre-   i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil-  mente dal primo; di supporre realizzate le condi-    yCH&Ue'ìt-   f    zioni della perfetta simpatia in una società nella   (1) Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica quando  si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non cada  dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano relazioni  d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie che  sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e gli  obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e tingono  d’ altro colore i rapporti di simpatia.          103    quale non sono realizzate le condizioni della giu¬  stizia. La sua società è una società più o meno  ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla  quale egli ricava per un verso le norme della  giustizia, e per l’altro le norme della simpatia;  invece di essere una società giusta di uomini giusti,  quando si tratti di determinare le norme della  giustizia ; e una società giusta di uomini perfetta¬  mente simpatizzanti quando si tratti di determinare  le norme della simpatia e della beneficenza.   Ma anche supposto che per questa guisa la  perfetta simpatia venga a sanare gli effetti delle  inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il  tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo  difetto: che la ricerca e il raggiungimento di alcuni  dei fini, ai quali la cooperazione serve, apparirebbe  per una parte dei cooperanti subordinata alla be¬  nevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto baste¬  rebbe per togliere, nel giudizio di una coscienza  imparziale, a quel tipo di cooperazione il carattere  di univers ale preferibilità.   12. — Ma il difetto era, come s’ò detto, dato il  presupposto dello Spencer, inevitabile. La simpatia  è pe r lui il m ezzo di conciliazione dell’egoismo  col l’altruismo. M a poiché i limiti rispettivi dell’e-  goismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze  del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo  la condizione dell’adattamento psicologico dei sin-              — 104 —    goli a queste esigenze. Ed ò caratteristico a questo  riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta  dello svolgimento progressivo della simpatia come  l’attore della conciliazione , porta lo stesso titolo e  sostituisce nei « Dati » il capitolo smarrito e ag¬  giunto poi in appendice, che ho citato più sopra  (v. nota a pag. 70), nel quale si cita come esempio  di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo l’adat¬  tamento alle esigenze della vita sociale delle api  e delle formiche. Per questo rispetto direi, se non  sembrasse un paradosso, che il grande assertore e  propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza  che se ne accorga, un difensore della subordinazione  totale e definitiva dell’individuo a un tipo di coo¬  perazione sociale, che egli considera bensì come la  condizione necessaria alla vita più elevata delPin-  dividuo e della specie, ma che in realtà vincola il  grado di elevazione della vita di un gran numero  se non di tutti gli individui, alle esigenze di una  certa struttura economica.   E quando egli combatte l’intervento della società  nel regolare i rapporti economici, in nome dei  diritti dell’individuo, dimentica che una parte con¬  siderevole di quei diritti, sono in realtà diritti di  alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa dispa-  0 rità ha la sua radice nella costituzione economica,   che lo Stato, come egli lo vuole, interviene pure  a sancire e a difendere. La quale osservazione,            — 105 —    giova notarlo, non ■vale per sè nè prò nè contro  il cosidetto Socialismo di Stato; vale soltanto a  provare che l’individualismo dello Spencer non è,  come pare, un individualismo universale, ma un  individualismo particolare.   Cosi, i l difetto capitale del tipo di società dello  Spencer come in genere del cosidetto « Stato di  diritto » nasce non da quel che afferma, ma da  quel che dimentica ; non dal riconoscere e difendere  le esigenze della uguale libertà per tutti, ma dal  non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal-  1 omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non  sono, le condizioni che rendono possibile 1’ uguale  libertà (1).   E, ad esprimerlo in termini kantiani, il difetto  si riduce a questo: Dove vi è cooperazione con  effettiva parità di diritti, ciascuno dei cooperanti  ha ad un tempo riguardo a qualsiasi degli scopi  della cooperazione, per un rispetto ragione di mezzo  e per l’altro ragione di fine. Se invece le esigenze  della cooperazione interdicono a qualsivoglia dei   (1) Nota il Loria che quando si grida contro la concorrenza come  causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza la  produzione di effetti che nascono « dalla mancanza di concorrenza,  cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel  campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica.  Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il ri¬  sultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza  di concorrenza fra lavoratori e capitalisti ». ( Cost. Ec. odierna  0. 11. 3. 6. ; p. 175, cfr. anche p. 60 e passim).    7           — 100 —    cooperanti la ricerca di una parte dei beni, a cui  ò condizione necessaria la cooperazione di tutti,  per questa parte 1’ escluso ha soltanto ragione di  mezzo, e non ragione di fine.   Il che avviene appunto, malgrado il riconosci¬  mento formale, o meglio, verbale, della uguale  libertà, anche nella società ideale dello Spencer.  La quale perciò non può aver valore di universale  e preminente desiderabilità perchè non soddisfa  alla condizione richiesta : che tutti i sodi trovino  nelle condizioni di esistenza della società la mede¬  sima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere  la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni,  ai quali la cooperazione sociale è mezzo.   Questo è il postulato caratteristico della univer¬  sale desiderabilità di una forma di convivenza,  ossia è il postulato caratteristico della giustizia;  e supporre una società giusta di uomini giusti  equivale a supporre riconosciuta e applicata uni¬  versalmente e costantemente in qualunque specie  di azione o di influenza che si eserciti, così dalla  società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di  quel postulato.   Gap. IX. — Ufficio e limiti (li una costruzione scien¬  tifica dell’ Etica.   13. — La società giusta così intesa non rappre¬  senta dunque un tipo definitivo della vita più     — 107 —    elevata possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia  che la fantasia morale ò venuta fingendo nei  diversi tempi. Anzi per questo rispetto una mag¬  giore o minore elevatezza, complessità o intensità  di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita  nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può  concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi)  una forma di società in cui sia, almeno parzialmente^   l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la  quale sia tuttavia meno giusta di un’altra più  semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia  riguarda la universale possibilità di cercare i beni,  ai quali è condizione la convivenza e la coopera¬  zione sociale, e non include che questi beni siano  di molte o di poche specie, di maggiore o di minor  pregio.   Onde è pienamente compatibile col postulato  anche la concezione pessimistica della vita ; perchè,  anche dal punto di vista del pessimismo, uno stato  di giustizia, che è la condizione necessaria della  universalità della simpatia e quindi della compas¬  sione, deve apparire preferibile a ogni altro. E se  anche si riguardasse come fine ultimo la negazione  universale della volontà di vivere, lo stato di giu¬  stizia apparirebbe la condizione più favorevole  perchè 1’ uomo prenda coscienza della necessità  naturale c inevitabile della propria infelicità, spo¬  gliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e                     — 108 —    contingente, ed effetto di malvagità degli uomini  o di iniquità degli istituti sociali. E questa desi¬  derabilità dello stato di giustizia anche rispetto al  pessimismo è forse una conferma non trascurabile  del valore di universale preferibilità che gli si è  riconosciuto, e a un tempo della sua indipendenza  da ogni particolare concezione metafisica.   Adunque, poiché uno stato di giustizia non è  caratterizzato da altro se non dall’ ipotesi che le  esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non  si può nè si deve pretendere di ricavare dal po¬  stulato un contenuto determinato, ma soltanto la  forma generale delle norme. Il contenuto specifico  deve essere ricavato dai fini, ai quali si riconosce  o si suppone che la cooperazione sociale sia o  debba essere mezzo, e in relazione al quali si  possano definire le condizioni richieste dal postulato  della giustizia.   Quali siano questi fini non si può stabilire se  non o per constatazione o per ipotesi. Per consta¬  tazione, quando corrispondano alla osservazione  della realtà psicologica in un dato momento sto¬  rico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi,  quando si voglia cercare preliminarmente quali sa¬  rebbero le condizioni richieste dalla possibilità di  ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo.  (Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla  eventuale opportunità o necessità di ricorrere a        — 109 —   tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come questa,  nelle quali non è possibile la sperimentazione).   14. — Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso  le condizioni che se ne ricavino e che vengano sta¬  bilite come proprie del tipo di società giusta con¬  siderato, presentano questo carattere : che non sono  date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali.  Ora, se noi determiniamo quali siano le norme di  condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste  norme esprimeranno quale sarebbe il modo di ope¬  rare nella supposizione che esse siano già date e  reali, e non quale sia il modo di operare che tende  a realizzarle, mentre sono date condizioni piu o  meno diverse.   La prima determinazione è oggetto di un’ Etica  Pura : la seconda di un ' Etica Applicata, nella quale  si consideri come fine il raggiungimento delle con¬  dizioni ideali che sono assunte nell’ Etica Pura, e  si stabilisca per approssimazione quale sia in un  dato momento storico la condotta sociale e indivi¬  duale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle  condizioni reali date, ò più atta a favorire la tra¬  sformazione di queste nella direzione segnata da  quelle.   Soltanto così l’Etica può evitare un errore del  genere di quello nel quale cadevano gli economisti  della scuola Classica ; i quali, dopo aver supposto  l 'homo oeconomicus mosso unicamente dall’interesse          110 —    personale, il che avevano diritto di fare, lo consi¬  derarono poi come reale e die dero valore di leggi  n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate da  questo e dagli altri dati astratti supposti (1). Ora  appunto percliò le condizioni soggettive e oggettive  dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte  e non reali, le norme che esprimono quale sarebbe  la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta  non sono immediatamente nè integralmente appli¬  cabili in condizioni diverse dalle supposte. I « do¬  veri » e i « diritti » dell’ uomo giusto nella so¬  cietà giusta non coincidono coi doveri e i diritti  dell’ uomo storico in determinate condizioni sto¬  riche; alla stessa guisa che i « diritti naturali »  dei filosofi dello stato di Natura non coincidevano  coi diritti positivi delle società in cui vivevano.  Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle con¬  dizioni proprie della societas iusta, i doveri e i di¬  ritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al quale  si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi  il sistema di doveri e di diritti che vale come  giusto in una società reale data. Alla stessa guisa,  se la costituzione di una società foggiata in con¬  formità all’ipotesi dello Stato di Natura e del Con¬  tratto, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza  maggiore ed evitando la confusione fra giustifica¬    ci) Cfr. Ch. Gide. Principes d’ éc. poi. p. 20-22.           - Ili —    zione etica e spiegazione storica) come fine da rag¬  giungere invece che come stato originario, il « di¬    ritto naturale » ricavatone sarebbe legittimam ente    apparso come il tipo idealmente giusto, al quale il  diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi.   Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare  i dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione uto¬  pistica di applicare direttamente e integralmente  le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che  sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un  tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la prio¬  rità logica dell’Etica Pura surf mica Applicata (1).    15. — Raccogliamo in breve i resultati dell’ a¬      nalisi.   0   Una scienza normativa etica non differisce dalle  altre scienze precettive se non pe ^ il valore, che si ^  attribuisce al line suo: il quale deve essere des i¬  d erabile univ ersalm ente jyjjma e_a preferenza di    ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo stesso    carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine  universalmente preferibile non nuò essere che un  fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no  anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti  i fini che si considerano come « ultimi » ; e quindi  non può essere che una forma di convivenza e di    */ . amw*    (l) Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due Etiche  cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto  ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati.              — 112 —    coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli  possa riconoscere tale requisito. Ma una società  siffatta ò supposta, non reale, e le norme di con¬  dotta che se ne ricavano regolano delle relazioni  che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono  perciò applicabili direttamente a relazioni più o  meno diverse. Tuttavia la loro determinazione è  non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal  punto di vista scientifico alla determinazione delle  norme che debbono regolare le relazioni più com¬  plicate della realtà ; necessaria dal punto di vista  etico alla giustificazione di queste norme ; perchè  esse sono valide in quanto esprimono ravvicina¬  mento, nei limiti del possibile, di queste relazioni  reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire  che l’Etica Pura fornisce all’Etica Applicata il  criterio per determinare le norme, e il valore che  le giustifica.   16. — Ma non bisogna dimenticare che le norme,  sia dell’Etica Pura, sia dell’Etica Applicata, hanno  il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fonda¬  mentale che si accetti come valido e fuori di conte-  stazione il postulato della giustizia. Ossia hanno  valore se si suppone che ogni « socio » riconosca  che una forma di convivenza e di cooperazione  nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni  esterne, valore di fine a pari titolo di qualunque  altro è preferibile a una forma di cooperazione    — 113 —    nella quale una parte dei <? socii » abbia, per uno  o più rispetti, soltanto valore di mezzo e non di  fine.   Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di quel  postulato è la condizione necessaria all’ universale  riconoscimento della norma, e clic perciò, se si  pone come caratteristica della norma morale 1’ u-  niversalità, rinunciare a quello vuol dire rinunciare  a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare  chiaramente e senza sottintesi che il sistema di  norme per tal guisa stabilito ha, come qualunque  altro sistema di norme, del quale si richieda una  giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò questo  valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce  incontestabile il postulato.   Appare di qui che è vano e illusorio cercare  la giustificazione di una norma morale nelle leggi |  naturali (i). Perchè ciò che giustifica una norma  di condotta non è la naturalità, ma la desiderabilità  dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse  possono apparire giuste od ingiuste secondochè si  assumano come universalmente desiderabili o no  i resultati, ai quali la conformità della condotta    / ' fi 1   affo irafic-li itr [v  yJ.tA ttfilk t**'  he* ìtU 'o jqie j.    (1) La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi neces¬  sari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come-  yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar  valore di universale desiderabilità a un ordine di effetti, per il solo  fatto che ce ne riveli la produzione « naturale ».     — 114 —    a quelle leggi conduce, o ò creduta condurre. Può  essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere  o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in  ultimo, l’essere o no presenti ed efficaci nella co¬  scienza umana certi bisogni, desideri, aspirazioni,  credenze), sia un portato necessario della natura  stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze  umane, si siano, rebus ipsis dictantibus, modellate  cosi da condurre a riconoscere nella osservanza  delle leggi naturali un valore di giustizia e di  bontà; ma anche in questo caso non ò la naturalità,  che ne fa ammettere la giustizia e la bontà, ma  è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità. Onde  per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano  possibili, almeno teoricamente, più Etiche diverse;  possibile, per esempio, (sebbene l’accoppiamento  esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiu¬  stizia, quando si assuma come postulato la prefe-  ribilità di una comunione sociale in cui una parte  non abbia che diritti e un’altra non abbia che do¬  veri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due  Etiche diverse, anzi opposte : l’Etica degli uomini-  fini c l’Etica degli uomini-mezzi; o, per usare le  parole del Nietzsche, la Morale dei padroni e la  Morale degli schiavi ; e la medesima condotta sa¬  rebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri,  ingiusta.   Che una « giustizia » di questo genere ripugni     — 115 —    alla psiche del socius per una ragione analoga a  •quella per la quale ripugna alla psiche dell’ uomo  logico ammettere che un rapporto tra due cose o  fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è  credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza,  si fonda, io credo, la giustificazione etica della  coazione e delle sanzioni). E certamente rimane  aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno  ai problemi che riguardano il come e il perchè il  postulato che assumiamo possa e debba essere ac¬  cettato ; e se alla esigenza che esso esprime si  possa o si debba assegnare un ufficio, e quale,  nella interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo  e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono  di natura metafisica, la costruzione scientifica del-  l’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi  indipendente, per una ragione analoga a quella per  la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da  ogni questione intorno al fondamento e al valore  del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il  valore normativo dei suoi precetti: — che un or¬  ganismo sano sia preferibile a un organismo ma¬  lato. —   Perciò, finché si rimane nel campo della ri¬  cerca scientifica, la sincerità richiede che, anche  nell’Etica, malgrado ogni interiore certezza, questa  condizionalità del valore delle norme sia esplicita¬  mente riconosciuta, e che anche nei termini si    «      — 116 —       eviti 1 ’ equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni  pretensione a un valore che non sia condizionato  al presupposto assunto.   Per questa ragione, oltreché per fissare rispetto  alla dottrina dello Spencer le differenze notate nel  modo di intendere il fine, e di concepire la società   *   giusta e 1 ’ uomo giusto, e la priorità non soltanto  logica ma giustificativa di un’Etica rispetto all’altra,  LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini « Etica Asso-  ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura    V'.',:r , ì '■ pvi n l iuta i v a » i ieri mmi «   e~=r . 1 ", della giustizia ed Etica Applicata della giustizia ». (^ 3 ;   n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od  'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le  norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate pre¬  liminarmente le condizioni della giustizia, fosse    assunto come fine l’adempimento delle condizioni  richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero  due ulteriori sezioni dell’Etica : l’ Etica Pura della  Simpatia e 1’ Etica Applicata della Simpatia.    della J    **1                              »                  —-PER UMA SCIENZA   FORMATIVA MORALE * -          \                   1                     PER UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE    A leggere questo titolo, quelli che il Varisco ha  chiamato felicemente « i filosofi dell’ oramai» e  quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli  della filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma  non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno.  — Non è « oramai » pacifico che di una scienza  della morale non si può parlare? E vale la pena  di perdere il tempo attorno a un problema « oltre¬  passato »? — Io mi rassegnerò a lasciarli sorridere;  ma non son persuaso dell’ oramai, e trovo che il  problema è tutt’ altro che superato. La quale per¬  suasione per altro non garantisce nulla, pur troppo,  rispetto all’ altra faccenda del perder tempo ; per¬  chè il tempo si può perdere, e far perdere, come  sappiamo benissimo tutti, anche trattando di ar¬  gomenti non « oltrepassati ».   'Dico dunque che il problema, almeno nel modo  nel quale credo che debba essere posto e ho cer¬  cato di porlo, è più vivo che mai e di interesse  capitale così per l’Etica come per la Filosofia del  diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se do-    8      — 122 —    vrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più  spesso che le buone regole non consiglino, in prima  persona.   • •   1. — Quando sostengo la possibilità e la legit¬  timità di una scienza normativa morale, non in¬  tendo che una tale « scienza » possa o debba so¬  stituire la metafisica, e bandirla proprio da quel  campo che è il vero vivaio dei problemi metafisici,  il campo delle idee e dei sentimenti morali. E nem¬  meno che possa pretendere di costruire la morale ,  « F unica vera morale » erigendo a norme della  condotta certe leggi naturali cosmiche, o biologiche  o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si  presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho  sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza normativa    etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza pre¬  cettiva, consistere in altro che in u n sistema di re ¬  l azioni e di legg i, le quali hanno valore di norme da  seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine quel-  F effet to o quell'ordine di effetti, del quale esse  ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibo¬  sco dalle altre, perchè s uppone che al fine suo    [MJLjcTalfA   Ò)lCJUjLt> 'ittl-       , del quale esse    ’Sl'Kp tkf     si a rico n osc iuto un valore di universale pref eribilità    e precedenza sopra ogni altro fine.    Perciò una determinazione scientifica di norme    etiche richiede due condizioni : l.° Che il fine sia          — 123 —    umanamente possibile; cioò tale che se ne possa  stabilire la dipendenza condizionale da una certa  forma di condotta collettiva e individuale. Di qui  dipende il carattere scientifico della costruzione ;  perché la relazione che lega le norme con quel  fine potrà essere lunga, complicata e difficile, ma  non richiede ad essere conosciuta altri mezzi che  quelli di una indagine scientifica.   2.° Che sia ammesso come postulato che il ri¬  conoscere al fine assunto valore di universale pre-  feribilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro  fine umanamente possibile, è un 'esigenza morale.   É ovvio di per sè che se si ricusa di ammettere  questo postulato o se ne nega la legittimità, la de¬  terminazione delle norme di condotta richieste dal  fine contemplato non perde nulla del suo carattere  scientifico ; ma le norme non hanno valore morale.   •Ossia, il valore morale delle norme così ricavate  ò relativo alla accettazione del postulato; e la de¬  rivazione scentifica di un sistema di norme dal  fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza  della condotta morale; ma la scienza di una certa  condotta; la quale è la condotta morale, se si am¬  mette e in quanto si ammette quel postulato.   Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso,  o sarebbe al tutto arbitrario e fuori di proposito,  l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nes- ’ v '’’   suno fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua   esigenza morale una esigenza che non trovasse nella */ r f>' r \ c < ’• '   a • fi «.e  ^ 0 $/» Uiv -        — 124 —      l Vt p*|Ut-U4«  ^vw *    realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho-  cercato di porre in chiaro in primo luogo quale  fosse l’esigenza caratteristica del valore morale di  una norma ; poi, se si potesse assegnare un fine  umano, e quale potesse essere, che rispondesse a  queste condizioni.   Non è il caso di ripetere il già detto (1); qui  ne ricordo soltanto le conclusioni : — che l ’esi-  genza che assum o, e, credo aver dimostrato, legit¬  timamente, come caratteristica di una norma mo-  r ale ò quella di una universale giustizia ; e che il  fine che soddisfa a questa esigenza non può essere  che una forma di società umana tale, che tutti i  sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza  la medesima o equivalente possibilità esteriore di  rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivo¬  glia dei beni ai quali la convivenza e cooperazione  sociale è mezzo. — Supponendo dunque ammesso  il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio  una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della giu¬  stizia, alla quale il postulato fa appello, è la più  profonda e più tenace e più incoercibile dell’uomo    in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di  moralità e considera se stesso, ed è considerato,  come persona a pari titolo di ogni altro socio.    (1) Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a quello clie  che lo precede nel presente volume, e a un altro studio : Prolego¬  meni a una Morale indipendente dalla Metafisica, Pavia, Biz-  zoni, 1901.          — 125 —      Tuttavia per quanto possa parere ed essere le¬  gittimo prendere per concesso qu esto postulato, non  bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chia¬  ramente , che il fine e le norme corrispondenti  hanno quel valore che si attribuisce a loro, soltanto  nell’ ipotesi che lo si accetti come valido e fuori di  contestazione.   Se non 6 ammesso, ò vano pretendere clic la  costruzione normativa valga a farlo accettare o  possa obbligare ad accettarlo. Essa non può che  mostrare la coerenza delle norme proposte col fine  assunto, e di questo colla esigenza della giustizia ;  e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente  ammettere questa esigenza senza ammettere il va¬  lore di universale priorità attribuito al fine, e  quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia  ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato  di fatto che la costruzione normativa trova, se c’è;  ma che non pone essa, ne per sò vale a mutare.   2. — Adunque la scienza normativa morale così  intesa si riduce alla determinazione delle norme di  condotta valide per una coscienza che anteponga a  ogni altra esigenza l’esigenza della universale giu¬  stizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme  di condotta per una coscienza per la quale valga  come suprema l’esigenza egoistica, le norme risul¬  terebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il  medesimo ; la deduzione sarebbe, o si può concepire    *1 lyO           che potrebbe essere, ugualmente ragionata e scien¬  tifica. E del pari se si assumesse come regolatrice  l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incon¬  dizionata di sò agli altri, o qualsivoglia altra esi¬  genza e un fine possibile corrispondente.   Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota  di significato l’opinione tante-volte ripetuta, e che  forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto  gran rumore, che la ragione non ci comanda che  l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla ;  né l’egoismo, nè l’altruismo, nè la giustizia. La  ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che  servono a conservar la vita a chi la vuol conser¬  vare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; ad¬  dita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie  della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli  uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè  più « razionale » dell’altruismo, nè il regresso più  razionale del progresso, nè la conservazione del-  l’individuo più razionale di quella della specie, nè  1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della col¬  lettività.   Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei  mezzi ai fini (1). Ed è così ragionevole che dia la    (1) Dire che la ragione non consiglia che 1’ egoismo equivale a  dire che una condotta non egoistica non si può ragionevolmente  giustificare ; ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di  un fine non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e     — 127 —    vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita,  come che taccia la verità per un ciondolo chi ama  più i ciondoli che la verità.   Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso  la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della  ragione può avere, come non dubito che abbia, una  efficacia indiretta nella valutazione dei fini, non è  dubbio che questa efficacia si esercita in favore di  quei fini e di quelle norme che rispondono alla   quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a rag¬  giungerlo ; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza  umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine  dell’ operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia  altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad  esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico non è mai fine  per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico al  quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo fine  egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può es¬  sere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto  reale o supposto ; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni  ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è al¬  lora non che « la ragione consiglia l’egoismo » ; ma che « gli uo¬  mini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai  quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici) ; e quindi,  finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole altra  condotta all’ infuori di quella suggerita dall’ egoismo ». Sapevhm-  celo ; ma non vuol dire che l 'essere egoisti sia più ragionevole die  il non essere.   D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti,  anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per  avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoi¬  stico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i con¬  sigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinun¬  cino ad essere ragionevoli per.... continuare ad essere egoisti.      tendenza caratteristica dell’attività razionale : l’uni¬  versalità. Ora nel campo dell’attività pratica il  fine del quale soltanto si può concepire universale  il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto  si può concepire universale V osservanza, sono un  fine e una norma conformi all’esigenza della giu¬  stizia (1).   Ma, tornando al nostro argomento, anche il ri¬  conoscere che il fino e le norme determinate in  conformità al postulato hanno, e possono avere essi  solamente, la nota razionale dell’universalità, non  ne toglie il carattere necessariamente e insupera¬  bilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa  dipendere da questa loro universalità, si prende  per concesso che l’universalità sia assunta come  criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra-   (1) iSon trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione  che non solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una  regola di condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli uo¬  mini universalmente e costantemente osservata, senza contraddizione,  o senza che sia necessario supporla subordinata alla sua volta a  una norma di giustizia. Perchè sia possibile l’abnegazione e la ri¬  nuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli uni si sa¬  crifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio ; cioè  che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o qual¬  che altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a un  tacito scambio di servigi reciproci), bisogna che la condotta altrui¬  stica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altrui¬  stica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia  governato da una norma di giustizia.        — 129 —    zionalc e teoretica dell' universalità la coscienza  faccia una stima pratica, attribuendole un valore  e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza.   