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Thursday, March 10, 2022

GRICE E JUVALTA: LA CRITICA DELLA RAGIONE CONVERSAZIONALE

  L VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE PRIMA IL FONDAMENTO DELLA MORALE 4  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il «vero» fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie- vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. ** * Il problema del fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di interpretazioni e di giudi- zio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia- scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri, che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione diversi: I. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. II. Dimostrare la bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi l'osservanza. 5  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta III. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento: a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. 6  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO IL FONDAMENTO CERCATO NELLA REALTÀ La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della condotta, non so- lo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la «scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relativi- tà, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di do- veri. Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia eviden- za: che si trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico A; se trovia- mo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con prin- cipi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibi- le!» dice la metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si avvera, manca la  7  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ma se questa fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi» scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una pedanteria. — Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto profondo smenti- re la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2. competenza richiesta. Un libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa (Précis raisonné de Morale pratique, Alcan, 1907) si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor- do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti «quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Nota VI: Metafi- sica e morale. E il Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla «Metafisica... definitiva» si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? 2 Neanche è da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia allontanata.  8  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando il Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfe- zione come sintesi dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten- za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possi- bilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è tut- t'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della «concezione immaginaria di un ideale» (La Morale et la Scienze des mœurs, Cap. V). Questa «conquista metodica» della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti — se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il cri- terio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era dipartita». 3 Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse (l'interesse teorico) e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore (intellettuale): ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata.  9  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa non trova nelle cose se non per- ché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co, ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non soltanto la molla che spinge a ricer- care e a trovare le distinzioni tra gli oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di pretendere che un giudi- zio di ciò che è, possa servir di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. ** * In breve (e trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La realtà si può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono- scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della Provvidenza diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco. La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi passano l'estate. 10   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta za costante dell'«etica scientifica» a identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio. ** * Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi (nel senso piú bello della parola), ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è ve- nuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono «vere», poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni co- scienza riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chia- ro e consapevole e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, a- scendente o discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. 11  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO IL FONDAMENTO CERCATO IN UNA GIUSTIFICAZIONE FINALE Illusione poco meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte- stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa alternativa: o di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora- le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un valore (di altro genere) anche se non fosse valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo (fine: la felicità, o il piacere) riescono di solito (quando e nella misura che possono) a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre quel che credono di derivare. ** * Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito (e che non è sempre neppure per la stessa persona il medesimo) ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza costante delle norme morali. 12  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono- logici; che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione (s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo) la considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o si identifichi con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è determinato, né determinabile se non ad arbitrio4; e solo significato comune e costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali, e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie. Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica) del valore morale5. ** * Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o 4 Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come scienza, pp. e 120-121) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che la coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo dell'operare.  13  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un momento dell'attuazione, di quel- lo. E qui giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza: 1° Che questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il valo- re religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la valutazione morale sui valori reli- giosi è dunque presupporre che siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o sostituirli. 2° Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. ** * Se invece si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici, p. 199.  14  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stico riesce impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata e ri- conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per- ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. ** * Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano, mi- sticismo umanitario). ** * Da quanto si è discorso pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione che, no- nostante il carattere di artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri ri- spetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò che è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu- tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un aspetto particolare, e forse non il piú importante. 16  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO IL FONDAMENTO CERCATO NELL'AUTORITÀ Il carattere di autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare questi ca- ratteri, e, quando siano considerati essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione, consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale. L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a) Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il «progresso» del senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon- denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio — quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen- te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. ** * 17  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Se a una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di- ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra. ** * Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è, nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come siano pos- sibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni, dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto 18  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto, orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si ac- compagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbe- dienza a un'autorità inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri- mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. 8 È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu- zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi.  19  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta La valutazione morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po' attenta. ** * La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigri- zia. Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconosci- mento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale, l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante, cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la possibilità di impulsi contrastanti. 9 Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il «vero» volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa; non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù.  20  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Da quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché si- gnifica non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. ** * Ma dunque i «sordi morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno, di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. — Ma hanno tuttavia e possono avere degli obbli- ghi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un po' di pazienza. ** * Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. 