The Grice Club

Welcome

The Grice Club

The club for all those whose members have no (other) club.

Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

Search This Blog

Thursday, March 17, 2022

GRICE E GORETTI: COAZIONE

 Il pensiero filosofico di Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto (Goretti 1930), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale, attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato ‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice Hauriou in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta contrapposizione con la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse di Goretti per l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo giuridicismo filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più celebre istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come ‘istitutismo’.       160 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 giuramento di fedeltà al fascismo del ‘31) ha dimostrato l’autonomia dello spirito rispetto alla contingenza degli avvenimenti storici. Nella trattazione delle sue opere non verrà seguito un ordine cronologico, ma una sistematica ricostruzione della sua dottrina. Questo è il motivo per il quale La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green (Goretti 1936) e l’Introduzione alla sua Etica (Goretti 1925) rappresentano un punto di partenza necessario per la successiva analisi del suo pensiero. È dunque dalle origini, dall’aspetto gnoseologico, che questo lavoro prenderà le mosse, ed è proprio da uno spunto, fornito dall’incompletezza della soluzione alla Ding an sich kantiana fornita da Green, che Goretti elaborerà il suo impianto filosofico. L’esigenza di ricongiungere forma e materia, di collegare il fenomeno con il noumeno, ha condotto la filosofia, da Kant in poi, verso la strada di un idealismo monistico. Quello che Goretti compie, invece, consiste in un’elegante risoluzione del problema, la quale, pur non rinunciando al principio monistico, mette al sicuro il formalismo kantiano da eventuali ricadute metafisiche. Per fare ciò, egli si avvale del concetto di volontà elaborato da Schopenhauer, evitando le sue derive pessimistiche e avvalorando il principio morale delineato da Green. Quanto fin qui solamente accennato mette dunque in luce l’aspetto poliedrico del pensiero di Goretti, in grado di spaziare tra gli autori e i campi della filosofia più disparati, mantenendo comunque quel rigore logico ed espositivo che lo rendono un autore unico nel suo genere. 1. Fenomeno e relazione: da Kant a Green La filosofia di Green, come sottolinea Goretti, rappresenta una fusione del pensiero critico di Kant e di Fichte (Goretti 1936, 97), una sintesi degli studi portati avanti a partire dalla sua Introduction to Hume’s Treatise of Human Nature, contenuta all’interno dei Collected Works (Green 1885-1888). Anche se i suoi Prolegomena to Ethics (1883), tradotti in italiano dallo stesso Goretti (Green 1925), vengono di frequente considerati come la «concezione definitiva dell’autore» (Goretti 1936, 98), portando spesso ed erroneamente a giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua capacità di analisi è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il razionalismo precedenti. È per questa ragione, dunque, che Goretti tornerà, molto tempo dopo aver tradotto l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi volti a precisare e confutare alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo britannico. Attraverso un’accurata scomposizione del suo apparato epistemologico, Goretti riesce a salvare l’apparente e vuoto formalismo kantiano, che il Green aveva così ardentemente tentato di eliminare. La teoria della conoscenza di Green si fonda sulle osservazioni kantiane inerenti l’esistenza di una coscienza, in grado di unificare e sistematizzare i dati dell’esperienza, considerati, fino ad allora, come unica realtà possibile. Per Kant, ribadisce Goretti, è  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla natura del nostro spirito che l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di appercezione trascendentale, si manifesta (Goretti 1936, 99). L’esperienza, dunque, rappresenta il complesso di unificazioni che il nostro spirito pone in essere sulla molteplicità del sensibile. Da ciò, la celebre distinzione kantiana tra prodotto della natura e prodotto dell’intelletto, che porta la filosofia verso un «Umänderung der Denkart» (Kant 1919, 24). Tutto ciò che possiamo conoscere è derivabile dalla nostra esperienza, mentre la realtà, ciò che è posto al di fuori del mondo sensibile, non può essere conosciuto, il che equivale ad affermarne il suo carattere a priori, in quanto strumento inconoscibile atto a conoscere. È proprio su questo punto, tuttavia, che Kant incontra le maggiori difficoltà. Tentando di superare le aporie humeane, pone in essere quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé che occuperà gran parte della speculazione filosofica successiva. Nel tentativo di fornire una risposta adeguata a questo dilemma, senza rientrare all’interno delle conclusioni delineate dall’idealismo tedesco, si inserisce l’opera di Green. Come sottolineato da Goretti, Green adopera un linguaggio differente rispetto a quello utilizzato da Kant, il quale, secondo Green stesso, gli permetterebbe di eludere il problema relativo alla cosa in sé. Egli sostituisce, continua Goretti, la locuzione kantiana phenomena con quella di relations. Per mezzo di questa distinzione, Green è convinto di poter esprimere in maniera più marcata la facoltà unificatrice dello spirito, evitando così di cadere all’interno delle problematiche del razionalismo kantiano. L’errore di Kant, sottolinea Green, è rinvenibile proprio nella separazione che egli opera tra