Concludendo: la scienza normativa etica, alla  quale mi riferisco, è la scienza della condotta ri¬  chiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se  si riconosce come caratteristica del valor morale  di un fine e delle norme che ne dipendono una  esigenza diversa, o se si pone come congruo ad  essa un fine incongruo, o si assumono come con¬  dizioni conformi all’esigenza di una universale giu¬  stizia delle condizioni clic negano o limitano questa  universalità, le norme riconosciute e accettate come  morali saranno diverse.   3. — Ma non concluderebbe nulla contro la tesi  che difendo l’opporre che le norme o alcune delle  norme in effetto tenute o seguite come morali sono  diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in  conformità al postulato assunto. Perchè qui non si  tratta già di esporre (piali sono le norme accettate,  o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bi¬  sogna ammettere per accettarle; ma di determinare  quali sarebbero le norme della condotta morale nel-  l’ ipotesi che si accetti il postulato.   Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa  ne segua.   Ma per negare valore scientifico a una tale co¬  struzione ipotetica bisogna negare la dipendenza    — 180 —    condizionale del fine assunto da una certa condotta  collettiva e individuale; e per negarle valore mo¬  rale (1), bisogna negare il valore morale dell’esi¬  genza, o ammettere che essa è o dove essere subor¬  dinata a un’esigenza diversa. Finché non si giu¬  stifica nè l’una nè l’altra negazione, il dichiarare  « oltrepassato » il problema vale poco; e il sorri¬  dere vale anche meno.   Perchè esponendo questo concetto io non mi  sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬  bili; sopratutto quelle che fanno capo alla afferma¬  zione comune della impossibilità di una determi¬  nazione di norme morali che non si fondi sopra  una dottrina metafisica. Questa questione anzi ho  esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’ana¬  lisi non furono confutate. Avrei dunque, « in tesi  di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo  della prova.   Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi  dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e  deve rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i  versi lo stesso chiodo.    ì. — E prima di tutto occorre qualche parola  su quella che si potrebbe chiamare la tesi scettica,   (,1) Che essa possa e debba aver valore anche dal punto di vista  del Diritto è cosa evidente ; ma come c quanto non sono questioni  da risolvere cosi di sfuggita.       — 181 —    della impossibilità di una qualsiasi determinazione  di norme morali.   — Il fatto etico è contingente, multiforme e va¬  riabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni ten¬  tativo di determinazione razionale. Oltredichè esso  dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla  conoscenza, e non si può ricavare da un processo  di deduzione logica. —   Questa tesi ha il grave torto di confondere la  morale colla mora lità ; confusione sulla quale dovrò  tornare anche più innanzi.   « Il fatto etico ò variabile ». Certamente. E il  fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò  esso pure variabile? E forse perciò non si stabili¬  scono nonne giuridiche determinate e precise, e  non si considera questa determinazione come un’e¬  sigenza della vita sociale, e non si misura dalla  sua precisione e coerenza il progresso della vita e  della coscienza giuridica ? E non è un luogo comune  la lode fatta a Roma di maestra del diritto ? Non  si venga a dire che il f atto "iuridico riguarda solo  la non, come   la inorale, anche e sopra tutto la interna ; qui si fa  questione, anche per la morale, appunto, della con¬  d otta ester na, nella quale la moralità interiore deve  pur tradursi ; ed è assurdo dire, per esempio, che  non ha senso il precetto « non frodare », e vano  cercar di determinare in che la frode consista, per-    La.    •H.              i tìtou -      — 132 —    w/# i-yW    t     Aj.oiU?    dolori*    ché la frode è, forse più che qualunque altra cosa  al mondo, contingente multiforme e variabile.   È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo  piuttosto che in un altro, dipende dal sentimen to  e dall a vo lontà, e non dalla co noscenza del pre-    1 CJA k> W <Mj aI*   VtU'f’N®    . j r ‘ r , * cetto ; e che non si può dedurre da nessuna com¬   binazione di premesse l’azione. Nessun congegno  di premesse, nessun processo logico, nessun sistema  di conoscenze pone in essere la benché minima cosa ;  .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre fin   g iudiz io, non un ’azion e ; nella morale come in qua¬  lunque altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà  seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c.  volitiv e sono tali o tali altre; potrà anche seguire  senza che ci sia il giudizio. Verissimo e giustissimo.  Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è  questione non di fare, ma di sapere quel che con¬  venga fare, chi si proponga e ammesso che si pro¬  ponga un certo fine. Ora lo stabil ire queste rela¬  zioni tra un certo fine_e certe operazioni necessarie  a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della  volontà ; e io spero che nessun voluntarista vorrà  sostenere che è indifferen te a chi vuol andare, po¬  niamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada  per arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza  nè di un certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa vo¬  lere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla al-  Pufficio specifico della conoscenza; anzi, e appunto                      — 183 —    perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema  di norme di essere per sè inefficace a muovere Fa¬  zione non ha senso ; come non avrebbe senso pre¬  tendere che una formula chimica produca essa il  composto del quale indica la combinazione. L’ uf¬  ficio delle norme morali, come di ogni altro sistema  di norme qualesivoglia, non può essere che un uf¬  ficio informativo, non formativo ; di guida, non di  stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli  che adducono, per mostr are l a inanità di una co¬  s truzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal  se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di  confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come'  s’è detto, la ni qrfllo_nnIlp mo ralità, la determina-  zio ne_delle norm e colla c onformità alle norm e.   Senonchò si può soggiungere che la determina¬  zione in questo campo non serve, perchè la cono¬  scenza delle norme si sprigiona volta per volta  come da sè fuor dalle circostanze, per un intuito  naturale che è più fine e delicato di qualunque de¬  duzione scientifica. E così viene in campo, accanto  alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità : —  l a cos cienza morale rende inutile la dottrina mo¬  rale. —   - '* -** '   Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce   dal fatto stesso da cui è nata la riflessione critica  della morale: il fatto della diversità di contenuto  nelle coscienze morali diverse; e poniamo — senza    *                — 134 —    concedere — che 1*i ntuit o basti per tutti e sempre  a segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe  ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse  la determi nazione sistema tica del fine a cui .intui ¬  ti vamente tend e e delle norme che intuitivamente  segue la co scienza mora le. Come la guida istintiva  dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere  inutile l’igiene; o come non basta a condannare  la conoscenza fisiologica, per esempio, della dige¬  stione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito  digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli  che sanno come la digestione avvenga.    E veniamo alle obbiezioni che toccano diretta-  mente la nostra tesi.   5. — In primo luogo si può osservare che la  p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che  dichiara di voler tenersi estranea a qualunque af¬  fermazione di carattere metafisico, presuppone una  certa soluzione di un problema essenzialmente me¬  tafisico. Perchè, assumendo come fine morale un  ordine di effetti umanamente possibile, pone come  risoluto il problema se il fine supremo possa o  debba essere umano o sovrumano, relativo o asso¬  luto; risolve cioè, sia pure negativamente, un pro¬  blema metafisico.         — 135 —    Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe risoluto  il problema, se assumendo un fine (diciamo per  brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo  assolutamente, come definitivamente supremo; cioè  se gli si assegnasse un valore assoluto ; e si ne¬  gasse la possibilità di una ulteriore valutazione del  fine stesso ; di una sopravalutazwWe^Tciafisica, per  la quale sia creduto mezzo alla sua volta, o condi¬  zione o preparazione di un fine sopraumano. Ma  questa possibilità 1* ipotesi non la esclude.   Si dirà che in tal caso il fine umano non è più  il vero fine; e che perciò le norme debbono essere  ricavate da quello a cui si dà davvero valore di  fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente,  supremo; e che questa necessità riporta il problema  della determinazione delle norme in piena metaf쬠 sica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non  capire come da un fine assoluto si possano ricavare  delle norme per la condotta in condizioni finite, da  un al di là le norme per un al di qua; e dubito  che quelli i quali dichiarassero di capire, equivo¬  chino sui termini. Perchè non si potrà mai dimo¬  strare un legame di condizionalità tra un certo  modo di operare o un fine sopra natura le ; essendo  il proprio e caratteristico del sopranaturale c del  sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale  e umana. Se si considera il fine sovraumano come  un effetto che può essere condizionato da mezzi pu-      — 136 —    ramente umani esso cessa di essere sovraumano.  Ma se invece rimane tale, cioè trascende la effi¬  cienza umana, si potrà bensì credere ed affermare  che a raggiungerlo si richiede una certa condotta,  ma non si può assegnare una relazione di condi¬  zione tra la condotta ed il fine, cioè non si può  ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel  fatto, evidente ad ogni osservatore non del tutto  superficiale, che, anche nei sistemi di morale teo¬  logica o metafisica, quando si tratta di determinare  le norme che debbono regolare la condotta nelle  relazioni della vita comune, famigliare e sociale,  non è più il fine assoluto quello da cui si deducono  le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia re¬  moto; un certo ordine e un certo tipo di vita in¬  dividuale e sociale.   Le norme dedotte da questo fine subordinato si  presentano bensì come derivate aneli’esse dal fine  assoluto, perchè si assume quello come posto o vo¬  luto o necessitato da questo ; ma in che modo dal  fine assoluto si ricavi il fine relativo, come e per¬  chè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine  sopraumano, sia necessario tendere a questo fine  umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E  quando par che si dimostri, gli è che si è assunto  tacitamente e come incorporato in modo surrettizio  nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne  deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altro       che porre o assegnare un valore sopraumano al  fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho chia¬  mata una sopravaluta;ione metafisica di quel certo  fine umano dal quale in realtà sono ricavate le  norme.   