21  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Questa disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e vo- luti come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale. Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso. ** * Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione. 22  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino con essa. ** * Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle quali si presen- ta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto, neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unifi- cazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la coscien- za della persona. a) Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes riconduce ogni criterio di morale e di di- ritto, esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che nessun governo. ** * b) La seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle 23  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari. Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso. I) Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico (cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune, e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui tutte le co- scienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono due cose: 1° che per cia- scuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; 2° che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza collettiva. ** * II) Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peg- gio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della società non sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso, e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io. Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre. Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale. 24  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo, e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto di vista diverso»; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale. ** * Più breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú sottile e compli- cata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello stato e fa dello stato l'organo dell'Etici- tà. Perché in quanto la volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente da- to o presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore. ** * Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o e- 25  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta semplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare la condotta alla valuta- zione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nasco- no, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. 26  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO LA INVERSIONE DEI PROBLEMI RELATIVI AL FONDAMENTO DELLA MORALE Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di attua- zione di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale (postulati etici in pro- prio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei postulati etici, le costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e un significato diverso se non opposto; e forse considerate da questo aspetto rivelano meglio la tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo morale di cercare il fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione, il criterio della valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto, un'espressione della tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della sua interpretazione; di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la ragione del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spie- ghino e legittimino l'autorità della morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. 27  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come l'appello al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia, e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'Autorità si cerca il fondamento in una Volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali, sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. ** * La forma generale, con la quale si presentano da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso, postulare una Volontà in cui si a- degui il potere al volere, sul fondamento della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posi- zione; se e quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la in- dipendenza, la autoassiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione morale.  10 L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? 28  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE SECONDA LA PLURALITÀ DEI CRITERI MORALI 29  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CRITERIO FORMALE DI VALUTAZIONE DEL KANT L'indipendenza e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale; o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le conclu- sioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale il Kant l'ha cercata. ** * Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten- denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto. ** * 30  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. 1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che: a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso: b) può darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopen- hauer contro il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. b) Per converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammi- ratori non metteranno in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima. 2. Ben diverso è il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer- salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa u- niversalizzazione della massima con la volontà che la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con esempi. 2'. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in 31  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi. Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho accolta. 2''. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale11. Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è det- to, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora esami- nati (2"). Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione, Parte II). La medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio (il 4°) in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio valga come legge della natura»12. ** * Per il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa morale13. Soltanto intesa cosí la formula (la 3a della Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica (op. cit., p. 30): «Opera in modo che la massima del 11 Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca- rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi giudizi. 12 La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere ragionevole» col volere del «caro Io». (Il corsivo delle parole sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spa- zieggiata). Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni e C., 1910); per la Critica della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R. Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, vol. V, G. Reimer, Berlin, 1908). 13 Kritik der praktischen Vernunft, I, 1, 1, §. 7, Folg. p. 31 32   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse (op. cit., p. 33). E soltan- to cosí si può intendere come egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma): «Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo». Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come co- mandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. ** * I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'uf- ficio di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno della tela. ** * Né maggior luce può venire dalla Volontà come il Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragio- ne, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa medesi- ma universalità. 33  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quanto al concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. ** * Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume dav- vero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole. — Poiché la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della ragione al ri- spetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo il Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per quel che vi è di 34  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta proprio originale, individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità inscindibile del mede- simo e del diverso, del comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di doveri. ** * Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con l'esempio (il 3° della Fondazione) a cui si riferi- sce: «Come essere ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi- luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contesta- zione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di volere consiste la morali- tà? 14 E che veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale. Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio) non è già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con- seguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi.  35  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere? 36  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA DIVERSITÀ DEI CRITERI MORALI Non vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi- ma autorità di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è leg- ge se non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano costantemente con quello; se io non riconosco legittimo — fatto da qualsiasi altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche dato o postulato non razionale — il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma il criterio stesso come tale, non si può affermare o dimo- strare questa contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e deside- rati — altri valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio in que- stione; e si trova contrario alla ragione che non si tenga conto di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come se questi non esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa irragionevole. ** * 37  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Adunque il criterio del Kant non supera, dato che ci siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella valutazione morale? C'è. ** * Si è osservato piú sopra (Parte I, Cap. 3°) che ogni oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica (egoistica o altruistica) o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere — con questa e per questa ragione — per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe — all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come valore morale — essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori e- stetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il contenu- to — soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante. Basta per convin- cersene badare alle differenze caratteristiche della motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche quando non è in giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla transvalutazione notata, ma tende a indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a dar colore e calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti per tali anche dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel Codice penale; e quello (sia pure 38  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte d'estensione rispettivamente comune a un nume- ro di cerchi minore; e in misura variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. ** * D'altra parte, anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale a quello del fattore che rimane: ethics, Cap. VII: Intrinsic value), si trova a dovere apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per es., od estetica. (Non è senza signifi- cato anche per questo rispetto che il Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il «finalmente» chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus, il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono. ** * Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a partire dalla «Dichiarazione dei diritti» della Rivoluzione francese, si delinea e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire, paralleli di giustifica- 39  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto; essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune, che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda. Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado, tra quella e que- ste. 40  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO LA CONDIZIONALITÀ NEI VALORI MORALI Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé, l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità, simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre, saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del- l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile, in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. ** * Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle quali o non potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo, ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente necessaria permanente e insurrogabile. ** * 41  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Aggiungiamo ora un nuovo elemento all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali, quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica della propria coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale è universalmente necessaria. Cioè dovrà ri- conoscere che, esteriormente alla propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come criterio morale e co- mune se non un criterio di valutazione che assuma, come universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. ** * Si delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na, e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. ** * Gli esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria- mente i valori che lo costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una per- sona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli- citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della giustizia che è lo spec- chio sociale della libertà. Ora se il valore della libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in- tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e della giustizia; o, in termini ge- 42  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nerali, tra i valori diretti e per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei appaiono sol- tanto indiretti e strumentali. ** * Cosí obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri, quelli appunto che soggettivamente per la legislazione interna di molte se non di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? 43  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO IL PRESUPPOSTO DI OGNI VALUTAZIONE MORALE E L'OPPOSIZIONE FONDAMENTALE DEI CRITERI La distinzione stabilita nel capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. ** * C'è, sottinteso, nella tesi del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori, diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto, della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale; perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità. Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e postulare come dato e fuori di ogni contesta- zione, qualche valore intrinseco, al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia- bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces- sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. 44  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Bisogna dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà. ** * Ma quale è la prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non è contestabile da altri né control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio. Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. ** * 45  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Le esigenze costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con- tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge della valutazione morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres- sione individuale e concreta dell'umanità. ** * A nessuno verrà in mente di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una «idiosincrasia». ** * 46  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Queste minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural- mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i valori di libertà e di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema della valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti- mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te, incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre in es- sere quel che si dice. 47  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO15 L'ATTUAZIONE DEI VALORI MORALI E I RAPPORTI DELLA MORALE CON LA POLITICA E LA RELIGIONE 1. - Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra valori morali universali e valori morali pro- priamente personali, corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume tutta- via per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva; cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono: l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e quello che prende impropria- mente nome dal socialismo16: — la giustizia è la costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre- tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non solamente e non tanto all'abbas- samento inevitabile che ogni idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua vali- dità. ** * 15 Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali una materia che deve essere trattata diste- samente a parte 16 Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, (come si è notato sopra, P. I, Cap. IV, B) la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È individualismo; universalistico si, ma individuali- smo. Una prova di ciò assai significativa è appunto la deduzione che il Fichte fa dal dovere che ciascuno ha di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là... sono detti in modo diverso.  48  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Nell'esemplificazione introdotta qui sopra (Parte II, Cap. III) si è supposto che l'idealità normatrice potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso, nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a veri- tà, non presenta quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché, si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i- dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato — s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista — considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo, possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvi- sare nell'ordine giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte- nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista; subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena) ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. ** * 49  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Di qui seguono due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po- litica. Il primo è questo: che il Potere politico, in quanto è forza di coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé, direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi), sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo, comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare orga- no promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel- lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed elevazione spirituale di ciascuno. ** * Fin qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci, dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna. Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo. Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli stati ed eticamente incondizionata la sovranità di cia- 50  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta scuno; e la tendenza opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. ** * Si è avuto occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come valido per sé all'infuori di ogni inte- resse puramente soggettivo e accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la nostra devozione è religione. ** * Vi è dunque per questo rispetto una certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù divina rea- lizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla prima; cosí il Po- tere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni. 51  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza diretta, cioè an- teriore a ogni prova, non meno delle «sensazioni». Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive. Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto- porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non senta già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui ho la certezza. ** * Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in- cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si arricchisce della potenzialità di sempre nuo- 52  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta vi valori nella esperienza dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.





