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Wednesday, September 15, 2021

Grice e Cicerone: impiegatura prammatica

 Amo I Presocratici. Si può sostanzialmente concordare con Charles Morris nel- l'affermazione che "anche se trascuriamo gli sviluppi avuti in Ci- na, nell'India e nell'Islam, la profondità e la continuità di questa tradizione [semiotica] si può almeno indicare in rapporto alla ci- viltà occidentale".' Su questa linea filosofica occidentale anche noi ci muoveremo. La scelta è motivata: indubbiamente, fin da- gli inizi della sua storia, il pensiero greco ha avuto a che fare con il problema dei segni. Anche da una sommaria analisi filologica del lessico ci si può accorgere che, almeno a livello intuitivo, i greci avevano l'idea di che cosa fosse un segno. Nel vocabolario greco esistono infatti le parole afj^a e aTipisiov, testimoniate a partire da Omero, e anche quelle di ARMAVXIKÓC e perfino di OTI- M.EÍCOOLC, per quanto esse siano testimoniate più tardivamente. La parola afj[j,a è assai interessante, perché ci permette di osserva- re come l'idea di segno fosse vicina alle formulazioni contem- poranee: il segno è qualcosa che rinvia a qualcos'altro, o natu- ralmente o convenzionalmente. deriva dal sanscrito dhya- ma ed è perciò ipotizzabile che questa concezione fosse ancora più antica. Comunque troviamo il termine già in Omero (Iliade, 6, 168; Odissea, 21, 231) e in Esiodo (Le opere e i giorni, 448), in cui sta a indicare tanto il segno naturale (nuvole per pioggia), quanto il segno divino (il prodigio che rinvia alla volontà del dio), quanto il segno convenzionale (il segno di riconoscimento delle truppe).' Morris, Signs..., cit., p. 241. La filosofia greca antica. La filosofia greca antica si pone già dei problemi per larga parte semiotici quando tratta della questione filosofica dell'a- derenza del linguaggio alla realtà. Negli Eleati, in particolare, troviamo per la prima volta la concezione della convenzionalità del segno linguistico, anzi, addirittura della sua completa arbi- trarietà. Secondo Parmenide, dal momento che l'Essere è ine- sprimibile (perché immobile, uno e necessario), l'esperienza del reale è illusoria, e pertanto il linguaggio consiste neir"applica- re etichette alle cose illusorie".^ Ma poiché tali cose non esisto- no, ciò significa che il linguaggio è uno strumento puramente funzionale e convenzionale, che può spiegarsi da solo senza ri- ferimento alla realtà. Dalla parte opposta si colloca invece Era- clito, che sembra essere il primo a proclamare, almeno implici- tamente, la dottrina che il linguaggio esiste "per natura". Solo i sensi ci mostrano il reale, il molteplice, e il linguaggio serve ap- punto a nominare tale molteplicità: sono le cose, gli oggetti, a determinarla. Su questa opposizione fra convenzionalità e naturalità (po- tremmo già chiamarla "motivazione") si basa tutto il dibattito sul linguaggio nel pensiero presocratico. Empedocle di Agrigento'^ sembra condividere la concezione parmenidea della "convenzio- nalità del linguaggio"; ma quel che più importa nei primi pensa- tori greci è soprattutto la riflessione sulla sua natura ambigua ed equivoca (oggi diremmo "polisemica"), messa clamorosamente in luce con le aporie di Zenone, e sulla necessità di elaborare un linguaggio esatto. Non bisogna sottovalutare, fra l'altro, che tut- ti i primi filosofi sono anche e soprattutto degli scienziati. Sempre sulla convenzionalità del linguaggio, per quanto di- mostrata in modi diversi, puntano anche Democrito, i Sofisti e i Megarici. Democrito offre una spiegazione fondata su quattro ar- gomenti empirici. I nomi sono dati per convenzione: se così non fosse non avremmo l'omonimia, per la quale esiste un solo nome per designare cose diverse; non avremmo nomi diversi per desi- gnare la stessa cosa (è sorprendente pensare che questa argo- mentazione è fondamentale per le analisi di Frege a proposito di Sinn e Bedeutung); non ci sarebbe possibilità di cambiare i no- 12 ^ Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidman, Berlin 1936, fr. 19. 3 Ivi, fr. 23 e 114. " Ivi, fr. 8-9. mi; infine, quarto ma assai più debole argomento, ci sarebbe ana- logia nella derivazione dei nomi.^

I Sofisti, primi teorici ante litteram della comunicazione di massa e del messaggio persuasivo, inventori della retorica, fon- dano la fede nella convenzionalità del linguaggio sulla diversità che esiste, a livello materiale, fra i nomi e le cose. È impossibile, perciò, che attraverso i nomi si comunichi la loro conoscenza. Gorgia afferma che "il linguaggio non manifesta le cose esisten- ti proprio come una cosa esistente non manifesta la propria na- tura a un'altra di esse".^ Ossia, il linguaggio è un oggetto auto- nomo di fronte agli altri oggetti, e può essere spiegato dal suo in- temo. Prova ne sia che attraverso di esso si possono argomenta- re cose opposte, indipendentemente dalla verità di una di esse. Con un argomento simile, oltre duemila anni dopo, Umberto Eco qualifica la semiotica come "teoria della menzogna".^
Fra i Megarici inoltre (e siamo ormai a Platone), Stilpone in- trodusse la dottrina della impredicabilità di una cosa materiale con un'altra: principio che portava a stabilire il linguaggio come strumento di comunicazione nato, per convenzione, per servire ad atti di riferimento.® La tesi della naturalità del linguaggio pri- ma di Platone fu infine sostenuta dai Cinici, e in particolare da Antistene. Sappiamo dalle testimonianze di Diogene Laerzio e di Platone (Cratilo nel dialogo omonimo espone le tesi di Antiste- ne), che i Cinici definivano il linguaggio come "quel che manife- sta ciò che era o è".®
1.2. Ippocrate (v-iv sec. a.C.)
Sotto il mitico nome del medico greco si cela in realtà una numerosa serie di autori anonimi, a volte persino in contrasto fra loro, i cui testi sono raccolti nel cosiddetto Corpus hippocrati- cum}^ la cui estensione corre durante i secoli v e iv a.C. Si trat- ta di una tappa importante, la prima di reale rilievo, in una sto- ria del pensiero semiotico. Se infatti in precedenza possiamo in-
5 Ivi, fr. 26.
'Ivi, fr. 153.
^ Cfr. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975. * Aristotele, Metafisica, v, 29, 1024b 33; Plutarco, Ad Colot., 23, 1020a. 'DiogeneLaerzio,Vitceetplacitaphilosophorum, vi,1,3.
Vita Di Benedetto-Alessandro Lami (a cura di), Ippocrate. Testi di medici- na greca, Rizzoli, Milano 1983.
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 travedere una vaga nozione di segno, e una altrettanto vaga no- zione di inferenza, adesso ci troviamo dinanzi a un primo avvi- cinamento metodologico al problema della semiosi. I medici gre- ci, infatti, costruiscono un sistema prognostico (come analizza- re la malattia e soprattutto le sue conseguenze?) fondato non più sull'analogia, come nel sapere magico, ma sulla fenomenologia, i dati della realtà come appare. In una visione magica del mon- do, ci si basa sul principio che quel che si vede va ricondotto a qualcosa di nascosto, che solo una "seconda vista" può interpre- tare. Una "seconda vista" che ovviamente è appannaggio di al- cuni, eletti dalla divinità che l'ha concessa. La relazione fra quel che si vede e quel che è nascosto funziona per analogia, cioè in modo casuale. Invece, nel pensiero fenomenologico (che è per de- finizione profano) si mantiene l'idea di una doppia struttura del mondo, l'apparenza e la sostanza che vi è nascosta, ma la capa- cità di giungere alla seconda dipende dal metodo causale con il quale si riconducono certi fenomeni ad altri che ne sono la ma- trice. La vista cessa di essere così l'unico senso con cui si apprende la realtà. Il medico trae i suoi dati di partenza anche dall'olfatto, dal tatto, dall'udito e persino dal gusto, ed elabora un ragiona- mento che conduce allaprobabile individuazione dell'origine, del- lo stato e del decorso del male (passato, presente e futuro), con la possibilità di intervenire su quest'ultimo attraverso gli oppor- tuni rimedi.