Xon è dunque vero che assumendo un fine  umano si risolva, o si postuli una certa risoluzione  di un problema metafisico. Non si la che ubbidire  a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva  positivamente, sia che si risolva negativamente il  problema intorno alla natura del fine assolutamente  ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale  non si può sfuggire: che un sistema di norme di  condotta individuale e sociale non si può stabilire  se non in relazione a un certo fine, esplicitamente  o implicitamente assunto, che dipenda condizional¬  mente dalla condotta, cioè che sia umanamente  possibile.   0. — Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza  propriamente morale, che il fine abbia un valore  assoluto e non soltanto relativo? —   Non discuto se sia o non sia ; perchè si tratta  in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e per  la constatazione di un fatto la discussione non ap¬  proda. Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che  pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^ ~~di  me glio che postulare la possibilità di quel fi ne e  postularne il valore ? Cioè supporre che quella pos-        — 138 —       4t>    siljilità e questo valore siano dati nelle intuizioni  o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir  cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento ?  E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la cre¬  denza nel fine e il riconoscimento del suo valore  assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei  fini relativi della vita finita, non possono essere  dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti  o affermati, è facile vedere che la dottrina vale  per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già,  e che accetta Vaffermazione perchè la trova corri¬  spondere a ciò che è già dato in lei stessa ; ma non  vale essa, la dottrina, a far accettare queste sue  affermazioni a una coscienza che intuisca e senta  c creda diversamente. La costruzione dottrinale  metafisica non riesce dunque clic a fare appello a  un a intuizione o a una v alufazio ne di cui ammette  o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove  manca ; e quindi, di fronte a una coscienza diversa  da quella che essa suppone, si trova nella stessa  condizione della costruzione non metafisica. Cioè  vien meno alla ragione per la quale il valore as¬  soluto del fine è richiesto.   Questa ragione, se il valore assoluto del fine  non è già assunto come una constatazione di fatto,  consiste nella pretesa illusoria che la dottrina possa  e debba assicurare per questo modo alle norme  una validità universalmente riconosciuta ; e nasce         Mm&i   ^5_ 13<1   •da una preoccupazione pratica analoga a quella  dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’Etica  dia alle norme autorità imperativa.   7. — Ed eccoci all’argomento capitale: 1’ esi-  • gonza del carattere imperativo della norma. — Ho  già ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale  si fonda la pretesa esigenza dell’obligatorietà della  norma morale. È in fondo il medesimo già notato  più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia  •della conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco  di con fondere la morale colla moralità, la norma  col la conformità alla norma : e quindi di preten¬  dere da una dottrina quello che nessuna dottrina  nè metafisica nè non metafisica può dare : la ga¬  ranzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia esecutiva. Il  linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’er¬  rore; e l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o la  dottrina de i -doveri, contribuisce a ribadire il pre¬  concetto. nato dalla preoccupazione pratica, che  compito di una dottrina morale possa o debba es¬  sere quello di costruire o fondare delle norme ób-  hliyatorie. Mentre l’etica, dico qualunque dottrina  etica,__non può fare altro che dedurre, o indurre,  o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti,  i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la  coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come  dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prose¬  cuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti    Yi (yivuni   l&u vuxnrib I   nei         — 140 —    sono derivati. E se anche tutte le coscienze uni¬  versalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero  nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una  certa norma, non per questo si potrebbe dire che  l’imperativo è un carattere della norma ; l'impe¬  rativo sarebbe sempre anche in questo caso un ca¬  rattere del motivo che spinge all’ osservanza della  norma ; un dato della coscienza che la abbraccia,  che la riveste e la investe di questo motivo, clic  la sente così.   Quale sia la preoccupazione pratica da cui nasce  e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo  per cui si viene ad assegnare alla costruzione nor¬  mativa un compito al quale essa non può soddisfare  in nessun modo, ho pure già cercato di mostrare  altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi  par privo di interesse mettere in chiaro con 1’ a-  nalisi come i modi, nei quali può essere interpre¬  tato e tentato il proposito di « fondare una norma  obbligatoria » si riducano a postulare l’esistenza  dell’ obbligo, quando non riescono a una forma più  o meno larvata di imperativo ipotetico. E come  poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo  categorico per dato o postulato, non se ne possa  ricavare la determinazione delle norme; ma si ri¬  chieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di  un fine, o di un criterio di valutazione e deriva¬  zione, estraneo e indipendente da quello.    — 141    8. — Il compito di assegnare una norma che  abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in ef¬  fetto, inteso in più significati diversi ; i quali si  possono ridurre ai quattro tipi seguenti :   1. ° Dimostrare che la norma proposta corri¬  sponde a un sentimento, a un motivo, a una di¬  sposizione che si manifesta nella coscienza come  •obbligo. — Allora il senso reale ò, non già che la  do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e  norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o  formuli in norme i modi di condotta ai quali la  coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità  del precetto è constatata e assunta, non posta, nè  fondata dalla dottrina ; e la norma obbliga solo se  •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi  della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco,  e vien meno se tace la voce della quale assume il  tono.   2. ° Presentare le norme come ordini di un  Potere (qualunque ne sia la natura) irresistibile,  che costringe volenti e nolenti a seguirlo. — In¬  tesa così l’autorità non viene nò dalla natura delle  norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate,  ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir  così, la presentazione ; anzi il suo ufficio si riduce      — 142 —    in realtà a quello di interprete ed araldo di quel  Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e  che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle  quali parla in nome suo.   Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si  usa ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva;  l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò  di determinare quale sia la legge imposta da quel  potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si am¬  mette o si riconosce l’esistenza.   3." Dimostrare che ciò che la norma prescrive  dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra  cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di  essere come ò, 1’ uomo fosse diverso ; seguisse la  sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realiz¬  zasse un certo tipo ideale.   Ma è chiaro che in questo senso non si là che  o determinare il fine in l'unzione di un certo tipo  ideale, o il tipo in funzione del line ; ossia, in al¬  tre parole, determinare la relazione che sussiste  tra una certa natura e una certa condotta. La qual  relazione per necessaria che sia, non si vede come  [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si  pensa di fondare in tal modo 1’ obbligatorietà, ma¬  nifestamente si suppone ebe il conformarsi a un  certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già  sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fon¬  damento di questo, nel primo dei casi enumerati.         — 143 —    Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo  davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo  fine o seguire una certa condotta, si avrebbe non  piii un imperativo categorico, ma un imperativo  ipotetico.   4.° Dimostrare che ciò che la norma prescrive,  dece essere voluto universalmenta e incondiziona¬  tamente. — Questo ò manifestamente il significato  che pare più proprio, e nel quale intesero e inten¬  dono l’esigenza i moralisti i quali credono di po¬  ter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che  assumono come ideale etico. Ma l’intendere la tesi  così, implica che si ammetta la possibilità di una  di queste due vie : a) o derivare 1’ obbligatorietà  dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo  riconoscimento come dato o postulato ; h) o deri¬  vare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere  al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di  queste due tesi deve essere considerata distinta-  mente e un po’ più a lungo.   9. — a) — Posto pure che al fine assunto fosse  riconosciuto in realtà universalmente valore di  sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo  che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene  porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo.  Questo riconoscimento non genera la coscienza del-  Pobbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa  che la coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè        • — 144 —    giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una tale  giustificazione riesce a questa alternativa: o serve  a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente tro¬  var buona e seguire la norma anche se non si sen¬  tisse Vobbligo, perchè la norma è ordinata a quel  certo fine che è riconosciuto come sommamente  desiderabile. E in questa forma la pretesa fonda¬  zione dell’ imperativo categorico si riduce alla for¬  mulazione di un imperativo ipotetico, che si sosti¬  tuisce o si aggiunge al categorico. 0 riesce a un’ar¬  gomentazione di questo genere : Siccome è bene  sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e  poiché si ammette o si suppone che la coscienza  d’un obbligo assoluto sia necessaria a garantire  questa osservanza, l’imperativo categorico appare  la condizione sine qua non, acquista valore di mgzzo  indispensabile al proseguimento del fine.   Nel primo modo si viene a dire che l’impera¬  tivo categorico è giustificato perchè è bene ciò che  esso comanda; nel secondo che è giustificato per¬  chè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè  l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono  a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè   10 giustificano gli tolgono il carattere di categorico.   