. JUVflliTfl La Possibilità l I e i Limiti MORALE STUDI TORIflO FRATELLI BOCCA EDITORI 1907 A 1 / VERTENZA In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati in più riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio in¬ dimenticabile maestro ed amico Carlo Cantoni, al quale il profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei di¬ scepoli, la lil>ertà e la sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi che ora ripubblico riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del me¬ desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬ scuno dei successivi, i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol « Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è esa¬ minato il problema della possibilità di un’ Etica normativa indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o negativa, dei problemi di natura metafisica. E perciò spero di essere scusato se mi riferisco qualche volta anche ad esso ; e se in in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con bre¬ vità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle quali s’è già discorso in quello. Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito dello Studio « La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e la Morale come Scienza », che — se nella esposizione sia generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho cercato % _ 2 — studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero dello Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico che assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio precedente. E per questa ragione ho tralasciato deliberata¬ mente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione che non fosse strettamente necessaria allo scopo mio parti¬ colare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di accenni alle critiche anteriori, anche dei più valorosi. Pavia, Settembre 1900. E. Jl’VAI/TA. e la Morale come Scienza INDICE Introduzione .* 1. Movente etico-sociale dell’opera dello Spencer. — 2. Conse¬ guenze nella valutazione delle suo dottrine. 3. Scopo dello studio presente. PARTE I" (Cap. I. e li.) Esposizione. Cap. I. — La Dottrina etica in yenerale .P“g- 15 1. 11 concetto informatore. — 2. La distinzione delle due Eti¬ che. — 8. Il metodo dell’ Etica. — 4. I dati dell’ Etica. — 5. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo , e possi¬ bilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica. Cap. II. — La dottrina delle due Etiche . P a g- 25 1. Due questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la dottrina. — 2. Il giusto assoluto. — 3. Il giusto relativo. — 4. Errore comune nel modo di concepire la condotta ideale. — 5. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta «sull’Etica Relativa. — 6. n confronto colle altre scienze. PARTE H“ (Cap. m.-V.) Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto dal quale hanno origine. Gap. III. — La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico pag. 40 Partizione della Critica. — 1. L’imperative categorico. — 2. L’ obbligo e la giustificazione. — 3. La progiudiziale dell’ obbligo categorico è estranea alla determinazione e alla giustificazione della norma. — 4. In che consista la differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni precettive. Compito dell’ Etica. — 6 — Cai*. IV. — La pregiudiziale, .sul modo di intendere il compito normativo dell’ Etica .P a S - * 5. La progiudiziale sul compito normativo dell’Etica. G. Co¬ me esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. 7. Due presupposti arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme siano già determinate e note. — 8. b) che si accordino fra di loro. -- Necessità di un criterio per la determina¬ zione. — 9. La soluzione dell’indirizzo sociologico - Suo difetto capitale: non vale a giustificare le norme. — 10. La soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. 11. Difetto capitale : la costruzione metafisica postulata, come qualsiasi costruzione metafisica, non serve a determinai e 10 norme. Cap. V. — Il preconcetto fondamentale .P»g- G6 12. Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’an¬ titesi tra esigenza scientifica (determinazione) ed esigenza etica (giustificazione). — 13. Legittimità di porre il pio- bleina in una forma diversa. — 14. Conclusione della Cri¬ tica Preliminare. PARTE III.* (Cap. Vl.-IX.) La dottrina delle due Etiche e le esigenze di una scienza normativa morale. Cap. VI. — Il criterio del limite dell' evoluzione e del¬ l’adattamento completo non serve a determinare 11 tipo di condotta cercato . l )a S- 71 Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità dell’ una non dipende da quella dell’ altra. — 1. 11 tipo di società giusta non è determinato dal limite dell’ evo¬ luzione. — 2. Nè dall’ adattamento completo. — 3. Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga nella costruzione dello S. il postulato dell adattamento com¬ pleto. Cap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispondente all’adattamento completo, non serve a giusti¬ ficare il tipo di condotta proposto .pag. 82 4 e 5. Il piacere puro non può essere il criterio della massima desiderabilità. — 6. La questione del « fine » e dei fini - Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equi¬ valenti. — 7. Equivoco nell’identificazione dell’ oggetto dell’ attività col piacere. — 8. Quale possa essere il fine che soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e della giustificazione delle norme. Vili. — Il tipo di .società giusta dello Spencer . . pag. 94 9. Come concepisca la società giusta lo Spencer. Presupposto illegittimamente assunto dalla biologia. 10. Difetto fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c il tipo della società giusta. — 11. Difetto che ne deriva nella relazione tra giustizia e beneficenza. — 12. L’ in¬ dividualismo dello Spencer e il postulato della giustizia. XX. — Ufficio e limiti di una costruzione scienti¬ fica dell' Etica .. • • P a S- 100 13. Come debba concepirsi un tipo ideale di società giusta. _ 14 . Etica Pura ed Etica Applicata. — 15. Conclusioni della Critica. — 16. Presupposto fondamentale, e carat¬ tere ipotetico dell’Etica come scienza normativa. INTRODUZIONE 1. — Pubblicando nel Giugno del 1879 I dati dell’Etica prima che fossero composti il II e il III volume dei Principii di Sociologia, lo Spencer giu¬ stificava questa deviazione dall’ordine del suo pro¬ gramma col timore di non poter compiere l’opera finale della serie: I principii di Etica. « Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte è quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti pre¬ cedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo scritto fin dal 1842 indicava vagamente il mio pensiero intorno a certi principi generali di bene e di male nella condotta politica ; e da quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai prìncipi del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione. Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui proba¬ bilità non posso pensare senza sgomento^_e_sono ansioso di evitarla, se non del tutto, almeno in parte ». (1). (1) The Principles of Ethics. Pref. to Part. I. (wheu first issued separately.) London 1892. Voi. 1. p. VII. — 10 — Qualche cosa di simile alla catastrofe preveduta sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento decadi¬ mento e indebolimento progressivo egli fu costretto dal 80 al 90 a sospendere qualsiasi lavoro. Fortu¬ natamente nel 90 potè riprenderlo: ed anche allora, la sua prima preoccupazione fu quella di compiere i principi di Etica; e pose subito mano a quella parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più importante: la IV a (Giustizia) (1). Colle parole e col fatto egli mostrava dunque che Tintento supremo al quale consapevolmente convergevano tutti i risultati della sua specu¬ lazione, era u n intento mor ale. Par che riecheggi in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis est unicus ad quem omnes sunt dirigendae (2). E in p realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬ trano e illuminano tutti gli scritti suoi, anche i minori, così vi circola dentro e li riscalda il soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evo¬ luzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto la comprensione del processo naturale e necessario che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro una umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza, la dottrina prende colore di fede. E veramente egli la professò come una fede; non soltanto visse per la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i prin- (1) Op. cit. Pref. to Part. IV. (wlien first iss. sep.) Voi. 2. p. Vili. (2) De. Intell. Emend. II, 16 nota. — 11 — cipi che pone a fondamento della morale e del diritto, € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse dell’universo, ispirano e governano con indomita costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni, da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle contro « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che! non apron bocca quando la nazione è mossa dalla ' religione dell’odio. » 2. — Quell a unità e solidarietà di pr i ncipi teo¬ r ici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta come s cienz a ella sua scienza come una morale, e questo continuo cimentare che egli faceva i suoi principi con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la sua dottrina pareva prender veste di programma so¬ ciale e politico, hanno certamente contribuito a pro¬ durre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz ione , » morali' si insinuasse anche nella critica delle sue dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata prevalentemente, se non talora quasi esclusiva- mente, come l’espressione di certe tendenze e di un certo indirizzo religioso morale economico poli¬ tico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspi¬ razioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più, e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso. E cosi potè facilmente accadere che anche certi cì tu? ■fot** v* w — 12 — principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati in disparte, o si stimassero superati e come logori e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano con¬ nessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo che si giudicavano superati. Ora se è vero che a intendere il significato e il valore di una dottrina particolare è necessario con¬ siderarla nelle relazioni col sistema di dottrine di cui fa parte, non è perciò meno legittimo conside¬ rare se essa possa aver valore e segnare un acquisto, anche all’infuori della validità di quel sistema e di quelle altre dottrine, colle quali primamente si svolse. 3. — L’intento di questo scritto ó appunto di esaminare il valore teorico e metodico della distin¬ zione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ra¬ gione di essere, indipendentemente dall’applicazione che egli ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita. Perciò si divide naturalmente in due parti: espo¬ sitiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro le ragioni e il significato della distinzione nel pen¬ siero dello Spencer; la seconda a esaminare la pos¬ sibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto una forma diversa. L’esposizione comprenderà pure necessariamente due parti: una che richiama, in modo breve quanto è possibile ma esatto, il concetto informatore e i lineamenti fondamentali di tutta l’Etica; l’altra che traccia più distesamente la dottrina particolare esaminata. Parte I ESPOSIZIONE Gap. I. — La dottrina etica in generale. 1. — Q uella legge di evoluzione , che si mani¬ festa nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare come un tutto, nella terra come parte di questo, nella vita in generale, e nella vita di ciascun orga- nismo individuale, nei feno meni ment ali degli esseri animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale é quindi a nche in quei fenomeni della cond otta, dei q uali tratta la morale . In conformità di questa legge] j^etWnr.<****** e delle leggi via via subordinate in cui essa si ri¬ frangevi produce una el evazione^progres siva nelle ** forme della vita sub-umana ed umana, la quale si traduce in un a dattamento s empre migliore, più esteso e più durevole alle condizioni da cui dipende l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie; e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme; e, benché si possa astrattamente considerare ciascuna forma per sè, tuttavia, per la connessione naturale e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre V 1- 1 1 hu>«1J * •*» ^ ...J ìS I f. .V> ( | w •v.etrii < ut» ■yjUÌ* Ij.h* fif Tri Jr « 4* G VY. »Y * l. yJ* ^ ' n -r? — 16 — b ^ '• W\« ab yfa c f l<» Hit , . UsJS a j^jr^w<Mitr /***yn« mi l|«*i# uUli" » forme d’adattamento nella realtà procedono di con¬ serva con mutue azioni creazioni continue; cosicché a ogni progresso in una forma di adattamento cor¬ risponde un progresso nelle altre forme. 11_limite, ver so il q ua le tend ^questo processo, è l’adattamento completo a tutte le condizioni della vita umana più elevata; per il quale il massimo svolgimento della vita individuale, e della parentale, e della sociale, non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda. Questo adattamento completo implica non sol¬ tanto una perfetta conformità esteriore dell’operare alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari una conformità correlativa e della struttura, e delle attività, fisiologiche e psichiche; è insomma ad un tempo adattamento della condotta e adattamento dei fattori interni della condotta. Quindi anche le idee, i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e intensità e gradi di subordinazione, pienamente adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle forme di condotta corrispondenti il loro appaga¬ mento pieno e concordante. 11 che viene a dire che l’adattamento completo attua in sé le condizioni della massima felicità . Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adat¬ tamento eoj puleto . m assima felicità, sono per lo Spencer tre concetti che coincidono; o, meglio, sono faccie o aspetti diversi di un medesimo risultato ò'yrwrC — 17 finale, ed esprimono il limite verso il quale tende l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. 2. — E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che sta in fondo al pensiero dello Spencer, tra evoluzione e aumento di felicità, che egli può porre come ottima la cpndotta rispondente al limite della evoluzione. Perchè lo Spencer, come è noto, ammette esplici¬ tamente che il fine ultimo, espresso o so ttinteso, d ell’operare, non può essere che una forma di co ¬ s cienza desiderab ile, cioè di piacere ; e che la con¬ dotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra di sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui dolori. Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è che la forma di condotta che coyà&ponde a quel limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite, non può essere che imperfetta, ossia buona relati¬ vamente, non assolutamente. Quindi due Etiche : Etica Assoluta che determina le leggi della condotta ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per a pprossi mazione quale sia la condotta relativamente buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni reali di svolgimento e di adattamento incompleto, è la migliore, o la meno lontana dalla condotta per¬ fetta. E quindi la necessità, e la priorità logica del¬ l’Etica Assoluta; le cui determinazioni riguardano <&• at*'*J)* ch> i V* i rt -. < 'f* (■ 3>u7 PK<kJf J* fattiti^ , r f d f I ^ fa t o ^ if y\ — 18 — relazioni più generali, più semplici, più esattamente definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa. 3. — Or come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia quale sarà il metodo? L o Spencer si accorda cog li Utilitarist i che lo precedono nell’assumere come cri¬ terio per giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di con¬ dotta si possano e debbano conoscere. Per gli Utili¬ taristi che lo precedono è l’induzione empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per lo Spencer di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o certe utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di in¬ ferirne che rapporti simili si manterranno nell’av¬ venire; si tratta invece di determinare comee^er- chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque sopra certe relazioni empiricamente osservate, ma sulla connessione causale necessaria tra le azioni ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione delle norme morali. E, poiché questa connessione deve essere alla sua volta una conseguenza neces¬ saria della costituzione delle cose, deve essere pos- sib ile dedu rre da principii fondamentali quali specie di azioni tendano a produrre felicità e quali a prò- — 19 durre infelicità. E le deduzioni così ottenute deb¬ bono essere riconosciute come leggi di condotta e aver valore indipendentemente da una estimazione diretta (individuale e occasionale) del piacere e del dolore. Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che lo Spencer chiama Razionale, dall’Empirico, e dà ca¬ rattere di rigore scientifico alla ricerca morale, è il riconoscimento pieno e adeguato della causalità naturale dei fenomeni della condotta; e il vero me¬ todo scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze che abbiano superato lo stadio empirico, deve con¬ sistere nel cercare e nel costruire in sistema non alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le re¬ lazioni necessariamente esistenti tra cause ed ef¬ fetti in tutta quanta la condotta. 4.— Ma se le leggi della condotta debbono de¬ terminarsi per deduzione necessaria, quali sono i dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ? I fatti di cui si occupa l’Etica non costituiscono un ordine nuovo che si distacchi da un ordine infe¬ riore o precedente, come, per es., le formazioni or¬ ganiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni sociali rispetto ai biologici : ma appartengono per un verso alla biologia (1) in quanto sono effetti in- UU 0 If-r'i (1) Lo Spencer li considera anche come appartenenti alla fisica, in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti e combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma di V-fT * — 20 — terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo più elevato degli animali; e per un altro alla psi¬ cologia in quanto sono coordinamenti di azioni su¬ scitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza ; finalmente in quanto queste azioni direttamente o indirettamente riguardano esseri associati, appar¬ tengono alla sociologia. La condotta è adunque ad un tempo una formazione biologica, una formazione psichica, e una formazione sociale: e perciò è nei risultati delle scienze corrispondenti che si devono cercare i principii fondamentali, i dati dell’Etica. E quindi i dati da cui si debbono dedurre le norme dell’Etica Assoluta sono forniti dalle condizioni che la biologia, la psicologia e la sociologia indicano rispettivamente come proprie di un adattamento completo. Ora, in conformità alle leggi di queste scienze, la condotta corrispondente a un adattamento com¬ pleto ossia la condotta ottima, è caratterizzata dalle condizioni che si possono riassumere nei se¬ guenti tre punti : I. Condizioni biologiche : Co rrispon denza per¬ fetta tra gli organi e facoltà umane e le attività necessarie alla vita completa. Il che importa che tutte le attività necessarie al massimo svolgimento equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬ zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere tra¬ lasciata. I — 21 — della vita per sò e per gli altri trovino il loro com¬ pimento nell’ esercizio spontaneo di facoltà debita¬ mente proporzionate e producenti quando entrano in azione il loro quantum di soddisfazione (cioè di piacere). II. Condizioni psicologiche: Corrispondenza per- fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui danno origine i sentimenti distinti come morali, siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi positivi e negativi proporzionati nella loro forza ai modi di operare richiesti. III. Condizioni sociologiche : Accordo perfetto t rp le attività dei consocia ti. Il che importa che tutte le attività conducenti alla vita completa di ciascuno non solo non impediscano direttamente nè indirettamente, ma favoriscano la vita completa di tutti. (Stato di pace permanente; cooperazione vo¬ lontaria; nessuna aggressione diretta o indiretta; scambio di servizi gratuiti (1). La condotta ottima è dunque quella che sod- (1) Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni sue¬ sposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate tre antinomie che sotto varie forme compaiono , si può dire , in tutta la storia della morale ; 1’ antinomia tra il piacere presente e il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene proprio e il bene degli altri, tra ciò che è richiesto dalla felicità individuale e ciò che è richiesto dalla felicità generale ; e 1’ anti- nojnia tra sentimenti egoistici e sentimenti altruistici, tra la ten¬ denza al piacere e la coscienza del dovere. _ 22 — disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e però compito dell’Etica Assoluta resta quello di dedurre da queste condizioni le norme a cui tutte le forme di attività umana, a qualunque fine siano volte, debbono conformarsi per essere totalmente buone. 5. — Per tal modo sono determinati i principi o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta: le condizioni della vita umana, individuale, paren¬ tale e sociale, proprie dello stato di adattamento perfetto; è determinato il metodo: la deduzione; ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta proposta valore di ottima: la massima felicità uni¬ versale. Ma restano d ue grandi difflcol tà : una incoc¬ renza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna da colmare. L’incoerenza è questa : Come si può sostenere che il fine della condotta buona è la fe¬ licità, se le norme di essa condotta devono essere dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato sociale, e devono valere indipendentemente da ogni estimazione diretta e individuale del piacere e del dolore ì 0 , in altri termini, come si risolve l’antitesi tra il fine assunto e il metodo proposto? La lacuna è la seguente : Le condizioni che si pongono come proprie della condotta ottima e che la deduzione morale deve prendere come dati , sono esse possibili, o non esprimono delle esigenze in tvT* • **it/«* •>*» Vfi 1 «*»* ■ T^ e — 23 — tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma quello stato finale di adattamento completo sotto tutti i rispetti, nel quale le condizioni contemplate sono raggiunte, in qual modo e per qual via può ottenersi ì (1). L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità; ma questa, a mano a mano che la vita si eleva, dipende da una serie sempre più lunga e compli¬ cata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬ giunta perché sia possibile il fine. Le norme mo¬ rali rappresentano la serie più generale e prelimi¬ nare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie più lontana dal fine, e quella che deve essere osservata prima di tutte le altre; la condizione delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività necessarie alla vita tendono a diventare una sor¬ gente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono relativi alla struttura e questa si modifica se¬ condo le attività) così le fo rme di attività morale, appunto perchè necessarie, debbono diventare una sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’os¬ servanza delle condizioni che conducono alla fe¬ licità diventa direttamente piacevole, ed è adem¬ piuta. senza che essa felicità (che rimane il fine (1) L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna considerare a parte , occupano i cap. IX-XtV della I.» Parte dei Principi di Etica. ultimo) sia lo scopo diretto e immediato della condotta ; ossia, (ed è un pensiero che fa ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge come una conseguenza, non direttamente voluta nò chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle atti¬ vità morali divenuto per sè immediatamente gra¬ devole. La soluzione della seconda difficoltà derivante dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione oggettiva , tra bene proprio e bene altrui, e nella conciliazione soggettiva, tra egoismo e altruismo, raggiunte per effetto e della solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei singoli e quelle del tutto, e dello sviluppo concomitante della simpatia. Colla soluzione di queste due difficoltà lo Spen¬ cer intende dunque che sia dimostrata la possibilità — dal punto di vista scientifico — e la legittimità dal punto di vista morale — della sua costruzione; e con questa dimostrazione il pensiero che informa la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee generali, compiuto (1). Ed ora , tracciato il disegno in cui si inquadra (1) La II. a Parte (Le induzioni dell’Etica), che nella traduzione francese porta il titolo di Morale de* differente peuples, dall’esame delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli rac¬ coglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema variabilità dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale di due tipi opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e coope- - 25 — la dottrina particolare che più direttamente ci in¬ teressa, diciamo alquanto piii distintamente di que¬ sta. Cap. II. — La dottrina delle due Etiche. I. S’è visto come nel pensiero dello Spencer la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta, la condotta che c orrispon de al limite dell’evolu¬ zione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lon¬ tane da quel limite so no, di molto o di poco, meno adatte, cioè meno buone; onde la distinzione di Etic A ssoluta ed Eftej> (1). Ora si presentano spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo Spencer, contro il modo comune di comprendere 1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Moral e A ssoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica (/ razione sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre quattro parti, Etica della Vita Individuale (IH. a ), ed Etica della Vita So¬ ciale : la Giustizia (IV.»), la Beneficenza Negativa (V. a ) e la Be¬ neficenza Positiva (VL S ) contengono le dednzioni o applicazioni particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al metodo ac¬ cennati, vogliono essere determinate le norme della vita privata e deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle condizioni contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’ Etica Relativ a. (1) Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer quasi inu¬ tile , che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a vere n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui non hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata quale si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di pia¬ ceri e di dolori. 