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Saturday, September 4, 2021

Grice e Baldini

 In questo contributo intendo concentrarmi su alcuni aspetti della teoria aristotelica dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e il suo significato dialettico e teorico.  Il processo conoscitivo, per Aristotele, è una transizione da ciò che è “primo per noi” a ciò che è “primo per sé”[1], e l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il “primo per noi” contempla la nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da includere: le prassi linguistiche e ascrittive diffuse[2], le opinioni notevoli (ἔνδοξα) condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi[3], i topoi o luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come “fatti della vita”, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti concreti implicati nelle relazioni di amicizia[4]. Si tratta di un materiale eterogeneo, variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione concettuale: il suo trattamento dialettico preliminare sarà orientato anzitutto a evidenziare le contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di superarle entro una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione positiva ˗ materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti, definizioni ˗ ne salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri l’apparenza delle contraddizioni, e produca così una sorta di “equilibrio riflettuto” fra il “primo per noi”, da cui pure si sono prese le mosse, e il “primo per sé”, punto d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare giustizia dei caratteri manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e inferibili[5]; invece una teoria che negasse questi caratteri, sarebbe ipso facto una teoria deficitaria, insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi φαινόμενα, che pure sono il suo originario explanandum.  Questa cifra metodologica va tenuta presente, se si vuole apprezzare in modo non superficiale la trattazione aristotelica dell’amicizia nelle due Etiche. Perciò è opportuno partire non da Aristotele, bensì dall’orizzonte teorico-culturale cui egli si rapporta dialetticamente, nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il significato ordinario di «φιλία» ha un’estensione ben più ampia della nostra nozione di «amicizia»: oltre all’amicizia propriamente intesa, può denotare anche l’alleanza politica[6], la vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni parentali e matrimoniali a quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle amorose ed erotiche; insomma, qualunque interazione umana positiva e non ostile, fra individui o fra gruppi – ma anche fra uomini e dei[7] – è denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione preliminare che ne offre, Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed esiodeo, così come ai Sette Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei predecessori (Empedocle, Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico che, sottotraccia, orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la prima indagine filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note aporie sono peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni insite nelle istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il Liside dunque, fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo dialettico-polemico primario, anche se non se ne fa alcun riferimento esplicito. È impossibile in questa sede tentarne anche solo una cursoria sintesi, ma è necessario individuare perlomeno quelle aporie di fondo intorno alla φιλία che Aristotele riprende in maniera puntuale[9].  Una importante aporia (210e-213c), radicata nella dicotomia attivo/passivo, è articolata intorno alla questione: chi dei due, in una relazione amicale, è l’amico? Chi ama o chi è amato[10]? Si sonda tutto lo spazio logico delle possibilità, producendo esiti paradossali (di qui, appunto, lo status di aporia): se 1) è chi ama, ad essere amico di chi è amato, allora nel caso che chi è amato odiasse chi lo ama, uno sarebbe amico di chi lo odia! 2) se è chi è amato, ad essere amico, sarà anche il caso che chi è odiato è nemico, dunque se qualcuno ama qualcuno che lo odia, allora sarà nemico di un suo amico! 3) se sono amici o chi ama o chi è amato, indifferentemente, resta fermo che uno potrebbe essere amico di chi lo odia 4) se sono amici necessariamente entrambi, allora non potremmo essere “amici” di entità che non ci amano, come la scienza, o il vino, o i cavalli. L’aporia presuppone l’ampia estensione semantica di φιλία e di φίλος, che da un lato può avere significato passivo (esser caro a qualcuno), attivo (essere amico di) o reciproco[11], dall’altro come prefisso (φίλο-) può comporre termini denotanti amore, passione o apprezzamento per entità impersonali, che non reciprocano. Ma l’aporia è filosofica, non meramente linguistica[12].  Una seconda aporia (213d-223b) muove dalla questione se l’amicizia si dia fra simili o fra dissimili. Se 1) si dà fra simili, allora anche i malvagi sarebbero amici, ma fra malvagi non si dà vera amicizia (assunzione qui data per vera)[13]; 2) se si dà non fra simili simpliciter ma fra simili nell’esser buoni, sorge il problema di come il buono – il quale basta a se stesso[14] – possa trarre utilità da un altro buono, e viceversa, quando si era precedentemente stabilito che nessun amico è inutile all’amico (210c6-8); 3) se si dà fra dissimili contrari, come povero/ricco, sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico sarà amico del nemico, il malvagio del buono etc.: amico/nemico e malvagio/buono sono contrari; 4) forse si dà fra certi dissimili non contrari: chi è intermedio fra buono e cattivo può amare il buono in virtù della presenza in sé di un “male”, cioè della privazione di bene di cui è conscio e che lo rende intermedio[15]; così l’amicizia diventa un caso particolare del desiderio[16], volto strutturalmente a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si ricadrebbe nel caso 1 della Prima aporia: pare che l’amare unidirezionale e non ricambiato non sia sufficiente all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato senza amare a sua volta (infatti l’altro gli è inutile giacché egli ha già il bene presso di sé).  A questo punto viene introdotta l’idea che, se noi cerchiamo nell’amico il bene ma nessun amico può avere il bene pienamente presso di sé, allora ciò che cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa che trascende sia noi che gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze (εἰδώλα)[17]. Le relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che trascende entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente platonica: ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di transito di una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto ideale. Riesaminando poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di «affine» (οἰκεῖος): forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o familiare; ma l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine ad A), dunque il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono; inoltre, sono affini anche i malvagi.  Anche se la trattazione appare un poco schematica e talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini. Come ci si aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano uno scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici[18]! Teniamo dunque a mente questi nodi problematici.     2. La tassonomia delle amicizie e il suo significato    L’amicizia è studiata nel libro VII dell’Etica Eudemia, e nei libri VIII-IX dell’Etica Nicomachea[19]. Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e astratta, quella dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è più empirica e inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato muovere dalla prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone integrazioni o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla Nicomachea o meno[20], in essa appare più nitidamente come la trattazione aristotelica costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del Liside platonico[21].  