natura formaliter spectata e natura materialiter spectata. Questo errore non è altro che un refuso dell’empirismo lockeano, rinvenibile in Kant attraverso l’espressione «Macht zwar der Verstand die Natur, aber er schafft sie nicht» (Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If phenomena, as materialiter spectata, have such another nature, it will follow [...] that there is no ground for that conviction of there being some unity and totality in things, from which the quest for knowledge proceeds. The cosmos of our experience, and the order of things-in-themselves, will be two wholly unrelated worlds (Green 1883, § 39). Se si vuole considerare la materia, continua Green, dobbiamo prendere in considerazione l’esistenza di forze che generano il loro movimento comprese nella rappresentazione del fenomeno stesso (Goretti 1936, 100-101). Il divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il quale la realtà spirituale si manifesta, una molteplicità con la quale il nostro spirito limitato coglie l’unità. Esso rappresenta, per Green, il processo causale della molteplicità stessa e non un prodotto della realtà assoluta. Alessandro Dividus 161  162 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 La posizione di Green è molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due elementi distinti, forma e materia, ma al tempo stesso, non ricade nella sintesi degli opposti sviluppata da Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono scisse e frammentarie, ma rivelano l’esistenza di un assoluto che non si muove seguendo un movimento dialettico. La realtà, secondo Green, è una progressione di gradi di relazione e per questo motivo non può in alcun modo trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo. La molteplicità delle relazioni, dunque, assume per Green il significato di qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce alle cose, ma che non si trova nelle cose stesse (Goretti 1936, 108). Queste conclusioni, sottolinea Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno alla distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre, per i sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un piano sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece, essa è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi. Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green 1886, §§ 69-72). La mera intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per cogliere la distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la concezione di una figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant confonde il concetto di corpo con quello di figura. La conclusione di Green, riporta Goretti, «è che ogni giudizio presuppone una sintesi che si può scomporre in una analisi di relazioni, analisi che può portare ad ulteriori sintesi» (Goretti 1936, 112). Ogni relazione è dunque un grado di realtà maggiore o minore rispetto all’unità che essa contribuisce a formare all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora brevemente riportato mette in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto alle problematiche formali espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente, quanto emerso rispecchia solo una minima parte del pensiero greeniano, in questa sede appositamente riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per comprendere il punto di partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per formulare la sua teoria. Come sostiene Goretti «Non si può certo affermare che Green abbia sempre esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti 1936, 113). Le critiche che Goretti muove nei  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano proprio il suo tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano, ricadendo in quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato le linee. Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente religiosa (Goretti 1936, 115; cfr. Seth 1887), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è per lui un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza. Così facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato l’assoluto stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in conto la possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno superiore, possa rappresentare solamente una negazione, un’apparenza dell’assoluto (Goretti 1936, 115). Il dibattito sull’aspetto monistico, o meno, della filosofia di Green è ovviamente molto ampio (vedi Tyler 2003) e le teorie le più disparate. Il percorso tracciato dalle sue tesi trova il suo naturale sviluppo nelle dottrine del Bradley, il quale riduce le relazioni stesse a provvisorie apparenze riproponendo, ancora una volta, l’ombra di una realtà intellegibile (Goretti 1933). Ma Goretti percorre una strada diversa, in qualche modo innovativa rispetto al senso comune. Egli si serve di Schopenhauer per liberarsi del rapporto dualistico tra realtà assoluta e materia, senza però rinunciare alla categoria formale elaborata da Kant2. 