2 — 26 — quello di stabilire le norme della condotta retta, della giustizia pura, e, senza curare gli impedi¬ menti e le imperfezioni che i difetti della natura umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale di pe rfezio ne al quale ciascuno deve cercare di av¬ vicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e vi- ziosa la distinzione ? 2.” Ammesso che dal punto di vista speciale dello Spencer questa distinzione sia legittima, non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬ mento imperfetto, ossia assai diverso da quello che essa suppone ? L’esposizione del pensiero dello Spencer intorno -alle foie Etiche ( 1 ) mi pare si possa acconciamente raccogliere in due parti, nelle quali trovi succes¬ sivamente risposta ciascuna delle due questioni. Co¬ minciamo dalla prima. 2. — Si crede comunemente che si possa deter¬ minare un tipo di condotta assolutamente giusta in condizioni reali di esistenza imperfetta, mentre questa determinazione non è possibile; e, se fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei mo¬ ralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono tacitamente accettati come veri; e pare infatti che senza di essi non sia possibile giudizio morale, per- (1) Op. cit. Ch. XV : Absolute and Relative Etkics. — 27 — che la distinzione stessa tra atti giusti e atti in¬ giusti sembra implicarli necessariamente. Sono que¬ sti: l.° Che in ogni caso vi sia un modo di operare / \ ^assolutamente giusto. 2.° Che sia possibile stabilire quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni dimostra che in casi assai numerosi non è possi¬ bile il giusto, ma soltanto un minimo ingiusto; e in casi pure numerosi non è nemmeno possibile determinare in che cosa questo minimo ingiusto consista. Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che è il correlativo di qualche specie di male, di qual¬ che divergenza da quell’adattamento perfetto che soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita completa. Se il concetto di condotta buona è, in ultima analisi (1), il concetto di una condotta che produce in qualche parte un avanzo di piacere; e di condotta cattiva, che produce un avanzo di do¬ lore; il bene o il giusto assoluto nella condotta può esser quello soltanto che produce p iacere pur o, pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la condotta che produce qualche conseguenza dolorosa ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che una condotta cosifatta può raggiungere ò il mi¬ nimo ingiusto, il giusto relativo. Ora le forme di adattamento incompleto pre- (1) Per questa analisi v. op. cit. Parte I.» Cap. IV. — 28 — WÙ («ino; >1 'è ntiJj 1 sentano, più o meno vasto e grave, un doppio di¬ fetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini di fini della vita, per la quale atti che producono uti¬ lità o piacere all’ individuo o alla prole portano danno e dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza anche nello stesso ordine tra fini immediati e me¬ diati, presenti e futuri ; per la quale 1’ azione ri¬ chiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di dolore nel presente, o la soddisfazione di un desi¬ derio immediato può impedir di raggiungere un bene lontano e mediato, o esser causa di un male futuro. Nella misura in cui queste due specie di incongruenze (le quali si incrociano e si complicano fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni devono produrre una certa somma di dolore sia sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore v ’è male ; e la condotta che apporta qualche male non può esser giusta assolutamente ». A chiarire questa distinzione lo Spencer cita degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di altre solo relativamente giuste. Una madre sana che allatta un bimbo sano, un padre che, dotato di eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del figlio e li guida, sono esempi della prima specie; nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo svi¬ luppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro in¬ sieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce di- — 29 — rettamente e indirettamente soltanto piacere senza dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo e con soddisfazione e utilità reciproca ; e gli atti di benevolenza di chi fornisce una notizia o un consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone un dissidio tra amici, possono essere classificati come giusti assolutamente per la medesima ragione. Degli esempi addotti dallo Spencer di azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono tipici anche per il contrasto che offrono col modo di giudicare comune: La cura di molti figli cagiona a una madre assai dolori, ma le sofferenze imme¬ diate e le lontane che l’incuria apporterebbe supe¬ rerebbero di gran lunga quei dolori. La condotta giudicata buona in questo caso è quella che pro¬ duce minor male ; ma non è ottima. È la meno in¬ giusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’ allonta¬ namento dei clienti da un negoziante che esiga prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi la misura, fa diminuire il suo benessere e forse apporta danni e dolori ad altre persone a lui con¬ giunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un male assai più grave e generale. L’abbandono è perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente giusto. 3 — Riconosciuta così la verità che una gran parte della condotta umana non è giusta assoluta- — Bu¬ rnente, si deve riconoscere 1’ altra verità che in molti casi non é possibile stabilire quale sia il mi¬ nimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si considerano gli effetti che quella stessa discordanza, già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre. V’ è un limite fino al quale é relativamente giusto che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso pel vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli ap¬ porti non soltanto a sò ma a tutta la famiglia danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende ad impedire. Chi può dire quale sia questo limite? Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni delle persone in causa, non è neppure in due casi il medesimo, e non può essere per ciascun caso più che una congettura. Un commerciante che sia tra¬ volto nel fallimento d’un suo debitore e posto nella necessità di fallire egli stesso se non è aiutato, deve o no domandai^un prestito a un amico? Il prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi credi¬ tori non chiederlo ? Ma fors’anco non lo salverebbe, e allora non è una frode procurarselo? Benché in casi estremi possa esser facile decidere, come sa¬ rebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il più intelligente e competente non può calcolare le probabilità ? 4 — Questo doppio errore del confondere il r — 31 — giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce dall’ errore che si commette nel concepire il tipo della condotta, la condotta dell’ uomo ideale. Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca nelle condizioni sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non quali sa¬ rebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni pre¬ senti. E questa ricerca ò vana per due ragioni : La coesistenza di un uomo perfetto e di una società imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesi¬ stere, la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe il tipo morale cercato. « In primo luogo, date le leggi della vita come esse sono, un uomo di natura ideale non può es¬ sere prodotto in una società composta di uomini- che hanno una natura lontana dall’ ideale. Aspet¬ tarsi che tra uomini organicamente immorali ne- sorga uno organicamente morale è come aspettarsi di veder nascere tra i Negri un bambino di tipa inglese. Se non si vuol negare che il carattere di¬ penda dalla struttura ereditata, si deve ammettere che in ogni società ciascun individuo discende da uno stipite, che risalendo a poche generazioni si ramifica per ogni parte nella società e partecipa della natura media di questa ; e che quindi, nono¬ stante spiccate differenze individuali, deve conser- — 32 — varsi una comunanza di natura tale da impedire che un uomo, qualunque sia, raggiunga un tipo ideale, finché il resto della società rimane di gran lunga inferiore. « In secondo luogo, la condotta ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è possibile per P uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti diversamente. Una persona assolutamente giusta c perfettamente simpatica non potrebbe vivere e operare in conformità alla natura sua in una tribù di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto privo di scrupoli, una intiera veridicità e franchezza deb¬ bono apportare rovina. Se tutti intorno a lui rico¬ nóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui natura non gli permetta di inlliggere dolore agli altri deve soccombere. Fra la condotta di ciascun membro della società e la condotta degli altri vi deve essere per necessità una certa congruenza. Un modo di operare interamente diverso dai modi di operare prevalenti non può continuare con buon esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o della sua discendenza, o di ambedue » (1). Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di tipo, egli deve essere concepito non a sé, senza re¬ lazione colle condizioni che sono necessarie perchè la condotta possa essere giusta, ma in corrispon- (1) Ib. § 106 p. 279-80 dell’ed. cit. — 33 — denza con queste ; V uomo ideale deve essere con¬ siderato come esistente in una società ideale. Perciò, secondo l’idea dello Spencer, il voler, per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo ideale quando fosse posto nel bivio o di farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di men¬ tire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfet¬ tamente vano ; perchè le condizioni cosi supposte contraddicono a quelle richieste dalla definizione dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere collisione tra i modi di sentire e di operare richiesti dal bene proprio e della discendenza, e chiesti dal bene pubblico. Viene in mente, e lo ricordo perchè può servire di commento al pensiero delloCéàencer, ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko ^ dei Promessi Sposi, nel quale il padre Cristoforo è invitato a far da giudice in una questione di cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i com¬ mensali di Don Rodrigo su questo punto: se fosse lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli consegna un cartello di sfida senza avergliene chie¬ sto licenza ; e il padre Cristoforo, chiamato in causa, dopo essersi invano schermito, esce finalmente in quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor di proposito, tutti quei dialettici della cavai- S — 34 — leria : « 11 mio debole parere sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate ». Ecco riconosciuta nel caso particolare l’esigenza fondamentale dell’Etica Assoluta dello Spencer: Non vi può essere condotta giusta finché vi sono condizioni contrarie alla giustizia. Ma la realtà presente e viva è appunto così. « Oh ! questa è grossa », risponde infatti il conte At¬ tilio. « Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede che lei non conosce il mondo ». E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a fare, 1* ufficio dell’ Etica non sarà quello di stabi¬ lire quale deve essere la condotta nel mondo reale presente, non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno, non ò inutile, anche ammessa la distin¬ zione Spenceriana, correr dietro al fantasma di una condotta ottima, adatta a uno stato di perfe¬ zione, che l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste ? 5 — A questa seconda domanda risponde la di¬ mostrazione della precedenza necessaria — nell’or¬ dine della trattazione scientifica — dell’Etica As¬ soluta sull’ Etica Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità scien¬ tifiche si sono raggiunte trascurando prima i fat¬ tori di perturbazione, che alterano ed oscurano l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto soltanto di questi. — 35 — Quando la estimazione di questi fattori fonda¬ mentali, non, come si presentano nella realtà, ma¬ scherati e complicati di elementi secondari, ma quali si suppongono idealmente con un processo di astrazione, ha aperto la via a conoscere e formu¬ lare le leggi generali, allora diventa possibile la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fat¬ tori accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi ge¬ nerali, le verità fondamentali, solo per questa via si possono ricercare e scoprire, e solo con questo procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬ pirica alla sua forma razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere -ifjicfip»tv* della leva s i suppone N una leva che non si pieghi , iàz<Jbz ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si suppone che la potenza e la resistenza si esercitino su un punto, invéce che su una parte più o meno estesa della leva. Del pari la determinazione del corso di un proiettile si ottiene trascurando dap¬ prima tutte le deviazioni prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo negli altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa possibile tener conto degli elementi dai quali si è fatta astrazione, delle complicazioni risultanti dal¬ l’attrito, dalla plasticità, dalla coesione, dalla resi¬ stenza dell’aria : e ottenere così una determinazione ' Jt- ^ "(VOM, P-O — 36 — sempre più esattamente approssimata al l'atto reale. Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute della meccanica e certe verità relative che impli¬ cano le prime, come è manifesto che non si possono stabilire scientificamente le verità relative finché non sieno formulate indipendentemente da queste le verità assolute. Il che equivale a dire che la ! scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le medesime considerazioni valgono per la scienza morale. È impossibile determinare con ap¬ prossimazione scientifica quale sia, date certe cir¬ costanze reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si conosce quale sarebbe il modo di operare giusto ; e questo non si può conoscere se non si suppongono eliminate tutte le circostanze che lo impediscono o lo limitano e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè, in breve, se non si suppongono, scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali, nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto. A chiarir meglio questa relazione tra Etica As¬ soluta ed Etica Relativa lo Spencer ricorre a un altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Pa¬ tologia. La Fisiologia, nello studio degli organi e delle funzioni che combinate costituiscono e con¬ servano la vita, suppone l’organismo sano e le funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli — 37 — eccessi, delle anomalie di cui si occupa la Pato¬ logia : e questa poi presuppone quella, perchè le idee anche più rozze intorno alle malattie suppon¬ gono idee di stati sani di cui le malattie sono de¬ viazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi anormali e morbosi può diventare scientifica sol¬ tanto quando vi sia già una conoscenza scientifica di stati e processi non morbosi. Si milmeste l a Morale Assolut a deve precedere laJSl orak ^llclativa ; la quale non deve applicare sic et simpliciter alle condizioni particolari della vita reale le conclusioni dell’ Etica Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta, deve determinare di quanto essa si allontana dal giusto e come si possa ottenere, date queste condi¬ zioni reali imperfette, la massima approssimazione al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta. 6 — Questi confronti coi quali lo Spencer in¬ tendeva illustrare il suo concetto intorno alla re¬ lazione fra le due Etiche e alla priorità logica del- 1’ Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe che abbiano servito ad abbuiarlo ; e però non è fuor di luogo qualche breve chiarimento. Dall’esposizione che precede deve essere apparso, spero, che è per una esigenza inerente alla natura della ricerca scientifica che lo Spencer sostiene la. V | necessità che l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì — 38 — e appunto por chiarire questa precedenza neces¬ saria egli cita l’esempio della precedenza analoga della Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto alla Fisiologia Fatologica. Nel pensiero dello Spencer la priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione a un campo particolare di ricerche di un suo cri- <--- 7 terio metodico generale; del quale egli trova la conferma in tutte le scienze, che hanno superato 10 stadio empirico. Il paragone non è dunque, pro¬ priamente, tra la sua Etica Assoluta e la Meccanica Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisio¬ logia Patologica; non è, voglio dire, di quelle scienze pure tra di loro, o di queste scienze appli¬ cate tra di loro ; ma è paragone tra le loro rela¬ zioni. E il significato del confronto è questo : che tra le due Etiche, come le concepisce lo Spencer, corre una relazione analoga a quella che intercede rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo così) e tra le due Fisiologie. E in questo senso che il paragone deve essere inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò, quando la critica obietta che l’Etica ha caratteri ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla Fisio¬ logia, può essere che abbia ragione, ma interpreta 11 confronto in un senso diverso da quello voluto dallo Spencer. Perchè il concetto, per il quale il — 39 — paragone è assunto è, nella sua espressione più semplice, questo: che anche per l’Etica la solu¬ zione scientifica o scientificamente approssimata dei problemi più complessi richiede la soluzione dei problemi più semplici. Il paragone non deve dunque essere staccato da questo concetto e preso con una significazione diversa; altrimenti si frain¬ tende e paragone e concetto ; e rimane oscurato uno dei punti più importanti della dottrina par¬ ticolare ora esposta. La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso i fautori di una morale scientifica, nè presso gli av versa ri. Questi, preoccupati forse in generale dal pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una fi gliazione de l concetto meccanistico, e f’hanno com¬ battuta in nome delle esigenze della Morale; quelli hanno notato nella affermata necessità di costruire un’Etica Assoluta, una contraddizione colla teoria dell’evoluzione, e col principio della relatività della morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome delle esigenze della scienza. Gli uni e gli altri hanno considerato la dottrina particolare unicamente in relazione colla dottrina generale colla quale si pre¬ sentava connessa, senza badare alle ragioni che la possono legittimare all’infuori del sistema e della forma speciale di applicazione che in esso ha trovato. Parte IJ. CRITICA PRELIMINARE: LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI E IL PRECONCETTO DAL QUALE HANNO ORIGINE. Cap. III. — La pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina esposta traccia il piano che lo Spen¬ cer si è proposto di seguire per soddisfare al compito da lui assegnato all’Etica: quello di determinare, scientificamente le norme della condotta morale.] Ma già intorno a questo modo di intendere l’uf¬ ficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni; le quali devono essere, almeno nel loro contenuto sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce la legittimità del suo concetto sull’ufficio dell’Etica è vano discutere della possibilità e legittimità del piano proposto per attuarlo. L’esame critico si distingue perciò naturalmente in due parti; delle quali la prima potrebbe dirsi critica preliminare. » * « 1 — L’Elica può, o non può, essere scienza nor¬ mativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che, a giudizio di un profano, (solamente dei profani ?) po¬ trebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi e dei frutti della speculazione morale. — 41 — L’opinione se non universalmente, certo gene¬ ralmente. dominante è che non possa. L’opinione dominante par che si chiuda in questa alternativa: l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò nor¬ mativa, e non è più scienza. La ragione dell’anti¬ tesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza e le esigenze della morale, è nota. Dicono i puri moralisti: — Una morale che non dia alla norma carattere di obbligatorietà non può essere vera mo¬ rale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza uscire dal campo della scienza. Nel latto, una con¬ dotta che si ponga scientificamente come morale, è obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipotetica- , mente, non categoricamente. E se non c’è i m perat ivo categorico, non c’è m orale. — E i puri scienziati rincalzano: — La scienza è scienza delle cose e dei latti come_sonq_e non come dovrebbero essere. Si può cercare quali sono i caratteri e i fattori, la formazione e le trasformazioni dei modi di operare, dei sentimenti delle credenze distinti come morali; si potrà anche, tracciati i lineamenti generali del processo di formazione, argomentare induttivamente una possibile evoluzione ulteriore con qualche pro¬ babilità; ma la scienza non sa di bene e di male; cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le riesce, quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipen¬ dono da certe condizioni, ci fa capire che se vo- 3 — 42 — gliamo gli effetti dobbiamo volere quelle condizioni, ma non può obbligare nè à volerle nè a disvolerle. Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere che la scienza non possa dare un imperativo ca¬ tegorico, par che ammettano esplicitamente o im¬ plicitamente che la morale debba o possa essere una dottrina che determina la norma obbligatoria, ossia una teoria da cui si ricava il dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa, hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto di credere che compito dell’Etica possa essere quello di dimostrare l’obbligatorietà, e di supporre che una dottrina religiosa o metafisica possa fondare quel che riconoscono non poter essere fondato da una dottrina puramente scientifica; possa fondare il « tu devi » (1). 2 — 11 « tu devi » è un giudizio di constata¬ zione e non può essere altro. Dicendo « tu devi » io non posso intendere che l’una o l’altra di queste due cose: o « tu senti dentro di te qualchecosa che (1) Ho già mostrato altrove, in un capitolo rivolto direttamente a questo esame (Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafì¬ sica Cap. I. Pavia, Bizzoni 1901) come e perchè sia perfettamente va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica l sojjmtificn n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma obbligatoria , se l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta o supposta; e come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di credere che non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza ; e , del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il mede¬ simo, è fatta da un punto di vista diverso. — 43 — ti spinge, senti di essere obbligato a non fare o a fare »; oppure quest’altra: « c’è una volontà cbe ha il potere di obbligarti ». Nel primo caso si fa appello alla coscienza ; a uno stato o a un fatto di coscienza che esiste o si suppone che esista ; nel secondo caso si fa appello a un potere, che pari- menti o esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno e nell’ altro caso nessuno sforzo dialettico può ri¬ cavare l’obbligo dalla natura della cosa comandata o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza, nè questo potere. Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un senso improprio. « Tu devi » può voler dire: « È giusto che tu faccia; è giusto che ti senta obbli¬ gato a fare, o che ci sia chi ti obbliga ». Ma se vuol dir questo, l’espressione è equivoca. Che sia giusto il fare e che sia giusto T obbligo di fare (quando questo fare sia già sentito come un ob¬ bligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del comando: e non basta a porre l’obbligo, lo giusti- fica dato die ci sia, e potrà far desiderare che esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza o il potere o l’impulso (con qualunque nome si chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due cose .sono diverse e non confondibili tra di loro, che non si può ridurre 1’una all’altra senza togliere 44 — L* <MìWM una delle due. Non si può derivare l’obbligo dalle ragioni che giustificano la norma, senza ricono¬ scere che l’obbligo vale solamente in quanto val¬ gono queste ragioni; fcioè senza assegnargli un va¬ lore ipotetico, non più categorico. Nè si può rica¬ vare la giustificazione della norma dall’obbligo ca¬ tegorico, senza riconoscere che la norma vale so lo i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare qual¬ sivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il con¬ tenuto della norma non avrebbe nessun valore se P obbligo mancasse. 3 — Gli è che quando si dice essere il dovere condizione necessaria della morale, si scambia la morale colla 'moralità, la norma colla conformità alla norma. Ma l’obbligo riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della norma. Ora, che del¬ l’osservanza della norma sia condizione necessaria e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non potrà ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso; che sia essenziale alla determinazione della norma, non è neppure discutibile, perchè non ha senso. Sarebbe come dire che è essenziale alla costruzione della scienza medica l’obbligo di prendere le me¬ dicine. È verissimo che sarebbero perfettamente inutili le prescrizioni mediche se non si supponesse che vengano osservate ; ma è non meno vero che l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non mu¬ terebbe in nulla il contenuto e il valore delle pre- scrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la scienza del medico. E le condizioni da cui dipende l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le scienze precettive si fa consistere nel cercare e de¬ terminare le relazioni tra certi mezzi e un certo fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai- fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi la reale esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ ob¬ bligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissi¬ mamente in una scienza precettiva, che, a rigore, costituisce un capitolo dell’ Etica ; nella quale la questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ ob¬ bligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente distinta dalla questione della ricerca e della deter¬ minazione delle norme; forse appunto perchè fu considerata e trattata indipendentemente dalla mo¬ rale; voglio dire nell’igiene. Dove a nessuno viene in mente di pretendere' che sia una condizione della legittimità o del valore delle norme dettate da lei, questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e un d over e. E se accade, come può accadere in ef¬ fetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi pre¬ cetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere che questo precetto è ordinato a un fine, al quale si dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso ap¬ paia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a • — 46 — questo : a dare un valore ipotetico all’ obbligo ca¬ tegorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osser¬ vare il precetto, anche se non ci fosse V obbligo. Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la mo¬ rale. Altro è cercare quali siano le norme da os¬ servare per raggiungere un certo ordine di effetti (quello che la morale ponga come fine) e altro è cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare queste norme possa essere sentito e posto come un dovere. E l’importanza che questo secondo pro¬ blema può avere non toglie che esso sia diverso e debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo categorico non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si assume, e non si dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè se si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica deve dare non V obbligo, ma la giustificazione del- l’obbligo, questa giustificazione non può consistere che nel mostrare come la norma abbia valore an¬ che indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sa¬ rebbe bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa anche se il conformarsi non fosse sentito come un dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il va¬ lore di una norma vuol dire mostrar la deriva¬ zione di una norma da un fine a cui sia ricono¬ sciuto quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a — 47 — dire derivare la norma da un fine, il cui valore si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’ ob¬ bligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea la considerazione dell’obbligo e delle condizioni che lo rendono possibile. A — La caratteristi ca di una dottrina etica no n sta dunque nell’ obb ligatorietà, ma sta nel valore d el fine che si assume (1). Ed eccoci alla vera ed j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza pre¬ cettiva si riduce a un sistema di relazioni e di leggi che hanno valore di norme da seguire per chi si propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni $ ed i fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà valore di fine a quell’effetto; ma non pretende nè che questa desiderabilità sia riconosciuta univer¬ salmente, nè che essa sia, pure universalmente, ri- conosciuta come superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma questo appunto (1) Sono lieto di notare che in un articolo dal titolo Ethic.s, a xcience pubblicato nella Philo.sophical Review (Novembre 1903, Vo¬ lume XII, G) il prof. E. B. McGilvary insiste sul concetto, clip è conforme a quel che ho sostenuto e sostengo , che 1’ Etica , come scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non si capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto di quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earat- teristica dell’Etica. — 48 — pretende l’Etica. Onde il compito dell’Etica si spe¬ cifica in due punti, di cui il primo segna la sua caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’ef¬ fetto o l’ordine di effetti che possa avere un tal valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa la universale desiderabilità sopra ogni altro, 2." de¬ terminare le condizioni e i fattori da cui quell’ ef¬ fetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione umana individuale e collettiva, determinare la con¬ dotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente. Se il fine di cui può essera assunta questa uni¬ versale e preminente desiderabilità è umanamente possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il raggiungimento senza assumere o postulare nessun intervento sopranaturale e sopraumano, la costru¬ zione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o metafisica. E quindi il problema della possibilità di un’Etica scientifica assume questa forma: se si possa assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente possibile, al quale sia riconosciuto un valore supe¬ riore a ogni altro fine. La determinazione delle norme morali sarebbe data dalle relazioni trovate o da trovarsi tra quel fine e la condotta indivi¬ duale e collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una seconda questione pregiudiziale. Gap. IV. — La pregiudiziale sul modo di intendere il compito normativo dell’ Etica. 5. — Non è improbabile che qualche lettore trovi que sto modo di porre il problema intorno al co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà. Sento dirmi: «Nella realtà il compito dell’Etica è concepito e proseguito in modo assai diversp anzi opposto. Le n prme della condotta morale sono già d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla deter¬ minazione concreta dei precetti particolari, di quelli che si chiamano « d over i » e che si raccolgono nella parte comunemente chiamata Morale Speciale, non cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i filosofi della morale ne sdegnano quasi la tratta¬ zione o ne danno soltanto le linee generali. Nella realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo di cercare e determinare le norme ricavandole da un certo fine; ma di costruire la sistemazione teo¬ rica di un codice di condotta già dato, raccogliendo e unificando le norme particolari in una norma ge¬ nerale, della quale si cerca quale possa essere la giustificazione; anche se la costruzione induttiva¬ mente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica di una costruzione deduttiva. Quindi è antiscienti¬ fico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel campo di una possibilità, ipotetica, un fine — po¬ niamo pure che sia possibile trovarlo — il quale — 50 — risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne delle norme. Le quali, o si accorderanno con quelle riconosciute in effetto e vigenti come morali, o discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che la pretesa derivazione deduttiva delle norme da quel fine nasconde una reale derivazione induttiva del fine dalle norme; se discordano, questa discor¬ danza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di norme elle contrastano con quelle riconosciute e accettate, e a far respingere come non morali o utopistiche le norme e il fine dal quale sono rica¬ vate ». 6. — Io non ho difficoltà a riconoscere che i due indirizzi prevalenti nella speculazione morale con- temporanea— l’indirizzo sociol ogico-storico. e l’in- dirizzo idealistico-prammatistico — si accordano fon¬ damentalmente nel respingere le costruzioni etiche razionali o pure, e nell’assumere come punto di par¬ tenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali l’uno considera principalmente l’aspetto esterno, sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma noto subito che la novità nel punto di partenza e nel processo di costruzione, è soltanto apparente; o, per essere più esatto, la novità consiste (1) nel- (1) Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno quanto al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento regres¬ sivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, il Kant avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare. — 51 — l’assumere la legittimità di un procedimento, che inconsapevolmente domina in generale la specula¬ zione etica, e che si scorge più evidente in quei sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei diversi tempi e luoghi più largo consenso; (consenso non verbale, si intende, ma reale). In altri termini non si fa che seguire in modo consapevole e riflesso quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha obbedito in generale la speculazione morale, almeno nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi tempi come ortodossa, o retta, o sana che si voglia dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo di operare, di sentire e di giudicare già tenuto come buono. Ora il rendersi conto che la costruzione etica — sotto l’apparenza logica di una deduzione progressiva di certi precetti particolari da una nor¬ ma generale e di questa da un fine posto come supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai precetti particolari alla norma' generale e da questa ai principi che la giustificano), segna certamente un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza del processo reale storico e psicologico di formazione dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia stato il processo realmente seguito, altro ò affermare la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortis¬ simo argomento di probabilità, se avesse fatto buona prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piut¬ tosto di pensare il contrario; di pensare, che la 52 — speculazione morale sia viziata nelle origini appunto dal preconcetto che la domina e dal procedimento che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo pre¬ concetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico, come di quella a cui fa capo l’indirizzo pramma- tistico. 7. — In primo luogo importa notare che am¬ bedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune il presupposto che compito dell’Etica sia quello di unificare le norme già date, risalendo da esse ai principi o ai postulati, sembrano ammettere questi due punti: 1°. Che le norme morali siano già tutte conosciute e determinate, o che dalle norme cono¬ sciute si ricavi il criterio per quelle non determi¬ nate. 2°. Che le norme date siano fra di loro con¬ cordanti o compatibili, o almeno non in contraddi¬ zione l’una coll’altra. Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si avvera nel fatto. E prima di tutto non è esatto che le norme della condotta siano già date e conosciute. Anche se lo Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più in¬ nanzi, di assumere a criterio del giusto l’adatta¬ mento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel sostenere che in un gran numero di casi la coscienza non ci dice quale sia il modo di operare giusto o approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre ai — 53 — casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare quale sia la migliore applicazione del criterio, sap¬ piamo però quale sia il criterio da usare) vi sono sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali non ci dice, come per altre, «non è giusto» o «è giusto». Difenderò io il divorzio o lo combatterò? Approverò o non approverò l’allargamento del suf¬ fragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monar¬ chico o repubblicano, individualista o socialista, liberista o protezionista? In quali circostanze ed entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo? Non serve rispondere che ciascuno deve operare in queste materie secondo la propria coscienza. Si tratta di sapere come una coscienza onesta deve operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E abbandonando questo giudizio alla coscienza indi¬ viduale si riconosce o che possono coesistere criteri morali diversi, o che lo stesso criterio morale può legittimare ugualmente modi di operare opposti, o finalmente che quelle parti della condotta escono dal campo della morale. Ma se possono legittimamente coesistere per certe parti della condotta criteri morali opposti, quale sarà il criterio superiore che serve a decidere fra questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non — 54 si ammette che possano del pari legittimamente coesistere criteri contrastanti anche per le altre parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale può legittimare due modi di operare opposti, ciò non può essere che per mancanza di determinazione delle circostanze; e prova in ogni modo che le norme particolari della condotta morale non sono tutte de¬ terminate e conosciute. E se finalmente quelle parti della condotta escono dal campo della morale, quale norma suprema è mai quella che non ha nulla da dire intorno a una parte così grande dell’operare, come è, per esempio, tutta la condotta politica del¬ l’individuo e della società? Si dirà che per questa parte, per la quale le norme non sono date, il cri¬ terio si ricava de quelle già date e accettate come morali? Urtiamo in una seconda difficoltà. 8. — Per ricavare dalle norme già date il cri¬ terio cercato, per unificarle cioè in una norma più generale, occorre che le norme date concordino fra di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di insistere, perchè è cosa troppo nota, sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di condotta che valgono come morali rispettivamente nelle condi¬ zioni di pace e di guerra, o sui contrasti, tragici talvolta, tra i «doveri» famigliari e i «doveri» sociali, bisogna osservare che le norme date e accet¬ tate come morali possono contemplare e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi, secondarie, le quali esistono e sono possibili in gra¬ zia di relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che sono la negazione del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice. Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a cercare quale sia la posizione migliore per il por¬ tante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale concilia la minima fatica del primo col minimo disa¬ gio del secondo. I l criterio seguito qu i è un criterio d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto, o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere tutte le comodità per sè senza tenere in conto le comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito nello stabilire la condotta migliore, data, quella con¬ dizione diversa dei due) fosse applicato a determi¬ nare la relazione tra i due ,prima che siano divenuti rispettivamente portatore e portato, questa condi¬ zione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia la norma morale regola nel caso sup¬ posto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse applicata al sorgere di quel rapporto. E può avve¬ rarsi, così, delle norme morali qualchecosa di ana¬ logo a quel che racconta di sé Senofonte, che all’o¬ racolo chiedeva quale via dovesse tenere per giun¬ gere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal chiedere prima se era bene o male che andasse. — 56 — Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e osservare che è colla realtà data che bisogna fare i conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi alla meno peggio. — Vedremo ora come questa po¬ sizione di puro adattamento passivo sia, per forza stessa della realtà, che diviene e muta, insosteni¬ bile: ma ò opportuno notar subito che quando si renda palese un contrasto del genere notato, colla consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che nasca nella coscienza morale l’aspirazione a una realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modifi¬ care la realtà se essa appare mutabile, o a cercare la ragione della giustizia fuori della realtà. Queste lacune e queste incongruenze delle norme in effetto vigenti come morali in un dato tempo e luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale sia la condotta migliore in un determinato momento storico, non è una semplice constatazione da fare, ma è un problema da risolvere ; e un problema assai più difficile e complicato di quel che possa apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in ogni caso è necessario assumere un criterio il quale valga come guida a colmare le lacune, e a risol¬ vere o giustificare le incoerenze. Ma un criterio, comunque assunto, a cui si attribuisca questo uf¬ ficio e questo valore, è un criterio alla stregua del quale devono essere valutate anche le norme par- titolari già riconosciute come certe, poiché deve valere per tutta la condotta. E ciò viene a dire che il processo di determinazione di tutte lo norme si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso modo che se le norme si dovessero tutte determinare ex novo, astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto già accettate e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che avviene in tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scien¬ tificamente stabiliti si trovano a coincidere coi pre¬ cetti empiricamente seguiti, la determinazione scien¬ tifica procede come se spettasse ad essa di deter¬ minarli e giustificarli). E allora il problema torna ad essere quello del criterio che deve essere as¬ sunto. 9. — Ora il criterio che l’indirizzo sociologico suggerisce è, come è noto, — e conforme al con¬ cetto , che esso pone in evidenza, della relatività della morale e del diritto — la corrispondenza alle esigenze sociali del momento storico che si consi¬ dera. Il codice morale di un dato tempo e luogo delinca la forma di condotta richiesta dalle condi¬ zioni dell’ esistenza sociale in quel tempo e luogo, e trova in esso la sua giustificazione. A nessuno può venire in mente di negare la reale ed effettiva dipendenza delle norme morali dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esi¬ genze possono spiegare come si sia formato stori- — òs¬ camente e psicologicamente il codice di condotta correlativo finché sono inconsapevolmente identi¬ ficate colle esigenze della coscienza morale, esse non bastano più, neppure a determinare quale sia la condotta adatta in un certo momento storico, una volta che siano assunte come criterio riflesso e consapevolmente seguito; non bastano, tranne che in un caso: nel caso che le condizioni di esi¬ stenza, da cui quelle esigenze emergono, siano con¬ siderate come immutabili o come assolutamente sottratte ad ogni azione od efficacia che possa esercitare su di esse la condotta umana , indivi¬ duale e collettiva. Perchè quando intervenga la con¬ sapevolezza di una possibile efficacia modificatrice della condotta umana sulle condizioni sociali e sulle esigenze che ne nascono, allora entra di necessità nella valutazione della condotta la considerazione di questa efficacia; la quale, richiede il confronto tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno stato reale e uno stato possibile. E la ragione della scelta tra i due non può essere data dalla realtà dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità dei due stati messi a confronto; e quindi non sol¬ tanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da quelle dello stato possibile o creduto tale. Per con¬ seguenza, condotta buona apparirà non quella sem¬ plicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto, ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni — 59 — reali, tenda a modificarla nella direzione segnata dallo stato più desiderabile (1). Soltanto in un caso, puramente teorico, la condotta tracciata in confor¬ mità con questo criterio, coinciderebbe colla pura e semplice corrispondenza alla realtà delle condi¬ zioni fiate; nel caso che lo stato reale presente ap¬ parisse universalmente e sotto ogni rispetto più de¬ siderabile di ogni altro. Ma anche in questo caso la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla realtà. Insomma, altro è comprendere che una forma di condotta è conforme a certe condizioni, altro è (1) Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico, che la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa neces¬ saria dalle condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti e anche non di rado generosi fautori e propugnatori di riforme e di innovazioni anche radicalissime nelle condizioni e nella strut¬ tura stessa della società. Sento 1’ obbiezione : « Gli è che noi pre¬ vediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella direzione, e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno doloroso il parto del futuro dai fianchi del presente ». Lasciamo, per restare nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro voler affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo, questo futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente ? E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non appre¬ stare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste con¬ dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’ opera vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiet¬ tiva ed esteriore necessità. — Cosi la condotta corregge la dottrina. « Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati ». — 60 — aver coscienza della bontà di quella condotta ; la quale non può nascere che dalla coscienza della bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede che sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe con¬ dizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica. 10 — Di questa esigenza di una giustificazione, alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo ri¬ flesso della comparazione e della critica, nessuna costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa invece il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente successo si deve, come credo, in gran parte, alla insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico nel campo della morale. Esso è in sostanza, come è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle esigenze pratiche; la affermazione del diritto di cie- dere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si pongano come necessarie a dare un fondamento og¬ gettivo al valore delle norme e dei motivi morali. In questa reazione a difesa della fede il nuovo idea¬ lismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze e dalla debolezza degli avversari, è passato, come ac¬ cade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo af¬ ferma la legittimità del proprio indirizzo nel campo della morale e della religione, o, come si dice, nel campo dei valori pratici; ma anche nel campo della scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne accorga o si dia l’aria di non accorgersene, non ab¬ bia altra ragione per giustificare i principi e i po¬ stulati che assume a fondamento delle sue inter¬ pretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se non una ragione di convenienza ; il valore che quei principi hanno come mezzi per la sistemazione del sapere, cioè in ultimo per la soddisfazione di un bisogno speculativo. Qui non è il luogo di discutere ciò che nella dottrina ci può essere di vero — più come intui¬ zione di un aspetto trascurato della realtà psicolo¬ gica, che come legittimazione di un metodo — per quel che riguarda la ricerca scientifica (1); la con- (1) Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione che legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo in¬ voca a legittimare i principi pratici. L’ equivoco è questo : E ve¬ rissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e in quanto possono servire. Ma servire a che ? A unificare e siste¬ mare le cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come nono n on come desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità che piace a noi di ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non sia conforme ai nostri desideri e ai nostri capricci. Perchè il bisogno teoretico o scientifico è appunto il bi sogno di .salier e le cose che s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come le desideriamo. E qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione « come sono » esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’ espres¬ sione « come desideriamo che sieno ». Perciò non è il caso di ripe¬ tere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì soste- sidero nel campo della morale, c soltanto rispetto- ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto la soluzione che essa dà del problema della giusti¬ ficazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle altre soluzioni di carattere metafisico, se non per il fondamento. A proposito del quale, siccome, se anche se ne ammetta la validità, questa non toglie il difetto che nasce dal 'carattere metafisico della soluzione, mi accontento di osservare, per quelli che credono di sfuggire per questa via all’utilita¬ rismo, che essa conduce a una forma, mistica se si vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi alla forma estrema e più radicale : la valutazione delle stesse credenze metafisiche e religiose dal punto di vista di un interesse umano ; sia pure questo interesse il massimo, il termine di confronto di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la credenza come un sostegno della moralità, ossia in ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non nere che questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ; ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi. E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per ca¬ varci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guar¬ dano dentro. Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬ stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profon¬ dità e con chiarezza, c ome suole, il Varisco (V.* in particolare : Introduzione alla Filosofia Naturale, e Studi di Filosofia Naturale, Cap. I). è escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel mentre ehe si pone il valore della credenza, si venga a togliere valore all’ oggetto della credenza. 11 — Venendo ora al nostro argomento, è certo che l a soluzione del prammatism o, come in genere le altre soluzioni di carattere metafisico, soddisfa a quella esigenza della giustificazione etica, alla quale non soddisfa il relativismo storico. Ma an¬ eli’essa presenta — dico all’infuori da ogni con¬ tesa sulla legittimità del fondamento e sulla vali¬ dità teoretica dei principi e dei postulati ammessi — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche. Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi po¬ stulato, non può servire a determinare le norme. Non può servire, per la ragione perentoria che la relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬ pra della vita umana naturale e finita, e una con¬ dotta, qualunque essa sia, che si deve dispiegare nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti de¬ terminabili sono contenuti nei limiti della vita finita individuale e sociale, una relazione di questo genere, dico, non può essere in nessun modo dimo¬ strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costru¬ zione metafisica può essere assunta a giustificare norme concrete di condotta non soltanto diverse, ma opposte, senza che si possa ricavare da essa nessuna ragione per la quale tra due forme di — 64 — condotta diverse, una possa o debba giudicarsi pre¬ feribile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due con¬ dotte rispettivamente producono o tendono a pro¬ durre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta cor¬ relativa un valore che sussiste indipendentemente dal fine sopranaturale, e diventa il fine naturale della condotta medesima. Con questa differenza tra i due fini: che mentre dato il primo, non si può (se non facendo appello a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a una pura affermazione) ricavare da esso quale sia la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine naturale, le norme si ricavano appunto dalle con¬ dizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione naturale tra la condotta e gli effetti della condotta. Ossia un fine sopranaturale non può fornire esso il criterio per determinare la condotta, se non a patto che — implicitamente o esplicitamente — si assuma, come subordinato ad esso e da esso richie¬ sto un fine, o un ordine di fini, naturale, in rela¬ zione al quale in realtà le norme sono stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario l’osservare che il criterio desunto dagli effetti che l’azione tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la interna, nella quale sopratutto consiste il valore morale. In primo luogo anche se per le due con¬ dotte, esterna e interna, valessero criteri diversi, — 65 — bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò anche la condotta esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario ammettere un criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché siano, in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni i sentimenti che hanno valore e danno valore alle cose e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a valutazione comparativa di tendenze o sentimenti diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti, come le aspirazioni, si distinguono per il loro con¬ tenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui si riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre intenzioni di qualche cosa. E finalmente, una forma di perfezione interiore che si consideri come fine, a cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non può essa stessa fornire il criterio per determinare quale sia la condotta richiesta a questo scopo, se non in quanto questa perfezione si consideri come un ef¬ fetto o un ordine di effetti che dipende natural¬ mente (in parte al meno se non in tutto) da certe condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche del¬ l’ascetismo non avrebbero senso se non si ricono¬ scesse a loro questo carattere di mezzi atti a pro¬ durre certi effetti. ' Concludendo: la soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo prammatistico, come ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può avere, anche se non si ponga in dubbio la sua legittimità, — r,o — che un ufficio consolatore, non regolatore; può ser¬ vire a dare o aggiunger valore a certe norme e ai fini umani connessi con queste, ma non può ser¬ vire a determinarle ; può fornire un principio di giustificazione, non un criterio di derivazione. E perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema che riguarda la determinazione delle norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e la validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne cerca la soluzione. Cap. V. — Il preconcetto fondamentale. 12 — Così dei due tipi diversi di costruzione etica corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del relativismo storico — se anche può offrire un criterio di determinazione scientifica di un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza mo¬ rale, ossia non giustifica il valore che ad esse si vuole attribuire. Perchè, alle norme stabilite in conformità al criterio della corrispondenza alle esi¬ genze della vita sociale, non si può riconoscere un valore superiore a ogni altra norma, se non sup¬ ponendo che la forma di esistenza sociale correla¬ tiva si riconosca universalmente e sotto ogni ri¬ spetto più desiderabile di ogni altra; presupposto che non è per nulla legittimato, nè si può ricavare . dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i dealism o — 67 — prammatistico — in quanto fa capo a principi e postulati metafisici, serve a giustificare il valore che si attribuisce alle norme morali, ma ò radi¬ calmente impotente a fornire un criterio di deter¬ minazione delle norme. Il primo può determinare le norme, ma non giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non determinarle. L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune il preconcetto fondamentale che compito dell’Etica debba essere quello di trova re le rag ioni sulle_quali ò fondata la bont à o la giustiz ia di quella forma di condotta, che già teniamo come buona. Ammesso — tacitamente o esplicitamente — questo presup¬ posto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le connessioni naturali tra quella forma di condotta e i bisogni della vita sociale del momento storico, e quindi ad assumere come criterio etico la corri¬ spondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o giustificativa porta a cercare a quali patti o con¬ dizioni quella forma di condotta possa veramente essere riconosciuta come buona, e quindi ad assu¬ mere come fine della condotta un bene il quale soddisfaccia a quel requisito di universale e pre¬ minente desiderabilità, che non si trova in quel fine , che è in realtà il fine naturale della con¬ dotta (I). (1) E i moralisti che cercano di conciliarle ambedue, e soddi¬ sfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla esigenza giusti- — 68 — 13 — E allora la conseguenza legittima è que¬ sta : che una scienza normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che serve a determi¬ nare le norme vale anche a giustificarle. Ma il fatto — che questa esigenza non ò sod¬ disfatta finché si cerca la giustificazione di un co¬ dice di condotta già dato, assumendo questo come punto di partenza, e quindi come fine la forma di convivenza e di cooperazione sociale alla quale esso codice corrisponde, — non prova V impossibilità di una etica normativa scientifica; prova al più la impossibilità di una tale scienza finche si intende £0 il compito dell’ Etica in quel modo, [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il problema in un modo diverso: cercare quale possa essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle condizioni che esso richiede ricavare le norme della condotta? Il porre il problema in questa forma non è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità all’ esigenza scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare 1’ altro ; senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere cosi pronto a trovar giusto quello che 1’ altro suggerisce. — 69 — (che l’esigenza caratteristica della norma etica non toglie) colle altre scienze precettive ? Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In primo luogo, anche se non servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di avere un valore teorico il sistema di rapporti che per tal modo -si venisse a conoscere. In secondo luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inu¬ tilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure che riguardi dati ipotetici. (E quale cognizione scientifica non contempla dati, almeno in parte, ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni ge¬ nerali se ne può aggiungere una terza particolare. Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col quale può essere utile la conoscenza delle relazioni che esistono tra forme diverse di moralità e condizioni storiche diverse, non possa tornare utile la cono¬ scenza delle relazioni scientificamente stabilite tra una forma di condotta possibile c un ordine di con¬ dizioni possibili ? 14 — Concludo : il problema, s e una scienza normativa etica sia possibile, non è un problema risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si possa e si debba risolvere nel modo tenuto dallo Spencer, è questione diversa e clic rimane da esaminare. E questa critica preliminare mentre avrà servito, come spero, a dimostrare che il presupposto fondamen- — To¬ tale dello Spencer intorno al compito dell’Etica non può essere a priori escluso, ha posto in chiaro le esigenze fondamentali alle quali una scienza nor¬ mativa morale deve soddisfare. E così ci fornisce una guida per la critica della dottrina. Parte III. LA. DOTTRINA DELLE DUE ETICHE E LE ESIGENZE DI UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE Cap. VI. — Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e dell’ adattamento completo nm^se^e a determi¬ nare il tipo di condotta cercato. Il p rogra mma che lo Spencer traccia e si pro¬ pone di seguire (non dico che in realtà gli sia ri¬ masto fedele) per costruire una scienza normativa etica, si può raccogliere, in queste due te si: I.° La necessità di assumere come tipo della condotta mo¬ rale la condotta dell’ uomo giusto in una Società giusta ; e la necessità conseguente d ella disti nzione 'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr Assoluta) ed Etica Applicata parevo*)» f ( Etica_ Relativa) e della precedenza teorica della prima sulla seconda. II. 0 La identificazione della condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col tipo di condotta che egli pone come proprio del limite dell’evoluzione. Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella che legittima e rende possibile ad un tempo la sua costruzione, non ò difficile vedere come da un punto di vista critico esse possono e debbono essere con¬ siderate a parte. La prima, infatti, formula una veduta metodica ; la seconda esprime la speciale applicazione che di quella veduta metodica lo Spen¬ cer ba creduto di fare. In altri termini, è astrat¬ tamente possibile riconoscere che il tipo ideale del- 1’ uomo giusto non possa determinarsi se non in relazione con una società giusta e clic per deter¬ minare la condotta giusta relativamente a certe condizioni reali, sia necessario aver prima ricono¬ sciuto quale sarebbe la condotta giusta in condi¬ zioni idealmente supposte, anche se non si accetta che il tipo ideale di condotta giusta possa essere concepito in quella forma e su quel fondamento che lo Spencer crede di dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta espressa nella prima tesi non solo si possa, ma si debba accettare come legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda come in germe un concetto fecondo. Certo, credo, se una scienza normativa morale ò possibile, è pos¬ sibile per quella via; e i difetti della costruzione etica dello Spencer nascono non dall’averla seguita, ma piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la critica stessa della seconda tesi riesce a confermare la legittimità della prima. — 73 — 1- — As sumendo come tipo ideale di condott a ^ insta la condotta corrispondente al limite dellV vn- ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o im¬ plicitamente, alla forma di vita individuale e so¬ ciale che segna quel limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui insistito, che uno s tato concepito come il risultato necessario dell’evoluzione naturale possa aver va¬ lore di fine liberamente e deliberatamente voluto e proseguito? difficoltà che non mi pare insupera- ' bile (1), io credo che questa identificazion e presenta He due difetti capitali : essa non vale, per se, a for- O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la possibilità e la necessità. — Affermare la possibilità die si produca un fatto, non è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei fattori, l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli, produrrebbe, secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel fatto. Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si am¬ mette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende, ' può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri l'azione MI'uomo, cioè quando la « necessità . dell’effetto sia condizionata dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti, aspira¬ zioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso che l’ef¬ fetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio 1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evo¬ luzionismo Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane estranea all’ intento di questo studio, e che i più risolvono nega¬ tivamente (cfr., tra gli altri, L. Zeccante : La dottrina della co- — 74 — ni re un criterio per la derivazione delle norme morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi, il tipo ideale è determinato dallo Spencer sopra un altro fondamento); e non è sufficiente come prin¬ cipio di giustificazione. Cominciamo dal primo. Il concetto di evoluzione, come quello di tempo, del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la tra¬ duzione in termini di causalità naturale, esclude l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso, oltre il quale ogni processo di trasformazione, cioè di causazione, si arresti. Il processo stesso di dis¬ soluzione che, secondo il pensiero dello Spencer, si alterna a periodi indefinitamente grandi con quello di evoluzione, non segna il termine di un periodo e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista scienza movale nello Spencer Cap. XXXI, p. 194; e G. V ijiaki : Rosmini e Spencer p. 209 e seg. Di queste, come di tutte le ob¬ biezioni mosse all' Etica dello Spencer, a cominciare dal Guyau e dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza e ricchezza di notizie il Dr. G. Salvadori nell’opàra « L’Etica Evo¬ luzionista » che è una apologia entusiastica di tutto il sistema Spencer iano). Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi, come di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si connet¬ tono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dot¬ trina delle due Etiche è diverso, e diversa la via seguita ; in se¬ condo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata di¬ scutere le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un breve scritto, tutta, o poco meno, la storia della morale. — 75 — di una valutazione umana o teologica. In realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni che l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando lo Spencer parla di limite dell’ evoluzione della vita umana, intende di significare il momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò questo massimo svolgimento non può es¬ sere. necessariamente, che relativo a forme date e conosciute o comunque determinate di vita, cioè di organi, di funzioni, e di attività ; e, anche in¬ teso cosi, non può venir stabilito se non fissando un grado che si consideri come massimo; cioè, in¬ somma, segnando nel processo (non importa ora con quale criterio) un momento , che sia punto di arrivo di una serie (della quale sia rappresentato da punto di vista teleologico come fine), ma che potrebbe essere preso, con un criterio diverso, come punto di partenza di una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo momento il criterio dell’adattamento completo ai tre ordini di fini: della vita individuale, della vita della specie e della vita sociale? 2. — È subito chiaro che questo adattamento completo non può bastare esso stesso, se non si determina quali siano le sfere di attività e di fini, l’adattamento ai quali serve di criterio per stabi¬ lire se il limite è raggiunto. Perchè se si intende per adattamento completo un adattamento definitivo a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi non potremmo argomentare nò che un tale limite sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui im¬ porta di più) dato che si raggiunga, quale sia il grado o la forma di vita, che un tale adattamento sia per fissare e suggellare come definitivo. Perchè i fini sono, come ognuno sa, correlativi ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che le forme di attività si moltiplicano c si differen¬ ziano, si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò si può nò induttivamente, nè deduttivamente de¬ terminare a qual punto questo processo possa o debba arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi evoluzionista, ogni adattamento implica dimi¬ nuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus, avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene di¬ spiegando in nuoA r e forme di attività, c quindi nella ricerca di nuovi fini. Anzi il sorgere di ogni forma più complessa di attività, — ad esempio ogni fun¬ zione più elevata — presuppone normalmente l’a¬ dattamento già avvenuto delle attività meno com¬ plesse e relativamente elementari, — funzioni più semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione. Onde per questo rispetto l’adattamento a certi fini, ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinita- mente. Oltredichè il processo stesso del conoscere portando a scoprire sempre nuovi rapporti di cose e di fatti, viene continuamente riversando la desi¬ derabilità dei beni conosciuti su nuovi oggetti che acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni, cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare delle condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bi¬ sogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre la via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfa¬ zione già assicurata dei vecchi bisogni, permette che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adat¬ tamento raggiunto è condizione e stimolo a nuove forme di attività al modo stesso che ogni cono¬ scenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e na¬ scere « a guisa di rampollo, appiè del vero il dub¬ bio ». Si dirà che lo Spencer intende l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento dei tre ordini di lini fra di loro; intende cioè la concilia¬ zione c 1 accordo tra le esigenze della vita indivi¬ duale quelle della vita della specie e quelle della vita sociale. Ma lasciando di notare che la difficoltà sopra notata risorge a proposito di questa conciliazione perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si fa questa conciliazione ? Perchè se è vero, come lo Spencer ha cura di ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esi- — 78 — stenza i fini di un ordine non possono essere pro¬ se-miti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale dei fini di un altro ordine, bisogna evidentemente perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una cessazione, o una modificazione o una sostituzione nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della società. Supponiamo ora per semplicità di discorso che i fini individuali e i fini della specie si possano considerare fin dal presente conciliati; o, per usare i termini dall’economia pura, che si possa assu¬ mere 1’ egoismo di specie come comprendente m se l’egoismo individuale (il che è in gran parte con¬ forme alle vedute stesse dello Spencer); la conci¬ liazione resterebbe da farsi tra i fini della vita individuale e i fini della vita sociale. E allora il problema è il seguente: Nello stato di conciliazione contemplato, fino a qual punto sono i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti o immaginati che avranno mutato di specie, di estensione, di intensità, per adattamento alle esi¬ genze sociali, e fino a qual punto si troveranno invece modificate le esigenze sociali per adatta¬ mento ai fini della vita individuale? E manifesto che per conoscere in che cosa la conciliazione sia per consistere bisogna o che sia definita la sfera delle esigenze individuali, in corrispondenza colla aliale si possa determinare la sfera delle „ sociali che con quelle si accordi; o sia definii sfera delle esigenze sociali per una determinazione tersa; o finalmente siano definite certe corni z on (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1 H vacano, esse, a determinare ad un tempo , limiti «Ielle une e delle altro. :ì _ Queste condizioni lo Spencer ricava dalle esigenze del “r ■» ™<ità induetnale !«<*<»' cui si suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?» tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4“““* il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 ^ della società industriale del suo temp , tamento completo consist co¬ struttiva biologica e psicologica 1 nenti la società umana a questo tipo d, convivenza e di cooperazione (I). Per conseguenza non è un (1) qua.» riatto «no «i *“ Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que- biella II. n edizione dei ‘ de i System of et’ opera fu ^pubblicata come Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo gei- sostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo provare la possibilità che le attività ^«isMche ^ colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di- «e—. - * “ - 80 — certo tipo di vita completa che serve a determi¬ nare il tipo ideale della società giusta, ma è il tipo considerato come ideale di società giusta che de¬ termina la vita completa. Adunque, poiché la con¬ ciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata all’ attuarsi delle condizioni che definiscono il tipo ideale di società ed è relativa a queste, è il tipo ideale di società clic in edotto è assunto come fine, e sono le condizioni proprie di quel tipo che ser¬ vono a determinare le norme. benessere individuale non maggiore di quello che è necessario alla conservazione della vita individuale ; ed esser possibile il formarsi negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle sod¬ disfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle at¬ tività che il benessere della comunità richiede. (Voi. cit. p. 300-302). Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene questo passo, lo Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice espli¬ citamente che esso può servire a chiarire e compiere il pensiero espresso nel testo (ih. p. 2S9). Un altro luogo in cui è ribadito in forma diversa, ma non meno recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova nella seconda let¬ tera di risposta alle critiche del Rev. J. L. Davies sull’ obbliga¬ zione morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale ho altrove insistito : che appunto come il cibo è giustamente preso quando è preso per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere quando manca l’appetito implica uno stato fisico disordinato ; cosi una buona azione o un atto di dovere è fatto giustamente soltanto se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ; mentre se è fatto per la considerazione di certi risultati finali in questo o in un altro mondo, implica uno stato morale « imperfetto » — (A. Si- stem ecc. Voi. X. App. C. « The Moral Motive p. 450. — Nella trad. it. della Giustizia edita dal Lapi questa appendice è omessa). — 81 Ma se così è, quanto alla determinazione delle nolane il postulato dell’adattamento completo, posto clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale semplicemente a supporre clic tutti gli individui i quali compongono la società ideale abbiano una na¬ tura così latta, che l’osservanza della condotta cor¬ rispondente costituisca per essi un bisogno o un desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità di conflitto con altri bisogni o desideri; cioè, tiene nella costruzione etica lo stesso posto che nei si¬ stemi morali è comunemente tenuto dal dovere , e nelle scienze precettive in genere dalla supposizione che esista un desiderio o un bisogno specifico cor¬ rispondente al fine da cui si ricavano le norme. E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la natura specifica dei motivi da cui può dipendere l’osservanza di una norma, non hanno che fare colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi dell’ adattamento completo dei bisogni e desideri individuali a certe condizioni di convivenza e coo¬ perazione sociale, non ha che fare colla determi¬ nazione di queste norme. Perchè le norme sono ri¬ cavate appunto da quelle condizioni, alle quali si suppone avvenuto l’adattamento; e che perciò ser¬ vono esse di critetio e per determinare le norme e per conoscere se l’adattamento è raggiunto. — 82 — Uljh&MJ? Jabot* Gap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispon¬ dente all’ adattamento completo, n on ser re a giustificare il tipo di condotta proposto. ì. — Ma perchè assume lo Spencer come pro¬ prio della Società ideale un adattamento completo, che, mentre esclude arbitrariamente ogni evolu¬ zione ulteriore, non serve a definire questa Società ideale perchè è definito esso stesso in relazione con quella ? Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la condotta umana in tutta la sua estensione apporta a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro pia¬ cere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per I l o Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude • il dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dal- 1’ Etica Assoluta non può essere se non quello nel quale la condotta apporta puro piacere. L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo ideale di convivenza e cooperazione sociale quel carattere di universale e preminente desiderabilità, che deve avere il fine assunto dall’Etica. Lo dà veramente ? Benché a prima vista possa parere strano il dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere che un tipo di esistenza individuale e sociale nel quale tutta quanta la condotta in tutta la sua esten¬ sione porti sempre e soltanto piacere, non è, date le leggi psisologiche conosciute, e non può essere, un fine.universalmente desiderabile sopra ogni altro. Lascio di discutere se, supposta una condotta, diciamo così per brevità, totalmente piacevole, il piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato di coscienza distinto, per mancanza di quel con¬ trasto e di quell’ alternanza fra gli stati psichici (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding), senza della quale anche i godimenti più forti il¬ languidiscono e vaniscono nella ripetizione abituale; e di considerare se la forma di vita corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni forma di coscienza riflessiva e di deliberazione vo¬ lontaria, cioè l’intelligenza stessa e la volontà, al¬ meno nelle loro forme più elevate riducendo la vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’ uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’at¬ tenzione attiva è sempre, in grado maggiore o mi¬ nore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato princi¬ palmente, se non unicamente, dal dolore e non dal piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’in¬ telligenza si affievolirebbe; come già si può osser¬ vare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura — 84 tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo di altri bisogni, e di aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a maggior ragione per la volontà. Certamente le leggi psicologiche conosciute ten¬ dono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a proposito dell’adattamento completo, che un tale stato possa avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in forza delle medesime leggi, l’eventualità se non della soppressione, di un oscuramento progressivo delle facoltà psichiche più elevate. E allora si presenta subito la questione, se, ammessa pure soltanto la possibilità che a un tale stato si accom¬ pagnasse questo effetto, potrebbe una forma di esistenza siffatta apparire desiderabile sopra ogni altra. 