11 che se nel primo caso è più evidente, non è meno  vero nel secondo. Infatti, posto pure che la cate¬  goricità dell’ imperativo sia condizione necessaria  all’osservanza della norma, non ne viene perciò    — 145 -    che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sa¬  rebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: os¬  sia la pretesa derivazione che se ne fa, mostra la  necessità di una condizione, non la pone in atto  se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la sod¬  disfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di  questa esigenza è contradditoria, perchè a convin¬  cere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna  le ragioni ; il che equivale ad ammettere che ve¬  nendo meno queste ragioni verrebbe meno quella  necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come  categorico, finché è utile che valga; come chi di¬  cesse un’ autorità che si fa valere incondizionata¬  mente .. .. sotto certe condizioni (1).   Adunque, se la c Qscienza d’un obbligo asso luto  manca, la derivazione che se ne pretenda fare da  un fine, qualunque sia il valore che gli si attri¬  buisce, non può farla sorgere; se c’è, la giustifi¬  cazione riesce ad assegnare le condizioni della sua  validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo  incondizionato.   (1) Il che può però aver un senso, se si guarda bene ; ma in un  caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si rende ragione  delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’ im¬  perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo vale  come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso che  una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga incon¬  dizionatamente per un’altra coscienza.   Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere a  prima vista.        — 14U —    b) — Oppure finalmente si intende che ap¬  prendere ciò clic è posto come line equivalga per  ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non  si possa conoscere la natura del line senza sentirsi  obbligati a riconoscergli valore di bene supremo ;  cioè che la conoscenza generi la coscienza d’un  obbligo. — Questa che è in sostanza la tesi di¬  fesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro  Rosmini, è veramente l’interpretazione tipica, più  audace e radicale, del pensiero di derivare l’obbligo  dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento og¬  gettivo nella natura stessa di quello.   Ma — senza dilungarmi su questo tema in una  critica troppo nota — è inevitabile questa alter¬  nativa : o il dover riconoscere esprime una neces¬  sità puramente logica, e non può dare quello a  cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di  riconoscere il valore; o vuol esprimere una neces¬  sità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè  pretende ricavare da una determinazione obbiet¬  tiva la constatazione di uno stato subiettivo, la  quale presuppone appunto resistenza di quella co¬  scienza dell’obbligo, che crede di far nascere e  senza della quale la constatazione non è possibile.  E per tal modo si ricade ancora una volta nel primo  tipo di interpretazione (V. p. 141); quando non si  voglia ammettere questa tesi : che è obbligo rico¬  noscere quel fine come sommo bene e volerlo, così        — 147 —    se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè  sia che la coscienza senta sia che non senta di  dover attribuirgli quel valore. Ossia non si am¬  metta la tesi dell’obbligo di credere anche senza  o contro l’attestazione della coscienza. Il che ren¬  derebbe inevitabile l’appello a una autorità esterna,  alla quale la coscienza si deve inchinare; e farebbe  della morale del bene oggettivo una morale dom-  matica, che rientra nel secondo tipo.   10. — Adunque l’analisi dei modi nei quali  può essere interpretato e tentato il compito di fon¬  dare una norma obbligatoria conduce a questa con¬  clusione: o si intende che « fondare una norma  obbligatoria » voglia dire derivare l’autorità della  norma dal valore del fine; e allora, come s’è visto,  c come avea notato chiarissimamente il Kant, non  si può per questa via riuscire che a un imperativo  ipotetico; o si intende che voglia dire assumere  come dato l’obbligo e determinare le norme in  conformità a questo dato.   Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è  soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta ,  non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua  esistenza e validità sussiste all’ infuori della co¬  struzione dottrinale, che la postula, ma non la fa  essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come  esistente non la pone in essere, nè ne legittima  per sè l’assunzione.       — 148 —    IL — Per tal modo, se il difetto capitale di  una scienza normativa etica conforme al concetto  esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di  non^ poter presentare le norme col carattere di im¬  perativo categorico, questo difetto è comune, e non  potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz ione  dottrinale. die non si proponga di derivare le norme  da un imperativo categorico assunto come dato.   Ed allora resta da vedere se. prendendo l’impe¬  rativo categorico per dato o postulato, si possa ri¬  cavare da esso la determinazione delle norme; o  se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione  espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di  valutazione e di derivazione, estraneo e indipen¬  dente da quello.   CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in suffi¬  ci ente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc morali è  manifesto, qualora si intenda con esso assumere  null a più che la forma destinata a rivestire un con¬  tenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è  pur manifesto che, appunto perciò, il dato dell’obbli-  gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale.   Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta  che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un  tempo la forma dell’ imperativo e la m ater ia del  precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare,   hjUifot vtA »pUóh UàwtiH             o ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la  determinazione del fine sia il contenuto delle  norme.   Senonchè, quando si prenda come dato non la  pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è  inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente  ha dimostrato, a fondare la morale .sull’autorità,  superiore ad ogni discussione, di una certa rivela¬  zione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica  1’ ufficio di espositrice e interprete di questa.   Rilevando questa conseguenza io non intendo  affatto di darle il valore di una dimostrazione per  assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò tut-  t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in con¬  fronto dell’ affermazione generica e ambigua che  « la morale deve dare norme obbligatorie » il  pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto  perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui  si trova di fronte.   12. — Tanto se si intende che la ri velazio ne  da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende  che sia esterna, si presenta la medesima difficoltà;  quella difficoltà, antica e notissima, dalla quale          t ciu* oìaI   'R\)l£lp2:\0h/&   l'ileo ila.   £|Avh<*    venne il primo stimolo alla riflessione e alla cri¬  tica nel campo della morale: l a pluralità delle ri-  velazioni.   Poiché i responsi della cosc ienza morale sono  s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono di-          ✓   vèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se,  resta, o che si riconosca a tutte la medesima auto¬  rità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo;    o che si scelga.     f Quan to alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun  criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere  a dimostrar l’autorità di una piuttosto che del-  1’altra, poiché t utte si danno come assolutament e  certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle quali  una rilevazione attesta la sua autorità sono ado¬  perate da ciascun’ altra per asserire la propria, e  da tutte risuona sui precetti morali diversi il me¬  desimo tono di comando.   Si cercherà il criterio della scelta nella natur a  del le cose co mandate o proibite, come avviene quando  si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà  de i prec etti morali di una religione rispetto a quelli  di un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti mo¬  rali che viene assunto come criterio dell’autorità  della rivelazione.   E il valore di questo contenuto, che è così usato  a provare la superiorità di una rivelazione sulle   altre, si può dunque riconoscere indipendentemente  dal suo presentarsi sotto la forma di un comando  rivelato, dal momento che è esso invocato a pro¬  vare l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio  dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete e                  — 151 —    araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^   rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione  che tanto il fine quanto le norme morali si sup¬  pone che possano e debbano essere conosciute c de¬  terminate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione.    cioè all’infuori da ogni appello all’autorità.   Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione    esterna, vale per quella di una rivelazione interna.  Tra due coscienze, delle quali rispetto alla mede¬  sima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra  il non fare, il criterio di valutazione comparativa  non può esser dato dal carattere imperativo, che  è comune ad ambedue, ma deve essere un altro.   Ed anche allora il criterio che serve alla valu¬  tazione comparativa sarebbe esso in realtà quello  da cui dipende cosi la determinazione come la giu¬  stificazione delle norme.    l i. — Non resterebbe che riconoscere ja mede¬  sim a autorità a tutte le rivelazion i. Il che importa  l’una e l’altra di queste conseguenze: o la asso¬  luta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo   -“ --   e tempo; o la limitazione a determinate condizio ni  storiche dell’autorità e del valore di ciascuna.   Se non si vuol accettare la prima (1), si pre¬  senta la domanda: Questa limitazione ha o non ha         Uva*»    (1) Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi della as¬  soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel campo  della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma del              — 152 —    la sua ragion di essere nelle condizioni storiche,  dalla cui presenza è circoscritta la sua validità?   Se la limitazione non dipende da queste condi¬  zioni, ma essa pure non ha altra ragione di es¬  sere all’ infuori dell’ autorità o del carattere impe¬  rativo col quale hic et nunc si presenta, allora si  ammette che, astrazion l'atta da questo carattere  di obbligatorietà col quale una certa norma si pre¬  senta in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe  nessuna ragione di preferire nelle stesse circostanze  una norma ad un’ altra, cioè si giunge per un al¬  tra via all’indifferenza del contenuto (1).   