2. Il concetto di volontà in Cesare Goretti Secondo Goretti, l’unico ad aver intuito veramente cosa la materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti 1936, 105). Nella sua opera più famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), Schopenhauer definisce la materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice materia inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone alla conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel processo che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non rinunciando al dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di conoscere, quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale accessibile all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la definizione di dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era riuscito, sostiene Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi, che la concezione volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada percorsa da Goretti risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo all’interno dei canoni dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso ispirato in Goretti dallo studio delle opere del filosofo russo Afrikan Spir e del suo amico a maestro Piero Martinetti), non ne segue la normale evoluzione tracciata da Fichte e conclusasi con Hegel, della quale Croce e Gentile sono stati, in Italia, i due massimi, seppur sotto molti aspetti critici, rappresentanti. Alessandro Dividus 163   164 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 Tuttavia, Goretti diverge dalla definizione di voluntas fornita da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco la volontà si manifesta come impulso, energia, pura forza cieca, in quanto posseduta anche dalla materia, che sussiste al di fuori della forma dello spazio e del tempo ed è, quindi, indistruttibile ed eterna. Essa è energia senza causa (Abbagnano 1923). La sua ragione può essere ricercata solo nella sua manifestazione fenomenica, ma non nella volontà in sé. Per Goretti, invece, la volontà non è energia senza un fine, ma è un collegamento tra mezzi e fini. Essa ubbidisce alla categoria della finalità, mira a fini prescelti, segue degli schemi prestabiliti (Roccia 1955, 6). La realtà esteriore, secondo Goretti, rappresenta il complesso dei mezzi, gli oggetti e la materia che la volontà utilizza per realizzarsi, per liberarsi e, quindi, per perseguire il suo fine. La realtà limita il nostro egoismo, nel senso che pone al nostro volere dei punti di orientamento comuni. Quando l’uomo cerca di prendere possesso della realtà che lo circonda, non sorge in lui la visione di una realtà trascendente, ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è la stessa limitazione del nostro egoismo (Goretti 1930, 75). La volontà, dunque, segue degli schemi prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte della realtà esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione verso l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e sostituisce quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la filosofia di Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo si allontana dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere possibile l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel collegamento tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il soggetto e l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e mettendo in mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è prerogativa di ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo determinato. Essa, dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri soggetti. È grazie al contatto della volontà individuale con la realtà esterna che l’egoismo nasce e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti all’assoluto tendere della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i limiti delle differenti personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è dovuta proprio all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il prodotto della volontà stessa. In questo modo, Goretti è adesso in grado di giustificare l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che tende verso l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta a percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose (l’aspetto finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto), l’altra, invece, porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà degli altri (ciò che pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il Roccia:  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Questi schemi, queste direzioni sono preordinate: non derivano cioè dalla nostra esperienza, bensì sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o noi consideriamo il mondo esterno come un complesso di cose capaci di un possesso immediato o noi lo consideriamo come un complesso di cose il cui godimento dipende dall’attività di un altro soggetto (Roccia 1955, 7). L’aspetto formale della volontà, per Goretti, non solo è in grado di riconciliare forma e materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di fornire una risposta alla problematica morale riguardante la finalità dell’azione. Se per i sostenitori di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del singolo deve essere orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non tenga solamente conto del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti l’insieme nel suo complesso, per la corrente dell’utilitarismo, invece, l’azione morale deve prediligere l’aspetto individuale, in primis, e solo in seguito condurre ad un accrescimento del benessere comune. Quello che Goretti mette in risalto, invece, è l’aspetto etico dell’egoismo. La sua è una posizione che si concilia perfettamente con entrambe e richiama alla memoria le parole di Spinoza. Per lui, così come per Goretti, il principio dell’utilità aveva un grande valore. Esso costituiva il primo grado della ragione, in quanto essa opera sulla natura empirica dell’uomo e ne mette in luce il suo carattere finito. L’utilità costringe il singolo a ripiegare su se stesso e «a sentire tutta l’ostilità della nostra limitatezza» (Goretti 1927, 238). È per questo motivo che la volontà, avendo fini egoistici ma mezzi comuni, è costretta a limitare la sua azione sulla base di un accordo sociale. La volontà, dunque, genera e limita l’egoismo, rendendo di fatto l’utile come un primo passo verso l’etico. L’essere ragionevoli, quindi, il perseguire la propria volontà, non rappresenta altro che