5. — Si potrebbe dire: Che importa l’oscura¬ mento e anche la soppressione dell’ intelligenza e della volontà, purché sparisca il dolore? E quando non vi siano altri bisogni e altri desideri che quelli appunto che trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi, non ci sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni di¬ versi, non è una tal vita nel suo genere beata ; anzi la sola beata perché é esclusa la capacità di provare altri bisogni ? Ora che un tale stato possa, anzi debba apparire — 85 — il più desiderabile quando si supponga l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui si tratta di vedere se un tale stato possa essere preferibile per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi esercita certe forme di attività possa parere desiderabile sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per avventura quelle attività fossero oscurate o sop¬ presse. In questo caso possono valere l’osservazione notissima del Mill e la ragione colla quale la con¬ forta ; che, certo, non avrebbero valore nel primo caso (1). Ma anche lasciando questo aspetto della que¬ stione, non bisogna dimenticare che appunto perchè il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adat¬ tamento completo, la medesima condizione di una condotta totalmente piacevole, — per le ragioni dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero e nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento (1) « È meglio essere un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto : è meglio essere So crate malcontento che un imbecille beato ». Ora la ragione addotta dal Mill vale per l’uomo, ma non per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice graziosa- munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille. E nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione in¬ tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice il « desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò che <pii importa. (Hoffding - Morale, VII. 3 tr. fr. p. 116-119). — 8(i — potrebbe essere raggiunto — può concepirsi attuata non in una sola ma in più forme di vita fra di loro diverse ; e resterebbe sempre da trovare un criterio comparativo della desiderabilità, o da am¬ mettere che tutti i tipi di vita, per i quali si concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini di fini (anche se la conciliazione fosse ottenuta allo stesso modo che nelle società animali, cfr. la nota qui sopra a pag. 79), siano ugualmente desi¬ derabili. Il che importerebbe la legittimazione a pari titolo di forme di condotta fra di loro diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde che dal piacere puro il fondamento della legitti¬ mazione. E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬ larga fuori del campo particolare della dottrina dello Spencer e riguarda nello stesso tempo una questione più generale: la natura del fine. 6. — Siccome il carattere che si richiede nel fine assunto a giustificare le norme morali è, come s’è ripetutamente detto, quello della universale e preminente desiderabilità sopra ogni altro, si pensa che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo e supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e al di là, non ci sia più nulla da desiderare e da cercare. E allora non resta che questa alternativa : o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in sò tutti i fini ; e prendono forma i fantasmi di — 87 — felicità, di beatitudine, di perfezione, noi quali si fd"-'.- figurano definitivamente appagati tutti i desideri, e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano appagamento ; oppure si considera come fine la forma colla quale si presenta alla coscienza la soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere o la liberazione dal dolore. Ma tanto 1’ una quanto l’altra delle soluzioni non sono che apparenti, o si risolvono in una vana tautologia. Porre come fine la felicità senza deter¬ minare quale sia o in che consista la felicità di cui si discorre, è certamente un modo per conciliare verbalmente tutte le differenze di opinioni e supe¬ rare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le concilia e non le supera, più di quel che valgano a togliere le diversità di opinioni politiche e a raccogliere i partiti ad unità di intenti certi « or¬ dini del giorno » in cui si afferma all’ unanimità essere fine supremo per tutti il « bene della patria » o la « prosperità della nazione » o altre formule somiglianti. E se si determina in che si faccia consistere la felicità, quali siano i fini che si comprendono nel fine unico chiamato con questo nome, allora delle due l’una : o i diversi fini così compendiati e com¬ presi nel fine unico, sono veramente unificati, e, perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra essi è causa o condizione degli altri, o che tutti dipendono da una medesima condizione o ordine di condizioni ; e in questo caso la felicità è caratte¬ rizzata o da quel fine o dal conseguimento di questa condizione, che diventa esso fine, perchè su esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il ter¬ mine felicità non è che.un duplicato di quel certo fine o di questa condizione. Oppure i diversi fini non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza che si veda la necessità della loro connessione; e allora 1’ unità non è che verbale, e in realtà invece di un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere supremo. Si dirà che si dà alla felicità non il senso di un certo contenuto determinato che la costituisca, ma il senso di appagamento dei desideri, di soddi¬ sfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali ne siano per essere il numero e le specie; nel qual senso si può affermare che la felicità rimane sempre il fine ultimo pur restandone indeterminato il contenuto ? E si riesce allora alla seconda alterna¬ tiva, di considerare come fine ciò che si ammette esservi di comune e di costante nel raggiungimento di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma sotto la quale si presenta la soddisfazione di qua¬ lunque desiderio : il piacere o la liberazione dal dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è — 89 — come dire che il line ultimo è il godimento che accompagna il raggiungimento del fine o dei fini, o che lo scopo dei desideri è.... la soddisfazione dei desideri. E allora si vede perchè il puro piacere non possa dare un criterio di legittimazione e di valutazione comparativa dei fini e quindi delle forme di condotta. Perchè o si prende come criterio la quantità del piacere, la intensità della soddisfa¬ zione, senza badare alla natura del desiderio a cui corrisponde, e non è possibile assegnare un solo desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfa¬ zione ma V oggetto a cui il desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo gradevole, ma le condizioni che lo producono, non è il godimento del bene, ma il bene. 7. — Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco : nell identificare il b ene col piacere ; il fine, cioè l’ordine di effetti che costituisce l ’oggetto del desiderio, collo stato soggettivo che è il godimento (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero che un bene di cui si concepisse che nessuno mai potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore di bene; ma è non meno vero che un godimento del quale non si sapesse assegnare nessuna causa n o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬ tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia or¬ dinata la condotta, non si può intendere che un bene, il quale sia bensì, direttamente o indiretta¬ mente causa o mezzo o condizione di godimento, senza di che non sarebbe bene; ma che non può consistere nel godimento stesso, ma in un certo effetto o ordine di effetti determinabile e possibile, che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva, •cioè di una certa condotta (1). Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso e quivoco che conduce a riporre il fine nella feli - cità o nel piacere ; l’equivoco che questo effetto o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo, uno stato definitivo, al di là del quale non siano assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di effetti definitivo è contraddittorio non soltanto colle leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col presupposto stesso fondamentale che si assume di necessità quando si voglia determinare scientifi¬ camente un sistema di norme. Perchè qualunque (1) Non altrimenti avviene nel campo speciale dell’economia. E bensì vero che se non si supponesse la possibilità del consumo, cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la ricchezza, questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ; ma 1’ oggetto a cui si volge 1* attività produttrice e del quale si cer¬ cano le leggi, è la ricchezza, non il consumo. — 91 — fine rappresentato come umanamente possibile, ap¬ punto perchè deve essere concepito come un effetto, che si produce, date certe condizioni, è a sua volta pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬ sibile che sia ultimo, è come pensare chiusa e fi¬ nita a un momento dato la serie della causazione, abolita e spenta in un effetto che sia stato pro¬ dotto ogni efficacia causativa ; e allora vien meno ogni ragione di pensare come dipendente da certi mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto stesso che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qual¬ siasi determinazione di norme. Si dirà che si intende « ultimo » rispetto alla salutazione, cioè talea cui si riconosca valore per sé, indipendentemente da ogni considerazione ulteriore. Ma se si ammette che da quel fine, quando sia rag¬ giunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che lo si pensa condizione di tali effetti ulteriori, la valutazione di questi (che non può essere esclusa) •muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo valore di mezzo. 8. — Dal che nasce questa conseguenza assai notevole: che la desiderabilità di un ordine di ef¬ fetti, che si assuma come fine, non viene tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene. cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali esso apparisca la condizione necessaria. E che per¬ ciò, mentre è vano andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve in una pura espressione verbale, il fine che può valere come supremo si deve cercare non nell’uno o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si possa riconoscere questo carattere appunto di con¬ dizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E quindi il fine che può avere universalmente una deside¬ rabilità superiore a ogni altro, non può consistere se non in un ordine generale e, si potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione appa¬ risca necessaria perchè sia possibile universalmente la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di una gerarchia, della qiiale segni il culmine, nè nel senso di una grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della precedenza necessaria o della indispensebilità; per la quale venga a raccogliersi su di esso come in un unico foco la luce e il calore di desiderabi¬ lità che irraggia dai fini ai quali apre universal¬ mente la via. E perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano — 93 — abbia, come ha in realtà, per condizione la convi¬ venza e la cooperazione sociale, il line che può avere questo valore di precedenza necessaria sugli altri deve essere di necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni ili convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perchè ad una forma di so¬ cietà possa essere riconosciuto questo carattere uni¬ versalmente, occorre che le condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un valore potenzial¬ mente uguale : ossia che nessuno dei fini, dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. 0, in altri termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone cercato, ciascuno trovi nelle condizioni proprie di quella forma sociale la medesima esteriore possibi- bilità di rivolgere a quella ricerca l’attività pro¬ pria. che vi trova qualsiasi altro (1). L’analisi ci ha dunque portato a queste con¬ clusioni : a riconoscere che il limite dell’evoluzione, 1’ adattamento completo, la massima felicità, nè for- (1) Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una ugua¬ glianza nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una « uguale distribuzione di felicità » la quale supporrebbe, insieme colla condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di at¬ tività e di preferenze. — 94 — nisce un criterio ili determinazione delle norme, nò basta come principio di giustificazione; a rico¬ noscere la legittimità del concetto, clic bisogna assumere come fine un tipo ideale di società ; e a stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo tipo deve soddisfare. Ed ora è facile vedere per quali ragioni i l tipo sul quale in realtà lo Spencer ha modellato la sua società giusta non soddisfaccia a queste esigenze. Gap. Vili. — Il tipo di società giusta dello Spencer . i). — In un articolo di risposta ad alcune cri¬ tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » lo Spencer po¬ lemizzando col prof. Means così si esprimeva a proposito del modo di intendere la giustizia: << A molti sembra ingiusto che la dura fatica di un bi- folcogli faccia guadagnare in una settimana meno di quanto un medico guadagna facilmente in un quarto d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che i figli del povero non possano avere i vantaggi del l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e defi cenze nelle quote di felicità che alcuni ritrag¬ gono dalla cooperazione, sicc ome clerivano da ere¬ ditata inferiorità di natura, o da inferiorità di c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^ ~ ^ cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io la intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che — 95 — trasmette alla discendenza malattie c deformità, l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze penose delle stupidità e della cattiva condotta dei genitori, la ingiustizia che costringe quelli che ereditano delle inc apac ità, a lottare colle difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in relativa p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or - < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6 una specie di ingiustizia estranea alla mia tesi ». il i cose stab ilii'-, quantunque in forza di esso, una ' inferiorità della quale l’individuo non ha colpa produca i suoi mali, e una superiorità della quale egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi benefìzi; e dobbiamo accettare, come possiamo, tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm vantaggi che i cittadini si procacciane rispettive attività » (1). Ho citato questo passo, non perchè gli stessi con¬ cetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬ citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e la morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun altro luogo appare piu manifesto il presupposto che vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬ mendo come elemento del concetto di giustizia — accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬ li) Replie to Criticism on « The Data of Etihcs » in Mitid Jan. 1881 p. 93. zionc ricavata dalla biologia, che la vita progre¬ disce c si eleva soltanto a patto che gli individui superiori godano i vantaggi della loro superiorità e gli inferiori subiscano i danni della loro inferio¬ rità, egli identifica la inferiorità fisiologica e psi¬ chica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi potrebbe chiamare nativa o costituzionale colla in¬ feriorità clic si potrebbe dire di posizione. Ora, che un uomo debole non possa vincere le medesime resistenze che uno forte, che un bambino poco intelligente impari meno e peggio di un in¬ telligente, è naturale e necessario; ma non si può dire che sia giusto nè ingiusto. Che i figli eredi¬ tino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o l’in¬ sensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e che i primi godano i vantaggi e i secondi sop¬ portino i danni che sono conseguenza rispettiva¬ mente di questa loro soperiorità o inferiorità ere¬ ditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma non è ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì giusto o ingiusto rispettare o violare questa rela¬ zione naturale, soltanto se si considera questa re¬ lazione come condizione di una elevazione pro¬ gressiva delle specie che sia assunta come effetto universalmente desiderabile, cioè come fine. Ma che i figli del contadino non abbiano la pos¬ sibilità di venire istruiti o educati, non dipende dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ere- — 97 — ditata o no, ma dipende da una inferiorità sociale, la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attis¬ sima a questa coltura. Ora, mentre l’analogia della selezione biologica importerebbe che i figli del con¬ tadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro ri¬ spettive capacità e sforzi frutti maggiori o minori, la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni dalla gara c toglie non solo la necessita ma la pos¬ sibilità clic l’opera di selezione si rinnovi tra i superstiti di ogni nuova generazione sull’unico fon¬ damento delle loro rispettive attitudini e attività. Sul che non è necessario insistere dopo le cri¬ tiche note e ripetute ; ma valga l’accenno per ri¬ levare che a torto lo Spencer identifica colla infe¬ riorità biologica, o meglio, costituzionale, l’infe¬ riorità clic deriva dalle condizioni sociali, e crede che possa valere a giustificare le conseguenze della seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare le conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla sfera dei beni conseguibili che è imposta da con¬ dizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limi¬ tazione clic nasce dalla capacità e dalle doti in¬ trinseche; e se questa è giusta, posto che si prenda per fine superiore a ogni altro V elevazione della specie (e dato che ne sia condizione), quella è giusta soltanto se si considera come fine superiore quella certa forma ili cooperazione sociale che la rende necessaria. Anzi quella limitazione d* origine so¬ ciale che si ponga come giusta per quest’ ultimo rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere che sia giusta la condizione « che ciascuno sopporti i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi della sua superiorità » non include, ma piuttosto esclude 1 altra condizione, a torto dallo Spencer compresa o conglobata con quella ; che ciascuno sopporti i danni o goda i vantaggi che sono con¬ seguenza di una inferiorità o di una superiorità, la quale risulta non dalle sue doti fisiche e men¬ tali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe cir¬ costanze esteriori. E in verità sarebbe da meravigliare che lo Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il punto di partenza, il foco centrale da cui muove e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è, come s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi propriamente sociale e politico; onde l’intento prin¬ cipale diventa quello di trovare la giustificazione del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse nelle leggi stesse dell’ universo. l ( h Ora il suo ideale sociale e politico è in sostanza quello stesso del liberalismo, in cui crebbe e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto e definito nelle sue parti quando uscì il « Pro- — 99 spectus » (1800); e perciò nel costruire la sua « So¬ cietà di uomini giusti », per quel che si attiene alla struttura sociale, egli non fa che supporre rea¬ lizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬ samente, o ricavati logicamente dai postulati eco- n omici e politici di quel liberalismo . 11 quale era bensì arditamente coerente nella affermazione dei principi e dei corollari riassunti nella formula della giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬ rava o come anteriori ed estranee a questa legge, o come naturali ad un tempo e conformi ad essa, le dive rsità storicamente date di condizione econ o- mica degli individui e delle classi socia li. Onde lo Spencer non tenne conto della disuguaglianza ef¬ fettiva, che nell’ esercizio di quella libertà, formal¬ mente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi biologiche . 1 frinii* • Ne segue che mentre nella sua società ideale egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere di incompatibile non solo colla cooperazione, ma anche colla simpatia ; n el costruire invece la so - cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato « lo stato di cose stabilito », ma non fa astrazione da quelle con dizioni che importano una reale li¬ mitazione diversa nella sfera delle attività é dei 100 — fini conseguibili dei singoli ; e però la sua non è una società giusto, ma una società di uomini giusti ; giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè, è modellata sulle esigenze di una certa struttura sociale, nel configurare la quale egli non tien conto di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel formare il tipo dell’ uomo giusto. E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere che si ò accennato più sopra (IV, 8): che le norme della sua giustizia siano applicate a regolare delle relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che sono la negazione del criterio applicato in quelle. Perchè mentre sup¬ pone che gli individui seguano nella loro condotta una perfetta imparzialità subordinando alle esi¬ genze della giustizia o dell’ uguale libertà — fine prossimamente supremo — tutti gli altri fini ge¬ nerali e particolari, suppone poi, come proprie di una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni che sono in tutto o in parte la negazione dell’im¬ parzialità, e che non esisterebbero se lo stesso cri¬ terio dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire il tipo della società giusta. E in questo senso che, accennando incidental¬ mente altrove all’Etica Assoluta dello Spencer, no¬ tavo come un vizio di essa non un eccesso, ma piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli as- — 101 suine abusivamente come esigenze costanti e uni¬ versali di ogni forma di cooperazionc, e quindi anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di un certo momento storico; e pone come dati fon¬ damentali di una cooperazione regolata dalla legge della uguale limitazione per tutti, delle condizioni che importano una limitazione disuguale. Stando così le cose, il raggiungimento o l’ap¬ prossimazione a un tale tipo di società, non può apparire come fine universalmente preferibile, nè le norme che esprimono la condotta richiesta da quel tipo possono avere carattere di universale os- servabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio punto di vista. Agli individui delle classi sociali poste, per ef¬ fetto di quella disuguale limitazione, in condizione di inferiorità, questa inferiorità che non è conse¬ guenza della propria condotta, deve apparire una menomazione ingiusta dei diritti; agli individui delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità, questa superiorità, che parimenti non è conseguenza della propria condotta, deve apparire, se la coscienza si elevi a una imparzialità universale e coerente, una menomazione ingiusta dei doveri, il. — E nasce di qui quel se greto rancore in chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità — 102 — della beneficenza, se la accompagni il dubbio che essa non sia se non un compenso parziale e tardivo di ingiustizie patite e di ingiustizie godute. La simpatia non può essere schietta dove non regna la giustizia (1); e non si possono definire le forme e i limiti della beneficenza se non dopo die siano definite, e siano o si suppongano osser¬ vate le norme della giustizia; onde la necessità logica che il tipo ideale della società giusta sia determinato all’ infuori da ogni supposta efficacia modificatrice che la simpatia e la beneficenza eser¬ citino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli e della società. Soltanto così è possibile accertare se il tipo di cooperazione assunto come ideale possa essere universalmente desiderabile, e soltanto così è possibile determinare dove la giustizia finisca e la beneficenza cominci ; dove finiscano le relazioni di diritto e dove comincino le relazioni di simpatia. * ^ _ Ora il tipo di società ideale dello Spencer pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil- mente dal primo; di supporre realizzate le condi- yCH&Ue'ìt- f zioni della perfetta simpatia in una società nella (1) Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica quando si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non cada dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e tingono d’ altro colore i rapporti di simpatia. 103 quale non sono realizzate le condizioni della giu¬ stizia. La sua società è una società più o meno ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla quale egli ricava per un verso le norme della giustizia, e per l’altro le norme della simpatia; invece di essere una società giusta di uomini giusti, quando si tratti di determinare le norme della giustizia ; e una società giusta di uomini perfetta¬ mente simpatizzanti quando si tratti di determinare le norme della simpatia e della beneficenza. Ma anche supposto che per questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare gli effetti delle inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo difetto: che la ricerca e il raggiungimento di alcuni dei fini, ai quali la cooperazione serve, apparirebbe per una parte dei cooperanti subordinata alla be¬ nevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto baste¬ rebbe per togliere, nel giudizio di una coscienza imparziale, a quel tipo di cooperazione il carattere di univers ale preferibilità. 