Ho cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire, dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica: quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea, arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità, o la bel- lezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una sin- cera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi, contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare immorale una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pre- tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza morale contempora- nea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della morale (Parte II, capitoli 2—4). 2 Questo modo di vedere è favorito, se non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano. 3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza di condanna.   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri, non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della persona, e le forme della vita interiore. ** * Ma il romanticismo e lo storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale, spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano state condanna- te, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a considerare come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo del secolo XVIII era il contenuto comune della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e prendeva colore e calore di va- 4  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta lutazione morale una molteplicità sempre piú varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma in quella che si chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la caratteristica del secolo XIX, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema, prima dissimulato e trascurato. ** * Non si vuol dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali — tendenze e forme di vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della ragione. ** * Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia, non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa la sorgente delle valutazioni morali. 5  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta E tuttavia non solo fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto l'esigenza della coe- renza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi della lo- gica, rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che servono di fon- damento alla giustificazione. 6  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA RAGIONE E I GIUDIZI DI VALORE Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi: — O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme logiche. — Oppure — se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del contenuto che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. ** * La prima via, la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa, espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4 Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le- gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion pratica». 5 La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: 1°che il bene e il male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si conoscono le altre cose. 2°che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo, ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta in- dipendentemente dalla seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso giustamente, a merito di lui. 6 Vecchio e nuovo Problema, Parte I, Cap. II. 7   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta qualsiasi vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque una contraddizione in termini? ** * Se si incalza che il giudizio sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar- tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno, cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in realtà; tanto che il negar- gli questo valore non implica negare sia la realtà, sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'en- te; cosí come negare alla sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implicava per Galileo la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna qualesivoglia delle sue pro- prietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà, un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla ge- ometria; e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato del cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della «contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato (non per nulla nella scelta il Rosmini ebbe la mano felice) la repu- gnanza ci sia, è innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due enti, prova, 8  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nel caso, che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque, riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. ** * La verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati, sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con questa circostanza, per dir cosí, aggravan- te: che, come s'è accennato, accade di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore (e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio7. Sfuggendo cosí all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile, dai giudizi teo- retici. ** * La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circo- stanza è questa: che una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici, senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi, avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse- guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione reciproca di due proprietà fra di loro.  9  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta te assunto insieme un giudizio di valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale, falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E non per nulla la diffamazione è puni- ta piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto, ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo sentono e tutti lo sottintendono. ** * Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o me- glio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti. Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente, come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad essi, dei valori derivati. ** * È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttu- ra; e che per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che figura come derivato in un si- stema diverso. Ma in qualsiasi processo di giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di ammettere. 10  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO RAGIONE ED EGOISMO Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri- spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera8. O perché il criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può fare a meno di accettare e di ammettere. ** * È certo che l'egoista spesso sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso; e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo. Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? — Naturalmente quando si è foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se, essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo. Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia. Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un processo razionale farlo sorgere.  11  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta per gli altri, ma ammette e trova naturale e legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? ** * Si dirà che cosí facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione reci- proca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»; o al riconoscimento del valore supremo, della for- za come criterio ultimo della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo; l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi, occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi è, se si guarda spassionatamente, concludente. ** * Cominciamo dal secondo. È bensì vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti9, che la mia volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al- tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. ** * 9 Se si trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa tuttora - agli occhi di molti - come il solo impe- rativo «seriamente» politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui - e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a- narchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no, che accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio possibile, - in determinate circostanze storiche, - ma come il solo «razionale?» Se- nonché anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia un valore incondizionatamente supremo.  12  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ed ecco l'altra alternativa: l'egoismo che si limita e si fa diritto10. Ma qui è ancora piú facile scorgere l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu- stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno, l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima) ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società, il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica, di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari. Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. 10 Chiedo scusa al lettore se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non bisogna dimenticare che in queste espressioni «l'egoismo che si nega», «l'arbitrio che limita se stesso» e molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si contrastano). 11 Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri.  13  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO LA RICERCA DEL FINE SUPREMO Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di- rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da principio della dimostrazione da «assioma medio» o proprio della costru- zione morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità di supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u- mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità (o Perfezio- ne, o altro Bene) della quale quel contenuto assume la veste, il titolo e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro a dar valore alla costruzione. ** * Ora finché si ammette che la felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il supposto che lo investe del 14  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro. Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di "Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura; oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra semenza...» ** * E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo che è bensì esso ra- zionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e poi- ché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si- stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere, di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza con le valutazioni morali. 