una manifestazione del fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta, si caratterizza come aspetto formale non solo della conoscenza, ma anche dell’appropriazione del reale. Date queste premesse, è adesso possibile per Goretti enunciare la sua personale interpretazione del diritto. Le condizioni a priori della conoscenza, riabilitate del loro carattere formale, vengono trasposte da Goretti all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè delle relazioni umane. Quello di Goretti, quindi, si presenta come un idealismo volontaristico, che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il diritto, intende solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono possibile il diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una tipologia di diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché non rende la giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente alcuni schemi preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso i quali, grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo il Green era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua capacità strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro Dividus 165  166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 dell’individuo nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere formale all’interno della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica della volontà. Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei due autori, che gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione sull’aspetto filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad un gruppo sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà deve realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti, invece, il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo scopo di servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il dover essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e mutabile, ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro volere si esplica (Goretti 1930). È grazie al tentativo di dominio del reale, che gli schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento diretto tra volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio giuridico nel quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti, avevano intuito la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi distinguevano le res in mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che prendere coscienza della distinzione esistente tra diritti reali, diritti di obbligazione e diritti di asservimento (Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti 1922). La volontà, d’altronde, non può che realizzarsi attraverso un rapporto tra il proprio volere e l’oggetto desiderato (diritto reale), tra il proprio volere e l’attività di un terzo dal quale si pretende una certa prestazione (diritto di obbligazione) e, infine, tra il proprio volere e l’asservimento di tutta, o parte, della personalità esteriore altrui (diritto di asservimento). Questa triplice ripartizione, continua Goretti, esaurisce tutte le potenzialità «di sfruttamento e di dominio della realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come per Kant, nella teoria della conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile unificare le intuizioni sensibili all’interno delle categorie, così per Goretti, in campo giuridico, esso permette di riconoscere le tappe obbligate che la realtà empirica  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti fornisce al nostro volere. Si potrebbe obbiettare una presunta arbitrarietà nella tripartizione schematica effettuata dal Goretti, chiedendo come mai la volontà si esaurisca solamente attraverso questi schemi e non altri. Ma al perché questi schemi siano solamente tre, Goretti risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri modi di sfruttamento della realtà esteriore; altra prova del valore intuitivo degli schemi. [...] La realtà intuitiva non me ne fornisce altri allo stato attuale del nostro sviluppo organico» (Goretti 1930, 104). La nostra stessa esperienza e storia degli istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il ruolo che i concetti di proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici, originari, intuitivi e solo in seguito acquistano una valutazione razionale della realtà alla quale l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi, arbitrario. Essi, tende ancora a sottolineare Goretti, possiedono una natura puramente intuitiva e ciò non esclude che la logica giuridica possa trarne concetti giuridici corrispondenti, come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc. (Goretti 1930, 95). Non bisogna confondere il concetto della proprietà e dell’obbligazione, che hanno un proprio contenuto storico e concreto, con lo schema dell’impossessamento e dell’obbligazione, che rappresenta il loro carattere intuitivo. Come afferma Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà il prius logico, l’antecedente che rende possibile allo spirito l’impossessarsi della realtà. Al contrario è questo impossessarsi che permette l’elaborazione del concetto di proprietà. In questo impossessarsi vi è un atto che deve spiegarsi; e la spiegazione consiste nel fatto che il nostro egoismo, il nostro volere si muove diversamente a seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla categoria della finalità come l’intelletto a quella della causalità (Goretti 1930, 95-96). La nostra esigenza razionale, quindi, prende forma sensibile attraverso questi schemi giuridici, condizione dei rispettivi istituti giuridici. Per mezzo di questo atto intuitivo della realtà esteriore, il nostro egoismo viene limitato e obbligato a prendere determinate direzioni comuni, facendo trapelare una prima forma