I dati sensoriali della realtà vengono insomma interpretati co- me segni (oTineLa), ovverosia, come si direbbe meglio oggi, come sintomi. Ma questo accade solo a patto che quei dati si ripetano, mostrino una certa regolarità. In questo senso, il ragionamento necessario è ipotetico (oggi diciamo: abduttivo). C'è insomma un caso individuale. Si ipotizza che esso faccia parte di una regola generale. Si tratta il caso come sottoposto a questa regola, e se ne indica allora il risultato. Una volta che l'abduzione abbia fun- zionato, però, per gli ippocratici c'è anche una verifica: si conti- nua ad applicare il metodo, e se questo funziona, allora si dedu- ce che la regola generale è valida, e quel che era un sintomo di- venta una prova. Il OTineiov si trasforma in xEK^ATiplov.
Importanti sono anche le considerazioni teoriche sul sinto- mo. Infatti, vi sono indicazioni sui modi con cui il medico li de- ve trattare, ad esempio la frequenza e l'intensità, le caratteristi- che del paziente, e la combinazione con altri sintomi. Straordi- nario poi è un passo del Prognostico in cui si fa riferimento an- che al linguaggio di descrizione dei sintomi del paziente, oppor-
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 tunamente provocato dal medico, e perfino al suo "linguaggio na- turale", cioè le emozioni e le espressioni somatiche.
I sintomi, peraltro, hanno un carattere di polisemia e poli- l'iinzionalità che li rende davvero simili a un linguaggio. Infatti, nello stesso Prognostico e nelle Epidemie si afferma che un sin- tomo può avere significati diversi, così come uno stesso signifi- cato si può manifestare attraverso sintomi differenti fra loro. Non solo, ma i sintomi possono di volta in volta indicare un futuro pi ognostico diverso: essere qualificati come buoni, cattivi o mor- tali a seconda della loro collocazione nel caso specifico. Insom- ma: la prognosi funziona sì facendo riferimento a un sistema, ma solo e soltanto se applicata a un processo.
Un ultimo elemento di interesse, infine, è costituito dal ruo- lo che viene attribuito al medico, che è inteso come un inter- prete. In questo senso, siamo già dinanzi a una definizione so- I isticata della semiosi, poiché questa viene definita come un pro- cesso di significazione, in cui un segno rinvia a qualcos'altro, ma solo rispetto a un punto di vista e a qualcuno che lo esprìme. Tuttavia, dal momento che il medico stesso (in quanto interpre- te) lavora su un materiale che è anche discorsivo (il dialogo col paziente), è fin d'ora presente una dimensione pragmatica del- la semiotica: si tiene cioè di conto anche la relazione fra segni e utenti dei segni.
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 2. Platone (429-347 a.C.)
In generale, tutta la teoria platonica può essere interpretata come una dottrina dei segni e dei loro referenti metafisici, le Idee. Anzi, i segni (estendiamo qui la nozione platonica, perché il gran- de filosofo greco si riferisce sempre al linguaggio verbale) sono strumenti per rappresentare delle cose che, a loro volta, non so- no altro che ombre agli occhi dell'uomo prigioniero della caver- na. Questo significa che il rapporto fra nomi e Idee è mediato, i nomi riflettendo solo alcune particolarità (per imitazione) delle Idee. Se così non fosse, sottolinea Platone, nome e Idea coinci- derebbero. Sta di fatto che è abbastanza suggestivo osservare co- me la concezione platonica del processo segnico coinvolga tre termini in una relazione di questo tipo:
OMBRA (referenza)
NOME(segno) /__ (referentemetafisico)
che assomiglia al famoso e controverso triangolo di Ogden e Ri- chards, e di altri pensatori prima di loro.
Platone si occupa del linguaggio espressamente nel Cratilo, in maniera più occasionale nel Teeteto e nel Sofista, e in maniera ancor più sporadica nel Gorgia, nel Timeo, nella Repubblica e nel- YEpistola VII (da alcuni ritenuta apocrifa). Il Cratilo riassume, sen- za apparentemente risolverle in via definitiva, le teorie semioti-
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IDEA

 che dell'antichità greca, basate per lo più sulla disputa tra (jnjaic e VÓFIO^ (O STÌOLC), cioè fra natura e convenzione. La tesi di Cra- tilo, di derivazione eraclitea e cinica, è che i nomi e la loro "giu- ule/./a" sono per natura, cioè connessi con la stessa esistenza del- le cose, di cui sono il fedele rispecchiamento. La tesi di Ermoge- iic, suo interlocutore, di origine parmenidea, democritea, sofi- Nlli a c megarica, è invece che essi siano per convenzione, cioè dovute all'accordo dentro un gruppo sociale e alla stratificazio- ne ilcll'uso comune. Poiché le cose non hanno un nome per na- tura, ò evidente che i nomi hanno un valore proprio, e possono mutare nel tempo:
Dice così, o Socrate, il nostro Cratilo: giustezza di nome ha ciascu- no degli enti, per natura, innata; e nome non è ciò con cui alcuni, convenuto di chiamarlo, lo chiamano, della loro voce emettendo una parte, bensì una giustezza di nomi vi è, naturale, per i greci e per gli .stranieri, la medesima per tutti. In verità io, o Socrate, per quanto ne abbia più volte disputato con Cratilo e con altri molti, non mi posso persuadere che altra mai giustezza di nome vi sia se non la convenzione e l'accordo. Mi sembra che, quando uno dà nome a una cosa, codesto sia il nome giusto. Se poi, ancora, sostituisce quel no- me con un altro, e più non adopera il nome di prima, per nulla il se- condo sia meno giusto del primo. [...] Perché da natura le singole cose non hanno nessun nome, nessuna; bensì solo per legge e per abitudine di coloro che si sono abituati a chiamarle in quel dato mo- do, e in quel dato modo le chiamano.^
Platone, per bocca di Socrate, non sembra condividere pie- namente nessuna delle due teorie. In primo luogo, confuta la te- si della convenzionalità assoluta, intesa come completa arbitra- rietà del segno linguistico: se tutte le azioni hanno una realtà og- gettiva e stabile, e il dare nomi è un'azione, allora anche il deno- minare non dipende dall'uomo soltanto, ma dal modo in cui la natura vuole che le cose siano denominate. Di estremo interesse è poi la concezione del linguaggio che deriva da questa tesi: se denominare è un'azione, essa si svolge attraverso uno strumen- to, e questo strumento è appunto il nome, il segno linguistico.
' Platone, Cratilo, 383a, 384c-d.
Ma Platone confuta, nel medesimo tempo, anche la tesi del- la naturalità. Inizialmente lo fa in modo mediato, asserendo che, se fra nome e cosa vi è rapporto di naturalità, è anche vero che l'adeguazione del nome alla cosa avviene pur sempre in virtù di
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 una legge, cioè di un accordo. Successivamente contesta in mo- do esplicito la tesi esposta da Cratilo (per il quale il nome è ne- cessariamente vero, e conoscere i nomi equivale a conoscere le cose). Per la prima volta appare una concezione del linguaggio come sistema strutturato, e la distinzione fra coerenza intema del sistema e rappresentazione oggettiva della realtà.^ Nel Sofi- sta, la teoria del rispecchiamento (cioè della corrispondenza ter- mine a termine fra nomi e cose) viene ulteriormente rifiutata, an- che sulla base della considerazione che i singoli nomi non signi- ficano se non inseriti nel contesto del discorso.^
D'altra parte, è evidente che nessuna delle due concezioni (en- trambe dogmatiche) può convenire a Platone, in virtù della sua concezione socratica di verità come frutto della dialettica, cioè come conoscenza che può servirsi dei segni, ma solo a patto di giungere a un discorso interiore e non alla semplice opinione. E infatti le varie e talora discordanti definizioni che Platone dà dei segni sono coerenti con questo assunto. Ad esempio, a volte il fi- losofo greco ne parla come di segnali inviati dagli dèi, e che so- no da interpretare (a rischio di inesattezza); in altri casi si tratta di impronte lasciate nella coscienza dalle cose (e pertanto im- perfetti); altrove ancora si tratta dei segni della scrittura, che han- no uno scopo mnemonico (e pertanto non danno conoscenza cer- ta, ma anzi possono far perdere il ricordo del discorso interiore, come accade a Thamon re di Tebe quando Teuth gli offre i segni alfabetici); e infine possono essere indicatori che producono in- ferenza, e pertanto contribuiscono, ma non determinano, la ra- gione di verità.