Se poi questa limitazione ha la sua ragione di  essere nelle condizioni storiche stesse, entro le  quali è valida, cioè in una parola se__ò relativa a  queste condizioni, allora si ammette che sono queste  condizioni il criterio della limitazione ed è la corri¬  spondenza a queste condizioni storiche il criterio  della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa  che dà alla norma il suo valore all’ infuori del-  1’ obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante,    medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’ una  l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che  quello.   Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione intorno  al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte.   (lT E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammet¬  tere un’ altra rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la  limitazione in discorso.       — 153 —    dal momento che esso serve anche a stabilire i  limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta come  valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ ob¬  bligazione non possa essere un dato sufficiente alla  determinazione e valutazione delle norme, e come  per essa non solo non possa essere negata, ma  venga confermata la legittimità di una scienza nor¬  mativa morale.   15. — Senoncliè a questo punto mi sento op¬  porre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque  non ^esiste la Morale Kantiana ? Non ricava egli  dalla volontà buona, dal dovere, dall’ osservanza  della l egge perda legge, la norma morale suprema,  nella notissima formula, nella quale, indipendente¬  mente da ogni particolare rivelazione storica, c  sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie  tutto un sistema di norme razionali ?   E s e la sua morale è f m^gle. cessa perciò di  avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere,  e, a fortiori, di essere possibile?   — Certamente a nessuno può venire in mente di  negare la possibilità di un sistema che ò esistito  ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di ne¬  garne il valore.   Così la grande costruzione razionale dei doveri  dell’ uomo del Kant, come la grande costruzione  razionale dei diritti dell’ 'uomo che piglia nome  dalla Rivoluzione Francese sono ben lungi dal me¬    lo         — 154 —    VFDFfiF sr   & )\<é   4   i'MSSfat    ri tare il facije compatimento col quale parlano di  astrazioni e di formalismo certi fonografi della so-  ciologia.   Ma qui al proposito nostro importerebbe vedere  la costruzione razionale del Kant sia fondata sul  d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist o  sulbesigenza dell' universalitaTche nKanTcrede    bensì trovare implicita nel concetto del dovere, ma      v* /v T< ì»-^uAtv\  7 u-iC'    che è invec e caratteristica dell’ ide a_di  ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap-   p robazione interiore dell’obbligo, che è propria della  ^ -y j coscienza del dovere (1).   Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al Kant  per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬  versalità, non è un elemento contenuto nel dato  stesso e che possa esserne ricavato analiticamente,  ma (L una sintesi nella qual e insieme coll’obbliga-  zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che  la giustifica.   Ed è questa e sigenza dell’ universalit à, non il  dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il cri¬  terio supremo della morale.   Ma a ben chiarire questo punto — come, anche  nella morale kantiana, l’imperatività non sia un  dato sufficiente alla determinazione delle norme, e  come in realtà venga assunto non solo un criterio   (1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr.   Prolegomeni ecc. pp. 19-88.   ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL <.TKv tff» }rlv \ltj ’V- r ' P i* " I"," I   ]( Lo'h YcMufr Vvvt7 VX 0   u dU 'um^ìvc^ÌO p   c -‘ — ‘Oi "                      — 155 —    non ricavato da quella, ma implicitamente anche  un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi assai  meno sommaria; poiché non è questo un argomento  da sbrigarsi così alla lesta.   Basti per ora non aver omesso 1’ accenno.               IL FONDAMENTO INTRINSECO DEL DIRITTO   secondo I il Vanni          Il Fondamento Intrinseco del Diritto   SECONDO IL VANNI (*)   -- Nota Critica -    Il volume dal titolo « Lezioni di Filosofìa del  Diritto », la cui pubblicazione fu curata con rive¬  rente pietà e con devota ammirazione dalla Vedova  e da alcuni tra i più valenti Discepoli poco dopo  la morte immatura dell’Autore, è forse tra gli  scritti del Vanni quello in cui la sua dottrina ap¬  pare più compiutamente ordinata a sistema, e nel  quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte  le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e ve¬  ramente si può considerare come il testamento  scientifico del celebrato Maestro. Certo, qualunque  giudizio porti sul fondamento e sulla validità in¬  trinseca del sistema, nessuno può disconoscere la  larghezza e la profondità della coltura filosofica e  giuridica, e la chiarezza della trattazione; e sopra¬  tutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che  ò propria di chi medita e scrive per amore disin¬  teressato del vero.    (1) Icilio Vanni. — Lezioni di Filosofia del Diritto — Bologna,  Zanichelli, 1904.            La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il  ^ tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca  sintetica o lcnomenologia giuridica ; e la ricerca  deontologica.   Nella prima egli comprende non soltanto la de¬  terminazione dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti  della filosofia del diritto colle scienze affini, ma  anche una indagine preliminare di critica gnoseo¬  logica. che il Groppa li accordandosi col Fraga pane  ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al  compito di questa disciplina. Giustamente, finché  si intende che la filosofia del diritto debba istituire  una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se  si intende anche di negare la opportunità di pre¬  mettere, come in fondo fa il Vanni in queste Le¬  zioni, quali sono i presupposti gnoseologici accettati.  Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una  o d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente.  Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere  e si applicano di solito nelle ricerche speciali taci¬  tamente. Ma compito del filosofo è appunto, come  osservava il Rosmini, di c omprendere e fo rmulare  elii aramente quello che gli altri sottintendon o.   Del resto il fatto che il Vanni voglia prender  le mosse da una v alutazione critica sulla natura e   al sapere giuridico, prova quanta larghezza di pen¬  siero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse            nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse  l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani  e generali presupposti della sua dottrina.   La seconda ricerca si sdoppia in due parti :  statica, che determina la nozione logica del diritto,  inducendola dell’analisi del diritto positivo dei po¬  poli più progrediti, e similmente dello Stato; dina¬  mica (genetica o storica) che studia la genesi e la  formazione storica del Diritto e dello Stato; e si  potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del  diritto. Alle quali due ricerche corrispondono le  parti II® e III® del volume.   Finalmente la terza ricerca di carattere etico o  valutativo ha per oggetto il problema della Giu¬  stizia, ossia del fondamento intrinseco e delle esi¬  genze razionali del diritto. Questa, che costituisce  la parte IV® ed ultima, ò senza dubbio la più im¬  portante, perchè riguarda quello che è il problema  centrale della filosofìa del diritto; e nella cui so¬  luzione principalmente Si manifesta la nota carat¬  teristica delle diverse dottrine. E la dottrina del  Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi  prevalente la consideri oltrepassata, merita di es¬  sere ricordata e discussa; perchè mentre intende il  compito della filosofia del diritto non soltanto come  storico-genetico, ma anche come normativo, (nel  che si accorda coll’ idealismo) si propone di assol¬  vere questo compito tenendosi nei limiti d’una co-     16 2 —    struzionc puramente scientifica, ed escludendo ogni  postulato di natura metafisica; nel che consente  col proposito, se non col metodo, dello storicismo  c del positivismo.   Ora il difetto principale della sua dottrina, non  nasce, come può parere a prima vista, dalla pre¬  tesa e comunemente ammessa inconciliabilità tra  il compito normativo e la validità scientifica ; chè  anzi questo intendimento, chiaramente concepito  e tenacemente proseguito, di una costruzione nor¬  mativa scientifica del diritto, è a mio giudizio, un  alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,  direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni  sia possibile una costruzione etico-giuridica che sod¬  disfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze.    La jiottrina del Vann i, per quel che riguarda  il fondamento intrinseco del diritto e il metodo, si  può considerare come una forma di quella che lo  Spencer ha propugnato e difeso col nome di utili¬  tarismo razionale: e infatti, pur rilevando giusta¬  mente l’importanza e il valore del pensiero del  Romagnosi, egli la riconosce come il precedente  più immediato e più notevole della sua. Ma la trova  erronea per tre rispetti ; perchè ammette un diritto  naturale; perchè pretende di costruire una norma            etico-giuridica assoluta ; e perchè Analmente lo  Spencer intende le condizioni di esistenza da cui  le norme devono essere dedotte, in un senso pura¬  mente biologico. Principalmente su questo ultimo  punto egli accentua il suo dissenso, prendendo come  base, non le condizioni dell’esistenza individuale  e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma  le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento  dell’ etica sta dunque nella necessità per chi vive  in società (e la socialità è la esigenza suprema del-  1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni  ed alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica  dimostra intrinsecamente necessarie quelle forme e  quei modi di condotta che sono richiesti dalle con¬  dizioni della vita in comune. Fra queste condizioni  ve ne sono alcune che hanno un’ importanza fon¬  damentale e primaria, in quanto rappresentano  l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;  e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia.  Ma poiché queste potrebbero non essere spontanea¬  mente osservate, è necessario che le azioni relative  ad esse non restino abbandonate alla buona volontà  e alla spontaneità e che « con una norma di con¬  dotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventual¬  mente coattiva s’induca all’osservanza anche il  volere recalcitrante. Quindi in altri termini la ne¬  cessità del diritto, il quale ci apparisce allora come  una norma che ha da garantire le condizioni fon-       — 164 —   (lamentali per la coesistenza e la cooperazione  umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il Di¬  ritto viene ad avere un fondamento intrinseco, e  viene ad averlo anche lo Stato, il quale è indispen¬  sabile alla funzionalità (tei Diritto » (pag. 314).   