di unificazione dei voleri, di volontà comune. Essa appare inizialmente come complesso di mezzi per le nostre volizioni personali, ma lascia intuire la portata limitata di tali mezzi e, dunque, la loro comune origine. Questo passaggio, dice Goretti, è una normale conseguenza della visione unitaria della realtà da parte dei singoli, i quali tendono a polarizzare la propria volontà intorno a un ideale condiviso, acquisendo la consapevolezza della necessaria condivisione dei mezzi esteriori (Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la coscienza di quell’elemento costituente il diritto: il principio di uguaglianza. Non si tratta, sostiene Goretti, di un’uguaglianza di diritti e doveri, di un livellamento dei valori individuali, ma di un’uguaglianza della nostra personalità di fronte alla realtà esteriore: «È la posizione del nostro volere di fronte alle direzioni che la realtà esteriore ci offre» (Goretti 1930, 113). L’umanità, dunque, non è il risultato della somma di tutti gli individui, ma è l’idea Alessandro Dividus 167  168 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 alla quale il singolo, in quanto essere razionale, partecipa. Così, ad esempio, l’idea della proprietà originaria non rappresenta il complesso delle singole proprietà, ma è il riconoscimento del diritto che l’umanità intera ha di impossessarsi della realtà esteriore (Goretti 1930, 116). Senza il riconoscimento di questo diritto, comune a tutti, non sarebbe possibile il conseguente riconoscimento dei diritti dell’individualità, dell’egoismo. 4. Gli istituti giuridici e lo Stato Quanto fino ad ora esposto mostra solamente la necessità degli schemi giuridici per la creazione di un ponte tra realtà spirituale e realtà fenomenica, mettendo in luce un’esigenza di volontà comune dettata dalla comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi giuridici, tuttavia, non sono che la base razionale, a priori, grazie alla quale poter dedurre l’esistenza dei diversi istituti giuridici. Gli schemi rappresentano quindi le condizioni formali che ne costituiscono la loro possibilità. Mentre il carattere strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di una comunione di mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua rappresentazione empirica formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le caratteristiche costanti delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono che il riverbero di una comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e proprie finalità concrete (Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una comunione di mezzi, non sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste finalità, ovviamente, non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto giuridico non fa altro che porre in essere scopi immediati coordinati gli uni con gli altri, ma convergono tutte, sostiene Goretti, verso un punto di equilibrio: I moventi di ogni singola persona che partecipa ad un atto, ad un negozio giuridico rimangono sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo, ma lo scopo dell’uno diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi devono farsi equilibrio intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il fatto che una finalità presupponga un movente individuale, non esclude la possibilità che la finalità di un singolo possa incrociarsi con quella di un altro. Questo equilibrio di finalità dà vita a differenti figure giuridiche, non deducibili a priori dai nostri schemi, ma lasciate in balìa degli eventi storico-sociali. Ma il carattere formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri mezzi, giustifica la creazione uniforme e costante degli istituti, e dunque dei nostri equilibri finali. Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile derivare aprioristicamente la figura giuridica della compravendita, che si richiama allo schema giuridico dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro speculativo del giurista che crea le forme degli istituti giuridici, ma è la realtà sociale stessa. Essi  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti non sono altro che realtà fenomenica, svelata dalla volontà individuale che si muove nel mondo empirico attraverso le sue forme schematiche. Le istituzioni sociali, di conseguenza, sono il risultato di un punto comune di equilibrio formatosi e consolidatosi, nel tempo, intorno a un complesso di finalità umane. L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene Goretti, può essere ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se esaminassimo il caso della compravendita, ci troveremmo di fronte a due differenti finalità: quelle del venditore, da una parte, e quelle del compratore, dall’altra. Naturalmente, continua Goretti, queste finalità appaiono inizialmente diverse, ma il loro punto di equilibrio è riscontrabile proprio negli asservimenti reciproci esistenti nel fatto di vendere e di comprare, nei quali le finalità dell’uno si incrociano con quelle dell’altro. Questo elemento comune è derivabile dallo schema dell’obbligazione, per mezzo del quale le caratteristiche comuni delle finalità tendono a convergere. Nel caso dei diritti reali, ad esempio, è la fruizione della cosa da parte di un singolo, e dunque la sua finalità, che tende a escludere l’uso del medesimo oggetto da parte di un terzo, facendo arrestare la sua finalità di fronte al possesso del soggetto iniziale. Questo arresto, continua Goretti, mostra già di per sé l’esistenza di un equilibrio dei fini, ed è proprio questo equilibrio che rende possibile la formazione degli istituti giuridici. Ciò che rende dunque costante nel tempo l’esistenza di determinati istituti è proprio l’uniformità delle nostre forme e dei nostri bisogni. Ecco come, quindi, da un accenno di volontà comune e