12. — Ma il difetto era, come s’ò detto, dato il presupposto dello Spencer, inevitabile. La simpatia è pe r lui il m ezzo di conciliazione dell’egoismo col l’altruismo. M a poiché i limiti rispettivi dell’e- goismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la condizione dell’adattamento psicologico dei sin- — 104 — goli a queste esigenze. Ed ò caratteristico a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore della conciliazione , porta lo stesso titolo e sostituisce nei « Dati » il capitolo smarrito e ag¬ giunto poi in appendice, che ho citato più sopra (v. nota a pag. 70), nel quale si cita come esempio di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo l’adat¬ tamento alle esigenze della vita sociale delle api e delle formiche. Per questo rispetto direi, se non sembrasse un paradosso, che il grande assertore e propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza che se ne accorga, un difensore della subordinazione totale e definitiva dell’individuo a un tipo di coo¬ perazione sociale, che egli considera bensì come la condizione necessaria alla vita più elevata delPin- dividuo e della specie, ma che in realtà vincola il grado di elevazione della vita di un gran numero se non di tutti gli individui, alle esigenze di una certa struttura economica. E quando egli combatte l’intervento della società nel regolare i rapporti economici, in nome dei diritti dell’individuo, dimentica che una parte con¬ siderevole di quei diritti, sono in realtà diritti di alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa dispa- 0 rità ha la sua radice nella costituzione economica, che lo Stato, come egli lo vuole, interviene pure a sancire e a difendere. La quale osservazione, — 105 — giova notarlo, non ■vale per sè nè prò nè contro il cosidetto Socialismo di Stato; vale soltanto a provare che l’individualismo dello Spencer non è, come pare, un individualismo universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l difetto capitale del tipo di società dello Spencer come in genere del cosidetto « Stato di diritto » nasce non da quel che afferma, ma da quel che dimentica ; non dal riconoscere e difendere le esigenze della uguale libertà per tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal- 1 omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non sono, le condizioni che rendono possibile 1’ uguale libertà (1). E, ad esprimerlo in termini kantiani, il difetto si riduce a questo: Dove vi è cooperazione con effettiva parità di diritti, ciascuno dei cooperanti ha ad un tempo riguardo a qualsiasi degli scopi della cooperazione, per un rispetto ragione di mezzo e per l’altro ragione di fine. Se invece le esigenze della cooperazione interdicono a qualsivoglia dei (1) Nota il Loria che quando si grida contro la concorrenza come causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza la produzione di effetti che nascono « dalla mancanza di concorrenza, cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica. Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il ri¬ sultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza di concorrenza fra lavoratori e capitalisti ». ( Cost. Ec. odierna 0. 11. 3. 6. ; p. 175, cfr. anche p. 60 e passim). 7 — 100 — cooperanti la ricerca di una parte dei beni, a cui ò condizione necessaria la cooperazione di tutti, per questa parte 1’ escluso ha soltanto ragione di mezzo, e non ragione di fine. Il che avviene appunto, malgrado il riconosci¬ mento formale, o meglio, verbale, della uguale libertà, anche nella società ideale dello Spencer. La quale perciò non può aver valore di universale e preminente desiderabilità perchè non soddisfa alla condizione richiesta : che tutti i sodi trovino nelle condizioni di esistenza della società la mede¬ sima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni, ai quali la cooperazione sociale è mezzo. Questo è il postulato caratteristico della univer¬ sale desiderabilità di una forma di convivenza, ossia è il postulato caratteristico della giustizia; e supporre una società giusta di uomini giusti equivale a supporre riconosciuta e applicata uni¬ versalmente e costantemente in qualunque specie di azione o di influenza che si eserciti, così dalla società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di quel postulato. Gap. IX. — Ufficio e limiti (li una costruzione scien¬ tifica dell’ Etica. 13. — La società giusta così intesa non rappre¬ senta dunque un tipo definitivo della vita più — 107 — elevata possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia che la fantasia morale ò venuta fingendo nei diversi tempi. Anzi per questo rispetto una mag¬ giore o minore elevatezza, complessità o intensità di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi) una forma di società in cui sia, almeno parzialmente^ l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la quale sia tuttavia meno giusta di un’altra più semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia riguarda la universale possibilità di cercare i beni, ai quali è condizione la convivenza e la coopera¬ zione sociale, e non include che questi beni siano di molte o di poche specie, di maggiore o di minor pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato anche la concezione pessimistica della vita ; perchè, anche dal punto di vista del pessimismo, uno stato di giustizia, che è la condizione necessaria della universalità della simpatia e quindi della compas¬ sione, deve apparire preferibile a ogni altro. E se anche si riguardasse come fine ultimo la negazione universale della volontà di vivere, lo stato di giu¬ stizia apparirebbe la condizione più favorevole perchè 1’ uomo prenda coscienza della necessità naturale c inevitabile della propria infelicità, spo¬ gliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e — 108 — contingente, ed effetto di malvagità degli uomini o di iniquità degli istituti sociali. E questa desi¬ derabilità dello stato di giustizia anche rispetto al pessimismo è forse una conferma non trascurabile del valore di universale preferibilità che gli si è riconosciuto, e a un tempo della sua indipendenza da ogni particolare concezione metafisica. Adunque, poiché uno stato di giustizia non è caratterizzato da altro se non dall’ ipotesi che le esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non si può nè si deve pretendere di ricavare dal po¬ stulato un contenuto determinato, ma soltanto la forma generale delle norme. Il contenuto specifico deve essere ricavato dai fini, ai quali si riconosce o si suppone che la cooperazione sociale sia o debba essere mezzo, e in relazione al quali si possano definire le condizioni richieste dal postulato della giustizia. Quali siano questi fini non si può stabilire se non o per constatazione o per ipotesi. Per consta¬ tazione, quando corrispondano alla osservazione della realtà psicologica in un dato momento sto¬ rico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi, quando si voglia cercare preliminarmente quali sa¬ rebbero le condizioni richieste dalla possibilità di ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo. (Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla eventuale opportunità o necessità di ricorrere a — 109 — tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come questa, nelle quali non è possibile la sperimentazione). 14. — Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso le condizioni che se ne ricavino e che vengano sta¬ bilite come proprie del tipo di società giusta con¬ siderato, presentano questo carattere : che non sono date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali. Ora, se noi determiniamo quali siano le norme di condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste norme esprimeranno quale sarebbe il modo di ope¬ rare nella supposizione che esse siano già date e reali, e non quale sia il modo di operare che tende a realizzarle, mentre sono date condizioni piu o meno diverse. La prima determinazione è oggetto di un’ Etica Pura : la seconda di un ' Etica Applicata, nella quale si consideri come fine il raggiungimento delle con¬ dizioni ideali che sono assunte nell’ Etica Pura, e si stabilisca per approssimazione quale sia in un dato momento storico la condotta sociale e indivi¬ duale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle condizioni reali date, ò più atta a favorire la tra¬ sformazione di queste nella direzione segnata da quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore del genere di quello nel quale cadevano gli economisti della scuola Classica ; i quali, dopo aver supposto l 'homo oeconomicus mosso unicamente dall’interesse 110 — personale, il che avevano diritto di fare, lo consi¬ derarono poi come reale e die dero valore di leggi n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate da questo e dagli altri dati astratti supposti (1). Ora appunto percliò le condizioni soggettive e oggettive dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte e non reali, le norme che esprimono quale sarebbe la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta non sono immediatamente nè integralmente appli¬ cabili in condizioni diverse dalle supposte. I « do¬ veri » e i « diritti » dell’ uomo giusto nella so¬ cietà giusta non coincidono coi doveri e i diritti dell’ uomo storico in determinate condizioni sto¬ riche; alla stessa guisa che i « diritti naturali » dei filosofi dello stato di Natura non coincidevano coi diritti positivi delle società in cui vivevano. Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle con¬ dizioni proprie della societas iusta, i doveri e i di¬ ritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al quale si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi il sistema di doveri e di diritti che vale come giusto in una società reale data. Alla stessa guisa, se la costituzione di una società foggiata in con¬ formità all’ipotesi dello Stato di Natura e del Con¬ tratto, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed evitando la confusione fra giustifica¬ ci) Cfr. Ch. Gide. Principes d’ éc. poi. p. 20-22. - Ili — zione etica e spiegazione storica) come fine da rag¬ giungere invece che come stato originario, il « di¬ ritto naturale » ricavatone sarebbe legittimam ente apparso come il tipo idealmente giusto, al quale il diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi. Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare i dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione uto¬ pistica di applicare direttamente e integralmente le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la prio¬ rità logica dell’Etica Pura surf mica Applicata (1). 15. — Raccogliamo in breve i resultati dell’ a¬ nalisi. 0 Una scienza normativa etica non differisce dalle altre scienze precettive se non pe ^ il valore, che si ^ attribuisce al line suo: il quale deve essere des i¬ d erabile univ ersalm ente jyjjma e_a preferenza di ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo stesso carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine universalmente preferibile non nuò essere che un fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti i fini che si considerano come « ultimi » ; e quindi non può essere che una forma di convivenza e di */ . amw* (l) Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due Etiche cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati. — 112 — coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli possa riconoscere tale requisito. Ma una società siffatta ò supposta, non reale, e le norme di con¬ dotta che se ne ricavano regolano delle relazioni che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono perciò applicabili direttamente a relazioni più o meno diverse. Tuttavia la loro determinazione è non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal punto di vista scientifico alla determinazione delle norme che debbono regolare le relazioni più com¬ plicate della realtà ; necessaria dal punto di vista etico alla giustificazione di queste norme ; perchè esse sono valide in quanto esprimono ravvicina¬ mento, nei limiti del possibile, di queste relazioni reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire che l’Etica Pura fornisce all’Etica Applicata il criterio per determinare le norme, e il valore che le giustifica. 16. — Ma non bisogna dimenticare che le norme, sia dell’Etica Pura, sia dell’Etica Applicata, hanno il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fonda¬ mentale che si accetti come valido e fuori di conte- stazione il postulato della giustizia. Ossia hanno valore se si suppone che ogni « socio » riconosca che una forma di convivenza e di cooperazione nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni esterne, valore di fine a pari titolo di qualunque altro è preferibile a una forma di cooperazione — 113 — nella quale una parte dei <? socii » abbia, per uno o più rispetti, soltanto valore di mezzo e non di fine. Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di quel postulato è la condizione necessaria all’ universale riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone come caratteristica della norma morale 1’ u- niversalità, rinunciare a quello vuol dire rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme per tal guisa stabilito ha, come qualunque altro sistema di norme, del quale si richieda una giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò questo valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce incontestabile il postulato. Appare di qui che è vano e illusorio cercare la giustificazione di una norma morale nelle leggi | naturali (i). Perchè ciò che giustifica una norma di condotta non è la naturalità, ma la desiderabilità dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse possono apparire giuste od ingiuste secondochè si assumano come universalmente desiderabili o no i resultati, ai quali la conformità della condotta / ' fi 1 affo irafic-li itr [v yJ.tA ttfilk t**' he* ìtU 'o jqie j. (1) La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi neces¬ sari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come- yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar valore di universale desiderabilità a un ordine di effetti, per il solo fatto che ce ne riveli la produzione « naturale ». — 114 — a quelle leggi conduce, o ò creduta condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in ultimo, l’essere o no presenti ed efficaci nella co¬ scienza umana certi bisogni, desideri, aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della natura stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si siano, rebus ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere nella osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di bontà; ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere la giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità. Onde per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano possibili, almeno teoricamente, più Etiche diverse; possibile, per esempio, (sebbene l’accoppiamento esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiu¬ stizia, quando si assuma come postulato la prefe- ribilità di una comunione sociale in cui una parte non abbia che diritti e un’altra non abbia che do¬ veri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due Etiche diverse, anzi opposte : l’Etica degli uomini- fini c l’Etica degli uomini-mezzi; o, per usare le parole del Nietzsche, la Morale dei padroni e la Morale degli schiavi ; e la medesima condotta sa¬ rebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri, ingiusta. Che una « giustizia » di questo genere ripugni — 115 — alla psiche del socius per una ragione analoga a •quella per la quale ripugna alla psiche dell’ uomo logico ammettere che un rapporto tra due cose o fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza, si fonda, io credo, la giustificazione etica della coazione e delle sanzioni). E certamente rimane aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno ai problemi che riguardano il come e il perchè il postulato che assumiamo possa e debba essere ac¬ cettato ; e se alla esigenza che esso esprime si possa o si debba assegnare un ufficio, e quale, nella interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono di natura metafisica, la costruzione scientifica del- l’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi indipendente, per una ragione analoga a quella per la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da ogni questione intorno al fondamento e al valore del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il valore normativo dei suoi precetti: — che un or¬ ganismo sano sia preferibile a un organismo ma¬ lato. — Perciò, finché si rimane nel campo della ri¬ cerca scientifica, la sincerità richiede che, anche nell’Etica, malgrado ogni interiore certezza, questa condizionalità del valore delle norme sia esplicita¬ mente riconosciuta, e che anche nei termini si « — 116 — eviti 1 ’ equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni pretensione a un valore che non sia condizionato al presupposto assunto. Per questa ragione, oltreché per fissare rispetto alla dottrina dello Spencer le differenze notate nel modo di intendere il fine, e di concepire la società * giusta e 1 ’ uomo giusto, e la priorità non soltanto logica ma giustificativa di un’Etica rispetto all’altra, LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini « Etica Asso- ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura V'.',:r , ì '■ pvi n l iuta i v a » i ieri mmi « e~=r . 1 ", della giustizia ed Etica Applicata della giustizia ». (^ 3 ; n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od 'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate pre¬ liminarmente le condizioni della giustizia, fosse assunto come fine l’adempimento delle condizioni richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero due ulteriori sezioni dell’Etica : l’ Etica Pura della Simpatia e 1’ Etica Applicata della Simpatia. della J **1 » —-PER UMA SCIENZA FORMATIVA MORALE * - \ 1 PER UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE A leggere questo titolo, quelli che il Varisco ha chiamato felicemente « i filosofi dell’ oramai» e quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli della filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno. — Non è « oramai » pacifico che di una scienza della morale non si può parlare? E vale la pena di perdere il tempo attorno a un problema « oltre¬ passato »? — Io mi rassegnerò a lasciarli sorridere; ma non son persuaso dell’ oramai, e trovo che il problema è tutt’ altro che superato. La quale per¬ suasione per altro non garantisce nulla, pur troppo, rispetto all’ altra faccenda del perder tempo ; per¬ chè il tempo si può perdere, e far perdere, come sappiamo benissimo tutti, anche trattando di ar¬ gomenti non « oltrepassati ». 'Dico dunque che il problema, almeno nel modo nel quale credo che debba essere posto e ho cer¬ cato di porlo, è più vivo che mai e di interesse capitale così per l’Etica come per la Filosofia del diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se do- 8 — 122 — vrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più spesso che le buone regole non consiglino, in prima persona. • • 1. — Quando sostengo la possibilità e la legit¬ timità di una scienza normativa morale, non in¬ tendo che una tale « scienza » possa o debba so¬ stituire la metafisica, e bandirla proprio da quel campo che è il vero vivaio dei problemi metafisici, il campo delle idee e dei sentimenti morali. E nem¬ meno che possa pretendere di costruire la morale , « F unica vera morale » erigendo a norme della condotta certe leggi naturali cosmiche, o biologiche o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza normativa etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza pre¬ cettiva, consistere in altro che in u n sistema di re ¬ l azioni e di legg i, le quali hanno valore di norme da seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine quel- F effet to o quell'ordine di effetti, del quale esse ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibo¬ sco dalle altre, perchè s uppone che al fine suo [MJLjcTalfA Ò)lCJUjLt> 'ittl- , del quale esse ’Sl'Kp tkf si a rico n osc iuto un valore di universale pref eribilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò una determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni : l.° Che il fine sia — 123 — umanamente possibile; cioò tale che se ne possa stabilire la dipendenza condizionale da una certa forma di condotta collettiva e individuale. Di qui dipende il carattere scientifico della costruzione ; perché la relazione che lega le norme con quel fine potrà essere lunga, complicata e difficile, ma non richiede ad essere conosciuta altri mezzi che quelli di una indagine scientifica. 2.° Che sia ammesso come postulato che il ri¬ conoscere al fine assunto valore di universale pre- feribilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente possibile, è un 'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si ricusa di ammettere questo postulato o se ne nega la legittimità, la de¬ terminazione delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non perde nulla del suo carattere scientifico ; ma le norme non hanno valore morale. •Ossia, il valore morale delle norme così ricavate ò relativo alla accettazione del postulato; e la de¬ rivazione scentifica di un sistema di norme dal fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza della condotta morale; ma la scienza di una certa condotta; la quale è la condotta morale, se si am¬ mette e in quanto si ammette quel postulato. Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto arbitrario e fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nes- ’ v '’’ suno fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua esigenza morale una esigenza che non trovasse nella */ r f>' r \ c < ’• ' a • fi «.e ^ 0 $/» Uiv - — 124 — l Vt p*|Ut-U4« ^vw * realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho- cercato di porre in chiaro in primo luogo quale fosse l’esigenza caratteristica del valore morale di una norma ; poi, se si potesse assegnare un fine umano, e quale potesse essere, che rispondesse a queste condizioni. Non è il caso di ripetere il già detto (1); qui ne ricordo soltanto le conclusioni : — che l ’esi- genza che assum o, e, credo aver dimostrato, legit¬ timamente, come caratteristica di una norma mo- r ale ò quella di una universale giustizia ; e che il fine che soddisfa a questa esigenza non può essere che una forma di società umana tale, che tutti i sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivo¬ glia dei beni ai quali la convivenza e cooperazione sociale è mezzo. — Supponendo dunque ammesso il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della giu¬ stizia, alla quale il postulato fa appello, è la più profonda e più tenace e più incoercibile dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di moralità e considera se stesso, ed è considerato, come persona a pari titolo di ogni altro socio. (1) Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a quello clie che lo precede nel presente volume, e a un altro studio : Prolego¬ meni a una Morale indipendente dalla Metafisica, Pavia, Biz- zoni, 1901. — 125 — Tuttavia per quanto possa parere ed essere le¬ gittimo prendere per concesso qu esto postulato, non bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chia¬ ramente , che il fine e le norme corrispondenti hanno quel valore che si attribuisce a loro, soltanto nell’ ipotesi che lo si accetti come valido e fuori di contestazione. Se non 6 ammesso, ò vano pretendere clic la costruzione normativa valga a farlo accettare o possa obbligare ad accettarlo. Essa non può che mostrare la coerenza delle norme proposte col fine assunto, e di questo colla esigenza della giustizia ; e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente ammettere questa esigenza senza ammettere il va¬ lore di universale priorità attribuito al fine, e quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato di fatto che la costruzione normativa trova, se c’è; ma che non pone essa, ne per sò vale a mutare. 2. — Adunque la scienza normativa morale così intesa si riduce alla determinazione delle norme di condotta valide per una coscienza che anteponga a ogni altra esigenza l’esigenza della universale giu¬ stizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme di condotta per una coscienza per la quale valga come suprema l’esigenza egoistica, le norme risul¬ terebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il medesimo ; la deduzione sarebbe, o si può concepire *1 lyO che potrebbe essere, ugualmente ragionata e scien¬ tifica. E del pari se si assumesse come regolatrice l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incon¬ dizionata di sò agli altri, o qualsivoglia altra esi¬ genza e un fine possibile corrispondente. Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota di significato l’opinione tante-volte ripetuta, e che forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto gran rumore, che la ragione non ci comanda che l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla ; né l’egoismo, nè l’altruismo, nè la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che servono a conservar la vita a chi la vuol conser¬ vare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; ad¬ dita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè più « razionale » dell’altruismo, nè il regresso più razionale del progresso, nè la conservazione del- l’individuo più razionale di quella della specie, nè 1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della col¬ lettività. Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei mezzi ai fini (1). Ed è così ragionevole che dia la (1) Dire che la ragione non consiglia che 1’ egoismo equivale a dire che una condotta non egoistica non si può ragionevolmente giustificare ; ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di un fine non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e — 127 — vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita, come che taccia la verità per un ciondolo chi ama più i ciondoli che la verità. Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della ragione può avere, come non dubito che abbia, una efficacia indiretta nella valutazione dei fini, non è dubbio che questa efficacia si esercita in favore di quei fini e di quelle norme che rispondono alla quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a rag¬ giungerlo ; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine dell’ operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico non è mai fine per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico al quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo fine egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può es¬ sere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto reale o supposto ; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è al¬ lora non che « la ragione consiglia l’egoismo » ; ma che « gli uo¬ mini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici) ; e quindi, finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole altra condotta all’ infuori di quella suggerita dall’ egoismo ». Sapevhm- celo ; ma non vuol dire che l 'essere egoisti sia più ragionevole die il non essere. D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti, anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoi¬ stico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i con¬ sigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinun¬ cino ad essere ragionevoli per.... continuare ad essere egoisti. tendenza caratteristica dell’attività razionale : l’uni¬ versalità. Ora nel campo dell’attività pratica il fine del quale soltanto si può concepire universale il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto si può concepire universale V osservanza, sono un fine e una norma conformi all’esigenza della giu¬ stizia (1). Ma, tornando al nostro argomento, anche il ri¬ conoscere che il fino e le norme determinate in conformità al postulato hanno, e possono avere essi solamente, la nota razionale dell’universalità, non ne toglie il carattere necessariamente e insupera¬ bilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa dipendere da questa loro universalità, si prende per concesso che l’universalità sia assunta come criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra- (1) iSon trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione che non solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una regola di condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli uo¬ mini universalmente e costantemente osservata, senza contraddizione, o senza che sia necessario supporla subordinata alla sua volta a una norma di giustizia. Perchè sia possibile l’abnegazione e la ri¬ nuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli uni si sa¬ crifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio ; cioè che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o qual¬ che altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a un tacito scambio di servigi reciproci), bisogna che la condotta altrui¬ stica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altrui¬ stica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia governato da una norma di giustizia. — 129 — zionalc e teoretica dell' universalità la coscienza faccia una stima pratica, attribuendole un valore e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza. Concludendo: la scienza normativa etica, alla quale mi riferisco, è la scienza della condotta ri¬ chiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se si riconosce come caratteristica del valor morale di un fine e delle norme che ne dipendono una esigenza diversa, o se si pone come congruo ad essa un fine incongruo, o si assumono come con¬ dizioni conformi all’esigenza di una universale giu¬ stizia delle condizioni clic negano o limitano questa universalità, le norme riconosciute e accettate come morali saranno diverse. 