Altro elemento di interesse del Cratilo è la distinzione, che ri- marrà a lungo ferma nelle elaborazioni successive a Platone, fra verità dei nomi e verità degli enunciati. La verità dei nomi di- pende da una semantica ideale, che potremmo chiamare mode- ratamenteestensionale: dallorolegamenontantomotivatoquan- to almeno analogico con i significati rappresentati dai nomi in assenza delle cose corrispondenti. Solo che, in realtà, questo le- game risulta assai soggettivo: dipende non da un'essenza uni- versale della cosa colta attraverso il significato e da questo tra- sferita al nome, bensì dal punto di vista con cui chi ha stabilito un nome crede di aver colto un'essenza. Ogni lingua, insomma, è fatalmente storica, e, alla fine dei conti, finisce per essere sog-
2 Ivi, 433c, 435a-b-c.
3 Platone, Sofista, 239d, 261b, 262c.
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 getta alla accettazione collettiva di una convenzione, magari at- traverso l'abitudine a un uso.
Comunque, che l'essenza delle cose colta col significato non possa essere uno specchio delle medesime è evidente anche solo esaminando la forma dell'adeguazione dei nomi (o dei segni) al- le cose stesse. Questa risiede nella jiíjA-noic, nell'atto imitativo che risiede nell'attività segnica. Se le cose si rispecchiassero nei no- mi, non vi sarebbe imitazione, ma copia. Pertanto, i nomi han- no sempre un valore segnico, più o meno grande a seconda del gi ado di iconicità ricercato o raggiunto.
In conclusione, si può affermare che un certo scetticismo di Platone nei riguardi della capacità cognitiva del linguaggio fini- sce per fare di Platone un linguista quasi in senso moderno, per- l'hé lo costringe a conferire al linguaggio stesso una funzione emi- nentemente comunicativa. La relazione fra realtà, pensiero e lin- guaggio è tutt'altro che stretta e consequenziale, come accadrà Invece in Aristotele e nel pensiero medievale che ad Aristotele si ispira. In compenso, in Platone emerge con chiarezza il caratte- re mnemotecnico, utilitaristico e intersoggettivo del linguaggio stesso e di ogni altro sistema di segni.
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3. Aristotele (384-322 a.C.)
 Il pensiero aristotelico segna una svolta decisiva per la storia della semiotica. Aristotele è, intanto, il vero fondatore della logi- ca (per quanto essa fosse stata analizzata ampiamente nel pen- siero presocratico e da Platone), e la logica offre non pochi con- tributi allo studio del linguaggio. Inoltre, come già era accaduto per Platone con il Cratilo, Aristotele dedica un'intera opera ai pro- blemilinguistici,ilDeinterpretatione. Inquestotrattato(mapoi anche nella Poetica e nella Retorica), Aristotele utilizza coscien- temente per la prima volta la parola "segno" nel senso moderno del termine, cioè quello di "rinvio a qualcos'altro", e dà anzi la prima sistemazione organica della concezione della lingua come repertorio di elementi riflettenti puntualmente gli elementi co- stitutivi di una realtà unica e universale.' Dice Aristotele:
Le cose che sono, che si verificano nella voce, sono simboli delle af- fezioni dell'anima, e gli scritti sono simboli delle cose che sono nel- la voce; e come i segni grafici non sono gli stessi per tutti, neppure le singole forme foniche sono le stesse; alcune di queste ultime so- no tuttavia fondamentalmente segni, le stesse per tutti sono le affe- zioni dell'anima, e le cose, di cui queste affezioni sono immagini si- milari, altresì sono le stesse per tutti.^
Aristotele concorda sostanzialmente con Platone nell'idea che le forme linguistiche nascano per accordo (OÙVTTÌ^IC) e per con- venzione, ma se ne distacca per la considerazione sulla funzio- nalità del linguaggio rispetto alla conoscenza: conoscere le pa-
' Cfr. Tullio De Mauro, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1965. ^Aristotele,Organon.Deinterpretatione, 16a2-8.
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 role è conoscere la realtà. A questo proposito va ricordata Yar- yomentazione contro lo scetticismo dei Sofisti. Dato per sconta- lo clic ogni dimostrazione contro di loro è vana, poiché predica- no lu contemporanea verità e falsità di ogni discorso, Aristotele piDccdc per elementari considerazioni a proposito della funzio- lif tifi linguaggio:
I .il norma è di pretendere non che l'avversario dica che una cosa è ( ) non è (perché egli obietterebbe subito che si presuppone così ciò i lic ò da dimostrare), ma che manifesti a sé e agli altri una qualche cosa: questo è ben necessario, se egli vuol dire qualcosa, altrimenti loslui non parlerebbe né a sé né agli altri.^
Insomma, il discorso in atto garantisce che si dica una paro- In per dire una cosa, cioè che si ponga il rapporto stesso fra pa- iola e cosa:
fi anzitutto evidentemente vero che il vocabolo designa o l'essere o il non essere di una data cosa, sicché non ogni cosa può essere a que- sto modo. Inoltre, non importa nulla neppure se si dica che il voca- bolo ha piti significati, purché definiti, perché si potrebbe pur sem- pre imporre a ciascun significato un altro nome. Per esempio, se si ilicesse che la parola uomo non significa una cosa sola, ma molte, Ila le quali una corrispondesse ad "animale bipede", e vi fossero in- sieme parecchi altri sensi determinati di numero, si potrebbe im- porre a ciascuno individualmente un suo specifico nome. Ché, se per non fare questo si adducesse che i significati di quel nome sono infiniti, è manifesto che esso non avrebbe piti nessun senso, perché, se non significa una cosa determinata, è come se non significhi nul- la; e quando le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di di- scorrere con altri, anzi, propriamente anche con se stessi: poiché non può nemmeno pensare chi non pensa una cosa determinata; e se egli è in grado di pensare, dovrà anche dare un nome unico alle cose a cui pensa. Stabiliamo quindi, come si è detto prima, che una parola che significhi qualche cosa significa anche una cosa sola.''
In sintesi, la concezione aristotelica è che il linguaggio sia una si i ittura dell'anima, dei dati psichici di coscienza. E ciò è deter- minato dalla relazione di due entità: il segno e il dato psichico o ontologico. Il linguaggio è dunque lo strumento per conoscere la l'ealtà, psichica o materiale. Anche Aristotele, insomma, disegna
' Ivi, 16a 24-25.
" Aristotele, Metafisica, rv, 4, 1003b 35 sgg.
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implicitamente un "triangolo semiotico" come quello di Platone, con le seguenti posizioni^:
 convenzione /
suoni ^
\
motivazione
naeTÌnaxa (affetti) voiifiaxa (concetti)
Di qui l'attenta analisi dei suoi meccanismi e della sua strut- tura, che Aristotele conduce nei testi già citati, e nelle Categorìe. Le categorie, fra l'altro, non sono che parti del discorso, a sotto- lineare il fatto che le concezioni metafisiche sono pensieri intor- no a parole o pensieri intomo a pensieri. Fra le varie nozioni ari- stoteliche, ricorderemo l'esigenza, per la prima volta esplicita, di identificare unità segniche minime (Platone si era fermato alla distinzione fra nome, sillaba e lettera). Aristotele separa l'òvoixa (segno che convenzionalmente significa una cosa), il pfina (se- gno più complesso che significa anche una determinazione tem- porale) e il kór^oc (segno ampio, che corrisponde a un intero di- scorso). Inoltre, egli riconosce anche i oúvÓEO^a, segni che non hanno significato autonomo, ma dipendono dal contesto, come le congiunzioni, gli articoli e ogni genere di particelle.