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa, entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una «natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica, la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o postulata 16  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO «MASSIME RAGIONEVOLI» E «PRINCIPÎ RAZIONALI» Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla con fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone «ragione- voli» vanno d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os- servazione notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il modo d'intendere i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le massime delle quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo strade di origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di lo- ro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pie- namente d'accordo12; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio bisogna accettare le conseguenze, que- sto è appunto, essere ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione, ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse- guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma- zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se fosse del tutto ipotetico13, è da os- 12 Anzi su questa circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema, Parte I, Cap. II, Parte II, Cap. II): cioè che una qualità, una virtù, un modo di operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: 1° come avvenga che la giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di natura diversa; 2° co- me sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale.  13 E non è, come tutti sanno. 17  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta servare che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata, richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché alcuni si dimenticano di esse- re, o credono di essere mentre non sono. ** * Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su questa idea che la costruzione giuridica del secolo XVIII — della quale l'espressio- ne piú nota è la Dichiarazione dei diritti dell'8914 — sia una pura astrazione razionale, è fondata la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico (qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune, surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e sorridere l'ho- mo historicus. Né si dica che il Nietzsche è finito al manicomio; ciò non proverebbe nulla: l° perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti: e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; 2° perché quando il Nietzsche la pensò non era pazzo; 3° perché anche se fosse stato pazzo, la teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; 4° perché in ogni caso sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. 14 Ma è tutt'altro che l'unica perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow nel 1742, di un autore tutt'altro che ignoto, l'Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro governo. 15 Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà e della giustizia, fatte in nome  18  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in quella costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la coscienza mo- rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi. ** * Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse della collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus del secolo XVIII è povero di contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fonda- mentali - così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della giustizia. 16 Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza.  19  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta morale — di chiarire quale postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della realtà o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del valore di questi rapporti. ** * Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle senza cessare di essere storico e diventare «moralista» o «ideologo», «reaziona- rio» o «rivoluzionario», «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel «realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto razionale, come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. ** * Resta da osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse ba- 17 A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da ricondurre, a mio giudizio, la que- stione del rapporto tra Spirito rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente il Mondolfo in un ar- ticolo del «Nuova rivista storica» (anno I, fasc. III). Il rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziati- ve) è, o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali da potere essere favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità morali. In quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è nella storia.  20  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stare per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi- rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. 21  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SESTO RAGIONE E LEGGE Resta un'ultima via, la terza (vedi Cap. II); la piú audace e radicale. È la ragione che pone la legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del razionalismo morale. La prima delle vie indicate (Cap. II), quella del platonismo, e in modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer- tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella legge che è essa la sola razionalmente necessaria. ** * Ma essendo incontrastato per Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col contenuto tre soluzioni: I. O si può intendere che la legge morale è una forma senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi determinazione del contenuto. II. O si può pensare che occorre bensì un contenuto che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere piú, fra di loro diversi. III. Si può pensare che la forma razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. 18 Forse a queste tre interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse, pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio alla terza interpretazione di un contenuto determinato inequivo- cabile.  22  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa illustrazione kantiana che sembra legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter (la possibilità di concepire la massima come legge universale dell'operare), ma che, nei termini precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche contenuto senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come norma di quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè (che è tutt'uno) al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge, ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere che l'universalità, e altra applicazione che cer- care se il modo di operare corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il bra- v'uomo che non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa il Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile? Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la massima dell'azione19 abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa volere che valga come legge universale. ** * Con ciò il pensiero di Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano pre- sentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione- vole, non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è necessario rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente 19 E va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di un'azione qualsiasi.  23  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? ** * Questa ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi della formula rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o primario della legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità coe- rente di legge. ** * A una conclusione del medesimo genere riesce per altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, 20 Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge, non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali) sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una massima che smentisce questa superio- rità. 21 Sul formalismo della morale kantiana estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario del- la R. Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano, 1929.  24  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta che non possiamo conoscere speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os- servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge morale, e di una legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura22. In realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla fede il cam- po del soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto23, se una certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del soprasensibile la ragione sembra dire all'esigenza morale quel che Virgilio a Dante all'entrata del Paradiso terrestre: «...Se' venuto in parte Ov'io per me piú oltre non discerno». Ma la fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori, questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà inferiore deve essere subordinata. ** * 22 Il concetto dominante di questa prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica: «Ich musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glau- ben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, ed. Cassirer, vol. III p. 25). 23 Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è mio).  25  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta In questa interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la legittimità della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi- denza razionale. ** * Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge morale implica accanto alla esi- genza razionale un oggetto della Volontà, un ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè azione in vista di un risultato, è il fondamento irredu- cibile dei giudizi primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà, delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del sentimento. 24 Non è il caso di cercare qui se e che cosa il Martinetti abbia messo di suo e di postkantiano nella sua inter- pretazione, né di vedere se e fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere. La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale, quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma, differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro ge- nere. E allora vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure «profano» la stra- nezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale rigorosamente mistica: forza, in quanto è intui- zione, atto di fede, certezza interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un distacco logico del genere di quello accennato sopra [Cap. I § 3°] tra il crite- rio usato a determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori invocato a giustificarle.  26  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta L'intento di Kant di liberare la legge morale da ogni mescolanza e contaminazione «patolo- gica» di sentimenti, di inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di- sposto a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione intrinseca, cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento.

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