Etica Eudemia VII introduce il soggetto come specialmente degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi pongono la φιλία come il fine stesso della politica, come antidoto all’ingiustizia, come habitus caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico come il più grande dei beni esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e l’assenza di amici come il male più terribile[22]. La φιλία è aspetto centrale dell’etica – soprattutto entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e sulla felicità – dunque non sorprende che la sua trattazione occupi quasi un quinto degli scritti etici aristotelici.  Ma altre opinioni notevoli non sono universalmente condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero, Empedocle), per altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide, Eraclito)[23]: sono le opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure non viene citato. Si ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già ripresi dal Liside: per alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni (cfr. opzione 1 della Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere amico (cfr. opzione 2 della Seconda Aporia).  Prima di passare alla pars construens, Aristotele enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo dell’indagine:    Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda conto (ἀποδώσει) al massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste cose, e anche che sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale argomentazione sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in contraddizione risultano mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso, ma in un altro no. (Et. Eud. VII 2, 1235b13-18).[24] Le opinioni diffuse e notevoli non vanno accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro buone ragioni e, nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica che superi le aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili possano essere vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo accordo coi φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare.  Se l’amicizia è desiderio (altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del piacevole (appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è «amico» o caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare tale o è creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e bene apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è quella fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno» lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio, un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per lui» e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che è buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è buono ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è bene per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è norma rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e piacevole, in quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni modo, ciò che motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o meno), e apparire a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso incondizionato)[31].  Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e «per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il piacere»[32]. Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono, quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù.  Colui che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità, piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto: dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere apparenti contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto reciproco sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci sia φιλία; tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due amici: se amo qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami me e io lo sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono fare in modo manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di essere amici è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere amico senza esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza credere di esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma «benevolenza» (εὔνοια), cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima è reciproca e non è celata, allora può divenire amicizia[35].  Le tre forme di amicizia, rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo l’Eudemia intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν, in cui vi è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e derivati, rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è posta come πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto di vista definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere, né è un termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine “multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia “utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella “virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi abbandonata nella Nicomachea[37]. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto definitoria: il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del bene), l’utile è tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo, è un bene apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire del bene, una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si definiscono in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così le amicizie basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella basata sul bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e difettive.  Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente.  Qual è la ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40], ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o congetturare dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti manifesti dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora grazie a questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte, poiché alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni altri un altro tipo di amicizia.  L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è fra simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia del Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata proprio sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma anche un luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici  e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere, possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da individui in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha). Aristotele riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose stesse”[43]: a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario.  Una delle ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e poi «perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene + utilità + piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie imperfette, è originaria completezza.  Nella Nicomachea non vi è traccia della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta[47]: a mio avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la coincidenza di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in generale si identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto essere buoni (saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose (che sono appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali, soprattutto il bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico – sono adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole proprio in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere anche amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia della loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella qualità.  Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e più “inarrivabile” delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene ancora meno) venga ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν o «per somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è una virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita sulla base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è più pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la teoria aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa, fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché esse sono caratterizzate come «accidentali»?  