Il tipo di funzionamento del linguaggio nella maniera che ab- biamo descritto dipende - ed è questa una novità - dal fatto che le affezioni dell'anima e le cose da esse rappresentate sono ugua- li per tutti i parlanti, anche se i segni invece non lo sono. Ma que- sto dimostra non solo la generalità del sistema linguistico, ma anche la sua relatività rispetto al contratto pragmatico esistente fra utenti (parlanti e ascoltatori) del linguaggio. Sta qui la no- zione, tipicamente moderna, della necessaria intersoggettività dell'atto comunicativo.
' Lo schema è ripreso da Giovanni Manetti, Le teorie del segno nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987.
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cose

Hittavia, quanto abbiamo finora descritto costituisce, come Im rilevato Manetti, una teoria del linguaggio, che non è però una vera e propria teoria del segno, anche se la relazione fi:a i duo campi è stretta, come nella semiotica moderna. Aristotele elabora separatamente una teoria del segno negli Analyticaprio- tti V nella Retorica. Questa teoria va posta in diretto riferimento Kin la logica del ragionamento. Segni diventano infatti quelle rose che ne implicano altre, o a priori, o a posteriori. Si tratta dunque dell'inferenza, che Aristotele analizza nella forma del sil- logismo. Fra i sillogismi, poi, ve ne sono alcuni che appaiono ti- pici non tanto della logica (verità delle proposizioni) quanto del- le strategie discorsive (apparenza della verità). Il più conosciu- toIraquestièYentimema, osillogismoprobabile,chefornisceil cardine per una teoria dell'argomentazione di carattere retori- io. E un tipo particolarissimo di entimema è quello che ormai viene denominato come "sillogismo fìsiognomico"^: ovvero, trar- re conclusioni sul carattere delle persone a partire da certi trat- 11 del volto associati a tratti animali (intesi come simboli appunto (li im carattere). Ma siamo a questo punto già all'interno di una ulteriore dimensione della "semiotica" aristotelica, quella piut- tosto processuale che sistemica: tesa cioè ad analizzare il lin- guaggio in atto. Questo aspetto è esaminato soprattutto nella hu'tica enella Retorica.
 NellaPoetica,èfondamentaleilconcettodiimitazione (^Ifie- oi/.). Questa consiste nella rappresentazione analogica dei fatti, elle avviene attraverso una narrazione, e che produce nell'ascol- tatore una passione (meglio: l'annullamento delle passioni, Kitfkxpaic). Insomma: il linguaggio, come direbbe Greimas, fa fa- te delle cose al ricettore. Ed è per questo che Aristotele si dilun- ga nell'esame delle modalità con cui questa dimensione può espri- mersi nel discorso, che non a caso è strutturato in differenti fun- zioni, come la peripezia, la scoperta, la catastrofe, la trasforma- zione da felicità a infelicità e viceversa, e ha l'obbligo della vero- simiglianza.
Altraquestione,invece,èilmodoconcuistilisticamente illin- guaggio produce effetti sul destinatario. E di questa si occupa la I etorica, che infatti presenta una teoria dei tropi (per la prima vol- ta vi si parla della metafora, ad esempio) e delle figure, una teo- ria dei generi letterari, e persino una tipologia dei segni (ad esem-
Cfr. in proposito Patrizia Magli, Corpo e linguaggio, Espresso Strumenti, Koina 1982.
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 pio, vi si pone la differenza fra indici e sintomi: veri e propri se- gni i primi, perché non si correlano necessariamente con i loro conseguenti; antecedenti necessari dei conseguenti i secondi).
Vale la pena anche ricordare che, per quanto non riferita al linguaggio ma alla natura stessa, nella Metafisica appare una di- stinzione fra sostanza, materia e forma che somiglia in modo cu- rioso alle definizioni di Hjelmslev applicate alle lingua. Per quan- to Aristotele non si spieghi molto chiaramente, egli sembra in- tendere che ogni sostanza (cioè ogni singola manifestazione) sia sinolo (cioè relazione) fra una materia (un continuum materia- le) e una forma (una regola astratta di formazione, non esisten- te in quanto tale, ma appunto in ogni manifestazione sostanzia- ta). Questa interpretazione è suggestiva, ma resta non chiarita, anzi talora contraddetta, nel pensiero aristotelico.
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4. Gli Stoici e gli Scettici
 4.1. Gli Stoici (iv-lii sec. a.C.)
Gli Stoici segnano, a detta di quasi tutti gli studiosi, un mo- mento fondamentale per la storia della semiotica e per la rifles- sione sul linguaggio. Con Aristotele, essi rappresentano oltretutto il pimto di arrivo più alto del pensiero antico sulla logica. Degli SI()icicisonogiuntisoloframmenti,'mamoltenotiziecisonoper- venute attraverso Diogene Laerzio,^ e soprattutto attraverso lo scet- I ilo Sesto Empirico,^ che contro di loro polemizza talora anche fe- ri )cemente. Per comprendere a fondo la filosofia del linguaggio del- lii scuola fondata ad Atene da Zenone e Cleante, e poi retta dai lo- ro seguaci come Crisippo e più tardi Panezio e Posidonio, occorre li-nere presente l'intera metafisica stoica, che è incentrata sulla teo- 1 ii\ di una razionale organizzazione del mondo a partire da un uni- I I) principio generale e dinamico, il fuoco divino, che genera lo nvriina, o anima di tutte le cose. Il Xóyoc, l'ordine razionale dell'u- niverso, si esprime anche attraverso il linguaggio, che è un modo pei- interpretare la natura e il suo carattere predeterminato. Il lin- Kiiaggio, in questo senso, è un potere specifico degli uomini (an- I lic se Crisippo sosterrà che una certa capacità di ragionamento linguistico esiste anche negli animali), e consiste nella suddivisio- ni' e distinzione di aspetti di ciò che appare come un continuum lui t tirale. In questo senso, la capacità analitica degli uomini diventa soprattutto abilità nell'interpretare i fenomeni naturali come sin-
' Ludwig Achim von Amim, Stoicorum veterum fragmenta, Leipzig 1903- ^ Diogene Laerzio, Vitce..., cit., vi e vn.
' Sesto Empirico, Contro i matematici. Contro i logici. Ipotiposi pirroniane. 25

tomi o segni di qualcos'altro, e nella possibilità di costruire rela- zioni e connessioni ancora da formare.