di unificazione di finalità, espresse nella forma dei singoli istituti giuridici, si assiste a un progressivo ampliamento del principio di solidarietà sociale, che limita automaticamente il nostro originario egoismo. Si passa, gradualmente, da un’unificazione di finalità e bisogni elementari a un’unificazione più elevata di natura spirituale. Questo è un fenomeno, dice Goretti, «storicamente accertabile e inoppugnabile» (Goretti 1930, 218). L’egoismo si asserve così, senza negarsi, a un criterio di uniformità, dando vita a unità sempre più grandi e mostrando all’umanità il cammino della giustizia. Si potrebbe sottolineare l’incoerenza pratica di tali affermazioni, mostrando le derive violente ed ingiuste che molte istituzioni hanno posto in essere, ma simili mostruosità sono solamente deformazioni storiche di suddette istituzioni, le quali, in sé, non posseggono nessun concetto di giusto ed ingiusto, ma rappresentano solamente un grado di realizzazione della volontà comune, ad uopo strumentalizzata da egoismi irrazionali. Ma in che forma empirica si realizza questa volontà comune, secondo il Goretti? La sua risposta è molto chiara: «Il diritto come tale non può culminare nello Stato» (Goretti 1930, 228). Quella che ad Hegel appare come la rappresentazione e lo stadio più completo della volontà individuale, è invece per Goretti un’indebita ingerenza dell’egoismo collettivo nei confronti di quello soggettivo, una volontà di potenza che non ubbidisce a esigenze razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa, tradendo quell’esigenza prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana. Come Alessandro Dividus 169  170 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 all’interno della società civile si manifestano una molteplicità di individualità e gruppi in contrasto tra loro, così anche lo Stato, non essendo altro che un gruppo più ampio, non potrà rappresentare la realizzazione della volontà comune, poiché anch’esso tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo ruolo è, così per Goretti come lo era stato per il Green, puramente pratico, nel senso di garante del rispetto del diritto e della potenzialità di sviluppo della volontà comune. Lo Stato appare come la rappresentazione finale della sovranità, politica e giuridica, ma essa è pura illusione. In ogni sovranità vi è sempre un riverbero di ordinamento giuridico ideale, che non si esaurisce nella sua forma storico-sociale, ma è assoluta spontaneità dei rapporti che l’uomo instaura tra schemi e istituti. Lo Stato, nel suo processo evolutivo, non rappresenta altro che un irrigidimento della volontà comune nel suo percorso fenomenologico. Conclusioni Quanto esposto rappresenta una parte dell’importantissimo contributo del Goretti nel campo della filosofia, che tocca aspetti gnoseologici, giuridici e politici, mostrando il suo carattere poliedrico e critico, senza però rinunciare al suo rigore logico. Le sue intuizioni sono rimaste purtroppo vittime degli sfortunati eventi storici che hanno accompagnato tutta la sua esistenza, lasciando ai più sconosciuta la sua eredità intellettuale. Di non minore importanza, inoltre, è l’impegno che egli ha dedicato in difesa dei diritti degli animali, per il quale si rimanda all’articolo L'animale quale soggetto di diritto (Goretti 1928), che si concilia perfettamente con la sua personale concezione del diritto e che anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni attuali sul tema. Ma lo scopo di questo lavoro, data la limitatezza del contributo, non è stato quello di approfondire ogni aspetto del suo pensiero, bensì di mostrare la profonda capacità argomentativa di questo autore, il quale offre numerosi spunti in altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad essere stato, in Italia, il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera del Green, Goretti ne ha saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una propria visione della volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra idealismo e razionalismo, quasi come un proseguo degli studi, involontariamente interrotti, ai quali il Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del formalismo kantiano, segnata da una propria interpretazione della volontà di Schopenhauer, mette in evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale interesse degli studiosi successivi, il che conferma ulteriormente la necessità di riscoprire un autore tanto grande quanto sfortunato.  Bibliografia La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Abbagnano, Nicola. 1923. Le sorgenti razionali del pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Andrew Cecil. 1906. Prolegomena to Ethics by the late Thomas Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon Press. Goretti, Cesare. 1922. Il carattere formale della filosofia giuridica kantiana. Milano: Casa Editrice Isis. Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia XVIII, 3: 235- 247. Goretti, Cesare. 1928. “L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4: 348-369. Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria Editrice Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e norma.” Rivista di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il valore della filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di Filosofia XXIV, 4: 332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista di Filosofia XXVI, 1: 66-82. Goretti, Cesare. 1936. “La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII, 2: 97-117. Goretti, Cesare. 1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della cultura italiana III, 4: 251-264. Goretti, Cesare. 1951. Il pensiero filosofico di Piero Martinetti. Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas Hill. 1925. Etica. 

No comments:

Post a Comment