Chi si ama per l’utile o per il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo l’amato è[55]. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto, nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non implica, si badi, che non siano amicizie[57], bensì che lo sono solo in virtù del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo.  Ma l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare “disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza, in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene dell’amico: se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il nostro bene individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici perfetti, cooperiamo per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e dell’amico sono voluti – rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza del fatto che anzitutto io e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per l’altro, è perché siamo buoni, siamo dotati di valore intrinseco, e lo riconosciamo reciprocamente. Non si tratta di una implausibile relazione puramente altruistica e disinteressata, perché non si fonda – ribadiamolo – solo sul volere il bene dell’altro, ma anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio e perseguo il bene dell’altro non per altruismo astratto, ma perché l’altro è un bene. Una nozione comune con cui forse potremmo rendere più chiaro questo aspetto, è quella di stima. L’amicizia perfetta è fondata sulla stima reciproca: un amico che stimo per ciò che è e per come è, esemplifica in sé ciò che è buono, a prescindere da ciò che io posso trarre da lei/lui: «se uno non gioisce perché l’altro è buono, non c’è la prima amicizia» (1237b4-5). La stima reciproca presuppone una consonanza di valori, un’intesa su ciò che vale e ciò che è degno: e visto che i due amici sono virtuosi e buoni, essi valgono e sanno di valere, per questo valgono anche l’uno per l’altro. Si tratta di una amicizia in cui coltivare il proprio bene coincide col coltivare l’altro e il suo bene, e questo coincidere non è accidentale – come accade nelle altre amicizie – bensì è costitutivo. Invece posso trarre vantaggio da un amico utile senza stimarlo affatto, così come posso trarre piacere – per esempio, divertendomici insieme – da qualcuno che non stimo, che non ritengo una persona buona, degna, valida.  L’accidentalità delle amicizie non perfette si rende perspicua nella loro strutturale instabilità: un rapporto fondato sull’utilità non avrà più ragion d’essere, qualora uno dei due amici smetta di essere utile all’altro; i bisogni umani sono cangianti, e tali sono le risorse altrui per farvi fronte, cosicché anche le relazioni utilitarie sono essenzialmente mutevoli; lo stesso accade per gli amici secondo il piacere: cambiano, nel tempo, le fonti del piacere, i “gusti”, e cambiano anche le capacità altrui di procurarci piacere; l’amicizia piacevole, poi, è precaria anche perché riguarda tipicamente i giovani, i quali sono di per sé in continuo cambiamento[59].  Invece la virtù del carattere è cosa stabile: le amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene come virtù, che è costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere inutile un amico che prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era, ma difficilmente può sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i buoni, stolti i saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra buoni sono costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida, quasi incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado»[62], un amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente piacevole frequentare chi stimiamo[64].  Così Aristotele, forte della sua tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e sono diventati amici «in modo facile e rapido»[65]. Si tratta di caustica ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida: ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia giovanile (per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e ha certi tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere, l’intensità emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini maturi (è quella per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una lunga consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e appannaggio di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a morire, fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67]; inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete, Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno: perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più contingente di quello dell’amicizia piacevole.  Un altro aspetto problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie simmetriche e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro inferiore[69]; la φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere simmetrica o asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono dunque sei, giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a piacevolezza.  La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue declinazioni i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio), i rapporti politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti fra i cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa teoria generale sono molteplici e fecondissime.     3. Amicizia e autosufficienza    La tripartizione (con ulteriore dicotomia trasversale) non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben attestati.  Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale, non accessorio, della felicità individuale.  Vivere, per l’uomo, è percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto in un passo speculativamente densissimo:    Se l’essere felici consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura, allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic. IX 9 1169b31-1170a4)[81] Le attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia, sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον, introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi stessi, giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due tratti umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole, quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso, piuttosto che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui consegue. Se l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e oggettivarmi riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa e chiastica di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta verso l’amico come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se stesso, allora, così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci, così è desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In questo gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con l’altro è mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e perseguo il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio (quel «quasi» è una concessione al realismo empirico, da cui questa idealizzazione non vuole disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio rapporto con me stesso è a sua volta mediato dal mio rapporto con l’altro, giacché conosco genuinamente me stesso non già con un qualche misterioso atto introspettivo[83], bensì conoscendo persone simili a me che a loro volta mi riconoscono simili a sé: questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni e virtuosi entro relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica autosufficienza, si tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa per l’inclusione del prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con chi scegliamo come degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici non si dà senza il sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici senza esserlo, così l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività) non si dà senza la coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi), anche se è possibile credere di essere felici senza esserlo davvero. E per sapere chi sono, devo rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che l’uomo beato non avrà bisogno di amici “meramente utili” e “meramente piacevoli”, invece dovrà avere amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è riscattato nella sua verità profonda, ma anche oltrepassato in virtù della tripartizione; in un senso è vero, in un altro no. Essere felici insieme è diverso dal semplice divertirsi insieme, anche se lo include, ed è diverso dal semplice aiutarsi l’un l’altro, anche se può includerlo.  