 In questo quadro, gli Stoici danno per primi una chiara defi- nizione del segno, che per essi è "ciò che sembra rivelare qualco- sa", e più propriamente "ciò che è indicativo di una cosa oscura". Ricordiamo che per "oscuro" essi intendono ciò che non è pre- sente nel momento della comunicazione. Ne consegue che il se- gno si definisce come un renvoi a una cosa che non è necessaria- mente attuale, e che non è neppure necessariamente esistente. Ma non è solo in questo che risiede la modernità degli Stoici. Per la prima volta si parla infatti di segno non in termini puramente lin- guistici. Ne vengono infatti anche indicate due specie, e gli esem- pi non trattano di elementi verbali. Vi sono i segni rammemorati- vi, che si riferiscono a oggetti che solo occasionalmente sono as- senti (per esempio il fumo è segno del fuoco in assenza di questo, mafumoefuocospessocoesistono).Evisonoisegni indicativi, che non vengono mai osservati insieme con le cose indicate, che sono dunque "oscure" per natura (è il caso di quasi tutti i segni verbali). La differenza con l'animale, per gli Stoici, sta tutta nella capacità dell'uomo di usare i segni. Gli Stoici danno anche la pri- ma definizione del processo segnico nel senso moderno della pa- rola, distinguendovi tre elementi fondamentali:
Si è avuta anche un'altra controversia, nella quale alcuni harmo ripo- sto il vero e il falso nella cosa "significata", altri nella voce, altri, infi- ne, nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati por- tabandiera gli Stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre co- se, ossia la cosa significata, la cosa significante e quella "che-si-trova- ad-esistere" e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esem- pio, la parola "Dione"); quella significata è lo stesso "oggetto-che-vie- ne-indicato", oggetto che noi percepiamo nel suo presentarsi reale per mezzo del nostro pensiero, mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo comprendono. Infine, "ciò-che-si-trova-ad-esiste- re" è quello che sta fuori di noi (ad esempio Dione in persona). Di que- ste cose due sono i corpi, cioè la voce e "ciò-che-si-trova-ad-esistere", ed una è incorporea, cioè l'oggetto-significato, o il >ÌEKTÓV, e proprio quest'ultimo o è vero o è falso. Esso, poi, non è in ogni caso tutto quan- to vero o falso, ma in parte incompleto, in parte "completo-di-per-sé". E di quello "completo-di-per-sé" è vero o falso il cosiddetto giudizio.'*
È la prima cosciente tripartizione degli aspetti del segno, ancor oggi di una certa attualità, rappresentabile in un famoso triangolo:
Sesto Empirico, Contro i logici, ii, 291, 4-21. 26

significato
significante /- - A referente
¡»i vertici del quale gli Stoici pongono il aTÌp,aivov (entità fisica sijinificante), il orinaivónevov (entità astratta significata) e il ruy- Xttvov (oggetto reale di riferimento). Il significato viene chiama- loanche>ISKTOV("detto"),evienedistintoinincompleto (seèpor- luto da un pfi(xa, un nome) e completo (se è portato da un à|ico- (Kt, un giudizio, solo del quale si può dire che è vero o falso). Di (jiii la chiarificazione in senso logico del segno, che viene defini- li) come una proposizione:
ò segno una proposizione che faccia da antecedente in una premes- sa ipotetica maggiore valida e capace di disvelare il conseguente
( Ivvcro ancora come:
una rappresentazione razionale, ed è razionale quella rappresenta- zione in conformità con la quale è possibile stabilire razionalmen- te l'oggetto rappresentato.^
Su questa base gli Stoici avevano anche fatto una interessante disi inzione tra i tipi di discorso, per molti versi simile a quella di molti linguisti moderni:
Gli Stoici asseriscono che ne esistono parecchi modi; alcuni sono, infatti, chiamati da loro imperativi, ossia quelli che noi profferiamo nel dare un ordine, ad esempio "vien qui, cara fanciulla"; altri sono chiamatienunciativi, ossiaquellicheprofferiamonelfareun'enun- ciazione,adesempio"Dionepasseggia";aìtrìinterrogativi, ossiaquel- li che profferiamo nel porgere una domanda, ad esempio "dove abi- ta Dione?"; altri poi sono chiamati da loro persino imprecativi, os- sia quelli che profferiamo nel lanciare un'imprecazione, ad esempio "così come fa questo vino, a terra il cervello lor scorra"; altri sono. Invece, supplicativi, come quelli che diciamo nelle preci: "O padre
Arnim, Stoicorum..., cit., ii, 221. Anche in Sesto Empirico, Contro i logici, MS.
 II,
27

 Zeus, signore dell'Ida, glorioso, sovrano, da' la vittoria ad Aiace, che splendido vanto consegua".^
Ma altri importanti aspetti semiotici sono presenti nel pen- siero stoico. Se la loro teoria del linguaggio si inseriva infatti nel- la dialettica come studio delle regole per la produzione di pro- posizioni corrette (e in questo senso, infatti, ritroviamo anche studi di grammatica, ma persino di fonetica, di metrica, di mu- sica, di retorica), nella stessa dialettica era prevista anche una se- conda parte, collegata ma separata dalla prima, e cioè una teo- ria logica del linguaggio stesso. Ecco così comparire una serie di studi sulla proposizione, sui predicati, sull'argomentazione, sul sillogismo e sulla fallacia.
In questa direzione ha un senso precìso il fatto che il arijiai- vófifivov venga chiamato anche XEKTÓV. Con questa dizione si in- tende infatti sottolineare la natura logica del significato, che, in questo senso, non corrisponde esattamente al pensiero (almeno: non nel senso psicologico del termine, come accadeva in Aristo- tele). Lo strumento principale per la corretta formulazione del XEKTÓV è la proposizione condizionale ("se... allora..."), che con- siste nella relazione fra un antecedente e un conseguente. Quan- do l'antecedente è vero ed evidente, e il conseguente non lo è, al- lora l'antecedente è un armEÌov, un segno del conseguente. "Evi- dente" per gli Stoici è qualcosa che avviene in presenza di un os- servatore e può essere conosciuto direttamente, senza bisogno di ulteriori premesse. Gli Stoici costruiscono una complessa tabel- la di fenomeni evidenti e non evidenti. Innanzitutto, vi sono co- se pre-evidenti, come la luce, che non può essere neppure l'og- getto di rinvio di un segno. Poi vi sono cose evidenti ma non pre- evidenti, come i colori, che hanno bisogno della luce per mani- festarsi, e che possono essere designati da ulteriori segni, come le descrizioni di qualcuno in caso di oscurità. Ma ci sono anche
cose non evidenti in assoluto, come il numero delle stelle in cie- lo. Oppure, cose temporaneamente non evidenti, come il fatto che la morte consegua a una ferita al cuore (e sono allora desi- gnate da segni commemorativi). Altre cose sono non evidenti per natura, come l'anima, che non è percepita dai sensi (ed è desi- gnata da segni indicativi).
Come si vede, le due teorie stoiche (del linguaggio e della lo- gica del segno) hanno un carattere formale, necessario e deter-
' Sesto Empirico, Contro i logici, n, 70-73. 28

 ministico. In questo senso, è chiaro che il tipo delle implicazio- ni formulate pretenda di essere valido a ;?non. Gli Stoici sottoli- neano tutto ciò mediante la conferma del condizionale per con- trapposizione. La contrapposizione consiste nell'asserire che, da- la una inferenza del tipo "se p, allora q", vale una inferenza an- che nel caso della negazione ("se non p, allora non q"). Il che apre lina contraddizione, che gli Epicurei intravedono immediata- mente, fra ragionamento a priori e conoscenza fattuale.'^
4.2. Gli Scettici (iv-ii sec. a.C.)
Lo stoicismo fu considerato nell'antichità greca come una I l'Oria dogmatica, contro la quale sorsero varie scuole di pensie- ro, fra cui lo scetticismo. Fondatore fu Pirrone, che non dette però immediato avvio a una scuola. A lui si ispirarono filosofi come Arcesilao e Cameade, e più tardi Enesidemo. La confuta- zione delle tesi stoiche si accompagnò comunque a quella delle ilice epicuree, considerate dogmatiche più o meno per le mede- sime ragioni. La critica al dogmatismo diede vita al fulcro del pensiero scettico, e cioè la sospensione del giudizio come mez- zo per giungere al fine della vera conoscenza e della pace inte- riore. Trattandosi dunque ancora una volta di una filosofìa del- la conoscenza, quella scettica è necessariamente una critica alle teorie del linguaggio allora prevalenti, appunto quella stoica e lineila epicurea. In buona sostanza, gli Scettici confutano so- |)i attutto la tesi stoica dei segni indicativi, dal momento che que- sla appare il fondamento della conoscenza poiché conduce alla scoperta di ciò che è naturalmente non evidente e non osserva- hile. Ma anche la tesi epicurea secondo la quale i segni sono sen- sibili, e dalla loro evidenza sensoriale si inducono le cose non evidenti, viene respinta.
Sesto Empirico (200 ca), che è la nostra fonte principale sul pensiero stoico, epicureo e scettico, polemizza ampiamente con- tro la dottrina del segno degli Stoici, e, come si è detto, polemiz- za soprattutto contro la loro definizione dei segni indicativi, che gli sembra dogmatica. Ma le sue aporie oscillano spesso fra Tu- liliz.z.azione di un punto di vista strettamente empirico e uno di- i liiaratamente scettico. Il fatto è che Sesto è medico, oltre che fi- losofo, e che quindi la tipica teoria della conoscenza scettica è
' Cfr. sul tema l'ampia trattazione di Manetti, Le teorìe..., cit.
