La logica è di norma considerata come la solida roccia cui ancorare la nostra vita intellettuale. Infatti in essa riteniamo di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Ermanno Bencivenga in Dio in gioco. Logica e sovversione in Anselmo d’Aosta, rivelandoci l’altra faccia della logica, quella perturbatrice: la logica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e torbida. L’autore ci propone, come caso di studio della logica che svia l’umana ragione, le argomentazioni addotte da parte del filosofo e teologo Anselmo d’Aosta a sostegno della prova ontologica dell’esistenza di Dio formulata nell’XI secolo (è bene avvertire che Anselmo è noto in Italia come Anselmo d’Aosta – luogo d’origine, in Francia è chiamato Anselme du Bec – monastero di cui fu priore e nei paesi di lingua inglese è indicato come Anselm of Canterbury – città di cui fu arcivescovo). L’intento anselmiano era quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione e fede – per sfornare la ciambella del credo ut intelligam, da servire al posto di quella del credo quia absurdum di Tertulliano. Infatti, è da presumere che Anselmo non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo, quindi cercava solo di intelligere la sua fede senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio. In soldoni, Anselmo con il suo argomento ontologico voleva veramente fornire all’insipiente che nel Salmo 13 sentenzia “Dio non c’è”, una prova cogente dell’esistenza di Dio oppure lui credente voleva convincersi e convincere gli altri credenti, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, Bencivenga con un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel lettore il memento che sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia ma che, al contempo, un abuso dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia. Infatti, nel progetto anselmiano la ragione svolge ruoli differenti a livelli differenti. La ragione, da un lato, per la sua natura normativa impone limiti a ogni eccesso; dall’altro lato, però, essa apre un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiungerà mai un limite. Il programma di natura tipicamente logica impostato da Anselmo perché possa “farci pensare più correttamente al Signore Ineffabile di tutte le cose” (p. 42) anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogativi (nell’arco delle ultime due pagine del capitolo primo, Bencivenga è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19 volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il problema dell’illuminazione razionale oggetto di una “ermeneutica del sospetto” à la Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire “l’incoraggiamento di Anselmo a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. […] Come possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse […] stiamo in realtà facendo qualcos’altro quando ‘cerchiamo’ così?” (ibid.). Pur ammettendo la necessità delle considerazioni razionali di Anselmo, che trovano il loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se nello scrivere il Proslogion, mentre era nel monastero di Bec, il futuro arcivescovo di Canterbury non avesse intenzione di convertire gli infedeli per mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a scrivere il cardinale J.H. Newman in An Essay in aid of a Grammar of Assent: “Logic makes but a sorry rhetoric with the multitude; first shoot round corners and you may non despair of converting by syllogism” (cfr. www.theology.co.uk/newmananselm). Infatti, usando la metafora del far partire il colpo alla cieca (shoot round corners), Newman vuol dire che bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione, e solo quando la gente ha accettato l’esistenza di Dio per fede, senza alcun tipo di dimostrazione, solo allora si è pronti a una conversione mediante argomenti razionali. Pertanto, come fa notare Bencivenga, “esistono dunque buoni motivi per cui il gioco di Anselmo debba essere ristretto ai credenti” (p. 53). La chiave di lettura dell’argomentazione anselmiana è da individuare, tramite la citazione del Salmo 13, nella figura dello stultus et insipiens. Certa critica ha sostenuto che Anselmo ha messo in scena lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere così, ma la caratterizzazione del miscredente come uno stolto è sfruttata sottilmente da parte dell’autore del Proslogion, per dimostrarci che è possibile individuare un argomento razionale che consenta di affermare che Deum esse. Giungere a possedere un tale argomento non serve solo nel caso in cui “se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci; è che noi tutti siamo stolti in certa misura, e la perpetua ricerca di trasparenza suggerita da Anselmo […] contribuirà a renderci – a rendere noi tutti – meno stolti” (p. 37). Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere di Dio è per se notum, ma lo è perché egli sbaglia nell’usare la parola o il concetto di Dio e persevera in questo modo di esprimersi. Se uso correttamente la parola Dio, riconosco che devo dire Dio esiste (il ‘Deum esse’ di Tommaso d’Aquino), ma con questa affermazione non posso pretendere di avere afferrato l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ di Tommaso). Infatti, per Anselmo la prova dell’esistenza di Dio può funzionare solo se Dio è inteso come id, quo nihil majus cogitari possit (di seguito indicato con: i.,q.n.m.c.p.); tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste alcun Dio” può pensare i.,q.n.m.c.p., perché altrimenti non potrebbe neanche formularne la negazione. Il concetto di i.,q.n.m.c.p. diventa per Anselmo una vera e propria macchina-generante-attributi-divini. Per esempio, Dio deve essere onnipotente. Se non lo fosse, noi potremmo concepire un essere maggiore di lui. Ma Dio è i.,q.n.m.c.p., quindi deve essere onnipotente. Allo stesso modo, Dio deve essere giusto, misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di queste qualità, non sarebbe più i.,q.n.m.c.p., il che è impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante. L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a catena: si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non solo può ma anche deve possedere tutti e tre questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché Dio si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma di Anselmo porta al seguente output: “Dunque, Signore, tu non sei solo Colui di cui non può pensarsi il maggiore, ma sei anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato” (p. 108). Queste parole, sottolinea Bencivenga, richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea: “Posso pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di i.,q.n.m.c.p, tentava di procurarsi “una giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione” (p. 114). Una mossa azzardata che dava in questo gioco la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con “una manciata di domande ben azzeccate”, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in subordine “occuparci la coscienza con la loro presenza importuna” (p. 116). Possiamo, dunque, senz’altro dire che Bencivenga ha svolto egregiamente una ricognizione del pensiero di Anselmo trovando anche addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo, nell’ultimo capitolo, alle vite di Giordano Bruno e di Alan Turing. Prima di concludere, vorrei rivolgere al lettore di Dio in gioco la raccomandazione di non trascurare le due Appendici, in specie la prima perché proprio in questa, stranamente, il logico Bencivenga ha relegato la discussione sulla prova ontologica di Anselmo d’Aosta. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, a p. 25, vengono riportate queste parole di Anselmo: “Così quando si dice ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o compresa”. Subito a seguire nella pagina successiva, l’autore attribuisce ad Anselmo l’utilizzo di una via negativa per giungere alla comprensione di Dio e aggiunge: “Non si sa veramente un gran che della natura di qualcosa se si sa solo ciò che non è. Ma non bisogna farsi confondere da questa limitazione: non si tratta qui di avere un’intuizione della natura divina, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum”. Sull’argomento della reductio, l’autore ritorna ancora a p. 128, dove cita un passo tratto dalla Responsio di Anselmo riformulandolo in questi termini (dove “X” è l’abbreviazione di “id, quo nihil majus cogitari possit”: “(1) Si può pensare a X. (2) Quindi c’è un mondo m (pensabile) dove X esiste. (3) Ora supponiamo che X non esista nel mondo reale. (4) Allora è possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di X. (5) Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e (3) è la premessa da dimostrare assurda, il che la rende indisputabile. […] Riterrò che l’argomentazione funzioni se (almeno) stabilisce che Dio esiste, senza renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione”. Dalla combinazione di questi due passi si ricava che Bencivenga ritenga che la reductio sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che (1) Socrate non è mortale; (2) Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché (3) Socrate è sia mortale che non mortale. Ma (3) è necessariamente falsa e (2) è vera. Perciò (1) è falsa. La premessa (2) non assume riguardo a Socrate una “forma puramente negativa”, pertanto in questo caso la reductio non può essere addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono reductio che possono essere formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reductio non suffraga l’accettabilità della via negativa.
Thursday, September 16, 2021
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