L’amico perfetto ˗ come ogni altro autentico bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per questo la teoria aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία erotica, già ben presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una palestra, ove Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato – viene relegata da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi accenni espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati e costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser “posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro. L’amicizia è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente, normante rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente più elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio, piuttosto che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed enfaticamente rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele solo una delle tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella fondata sul piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89].  Secondo l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né dissimili, né contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche aristoteliche presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede che amanti, amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino malvagi possano essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali per chiarire quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel carattere distintivo, e perché.  Spero di avere almeno approssimato il duplice obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico, e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della φιλία in Aristotele.       Bibliografia   Adkins, A.W.K. 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Sul valore epistemologico di questa differenza, resta decisivo Ruggiu (1965). [2] Per esempio: quando diciamo, tipicamente, qualcuno «amico» di qualcun altro? Sul rapporto costitutivo fra il primo-per-noi e il linguaggio, cfr. Wieland (1993). [3] Cfr. Top. I 1, 100 b 21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva: se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più, i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti, lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b). [5] Cfr. De An. I 1, 402b 16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία – le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) – ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del rapporto fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo antico, cfr. Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico (228a-e), Socrate confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva sotto il mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di composizione del Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di riflessione critica. Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la prima trattazione filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si occupano lungamente della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone quella più significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine aristotelica dipende sistematicamente dal Liside: per così dire, essa articola una differente risposta a quelle aporie, rispetto a quella che propone Platone nel Simposio e nel Fedro. [10] Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro in quanto ami o, piuttosto, in quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa “caro a qualcuno”, φίλος + genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due individui sono φίλοι, quando sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni interpreti leggono il Liside come un esercizio dialettico, filosoficamente debole [Versenyi (1975)] o più retorico-sofistico che filosofico [Bordt (1988)], o dal significato prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio e Fedro [Kahn (1996), ma già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)]; benché questi due dialoghi successivi ne possano a buon diritto adombrare il valore intrinseco, tuttavia i temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici sostanziali, e non deve fuorviare il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo stile argomentativo dal tipo di interlocutore che affronta (per esempio, “facendo” il sofista col sofista Menesseno, e così via). Per una interpretazione non riduttiva del Liside e del suo valore speculativo, è illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos tradizionale – per cui la vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone: per restare all’esempio più noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a Trasimaco che fra malvagi e ingiusti non può esserci alcuna cooperazione né amicizia; era comunque un tema essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem., 2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza omerica di questo topos tradizionale, e sulla sua importanza per Aristotele (cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15] La coscienza del male come tale è sintomo del fatto che il male è relativo e non assoluto. [16] Qui nel Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17] Tralascio qui la questione della possibile identificazione del Primo Amico col Bene: ciò che rileva, qui, è il fatto che esso trascenda gli amici concreti, i quali sono tali solo «a parole» e stanno al Primo amico – che è tale «in realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7. [19] La letteratura sull’amicizia in Aristotele è sterminata: in luogo di proporre una lunga lista di studi che comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva, nel seguito mi limiterò a citare alcuni contributi che sono particolarmente pertinenti agli aspetti che tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et. Nic. VIII e IX è Pakaluk (1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente, anche se non unanime. [21] Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche riguardo l’amicizia, buoni spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII 1, 1234b18-1235a4; cfr. anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud. VII 1, 1155a33-b7. [24] Trad. it. modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2, 1235b22-23. [27] C’è chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi crede che non lo sia eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo fosse. Nell’acratico la forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche, quella della δόξα. [28] Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma può anche non esserlo: tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo apparendo come bene. Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come falsa apparenza. [29] Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è l’immediato, ma anche ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene che molte cose dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è acratico, conscio delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la sua ragione, e la motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà soverchiata dalla motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più chiaro per come è presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32]  Nelle espressioni δι’ ἀρετὴν, διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa a un tempo «in base a», «a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò che causa quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere, ciò che ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei termini della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί, cfr. Phys. II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come causa efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33] Cfr. Et. Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione (πάθος), la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud. VII 2, 1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto che questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco, sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36] Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è quello della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò che è o è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è «sano» rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met. IV 2, 1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). [38] Può esserlo in modo mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13 il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di avvicinarci a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non vi è modo di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di fine. [40] Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic. VIII 4, 1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43] Chiamare amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni» (βιάζεσθαι τὰ φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4, 1156b7. [45] La prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del piacere della virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen (1960) e Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν, ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi l’individuo è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo bene, ma perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a qualcosa che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come uno che frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga, sapendo di farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo (e nelle frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della distinzione fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla teoria delle tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic. IX 10,1170b20-29. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54] EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro). Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per altro, e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per sé stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7, 1241a5-7 si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è utile, li vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la benevolenza, proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello che la prova, ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la benevolenza è in relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia etica (=virtuosa) implichi la benevolenza, che però è un costituente della definizione generale di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le amicizie incomplete non siano amicizie in senso proprio, visto che non soddisfano la definizione; Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una tensione irrisolta fra la sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione della “vera” amicizia come tipologia normante e assiologicamente sovraordinata, che non è semplicemente una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui le altre sono approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di Walker (1979), per cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le altre criteri più laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An. II 6, III 1): essa è comunque studiata come una modalità genuina di percezione: le ragioni per cui essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di essere genuinamente un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto buoni e virtuosi, realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del bene incondizionato e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3, 1156a31-1156b1. [60] Et. Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32. [61] Può succedere che l’altro cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3. [62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2, 1236b31. [64] La sventura, poi, può rivelare che un’amicizia che pareva perfetta era in realtà in vista dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65] Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII 2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3, 1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21. [69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII 8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII 12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5. [72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic. IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII 12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18. [75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76] Si tratta di una complessità anche filologica, dovuta a corruzioni del testo. Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77] Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva, percettiva, razionale – la percettiva e la razionale sono quelle che discriminano la realtà (cfr. De An. III 3, 427a17-23); la percettiva, poi, è intimamente connessa col desiderio e, quindi, con l’azione (cfr. De An. III 9-11). Vivere significa realizzare le proprie capacità naturali e acquisite, il che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio di percezione e pensiero (ove entrambe vanno concepite come connesse all’azione, in quanto coinvolgono anche desiderio e intelletto pratico). Su ciò, mi permetto di rimandare a Zucca (2015), Capp. II e VI. [78] La felicità è «una certa attività dell’anima secondo virtù completa» (Et. Nic. II 13, 1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12, 1245a30; Et. Nic. IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6. [80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7. [81] Trad. it. modificata. [82] In Et. Eud. VII 6 e in Et. Nic. IX 4 si argomenta che i tipi di relazione che si hanno con gli altri dipendono dal rapporto che si ha con sé stessi: chi è buono e virtuoso sarà anche amico di sé stesso in modo armonico e costante – sebbene si possa parlare di amicizia solo κατὰ ἀναλογίαν (1240a13), nel caso dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà incostante e in conflitto con sé stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé stesso. Questa idea non contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa per la conoscenza dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e virtuoso è felice anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si conosce e realizza come felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento reciproco con amici che hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con sé stessi. [83] L’idea di un accesso introspettivo infallibile ed essenzialmente privato ai nostri propri atti mentali, così tipicamente moderna, è affatto estranea ad Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul valore speculativo intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno ricordare che l’amicizia perfetta aristotelica resta prerogativa di un sottoinsieme dei maschi adulti liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la teoria dell’amicizia, per così dire, mediatamente: in quanto restringe a quel sottoinsieme la capacità di realizzare l’eccellenza morale, precondizione della relazione d’amicizia perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono», anacronisticamente, come il coglimento di me stesso in quanto individualità irriducibile, magari ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa sorta di soggettività “novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla coscienza di sé nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo di persona sono. [86] Come bene intrinseco che trascende il livello del piacevole, è un amabile oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud. VII 2, 1235b22-23), e la volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi sistematica e comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e Aristotele, è Price (1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c. [89] La relazione erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e più instabile di altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé instabili – in quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte» (l’uno gode nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic. VIII 5, 1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7.

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