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 necessariamente mediata dalle realtà della sua professione, che lo induce a servirsi dei dati sensibili. Prova ne sia invece l'accet- tazione della validità dei segni rammemorativi:
Tenendo, dunque, presente che si distinguono quattro gruppi di co- se - il piano delle cose manifeste, il secondo di quelle assolutamen- te-non-manifeste, il terzo di quelle non-evidenti-per-natura, e il quar- to di quelle temporaneamente-non-evidenti - noi affermiamo che non ognuno di questi gmppi, ma solo alcuni hanno bisogno di segno. Ov- viamente, infatti, non accettano un segno né le cose assolutamente- non-manifeste né quelle manifeste; le manifeste, perché di per sé si presentano e non hanno bisogno di alcuna altra cosa per essere in- dicate; quelle assolutamente-non-manifeste, perché sfuggono del tut- to e in linea generale a ogni apprensione, e, quindi, non accettano neanche quello che si consegue per mezzo del segno. Invece, le cose non-evidenti-per-natura e quelle temporaneamente-non-evidenti ri- chiedono di essere osservate per mezzo di un segno; quelle tempo- raneamente-non-evidenti, perché in certe determinate circostanze vengono rimosse dalla nostra chiara percezione; quelle non-eviden- ti-per-natura perché sono sempre non apparenti. Poiché pertanto ci sono due gruppi differenti di oggetti bisognosi di un segno, anche quest'ultimo è apparso duplice: l'uno è quello "rammemorativo", che appare utile massimamente quando si tratti delle cose temporanea- mente-non-evidenti; l'altro è quello "indicativo", che si ritiene venga assunto per le cose non-evidenti-per-natura. E il segno rammemora- tivo, osservato insieme con l'oggetto osservato con evidenza, non ap- pena ci si presenta dopo la scomparsa dell'oggetto significato, ci in- duce alle memoria dell'oggetto che insieme con esso è stato osserva- to, ma che attualmente non si presenta con evidenza, come avviene,
ad esempio, se si tratta di fumo e fuoco; noi, infatti, avendo osserva- to che queste due cose sono spesso tra loro congiunte, non appena vediamo una delle due, putacaso il fumo, rinfreschiamo la memoria dell'altra, cioè del fuoco che attualmente non stiamo scorgendo. Lo stesso discorso vale anche per la cicatrice che nasce da una ferita o per un attacco cardiaco foriero di morte; difatti noi, vedendo una ci- catrice, rinnoviamo il ricordo della ferita che l'ha preceduta, e, os- servando un attacco cardiaco, pronostichiamo morte imminente.^
Ma Sesto non si ferma qui. In numerosi passi delle Ipotiposi pirroniane, di Contro i logici e Contro i matematici attacca la teo- ria del segno indicativo, negandole ogni valore conoscitivo, e ne- gandolo in particolar modo ai nomi, che per Sesto non costitui-
scono uno dei modi di apprendere:
® Sesto Empirico, Contro i logici, u, 148-153. 30

 [Il segno] indicativo risulta [...] differente. Esso, infatti, [...] non è suscettibile di essere osservato insieme con l'oggetto significato (ché l'oggetto che è non-evidente-per-natura non può essere osservato in- sieme con qualcosa delle cose apparenti), ma si proclama che, re- pentinamente, in virtù della propria natura e della propria confor- mazione, con una semplice emissione di voce, esso significhi l'og- getto dì cui è indicativo [...]. Ma ora, tenendo presente che ci sono due specie di segni - ossia quello che è rammemorativo e che sem- bra in gran parte utile per le cose temporaneamente-non-evidenti, e quello indicativo, che viene adibito per le cose non-evidenti-per-na- tura -, ci accingiamo a fissare tutta l'indagine e a sollevare aporie non sul segno rammemorativo (giacché questo è stato generalmen- te confermato da tutti come proficuo nei casi della vita), bensì su quello indicativo: questo, infatti, è stato inventato dai filosofi dom- matici e dai medici "logici", che lo hanno ritenuto capace di porge- re loro il più imprescindibile aiuto. Ecco perché noi non intendia- mo oppugnare le comuni presupposizioni degli uomini né metter sossopra la vita col dire che nessun segno esiste, come falsamente certuni ci accusano. Se, infatti, eliminassimo ogni sorta di segno, noi, forse, ci metteremmo in contrasto con la vita e con tutto il ge- nere umano; invece, attualmente, anche noi la pensiamo allo stesso modo, e da fumo inferiamo fuoco, da una cicatrice la ferita che l'ha preceduta, da un attacco cardiaco la morte che a quello tien dietro, da una benda che ci sta dinanzi l'unzione degli atleti. Ora, dal mo- mento che accettiamo il segno rammemorativo, del quale la vita si serve, e sopprimiamo invece quello che è stato falsamente conget- turato dai dommatici, noi, ben lungi dal metterci in nessun caso in contrasto con la vita ordinaria, ce ne proclamiamo addirittura av- vocati difensori, proprio perché, fondandoci su una scienza della na- tura, stiamo confutando i dommatici, i quali insorgono tutti in bloc- co, contro le comuni presupposizioni, e asseriscono di conoscere le cose per-natura-non-evidenti col fare ricorso a un "segno".'
La confutazione di Sesto è la seguente: il segno e la cosa si- Knil icata stanno in un rapporto di relazione, e dunque devono es- NiTc appresi insieme, ma se il segno indicativo si riferisce a ciò t lie è non-evidente-per-natura, questo è assurdo. Inoltre, se sup- poniamo che il segno possa essere appreso prima, insieme, o do- po la cosa significata; se è appreso dopo, non serve a nulla per- ché la cosa di cui sarebbe rivelatore deve essere rivelata prima; sf viene appreso insieme o prima, siamo all'assurdo, perché per ilciinizione esso è un oggetto relativo. Ma ancora più propria- mente Sesto nega il valore conoscitivo della parola:
"Ivi, 156-159.
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 La parola o esprime il significato di qualcosa o non lo esprime. Se essa non esprime nessun significato, non è neppure maestra di nul- la; se, invece, essa significa qualcosa, essa esprime il significato di tale cosa o per natura o per convenzione. Per natura essa non espri- me nessun significato per il semplice fatto che non tutti sono in gra- do di capire quello che tutti gli altri dicono - i greci quello che di- cono i barbari, i barbari quello che dicono i greci; anzi, neppure i greci riescono a capire quello che i greci dicono o i barbari quello che dicono i barbari. Se invece la parola esprime un significato per convenzione, è ovvio che soltanto quelli che precedentemente ab- biano appreso gli oggetti ai quali sono convenzionalmente applica- te le espressioni verbali, apprenderanno anche queste ultime, sen- za però ricevere, in virtù di queste, insegnamenti su ciò che prece- dentemente ignoravano, ma rinnoveranno quello che già sapevano; chi, invece, aspiri a imparare cose a lui sconosciute, verrà meno al suo intento.
Sesto Empirico, Contro i matematici, i, 36-38. 32

 5. L'epicureismo
5.Ì.Epicuro (341-270 a.C.)
L'immediato postaristotelismo è caratterizzato da un inte- resse specialistico per il linguaggio verbale, astratto da questio- ni filosofiche come nei tempi precedenti. È ad esempio il mo- mento della disputa fra teorici dell'analogia in grammatica (Ari- stofane di Bisanzio e Aristarco dì Samo) e teorici dell'anomalia (Cratete di Mallo): ovvero, fra coloro che ritengono la gramma- tica il terreno di manifestazione delle somiglianze linguistiche, e coloro che invece pensano essere quello il campo delle differen- ze. La disputa fu produttiva: grande impulso ricevette la compi- lazione delle grammatiche, con influenze o tracce rimaste anche in epoca moderna (come accade ad esempio per la grammatica pili famosa, quello di Dionisio Trace).
