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Monday, March 21, 2022

GRICE E GIANI

 CAMERATI, Niccolò Giani apparteneva alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im­ parò che prima di agire e costruire è necessario ele­ varsi, purificare il proprio spirito, temprare il proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e guidare gli al­ tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire inesorabilmente i propri difetti, affinare inces­ santemente le proprie virtù: allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose piccole e vili. Ciò che —7   non costa non vale; ciò che non procura fatica e sof­ ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le cariche, le ricchezze sono effimere e ca­ duche cose. Quello che importa è quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via, neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es­ sere se stessi in ogni momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini. Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol­ te vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre vette più alte ancora. In 8 i   Giani la fede nasceva da un inesausto tormento spi­ rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata dalla fede, consacrata dal sa­ crificio e nella sua possibilità di instaurare un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e­ sponente di una razza eletta, il fondatore di una ci­ viltà universale, il protagonista e l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE, a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9 ‘1   del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo, educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito e nel sangue, gene­ rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna­ va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel sacrificio, di essere de­ gna del nostro grande popolo e del nostro grande Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro indipendenza morale — la sola ric­ chezza umana che non abbia un valore misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet­ tuali e fisiche che sono indispensabili per poter eser­ citare con dignità e con efficacia la missione dei co­ mando. Concepiva la famiglia nel senso più tradizio­ nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami­ glia italiana, ricca di onestà e prodiga di figli, sboc­ ciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando o com­ battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran­ de regno della casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se l'uomo non tornerà la 10 —   donna lo piangerà senza lacrime perchè egli sopravvi­ va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli altri; le generazioni che furono, che sono e saran­ no; la storia di ieri, di oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni. Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di educazione e di formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- — 11   ■^ . " T T r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci­ sta » si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario, dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun­ zione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse­ gnamento si era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara­ zione politica, alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della sua beila cultura fatta di conoscen­ za e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi­ gliore di se stesso. «Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola — ha detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo co­ me un mirabile esempio ai giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del Duce ».     Era il migliore tra noi: il più limpido, ii più generoso, ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo e i'apostolo più acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì missionari, i portatori del no­ stro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto assertore dei principi che sono a fonda­ mento deiia nostra dottrina. La Scuola sorse con lui per la volontà di un mani- poio di credenti che egli chiamava i «disperati del Fascismo », così come gli squadristi un tempo amava­ no chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la Scuola fu un'attività de! Guf milanese; divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Uni­ versitari: oggi si è imposta al rispetto e ail'atten- zione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai gio­ vani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono con in­ tima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli al­ lievi della Scuola, le due più preziose virtù dello squa­ drismo: la fedeltà e la intransigenza. I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il, nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura — 13   del Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi alle sorgenti genuine delia nostra Ri­ voluzione, cogliessero, dall'umile grandezza delle ori­ gini, la poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani fu soprattutto un fedele ed un in­ transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo I fanatici sanno dare movimento col sangue «alla ruota sonante della storia». Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di com­ promesso; sul terreno della fede non ammetteva pat­ teggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità. Mi piace di ricordarlo ai Convegno di Mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia nostra guer­ ra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile im­ pazienza di decisione. Il tema del Convegno era bru­ ciante: «Perchè siamo dei mistici?». I problemi del- 14 —   l'inteiligenza e deila cultura furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento calcolatore. La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non quella che discende dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è quella che pene­ tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li Convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a vittoria. Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere non si può se non si combatte ». Fu in quel Convegno, ò giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del Litto­ rio affermarono solennemente il loro diritto al combat­ timento, — 15   Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire. C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe­ renza perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla guerra per la con­ quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi­ mento. Ma la parentesi fu troppo breve: tornò insod­ disfatto, Andò in Africa settentrionale come corrispon­ dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu l'ul- 16   tima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque: potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po­ sizioni del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon­ dato, lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia polla purissima della sua fede; ma egli 17   ha chiuso la sua vita terrena in modo degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della vita è tutto qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa morire un italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il cuore in questo momento acce­ lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro Mae­ stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo figlio prediletto e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli. Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in ma repubblicana. Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce lo di- e negli Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri cultura » laddove scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene, 15   lo chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si riteneva di dare la maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per­ chè « dalla classe degli agricoltori nascono gli uo­ mini più forti e i soldati più valorosi... e coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi­ scono cattivi propositi ». Queste parole, questo saggio romano le scrive­ va più di 150 anni avanti Cristo, cioè, esattamen­ te, nello stesso periodo in cui Roma combatteva l’ultima e definitiva partita con la semita Carta­ gine. Ma, a questo proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè Ro­ ma s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di Annibaie? La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era solo politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema di vita. Roma rurale, Ro­ ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com­ batteva anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano, ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro­ mano nella gente nata dai campi, cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem­ prata nelle lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma­ no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16   essi, Apollonio Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo­ nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel­ l’interesse della Repubblica è prova di saldi prin­ cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio­ ne « Pro Fiacco ». E nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai sordi in quale dispregio avessero i romani i traf­ ficanti di denaro. Ecco infatti come Cicerone rac­ conta che Catone rispondesse a chi lo interroga­ va sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat­ ta, avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda Maccabeo si iniziano i primi rapporti di­ plomatici tra Roma e Gerusalemme, se è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio Cesare e Ottaviano li tolle­ rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2   rio con disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per­ chè, come testimoniano numerosi scrittori lati­ ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside­ rano come profano tutto ciò che da noi è consi­ derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per­ chè « essi hanno un culto particolare, leggi par­ ticolari, disprezzano le leggi romane » (cfr. Gio­ venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo contrasto di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che si arriva alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme. E in tal mo­ do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or­ goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così quei giudei che pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di capi e per in­ comprensione ingenerosa di popolo avevano tra­ dito e condannato nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe­ zia compiuta, furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal modo realizza­ zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per imperscrutabile volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge ancora intatto contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia­ re e ammonire le genti e il mondo intero della giu- 18   stizia e della verità che promanano dai sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla Chiesa di Cristo.


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