Xon è necessario un lungo discorso per vedere  che quando il Vanni crede di fondare in questo  modo F esigenza razionale del diritto finisce per  assumere in realtà come presupposto il principio  che egli vuole, e crede di dovere, derivare apodit¬  ticamente, e al quale appunto è subordinato il va¬  lore di necessità razionale assegnato alle norme  ideali che devono servire di modello e di criterio  di valutazione. Infatti la relazione naturale e ne¬  cessaria tra una certa condotta e certe condizioni,  necessarie alla loro volta alla convivenza e coope¬  razione sociale, serve bensì a stabilire che quella  condotta deve essere riconosciuta come un mezzo  necessario al fine di conservare e promuovere la  convivenza e la cooperazione sociale, posto che questo  sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale  a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo  come fine; e fine precedente in valore e autorità  ad ogni altro.   Il \ anni par che intenda superare la difficoltà  osservando che la necessità puramente naturale in  quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto  in una esigenza ed in una necessità razionale. « Essa            — 105 —    allora esprime un principio logico fondamentale, il  principio di contraddizione ». Se in forza della na¬  tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per  ottenere un certo fine è indispensabile un certo  mezzo, e per raggiungere un certo risultato è in¬  dispensabile un certo modo di condotta, impliche¬  rebbe contraddizione che si potesse impiegare un  mezzo diverso o seguire una condotta diversa  (p. 315).   Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione  vi è certamente tra il pensare che una condotta è  indispensabile a raggiungere un certo fine e pen¬  sare che questo stesso fine possa essere raggiunto  con una condotta diversa ; ma io non violo nes¬  sun principio logico e non sono punto in con¬  traddizione con me stesso se, ammettendo che un  certo fine dipende da certi mezzi, non voglio il fine  e non voglio perciò neanche i mezzi.   E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale  all’ ordine cosmico, considerandolo come la forma  più alta a cui riesce 'iì processo della^ evoluzione  universale. Perchè non si fa altro in questo modo,  che spostare il presupposto; cioè ammettere, an¬  cora e sempre, che si riconosca valore di fine su¬  biremo a questo adattamento all’ ordine cosmico.   Il quale presupposto potrà o non potrà venir  legittimamente assunto come dato o postulato ; ma  è e rimane un presupposto. E perciò le norme ideali        che se ne deducono hanno questo valore di nonne  nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo quel-  P ordine di effetti dal quale sono dedotte.   «   Ma rilevando cosi il carattere necessariamente  ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche  il « sistema delle condizioni della vita in comune »  del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo  carattere ipotetico costituisca per sò un vizio pro¬  prio di questa e di tutta una classe di costruzioni  etico-giuridiche, come pretende P idealismo metaf쬠 sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a  questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di  convivenza e di relazioni sociali, che assume come  modello e in conformità al quale determina le  norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che  abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare,  sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio,  decisive : Primo : che le norme ideali sono pur  sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo  od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale as¬  sunto come modello, e non dal fine metafisico, della  cui autorità e del cui valore esso si riveste. Secondo:  che il valore assoluto di questo fine metafisico non  può essere che assunto aneli’esso o come dato o  come postulato.   La verità è semplicemente che un sistema di  norme giuridiche contempla di necessità un certo      — i<;7    ordino di vita individuale e sociale; e che la va¬  lidità dello norme dipende dal valore che si sup¬  pone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo  riconoscimento di valore, questa valutazione del  fine è dunque il presupposto inevitabile della va¬  lidità etica del sistema (la quale non esclude la va¬  lidità scientifica, ma non si esaurisce in questa);  e la questione si riduce a decidere se si pub o non  si può assumere legittimamente come dato o come  postulato questo riconoscimento del valore che nel  sistema è assegnato al fine.   Ora è nel rispondere a questa questione, non  nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza  del sistema del Vanni e dell’ indirizzo naturalistico  in genere; e alla quale del resto non riesce a sfug¬  gire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una ri¬  sposta adeguata alla questione esige che si deter¬  minino le condizioni richieste perchè a un ordine  di convivenza e di cooperazione si riconosca valore  di fine universalmente regolatore, valore, direi,  (piuttosto che di summum bonum ) di primum de¬  siderabile ; ossia perchè si possa ammettere che tutti  i soci consentano liberamente nel valutarlo e vo¬  lerlo come tale. E che si assuma poi, come modello  per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che  soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale con¬  figurato in conformità di quelle condizioni.   Ma non è rispondere alla questione il dimostrare          la naturalità della convivenza sociale in genere, o  di un certo tipo che si assuma volta a volta come  modello. Questa dimostrazione può servire a farmi  trovar buona o giusta o desiderabile P osservanza  dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto  o degno di essere voluto, quel tipo di vita sociale,  cbe si presenta come suo effetto ; ma non inversa¬  mente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi  a subirlo per la coscienza della sua necessità natu¬  rale. chi potrebbe legittimamente scambiare questo  subire con un volere . e la rassegnazione a un male  con la aspirazione a un bene ?   Nemmeno gioverebbe, d’altra parte, il ricorrere  a postulati metafisici. Posto che io non riconosca  l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema  come degno di essere voluto, in qual modo si può  presumere legittimamente che valga a farmelo ri¬  conoscere tale Vaffermazione (poiché qui di dimo¬  strazione non si potrebbe parlare) che esso .ha un  fondamento o una giustificazione metafisica, se la  ragione per la quale il sistema gli assegna questo  fondamento consiste appunto nel valore di fine che  esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli  riconosco ?    Ma il Vanni (per restringermi a lui. poiché al-  1 indirizzo metafisico non ho accennato qui se non  per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe       — 169 —    con tutta probabilità che per la via indicata come  la sola legittima si riesce a una costruzione pura¬  mente astratta, di un tipo utopistico di società  che non trova nella realtà storica nessuna corri¬  spondenza; e che si ricade nei difetti (ai quali ap¬  punto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,  s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o  di un diritto assoluto valevole per tutto c sempre,  e senza riferimento possibile alla variabilità dei  rapporti sociali.   Mentre riponendo, come egli fa, il fondamento  intrinseco del Diritto n ella conformità della co n¬  d otta alle condizioni richieste dalla vita in comu ne,  questo riferimento non solo appare possibile ma  inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le con¬  dizioni della vita in comune non sfuggono al moto  dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune  hanno il carattere d’una certa uniformità e co¬  stanza, altre invece variano correlativamente al  grado di sviluppo umano e alle forme di organiz¬  zazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e  di ciascuna forma. Il che importa che debbono va¬  riare corrispondentemente le norme regolatrici ; os¬  sia che nell’applicazione « il sistema etico-giuridico  fondato sulle condizioni di esistenza va combinato  col principio di evoluzione e subordinato al criterio  della relatività storica » (p. 318).   Ora, lasciando di rilevare come con questa su-    /    it       bordinazione si assuma sempre per presupposto che  l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo so¬  ciale storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che  la coscienza* ne riconosce la necessità storica, anche  valore di fine, importa notare come si venga con  ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa  delle diverse forme storiche del diritto. Perchè una  valutazione comparativa richiede di necessità un  criterio, il quale non può essere dato dalla corri¬  spondenza alle condizioni storiche. E se si prende  un criterio diverso, allora è la conformità a questo  criterio e non la necessità storica, che si assume  come esigenza razionale o come giustificazione in¬  trinseca del diritto.   È certo che se una costruzione etico-giuridica  per essere razionale dovesse rimanere sospesa,  come gli Dei d’Epicuro, tra cielo e terra, e fuori  di ogni possibilità di applicazione alla condotta in¬  dividuale e collettiva, bisognerebbe accettare la tesi  del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto  qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ am¬  bito della pura sociologia.   Ma esiste davvero questa incompatibilità? E  non potrebbe essa dipendere, invece che dalla ra¬  dicale sterilità di una costruzione veramente ra¬  zionale (1), dalla preoccupazione di giustificare eti-   (1) Se, e a quali condizioni, una tale costruzione sia possibile,  è argomento del quale s 1 è già discorso altrove e che non può es¬  sere toccato di sfuggita.      — 171 —    camentc forme di diritto che non sono eticamente  giustificabili, di assumere come condizioni richieste  dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni,  reali sì, e storicamente date, ma che sono la nega¬  zione di quelle richieste dalle esigenze ideali? Per¬  chè se fosse cosi, Ih conclusione da trarne sarebbe  non che la costruzione razionale ò inapplicabile  come criterio di valutazione e come modello nor¬  mativo, ma che, essendo le condizioni reali diverse  da quelle idealmente contemplate, le norme ideali  non possono essere applicate simpliciter a condizioni  diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi do¬  vranno ugualmente servire come criterio per de¬  terminare quale sia in un dato momento storico  la condotta sociale e individuale che, nei bifidi  delle esigenze reali necessariamente imposte dalle  condizioni in effetto esistenti, è più acconcia a favo¬  rire la trasformazione di queste nella direzione se¬  gnata da qualle esigenze ideali, ossia tende ad at¬  tuarle. il che importa che le esigenze corrispondenti  alle condizioni proprie di un certo momento storico  non siano assunte esse come esigenze razionali del  diritto, ma forniscano il criterio per stabilire entro  quali limiti sia possibile -tradurre in norme di di¬  ritto positivo le norme ideali.   Ossia in breve : l’esigenza razionale segna le  condizioni a cui deve soddisfare un ordino sociale  perchè possa aver valore di fine; la realtà storica         1      >       Indice Generale    1. ° La Dottrina delle Due Etiche   di H. Spencer e la Morale   come Scienza .... Pag. 3   ' * • ,   2. ° Per Una Scienza Normativa   Morale .„ 119   3. ° Il Fondamento Intrinseco del   Diritto secondo il Vanni    157 

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