Bisogna arrivare a Epicuro per ritrovare testimonianza di un interesse teorico sull'essenza del linguaggio, sia dal punto di vi- sta del suo funzionamento inferenzìale, sia da quello della sua natura (i due problemi sono in Epicuro rigidamente separati).
La cosiddetta canonica del filosofo greco ha profonde riper- cussioni sulla teoria linguistica dal punto di vista epistemologi- co. Epicuro sostiene che unica fonte della conoscenza è la sen- sazione, che rispecchia fedelmente la realtà, e che provoca l'affe- zione, ovvero una reazione del soggetto rispetto alle cose reali. Ma questa coppia - del tipo stimolo-risposta - non è l'unica espe- rienza della verità. Vi sono anche elementi oggettivi nel suo rag- giungimento, come l'evidenza (le cose si dimostrano vere per im- mediatezza) e Yanticipazione. La quale funziona in modo stati- stico-sociologico: una ripetizione stabile delle sensazioni fa na-
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 scere in noi l'anticipazione (laprofessi), la quale è vera poiché vie- ne confermata dall'esperienza.
Alcuni aspetti della teoria della conoscenza di Epicuro han- no un particolare rilievo semiotico. Se rimaniamo al livello del- le sensazioni, ad esempio, ci accorgiamo che l'empirismo vi si manifesta in modo sofisticato e non meccanico. La conoscenza del reale, infatti, non è mai diretta, ma mediata. Le cose, infatti, emanano dei flussi di atomi che producono per la nostra perce- zione una loro immagine, assai somigliante ma non necessaria- mente identica alla loro causa. Si tratta del simulacro, che, per- cepito, diventa immagine mentale delle cose a cui si riferisce. La percezione, insomma, funziona attraverso "icone" del mondo. Il che è gciranzia parziale di verità (il più delle volte si ha la con- ferma della loro vaUdità), ma anche spiegazione dell'errore, che può verificarsi o per una sorta di "interferenza" con altri flussi provenienti da altre cose, o per imprecisione delle sensazioni, o per eccesso di intervento dell'opinione (che viene chiamata an- che "secondo movimento", cioè una percezione già provvista di giudizio sul suo valore).
L'opinione, comunque, può anche essere fonte, sia pur se- condaria, di conoscenza, oltre che di errore. Infatti, vi sono fe- nomeni che richiedono il supporto della congettura, oltre che del- la sensazione immediata. Epicuro ne individua in particolare due: "ciò che attende conferma", e "ciò che non cade sotto i sensi". Nel primo caso si tratta di dare conferma alla sensazione, e questo avviene per mezzo di un meccanismo di "verifica" e "falsifica- zione", che costituiscono un asse dei contrari, e che devono es- sere consolidati per mezzo di una coppia di subcontrari, la "non falsificazione" e la "non verifica". Il secondo caso è semiotica- mente più interessante, poiché contraddistingue la vera e propria inferenza logica, e non è legato alla percezione ma al ragiona- mento per mezzo di segni. In questo senso, compare qui, come in tante parti del pensiero greco antico, la tesi secondo la quale è possibile estrarre dai fenomeni (ciò che appare) una conoscenza nascosta o segreta (ciò che non appare).
Un legame fra teoria del ragionamento e teoria del linguag- gio, comunque, c'è. Si tratta del problema dei nomi, centrale nel- la "linguistica" epicurea. I nomi servono infatti a consolidare la prolessi, perché riuniscono in una stessa rubrica più manifesta- zioni particolari della percezione (quelli che abbiamo denomi- nato simulacri).
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Ovviamente, ilmaterialista Epicuropropendeperl'antica ipo-

lesi naturalista sull'origine del linguaggio, ma non può elimina- re neppure la nozione di accordo sociale, ormai accettata unani- memente dopo Platone e Aristotele:
Neppure l'origine del linguaggio derivò da convenzione, ma gli uo- mini stessi naturalmente, a seconda delle singole stirpi, provando proprie affezioni e ricevendo speciali percezioni, emettevano l'aria in diverso modo conformata per l'impulso delle singole affezioni e percezioni, e a tal differenza contribuiva quella diversità delle stir- pi ch'è prodotta dai vari luoghi abitati da esse. Più tardi, poi, di co- mune accordo, le singole genti determinarono per convenzione le espressioni proprie, per potersi fare intendere con minore ambiguità e più concisamente. E quando alcuno che n'era esperto introduce- va la nozione di cose non note, dava loro determinati nomi, o se- condo l'istinto naturale che li faceva pronunziare, oppure a ragione veduta, scegliendoli secondo il fondamento più comune di espri- mersi in tal modo.'
Sembra assai importante, in Epicuro, la sottolineatura del di- verso modo di segmentare la realtà attraverso il linguaggio. Se Ai istotele aveva già osservato la diversità della forma significan- te da lingua a lingua, ma aveva teorizzato l'universalità del siste- ma dei significati, Epicuro va invece indubbiamente oltre, giun- gendo a un relativismo sociolinguistico: il sistema del significa- lo ò per lui variabile da lingua a lingua, in quanto è variabile da popolo a popolo. Altro elemento importante è la tesi della pre- minente funzione comunicativa del linguaggio. E infine la teoria pei" cui il linguaggio è capace di esprimere nozioni non ancora conosciute, laddove in Platone, ma anche in Aristotele, il lin- guaggio manifesta una naturale competenza acquisita di tutto il reale.
S.2. Filodemo (i sec. a.C.)
Fra gli Epicurei, un posto importante merita Filodemo di Ga- tliira, che ci ha lasciato un'opera {De signis) radicalmente empi- rica, in aperto contrasto con le teorie stoiche e col pensiero di Se- sto Empirico. Filodemo va a fondo nel dibattito fra Epicurei e Stoici intomo al problema dell'inferenza tramite i segni, per la t |uale egli difende il metodo analogico, opponendosi a quello del-
' Epicuro, Epistola ad Erodoto, ix, 75-76.
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 la contrapposizione. I due metodi erano considerati nell'antichità come radicalmente contrapposti. Infatti, quello analogico si vuo- le strettamente empirico, e pretende che l'inferenza valida sia sol- tanto quella induttiva, che consente generalizzazioni solo sulla base dell'esperienza statisticamente ripetuta e convalidata. Fun- ziona appunto per analogia: cioè per somiglianza fra i segni (fe-' nomeni usati come rinvio a dei conseguenti) e le cose. Il metodo della contrapposizione è invece, come si è già visto, strettamen- te formale e a priori: funziona per mezzo del criterio di negazio- ne, ovvero del fatto che, dopo aver posto una relazione fra un an- tecedente e un conseguente, deve valere anche il principio che la negazione del conseguente nega l'antecedente. Ma riportiamo a questo proposito un passo di Filodemo:
Chi inferisce tramite segni compie le sue inferenze partendo dalle apparenze, usando analogie sia delle peculiarità che delle qualità co- muni; e chi stabilisce con questo metodo che una cosa segue neces- sariamente un'altra, compie un'inferenza corretta.^
Naturalmente, il contrasto fra i due metodi è in verità appa- rente. Essi sono piuttosto non confrontabili, perché il criterio stoico ripone la verità nella proposizione, quello epicureo sui predicati (come avveniva in Aristotele). Ma non è un caso, in- fatti, che ciascuna delle due scuole riesca facilmente a falsifica- re il ragionamento dell'altra. Gli Stoici, ad esempio, rinvengono delle debolezze nella logica dei predicati, perché questi non so- no sempre dello stesso rango, e possono condurre a ragiona- menticontraddettipropriodallarealtà.Classicoèilcaso secondo il quale, dato l'esempio "tutti gli uomini sono mortali", se solo sostituisco la proprietà di essere mortali con quella di avere vi- ta breve, apparentemente equivalente, posso giungere al para- dosso di definire tutti gli uomini come dotati di vita breve, lad- dove l'esperienza dice al contrario che certi uomini sono assai longevi. Ma, dall'altro lato, anche Filodemo coglie in fallo gli Stoici, come quando riscontra nel metodo della contrapposizio- ne paradossi come questo:
Talvolta l'inferenza non è provata essere vera [...] per l'impossibilità di concepire che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il
^ Filodemo, De signis, col. xi, in Philippe H. De Lacy-Estelle A. De Lacy (a cura di), Philodemos: on Methods ofInference, American Philological Association, Philadelphia 1981.