3. — Ma non concluderebbe nulla contro la tesi che difendo l’opporre che le norme o alcune delle norme in effetto tenute o seguite come morali sono diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in conformità al postulato assunto. Perchè qui non si tratta già di esporre (piali sono le norme accettate, o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bi¬ sogna ammettere per accettarle; ma di determinare quali sarebbero le norme della condotta morale nel- l’ ipotesi che si accetti il postulato. Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne segua. Ma per negare valore scientifico a una tale co¬ struzione ipotetica bisogna negare la dipendenza — 180 — condizionale del fine assunto da una certa condotta collettiva e individuale; e per negarle valore mo¬ rale (1), bisogna negare il valore morale dell’esi¬ genza, o ammettere che essa è o dove essere subor¬ dinata a un’esigenza diversa. Finché non si giu¬ stifica nè l’una nè l’altra negazione, il dichiarare « oltrepassato » il problema vale poco; e il sorri¬ dere vale anche meno. Perchè esponendo questo concetto io non mi sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬ bili; sopratutto quelle che fanno capo alla afferma¬ zione comune della impossibilità di una determi¬ nazione di norme morali che non si fondi sopra una dottrina metafisica. Questa questione anzi ho esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’ana¬ lisi non furono confutate. Avrei dunque, « in tesi di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo della prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e deve rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i versi lo stesso chiodo. ì. — E prima di tutto occorre qualche parola su quella che si potrebbe chiamare la tesi scettica, (,1) Che essa possa e debba aver valore anche dal punto di vista del Diritto è cosa evidente ; ma come c quanto non sono questioni da risolvere cosi di sfuggita. — 181 — della impossibilità di una qualsiasi determinazione di norme morali. — Il fatto etico è contingente, multiforme e va¬ riabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni ten¬ tativo di determinazione razionale. Oltredichè esso dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla conoscenza, e non si può ricavare da un processo di deduzione logica. — Questa tesi ha il grave torto di confondere la morale colla mora lità ; confusione sulla quale dovrò tornare anche più innanzi. « Il fatto etico ò variabile ». Certamente. E il fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò esso pure variabile? E forse perciò non si stabili¬ scono nonne giuridiche determinate e precise, e non si considera questa determinazione come un’e¬ sigenza della vita sociale, e non si misura dalla sua precisione e coerenza il progresso della vita e della coscienza giuridica ? E non è un luogo comune la lode fatta a Roma di maestra del diritto ? Non si venga a dire che il f atto "iuridico riguarda solo la non, come la inorale, anche e sopra tutto la interna ; qui si fa questione, anche per la morale, appunto, della con¬ d otta ester na, nella quale la moralità interiore deve pur tradursi ; ed è assurdo dire, per esempio, che non ha senso il precetto « non frodare », e vano cercar di determinare in che la frode consista, per- La. •H. i tìtou - — 132 — w/# i-yW t Aj.oiU? dolori* ché la frode è, forse più che qualunque altra cosa al mondo, contingente multiforme e variabile. È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo piuttosto che in un altro, dipende dal sentimen to e dall a vo lontà, e non dalla co noscenza del pre- 1 CJA k> W <Mj aI* VtU'f’N® . j r ‘ r , * cetto ; e che non si può dedurre da nessuna com¬ binazione di premesse l’azione. Nessun congegno di premesse, nessun processo logico, nessun sistema di conoscenze pone in essere la benché minima cosa ; .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre fin g iudiz io, non un ’azion e ; nella morale come in qua¬ lunque altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c. volitiv e sono tali o tali altre; potrà anche seguire senza che ci sia il giudizio. Verissimo e giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è questione non di fare, ma di sapere quel che con¬ venga fare, chi si proponga e ammesso che si pro¬ ponga un certo fine. Ora lo stabil ire queste rela¬ zioni tra un certo fine_e certe operazioni necessarie a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della volontà ; e io spero che nessun voluntarista vorrà sostenere che è indifferen te a chi vuol andare, po¬ niamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada per arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza nè di un certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa vo¬ lere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla al- Pufficio specifico della conoscenza; anzi, e appunto — 183 — perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema di norme di essere per sè inefficace a muovere Fa¬ zione non ha senso ; come non avrebbe senso pre¬ tendere che una formula chimica produca essa il composto del quale indica la combinazione. L’ uf¬ ficio delle norme morali, come di ogni altro sistema di norme qualesivoglia, non può essere che un uf¬ ficio informativo, non formativo ; di guida, non di stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli che adducono, per mostr are l a inanità di una co¬ s truzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come' s’è detto, la ni qrfllo_nnIlp mo ralità, la determina- zio ne_delle norm e colla c onformità alle norm e. Senonchò si può soggiungere che la determina¬ zione in questo campo non serve, perchè la cono¬ scenza delle norme si sprigiona volta per volta come da sè fuor dalle circostanze, per un intuito naturale che è più fine e delicato di qualunque de¬ duzione scientifica. E così viene in campo, accanto alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità : — l a cos cienza morale rende inutile la dottrina mo¬ rale. — - '* -** ' Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce dal fatto stesso da cui è nata la riflessione critica della morale: il fatto della diversità di contenuto nelle coscienze morali diverse; e poniamo — senza * — 134 — concedere — che 1*i ntuit o basti per tutti e sempre a segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse la determi nazione sistema tica del fine a cui .intui ¬ ti vamente tend e e delle norme che intuitivamente segue la co scienza mora le. Come la guida istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere inutile l’igiene; o come non basta a condannare la conoscenza fisiologica, per esempio, della dige¬ stione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli che sanno come la digestione avvenga. E veniamo alle obbiezioni che toccano diretta- mente la nostra tesi. 5. — In primo luogo si può osservare che la p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che dichiara di voler tenersi estranea a qualunque af¬ fermazione di carattere metafisico, presuppone una certa soluzione di un problema essenzialmente me¬ tafisico. Perchè, assumendo come fine morale un ordine di effetti umanamente possibile, pone come risoluto il problema se il fine supremo possa o debba essere umano o sovrumano, relativo o asso¬ luto; risolve cioè, sia pure negativamente, un pro¬ blema metafisico. — 135 — Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe risoluto il problema, se assumendo un fine (diciamo per brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo assolutamente, come definitivamente supremo; cioè se gli si assegnasse un valore assoluto ; e si ne¬ gasse la possibilità di una ulteriore valutazione del fine stesso ; di una sopravalutazwWe^Tciafisica, per la quale sia creduto mezzo alla sua volta, o condi¬ zione o preparazione di un fine sopraumano. Ma questa possibilità 1* ipotesi non la esclude. Si dirà che in tal caso il fine umano non è più il vero fine; e che perciò le norme debbono essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore di fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente, supremo; e che questa necessità riporta il problema della determinazione delle norme in piena metafì¬ sica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non capire come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme per la condotta in condizioni finite, da un al di là le norme per un al di qua; e dubito che quelli i quali dichiarassero di capire, equivo¬ chino sui termini. Perchè non si potrà mai dimo¬ strare un legame di condizionalità tra un certo modo di operare o un fine sopra natura le ; essendo il proprio e caratteristico del sopranaturale c del sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale e umana. Se si considera il fine sovraumano come un effetto che può essere condizionato da mezzi pu- — 136 — ramente umani esso cessa di essere sovraumano. Ma se invece rimane tale, cioè trascende la effi¬ cienza umana, si potrà bensì credere ed affermare che a raggiungerlo si richiede una certa condotta, ma non si può assegnare una relazione di condi¬ zione tra la condotta ed il fine, cioè non si può ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel fatto, evidente ad ogni osservatore non del tutto superficiale, che, anche nei sistemi di morale teo¬ logica o metafisica, quando si tratta di determinare le norme che debbono regolare la condotta nelle relazioni della vita comune, famigliare e sociale, non è più il fine assoluto quello da cui si deducono le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia re¬ moto; un certo ordine e un certo tipo di vita in¬ dividuale e sociale. Le norme dedotte da questo fine subordinato si presentano bensì come derivate aneli’esse dal fine assoluto, perchè si assume quello come posto o vo¬ luto o necessitato da questo ; ma in che modo dal fine assoluto si ricavi il fine relativo, come e per¬ chè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine sopraumano, sia necessario tendere a questo fine umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E quando par che si dimostri, gli è che si è assunto tacitamente e come incorporato in modo surrettizio nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altro che porre o assegnare un valore sopraumano al fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho chia¬ mata una sopravaluta;ione metafisica di quel certo fine umano dal quale in realtà sono ricavate le norme. Xon è dunque vero che assumendo un fine umano si risolva, o si postuli una certa risoluzione di un problema metafisico. Non si la che ubbidire a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva positivamente, sia che si risolva negativamente il problema intorno alla natura del fine assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale non si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta individuale e sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo fine, esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda condizional¬ mente dalla condotta, cioè che sia umanamente possibile. 0. — Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza propriamente morale, che il fine abbia un valore assoluto e non soltanto relativo? — Non discuto se sia o non sia ; perchè si tratta in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e per la constatazione di un fatto la discussione non ap¬ proda. Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^ ~~di me glio che postulare la possibilità di quel fi ne e postularne il valore ? Cioè supporre che quella pos- — 138 — 4t> siljilità e questo valore siano dati nelle intuizioni o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento ? E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la cre¬ denza nel fine e il riconoscimento del suo valore assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei fini relativi della vita finita, non possono essere dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti o affermati, è facile vedere che la dottrina vale per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già, e che accetta Vaffermazione perchè la trova corri¬ spondere a ciò che è già dato in lei stessa ; ma non vale essa, la dottrina, a far accettare queste sue affermazioni a una coscienza che intuisca e senta c creda diversamente. La costruzione dottrinale metafisica non riesce dunque clic a fare appello a un a intuizione o a una v alufazio ne di cui ammette o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove manca ; e quindi, di fronte a una coscienza diversa da quella che essa suppone, si trova nella stessa condizione della costruzione non metafisica. Cioè vien meno alla ragione per la quale il valore as¬ soluto del fine è richiesto. Questa ragione, se il valore assoluto del fine non è già assunto come una constatazione di fatto, consiste nella pretesa illusoria che la dottrina possa e debba assicurare per questo modo alle norme una validità universalmente riconosciuta ; e nasce Mm&i ^5_ 13<1 •da una preoccupazione pratica analoga a quella dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’Etica dia alle norme autorità imperativa. 7. — Ed eccoci all’argomento capitale: 1’ esi- • gonza del carattere imperativo della norma. — Ho già ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza dell’obligatorietà della norma morale. È in fondo il medesimo già notato più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia •della conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco di con fondere la morale colla moralità, la norma col la conformità alla norma : e quindi di preten¬ dere da una dottrina quello che nessuna dottrina nè metafisica nè non metafisica può dare : la ga¬ ranzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia esecutiva. Il linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’er¬ rore; e l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o la dottrina de i -doveri, contribuisce a ribadire il pre¬ concetto. nato dalla preoccupazione pratica, che compito di una dottrina morale possa o debba es¬ sere quello di costruire o fondare delle norme ób- hliyatorie. Mentre l’etica, dico qualunque dottrina etica,__non può fare altro che dedurre, o indurre, o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti, i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prose¬ cuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti Yi (yivuni l&u vuxnrib I nei — 140 — sono derivati. E se anche tutte le coscienze uni¬ versalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una certa norma, non per questo si potrebbe dire che l’imperativo è un carattere della norma ; l'impe¬ rativo sarebbe sempre anche in questo caso un ca¬ rattere del motivo che spinge all’ osservanza della norma ; un dato della coscienza che la abbraccia, che la riveste e la investe di questo motivo, clic la sente così. Quale sia la preoccupazione pratica da cui nasce e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo per cui si viene ad assegnare alla costruzione nor¬ mativa un compito al quale essa non può soddisfare in nessun modo, ho pure già cercato di mostrare altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi par privo di interesse mettere in chiaro con 1’ a- nalisi come i modi, nei quali può essere interpre¬ tato e tentato il proposito di « fondare una norma obbligatoria » si riducano a postulare l’esistenza dell’ obbligo, quando non riescono a una forma più o meno larvata di imperativo ipotetico. E come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo categorico per dato o postulato, non se ne possa ricavare la determinazione delle norme; ma si ri¬ chieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di valutazione e deriva¬ zione, estraneo e indipendente da quello. — 141 8. — Il compito di assegnare una norma che abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in ef¬ fetto, inteso in più significati diversi ; i quali si possono ridurre ai quattro tipi seguenti : 1. ° Dimostrare che la norma proposta corri¬ sponde a un sentimento, a un motivo, a una di¬ sposizione che si manifesta nella coscienza come •obbligo. — Allora il senso reale ò, non già che la do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o formuli in norme i modi di condotta ai quali la coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità del precetto è constatata e assunta, non posta, nè fondata dalla dottrina ; e la norma obbliga solo se •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco, e vien meno se tace la voce della quale assume il tono. 2. ° Presentare le norme come ordini di un Potere (qualunque ne sia la natura) irresistibile, che costringe volenti e nolenti a seguirlo. — In¬ tesa così l’autorità non viene nò dalla natura delle norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate, ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir così, la presentazione ; anzi il suo ufficio si riduce — 142 — in realtà a quello di interprete ed araldo di quel Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle quali parla in nome suo. Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si usa ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva; l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò di determinare quale sia la legge imposta da quel potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si am¬ mette o si riconosce l’esistenza. 3." Dimostrare che ciò che la norma prescrive dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di essere come ò, 1’ uomo fosse diverso ; seguisse la sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realiz¬ zasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro che in questo senso non si là che o determinare il fine in l'unzione di un certo tipo ideale, o il tipo in funzione del line ; ossia, in al¬ tre parole, determinare la relazione che sussiste tra una certa natura e una certa condotta. La qual relazione per necessaria che sia, non si vede come [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di fondare in tal modo 1’ obbligatorietà, ma¬ nifestamente si suppone ebe il conformarsi a un certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fon¬ damento di questo, nel primo dei casi enumerati. — 143 — Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo fine o seguire una certa condotta, si avrebbe non piii un imperativo categorico, ma un imperativo ipotetico. 4.° Dimostrare che ciò che la norma prescrive, dece essere voluto universalmenta e incondiziona¬ tamente. — Questo ò manifestamente il significato che pare più proprio, e nel quale intesero e inten¬ dono l’esigenza i moralisti i quali credono di po¬ ter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che assumono come ideale etico. Ma l’intendere la tesi così, implica che si ammetta la possibilità di una di queste due vie : a) o derivare 1’ obbligatorietà dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo riconoscimento come dato o postulato ; h) o deri¬ vare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di queste due tesi deve essere considerata distinta- mente e un po’ più a lungo. 9. — a) — Posto pure che al fine assunto fosse riconosciuto in realtà universalmente valore di sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo. Questo riconoscimento non genera la coscienza del- Pobbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa che la coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè • — 144 — giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una tale giustificazione riesce a questa alternativa: o serve a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente tro¬ var buona e seguire la norma anche se non si sen¬ tisse Vobbligo, perchè la norma è ordinata a quel certo fine che è riconosciuto come sommamente desiderabile. E in questa forma la pretesa fonda¬ zione dell’ imperativo categorico si riduce alla for¬ mulazione di un imperativo ipotetico, che si sosti¬ tuisce o si aggiunge al categorico. 0 riesce a un’ar¬ gomentazione di questo genere : Siccome è bene sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e poiché si ammette o si suppone che la coscienza d’un obbligo assoluto sia necessaria a garantire questa osservanza, l’imperativo categorico appare la condizione sine qua non, acquista valore di mgzzo indispensabile al proseguimento del fine. Nel primo modo si viene a dire che l’impera¬ tivo categorico è giustificato perchè è bene ciò che esso comanda; nel secondo che è giustificato per¬ chè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè 10 giustificano gli tolgono il carattere di categorico. 11 che se nel primo caso è più evidente, non è meno vero nel secondo. Infatti, posto pure che la cate¬ goricità dell’ imperativo sia condizione necessaria all’osservanza della norma, non ne viene perciò — 145 - che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sa¬ rebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: os¬ sia la pretesa derivazione che se ne fa, mostra la necessità di una condizione, non la pone in atto se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la sod¬ disfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di questa esigenza è contradditoria, perchè a convin¬ cere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna le ragioni ; il che equivale ad ammettere che ve¬ nendo meno queste ragioni verrebbe meno quella necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come categorico, finché è utile che valga; come chi di¬ cesse un’ autorità che si fa valere incondizionata¬ mente .. .. sotto certe condizioni (1). Adunque, se la c Qscienza d’un obbligo asso luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare da un fine, qualunque sia il valore che gli si attri¬ buisce, non può farla sorgere; se c’è, la giustifi¬ cazione riesce ad assegnare le condizioni della sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo incondizionato. (1) Il che può però aver un senso, se si guarda bene ; ma in un caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si rende ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’ im¬ perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo vale come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso che una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga incon¬ dizionatamente per un’altra coscienza. Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere a prima vista. — 14U — b) — Oppure finalmente si intende che ap¬ prendere ciò clic è posto come line equivalga per ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non si possa conoscere la natura del line senza sentirsi obbligati a riconoscergli valore di bene supremo ; cioè che la conoscenza generi la coscienza d’un obbligo. — Questa che è in sostanza la tesi di¬ fesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro Rosmini, è veramente l’interpretazione tipica, più audace e radicale, del pensiero di derivare l’obbligo dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento og¬ gettivo nella natura stessa di quello. Ma — senza dilungarmi su questo tema in una critica troppo nota — è inevitabile questa alter¬ nativa : o il dover riconoscere esprime una neces¬ sità puramente logica, e non può dare quello a cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di riconoscere il valore; o vuol esprimere una neces¬ sità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè pretende ricavare da una determinazione obbiet¬ tiva la constatazione di uno stato subiettivo, la quale presuppone appunto resistenza di quella co¬ scienza dell’obbligo, che crede di far nascere e senza della quale la constatazione non è possibile. E per tal modo si ricade ancora una volta nel primo tipo di interpretazione (V. p. 141); quando non si voglia ammettere questa tesi : che è obbligo rico¬ noscere quel fine come sommo bene e volerlo, così — 147 — se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè sia che la coscienza senta sia che non senta di dover attribuirgli quel valore. Ossia non si am¬ metta la tesi dell’obbligo di credere anche senza o contro l’attestazione della coscienza. Il che ren¬ derebbe inevitabile l’appello a una autorità esterna, alla quale la coscienza si deve inchinare; e farebbe della morale del bene oggettivo una morale dom- matica, che rientra nel secondo tipo. 10. — Adunque l’analisi dei modi nei quali può essere interpretato e tentato il compito di fon¬ dare una norma obbligatoria conduce a questa con¬ clusione: o si intende che « fondare una norma obbligatoria » voglia dire derivare l’autorità della norma dal valore del fine; e allora, come s’è visto, c come avea notato chiarissimamente il Kant, non si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico; o si intende che voglia dire assumere come dato l’obbligo e determinare le norme in conformità a questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta , non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua esistenza e validità sussiste all’ infuori della co¬ struzione dottrinale, che la postula, ma non la fa essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come esistente non la pone in essere, nè ne legittima per sè l’assunzione. — 148 — IL — Per tal modo, se il difetto capitale di una scienza normativa etica conforme al concetto esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di non^ poter presentare le norme col carattere di im¬ perativo categorico, questo difetto è comune, e non potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz ione dottrinale. die non si proponga di derivare le norme da un imperativo categorico assunto come dato. Ed allora resta da vedere se. prendendo l’impe¬ rativo categorico per dato o postulato, si possa ri¬ cavare da esso la determinazione delle norme; o se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di valutazione e di derivazione, estraneo e indipen¬ dente da quello. CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in suffi¬ ci ente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc morali è manifesto, qualora si intenda con esso assumere null a più che la forma destinata a rivestire un con¬ tenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è pur manifesto che, appunto perciò, il dato dell’obbli- gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale. Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un tempo la forma dell’ imperativo e la m ater ia del precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare, hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la determinazione del fine sia il contenuto delle norme. Senonchè, quando si prenda come dato non la pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente ha dimostrato, a fondare la morale .sull’autorità, superiore ad ogni discussione, di una certa rivela¬ zione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica 1’ ufficio di espositrice e interprete di questa. Rilevando questa conseguenza io non intendo affatto di darle il valore di una dimostrazione per assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò tut- t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in con¬ fronto dell’ affermazione generica e ambigua che « la morale deve dare norme obbligatorie » il pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui si trova di fronte. 12. — Tanto se si intende che la ri velazio ne da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende che sia esterna, si presenta la medesima difficoltà; quella difficoltà, antica e notissima, dalla quale t ciu* oìaI 'R\)l£lp2:\0h/& l'ileo ila. £|Avh<* venne il primo stimolo alla riflessione e alla cri¬ tica nel campo della morale: l a pluralità delle ri- velazioni. Poiché i responsi della cosc ienza morale sono s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono di- ✓ vèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se, resta, o che si riconosca a tutte la medesima auto¬ rità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo; o che si scelga. f Quan to alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere a dimostrar l’autorità di una piuttosto che del- 1’altra, poiché t utte si danno come assolutament e certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle quali una rilevazione attesta la sua autorità sono ado¬ perate da ciascun’ altra per asserire la propria, e da tutte risuona sui precetti morali diversi il me¬ desimo tono di comando. Si cercherà il criterio della scelta nella natur a del le cose co mandate o proibite, come avviene quando si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà de i prec etti morali di una religione rispetto a quelli di un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti mo¬ rali che viene assunto come criterio dell’autorità della rivelazione. E il valore di questo contenuto, che è così usato a provare la superiorità di una rivelazione sulle altre, si può dunque riconoscere indipendentemente dal suo presentarsi sotto la forma di un comando rivelato, dal momento che è esso invocato a pro¬ vare l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete e — 151 — araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^ rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione che tanto il fine quanto le norme morali si sup¬ pone che possano e debbano essere conosciute c de¬ terminate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione. cioè all’infuori da ogni appello all’autorità. Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione esterna, vale per quella di una rivelazione interna. Tra due coscienze, delle quali rispetto alla mede¬ sima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra il non fare, il criterio di valutazione comparativa non può esser dato dal carattere imperativo, che è comune ad ambedue, ma deve essere un altro. Ed anche allora il criterio che serve alla valu¬ tazione comparativa sarebbe esso in realtà quello da cui dipende cosi la determinazione come la giu¬ stificazione delle norme. l i. — Non resterebbe che riconoscere ja mede¬ sim a autorità a tutte le rivelazion i. Il che importa l’una e l’altra di queste conseguenze: o la asso¬ luta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo -“ -- e tempo; o la limitazione a determinate condizio ni storiche dell’autorità e del valore di ciascuna. Se non si vuol accettare la prima (1), si pre¬ senta la domanda: Questa limitazione ha o non ha Uva*» (1) Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi della as¬ soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel campo della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma del — 152 — la sua ragion di essere nelle condizioni storiche, dalla cui presenza è circoscritta la sua validità? Se la limitazione non dipende da queste condi¬ zioni, ma essa pure non ha altra ragione di es¬ sere all’ infuori dell’ autorità o del carattere impe¬ rativo col quale hic et nunc si presenta, allora si ammette che, astrazion l'atta da questo carattere di obbligatorietà col quale una certa norma si pre¬ senta in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe nessuna ragione di preferire nelle stesse circostanze una norma ad un’ altra, cioè si giunge per un al¬ tra via all’indifferenza del contenuto (1). Se poi questa limitazione ha la sua ragione di essere nelle condizioni storiche stesse, entro le quali è valida, cioè in una parola se__ò relativa a queste condizioni, allora si ammette che sono queste condizioni il criterio della limitazione ed è la corri¬ spondenza a queste condizioni storiche il criterio della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa che dà alla norma il suo valore all’ infuori del- 1’ obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante, medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’ una l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che quello. Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione intorno al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte. (lT E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammet¬ tere un’ altra rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la limitazione in discorso. — 153 — dal momento che esso serve anche a stabilire i limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta come valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ ob¬ bligazione non possa essere un dato sufficiente alla determinazione e valutazione delle norme, e come per essa non solo non possa essere negata, ma venga confermata la legittimità di una scienza nor¬ mativa morale. 15. — Senoncliè a questo punto mi sento op¬ porre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque non ^esiste la Morale Kantiana ? Non ricava egli dalla volontà buona, dal dovere, dall’ osservanza della l egge perda legge, la norma morale suprema, nella notissima formula, nella quale, indipendente¬ mente da ogni particolare rivelazione storica, c sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie tutto un sistema di norme razionali ? E s e la sua morale è f m^gle. cessa perciò di avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere, e, a fortiori, di essere possibile? — Certamente a nessuno può venire in mente di negare la possibilità di un sistema che ò esistito ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di ne¬ garne il valore. Così la grande costruzione razionale dei doveri dell’ uomo del Kant, come la grande costruzione razionale dei diritti dell’ 'uomo che piglia nome dalla Rivoluzione Francese sono ben lungi dal me¬ lo — 154 — VFDFfiF sr & )\<é 4 i'MSSfat ri tare il facije compatimento col quale parlano di astrazioni e di formalismo certi fonografi della so- ciologia. Ma qui al proposito nostro importerebbe vedere la costruzione razionale del Kant sia fondata sul d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist o sulbesigenza dell' universalitaTche nKanTcrede bensì trovare implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T< ì»-^uAtv\ 7 u-iC' che è invec e caratteristica dell’ ide a_di ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap- p robazione interiore dell’obbligo, che è propria della ^ -y j coscienza del dovere (1). Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al Kant per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬ versalità, non è un elemento contenuto nel dato stesso e che possa esserne ricavato analiticamente, ma (L una sintesi nella qual e insieme coll’obbliga- zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che la giustifica. Ed è questa e sigenza dell’ universalit à, non il dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il cri¬ terio supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come, anche nella morale kantiana, l’imperatività non sia un dato sufficiente alla determinazione delle norme, e come in realtà venga assunto non solo un criterio (1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr. Prolegomeni ecc. pp. 19-88. ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL <.TKv tff» }rlv \ltj ’V- r ' P i* " I"," I ]( Lo'h YcMufr Vvvt7 VX 0 u dU 'um^ìvc^ÌO p c -‘ — ‘Oi " — 155 — non ricavato da quella, ma implicitamente anche un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi assai meno sommaria; poiché non è questo un argomento da sbrigarsi così alla lesta. Basti per ora non aver omesso 1’ accenno. IL FONDAMENTO INTRINSECO DEL DIRITTO secondo I il Vanni Il Fondamento Intrinseco del Diritto SECONDO IL VANNI (*) -- Nota Critica - Il volume dal titolo « Lezioni di Filosofìa del Diritto », la cui pubblicazione fu curata con rive¬ rente pietà e con devota ammirazione dalla Vedova e da alcuni tra i più valenti Discepoli poco dopo la morte immatura dell’Autore, è forse tra gli scritti del Vanni quello in cui la sua dottrina ap¬ pare più compiutamente ordinata a sistema, e nel quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e ve¬ ramente si può considerare come il testamento scientifico del celebrato Maestro. Certo, qualunque giudizio porti sul fondamento e sulla validità in¬ trinseca del sistema, nessuno può disconoscere la larghezza e la profondità della coltura filosofica e giuridica, e la chiarezza della trattazione; e sopra¬ tutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che ò propria di chi medita e scrive per amore disin¬ teressato del vero. (1) Icilio Vanni. — Lezioni di Filosofia del Diritto — Bologna, Zanichelli, 1904. La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il ^ tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca sintetica o lcnomenologia giuridica ; e la ricerca deontologica. Nella prima egli comprende non soltanto la de¬ terminazione dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti della filosofia del diritto colle scienze affini, ma anche una indagine preliminare di critica gnoseo¬ logica. che il Groppa li accordandosi col Fraga pane ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al compito di questa disciplina. Giustamente, finché si intende che la filosofia del diritto debba istituire una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se si intende anche di negare la opportunità di pre¬ mettere, come in fondo fa il Vanni in queste Le¬ zioni, quali sono i presupposti gnoseologici accettati. Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una o d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente. Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere e si applicano di solito nelle ricerche speciali taci¬ tamente. Ma compito del filosofo è appunto, come osservava il Rosmini, di c omprendere e fo rmulare elii aramente quello che gli altri sottintendon o. Del resto il fatto che il Vanni voglia prender le mosse da una v alutazione critica sulla natura e al sapere giuridico, prova quanta larghezza di pen¬ siero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani e generali presupposti della sua dottrina. La seconda ricerca si sdoppia in due parti : statica, che determina la nozione logica del diritto, inducendola dell’analisi del diritto positivo dei po¬ poli più progrediti, e similmente dello Stato; dina¬ mica (genetica o storica) che studia la genesi e la formazione storica del Diritto e dello Stato; e si potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del diritto. Alle quali due ricerche corrispondono le parti II® e III® del volume. Finalmente la terza ricerca di carattere etico o valutativo ha per oggetto il problema della Giu¬ stizia, ossia del fondamento intrinseco e delle esi¬ genze razionali del diritto. Questa, che costituisce la parte IV® ed ultima, ò senza dubbio la più im¬ portante, perchè riguarda quello che è il problema centrale della filosofìa del diritto; e nella cui so¬ luzione principalmente Si manifesta la nota carat¬ teristica delle diverse dottrine. E la dottrina del Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi prevalente la consideri oltrepassata, merita di es¬ sere ricordata e discussa; perchè mentre intende il compito della filosofia del diritto non soltanto come storico-genetico, ma anche come normativo, (nel che si accorda coll’ idealismo) si propone di assol¬ vere questo compito tenendosi nei limiti d’una co- 16 2 — struzionc puramente scientifica, ed escludendo ogni postulato di natura metafisica; nel che consente col proposito, se non col metodo, dello storicismo c del positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina, non nasce, come può parere a prima vista, dalla pre¬ tesa e comunemente ammessa inconciliabilità tra il compito normativo e la validità scientifica ; chè anzi questo intendimento, chiaramente concepito e tenacemente proseguito, di una costruzione nor¬ mativa scientifica del diritto, è a mio giudizio, un alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato, direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni sia possibile una costruzione etico-giuridica che sod¬ disfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze. La jiottrina del Vann i, per quel che riguarda il fondamento intrinseco del diritto e il metodo, si può considerare come una forma di quella che lo Spencer ha propugnato e difeso col nome di utili¬ tarismo razionale: e infatti, pur rilevando giusta¬ mente l’importanza e il valore del pensiero del Romagnosi, egli la riconosce come il precedente più immediato e più notevole della sua. Ma la trova erronea per tre rispetti ; perchè ammette un diritto naturale; perchè pretende di costruire una norma etico-giuridica assoluta ; e perchè Analmente lo Spencer intende le condizioni di esistenza da cui le norme devono essere dedotte, in un senso pura¬ mente biologico. Principalmente su questo ultimo punto egli accentua il suo dissenso, prendendo come base, non le condizioni dell’esistenza individuale e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica sta dunque nella necessità per chi vive in società (e la socialità è la esigenza suprema del- 1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra intrinsecamente necessarie quelle forme e quei modi di condotta che sono richiesti dalle con¬ dizioni della vita in comune. Fra queste condizioni ve ne sono alcune che hanno un’ importanza fon¬ damentale e primaria, in quanto rappresentano l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione; e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste potrebbero non essere spontanea¬ mente osservate, è necessario che le azioni relative ad esse non restino abbandonate alla buona volontà e alla spontaneità e che « con una norma di con¬ dotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventual¬ mente coattiva s’induca all’osservanza anche il volere recalcitrante. Quindi in altri termini la ne¬ cessità del diritto, il quale ci apparisce allora come una norma che ha da garantire le condizioni fon- — 164 — (lamentali per la coesistenza e la cooperazione umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il Di¬ ritto viene ad avere un fondamento intrinseco, e viene ad averlo anche lo Stato, il quale è indispen¬ sabile alla funzionalità (tei Diritto » (pag. 314). Xon è necessario un lungo discorso per vedere che quando il Vanni crede di fondare in questo modo F esigenza razionale del diritto finisce per assumere in realtà come presupposto il principio che egli vuole, e crede di dovere, derivare apodit¬ ticamente, e al quale appunto è subordinato il va¬ lore di necessità razionale assegnato alle norme ideali che devono servire di modello e di criterio di valutazione. Infatti la relazione naturale e ne¬ cessaria tra una certa condotta e certe condizioni, necessarie alla loro volta alla convivenza e coope¬ razione sociale, serve bensì a stabilire che quella condotta deve essere riconosciuta come un mezzo necessario al fine di conservare e promuovere la convivenza e la cooperazione sociale, posto che questo sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo come fine; e fine precedente in valore e autorità ad ogni altro. Il \ anni par che intenda superare la difficoltà osservando che la necessità puramente naturale in quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto in una esigenza ed in una necessità razionale. « Essa — 105 — allora esprime un principio logico fondamentale, il principio di contraddizione ». Se in forza della na¬ tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per ottenere un certo fine è indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere un certo risultato è in¬ dispensabile un certo modo di condotta, impliche¬ rebbe contraddizione che si potesse impiegare un mezzo diverso o seguire una condotta diversa (p. 315). Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è certamente tra il pensare che una condotta è indispensabile a raggiungere un certo fine e pen¬ sare che questo stesso fine possa essere raggiunto con una condotta diversa ; ma io non violo nes¬ sun principio logico e non sono punto in con¬ traddizione con me stesso se, ammettendo che un certo fine dipende da certi mezzi, non voglio il fine e non voglio perciò neanche i mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale all’ ordine cosmico, considerandolo come la forma più alta a cui riesce 'iì processo della^ evoluzione universale. Perchè non si fa altro in questo modo, che spostare il presupposto; cioè ammettere, an¬ cora e sempre, che si riconosca valore di fine su¬ biremo a questo adattamento all’ ordine cosmico. Il quale presupposto potrà o non potrà venir legittimamente assunto come dato o postulato ; ma è e rimane un presupposto. E perciò le norme ideali che se ne deducono hanno questo valore di nonne nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo quel- P ordine di effetti dal quale sono dedotte. « Ma rilevando cosi il carattere necessariamente ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche il « sistema delle condizioni della vita in comune » del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo carattere ipotetico costituisca per sò un vizio pro¬ prio di questa e di tutta una classe di costruzioni etico-giuridiche, come pretende P idealismo metafì¬ sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di convivenza e di relazioni sociali, che assume come modello e in conformità al quale determina le norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare, sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio, decisive : Primo : che le norme ideali sono pur sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale as¬ sunto come modello, e non dal fine metafisico, della cui autorità e del cui valore esso si riveste. Secondo: che il valore assoluto di questo fine metafisico non può essere che assunto aneli’esso o come dato o come postulato. La verità è semplicemente che un sistema di norme giuridiche contempla di necessità un certo — i<;7 ordino di vita individuale e sociale; e che la va¬ lidità dello norme dipende dal valore che si sup¬ pone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo riconoscimento di valore, questa valutazione del fine è dunque il presupposto inevitabile della va¬ lidità etica del sistema (la quale non esclude la va¬ lidità scientifica, ma non si esaurisce in questa); e la questione si riduce a decidere se si pub o non si può assumere legittimamente come dato o come postulato questo riconoscimento del valore che nel sistema è assegnato al fine. Ora è nel rispondere a questa questione, non nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza del sistema del Vanni e dell’ indirizzo naturalistico in genere; e alla quale del resto non riesce a sfug¬ gire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una ri¬ sposta adeguata alla questione esige che si deter¬ minino le condizioni richieste perchè a un ordine di convivenza e di cooperazione si riconosca valore di fine universalmente regolatore, valore, direi, (piuttosto che di summum bonum ) di primum de¬ siderabile ; ossia perchè si possa ammettere che tutti i soci consentano liberamente nel valutarlo e vo¬ lerlo come tale. E che si assuma poi, come modello per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale con¬ figurato in conformità di quelle condizioni. Ma non è rispondere alla questione il dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere, o di un certo tipo che si assuma volta a volta come modello. Questa dimostrazione può servire a farmi trovar buona o giusta o desiderabile P osservanza dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto o degno di essere voluto, quel tipo di vita sociale, cbe si presenta come suo effetto ; ma non inversa¬ mente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi a subirlo per la coscienza della sua necessità natu¬ rale. chi potrebbe legittimamente scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione a un male con la aspirazione a un bene ? Nemmeno gioverebbe, d’altra parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che valga a farmelo ri¬ conoscere tale Vaffermazione (poiché qui di dimo¬ strazione non si potrebbe parlare) che esso .ha un fondamento o una giustificazione metafisica, se la ragione per la quale il sistema gli assegna questo fondamento consiste appunto nel valore di fine che esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco ? Ma il Vanni (per restringermi a lui. poiché al- 1 indirizzo metafisico non ho accennato qui se non per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe — 169 — con tutta probabilità che per la via indicata come la sola legittima si riesce a una costruzione pura¬ mente astratta, di un tipo utopistico di società che non trova nella realtà storica nessuna corri¬ spondenza; e che si ricade nei difetti (ai quali ap¬ punto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica, s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o di un diritto assoluto valevole per tutto c sempre, e senza riferimento possibile alla variabilità dei rapporti sociali. Mentre riponendo, come egli fa, il fondamento intrinseco del Diritto n ella conformità della co n¬ d otta alle condizioni richieste dalla vita in comu ne, questo riferimento non solo appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le con¬ dizioni della vita in comune non sfuggono al moto dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune hanno il carattere d’una certa uniformità e co¬ stanza, altre invece variano correlativamente al grado di sviluppo umano e alle forme di organiz¬ zazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e di ciascuna forma. Il che importa che debbono va¬ riare corrispondentemente le norme regolatrici ; os¬ sia che nell’applicazione « il sistema etico-giuridico fondato sulle condizioni di esistenza va combinato col principio di evoluzione e subordinato al criterio della relatività storica » (p. 318). Ora, lasciando di rilevare come con questa su- / it bordinazione si assuma sempre per presupposto che l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo so¬ ciale storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che la coscienza* ne riconosce la necessità storica, anche valore di fine, importa notare come si venga con ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa delle diverse forme storiche del diritto. Perchè una valutazione comparativa richiede di necessità un criterio, il quale non può essere dato dalla corri¬ spondenza alle condizioni storiche. E se si prende un criterio diverso, allora è la conformità a questo criterio e non la necessità storica, che si assume come esigenza razionale o come giustificazione in¬ trinseca del diritto. È certo che se una costruzione etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere sospesa, come gli Dei d’Epicuro, tra cielo e terra, e fuori di ogni possibilità di applicazione alla condotta in¬ dividuale e collettiva, bisognerebbe accettare la tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ am¬ bito della pura sociologia. Ma esiste davvero questa incompatibilità? E non potrebbe essa dipendere, invece che dalla ra¬ dicale sterilità di una costruzione veramente ra¬ zionale (1), dalla preoccupazione di giustificare eti- (1) Se, e a quali condizioni, una tale costruzione sia possibile, è argomento del quale s 1 è già discorso altrove e che non può es¬ sere toccato di sfuggita. — 171 — camentc forme di diritto che non sono eticamente giustificabili, di assumere come condizioni richieste dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni, reali sì, e storicamente date, ma che sono la nega¬ zione di quelle richieste dalle esigenze ideali? Per¬ chè se fosse cosi, Ih conclusione da trarne sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile come criterio di valutazione e come modello nor¬ mativo, ma che, essendo le condizioni reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme ideali non possono essere applicate simpliciter a condizioni diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi do¬ vranno ugualmente servire come criterio per de¬ terminare quale sia in un dato momento storico la condotta sociale e individuale che, nei bifidi delle esigenze reali necessariamente imposte dalle condizioni in effetto esistenti, è più acconcia a favo¬ rire la trasformazione di queste nella direzione se¬ gnata da qualle esigenze ideali, ossia tende ad at¬ tuarle. il che importa che le esigenze corrispondenti alle condizioni proprie di un certo momento storico non siano assunte esse come esigenze razionali del diritto, ma forniscano il criterio per stabilire entro quali limiti sia possibile -tradurre in norme di di¬ ritto positivo le norme ideali. Ossia in breve : l’esigenza razionale segna le condizioni a cui deve soddisfare un ordino sociale perchè possa aver valore di fine; la realtà storica 1 > Indice Generale 1. ° La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e la Morale come Scienza .... Pag. 3 ' * • , 2. ° Per Una Scienza Normativa Morale .„ 119 3. ° Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo il Vanni 157
Thursday, March 10, 2022
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