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 secondo non sia, o non abbia tale proprietà, come per esempio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo". Se è vera questa in- ferenza, diviene vero anche che "Se Socrate non è un uomo, nem- meno Platone è un uomo", non perché, attraverso la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme a esso, ma perché non è possi- bile che Socrate non sia un uomo e Platone sia un uomo, e questa inferenza appartiene al metodo dell'analogia.^
^inconcepibilità, insomma, è un tratto del metodo analogico.
La diversità di concezione logica ha delle influenze anche sul modo di intendere i segni. Tanto in Filodemo quanto negli Stoi- cièaccettataladistinzionefrasegnicomuni esegnipropri.Ipri- mi sono entità che possono esistere anche senza che esista l'en- lità a cui rinviano ("quest'uomo è ricco, dunque è felice": ma la 1 icchezza esiste anche senza felicità). I secondi, invece, sono en- tità esistenti solo se esiste anche l'entità cui rinviano ("se c'è fu- mo, allora c'è fuoco").
Il problema nasce però per il fatto che gli Stoici pensano che il segno proprio dipenda dal meccanismo della contrapposizio- ne, e gli Epicurei da quello dell'inconcepibilità.
Come si è visto, la logica epicurea di Filodemo è una logica ilei predicati (o delle proprietà). E abbiamo annotato anche la i-ritica stoica a questa logica. Filodemo prova a risolverla distin- tiendo fra le proprietà stabili e le proprietà variabili, o, come si (liiebbe oggi, essenziali e accidentali, e fornendo anche una va- sta tipologia delle medesime. L'inferenza corretta sarebbe natu- ralmente quella fondata su proprietà essenziali. Rimane da defi- nire, comunque, il modo con cui le proprietà ineriscono agli og- Hetti, e Filodemo ne costruisce un quadro sistematico. Vi sono le pj-oprietà che appaiono come conseguenze necessarie, come es- 'icnziali per definizione, come concomitanti e come graduali. Nei termini della semantica moderna, potrebbero essere ridefinite come fattuali, equivalenti al soggetto, semantiche vere e proprie, codificate.
' Ivi, col. XII, 14-31.
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 6. La semiotica nella latinità classica
Il pensiero latino non presenta una profondità teorica pari a quella dei greci riguardo alla dottrina dei segni. Probabilmente si tratta di una questione di cambiamento di paradigma: in epo- ca romana si vede infatti un maggior sviluppo delle discipline fi- lologiche e stilistiche, piuttosto che della teoresi logico-semioti- ca. D'altronde, i romani furono per l'appunto gli inventori dello storicismo linguistico, sia pure in senso diverso da quello mo- derno. Vairone, ad esempio, è considerato il padre degli studi eti- mologici, anche se le sue analisi lessicali appaiono a volte a dir poco fantasiose. Ma c'è un altro elemento che differenzia pen- siero greco e romano, cioè una sorta di inversione delle gerarchie disciplinari e dei loro obiettivi sociali, come ha messo in luce Gio- vanni Manetti. 1 Mentre infatti i greci attribuivano un primato al- la dialettica (forma strutturale del ragionamento) rispetto alla co- municazione, per i romani la preminenza spetta proprio all'effi- cacia di quest'ultima, cioè agli effetti persuasivi che si ottengono mediante il discorso in atto. Non sorprende più, allora, che in epoca romana i massimi esempi di "semiotica" si riducano ai trat- tati di retorica e/o di oratoria.
Riprendendo quanto ha detto Roland Barthes,^ si può sche- matizzare il sistema della retorica latina da un lato come tipolo- gia dei discorsi (giudiziario, politico, dimostrativo), ciascuno ca- ratterizzato da uno scopo (la prova, il bene, l'elogio), e dall'altro come tipologia delle procedure discorsive. Queste, come è noto.
' Manetti, le teorie..., cit., cap. 9.
^ Cfr. Roland Barthes, L'ancienne rhétorique, in "Communications", 1970,16, pp. 172-229.
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 sonocinque:inventio (ovveroserbatoiotematico),dispositio (sin- tassi discorsiva), elocutio (figurativizzazione del discorso me- diante tropi e figure), actio (intonazione e gestualità, cioè una so- matica dell'enunciazione) e memoria (schematizzazione per fini mnemonici). In verità, ognuna delle parti della retorica - per quanto riconducibile, oggi, a una speciale problematica semioti- ca all'interno della piii generale questione della discorsività - cor- rispondeva piuttosto a un atteggiamento tipologico e classifica- torio, più che a una sistematica in senso moderno. È assai cor- retto, allora, il procedimento - che anche noi qui seguiremo - condotto da Manetti,^ che preferisce attribuire valore semiotico piuttostoallaformadelragionamento argomentativo chenonal- la ricerca sulla nozione di segno dei retori latini.
6.1. Comificio (i sec. a.C.)
Risale aJ i secolo a.C. il trattato forse più famoso (tanto da es- sere attribuito a Cicerone), la Rhetorica ad Herennium. Il carat- tere più originale di questo testo è quello di descrivere la forma- zione delle congetture, sulla base delle quali condurre un atto probatorio (accusatorio o difensivo). Il fatto che ci si trovi dinanzi a una operazione congetturale ci riporta allora alla tradizionale discussione sul valore logico della semiosi, che infatti puntual- mente ritroviamo in Cornificio definita come percorso di infe- renza di quel che non è conosciuto a partire dal dato conosciuto (il conseguente deriva dall'antecedente). Per Comificio vi sono sei tipi di procedimento congetturale: 1) per probabilità (che non ò nel senso logico-aristotelico, ma piuttosto in quello psicologi- co di plausibilità): consiste nel reperimento di una attitudine fre- quente da parte di un soggetto, dalla quale si evince che il caso specifico rientra nella norma; 2) per confronto (ci si rifà a casi analoghi); 3) per indizi (si ricostmiscono i fatti a partire dalle lo- ro tracce); 4) per segni (cioè le inferenze vere e proprie); 5) per sintomi (le reazioni somatiche dei soggetti); 6) per conferma (se- gni secondari che rinforzano segni principali).
Quel che appare interessante, comunque, in una prospettiva moderna è il fatto che il procedimento congetturale di Comificio esibisce il tentativo di ricostruire un fatto criminoso, per sanci- re la colpa o l'innocenza di uno dei suoi attori. E questo avviene
^ Manetti, Le teorie..., cit., a proposito della Rhetorica ad Herennium.
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 secondo quella che potremmo chiamare l'identificazione di una azione con una narrazione. D'altronde, nell'elenco delle conget- ture dirette a diventare prove, compaiono precisamente quattro fasi fondamentali dell'azione: quella della manipolazione (esse- re motivati a compiere l'azione), quella della competenza (avere la possibilità di compierla), quella dell'azione vera e propria, quel- la della conferma dell'azione riuscita (segni somatici che verifi- cano lo stato d'animo conseguente).
6.2. Cicerone (106-43 a.C.)
Delle molte opere ciceroniane che riguardano l'oratoria, in verità solo alcune hanno una vera e propria pertinenza semioti- ca,efraquestevannocitateilDeinventione, lePartitiones orato- rice e i Topica. In questi testi Cicerone riprende il tema della re- torica dalla tradizione greca, soprattutto aristotelica, ma ne ap- profondisce in modo originale alcune questioni. Per esempio, da- gli aspetti classici della retorica Cicerone eredita anche abba- stanza passivamente la teoria dei tropi e delle figure, che spesso cita senza approfondirla in modo particolare, ma eredita soprat- tutto la teoria del ragionamento probatorio, che invece riesami- naconattenzione.NelDeinventione, sipresentailsegnocome una proposizione logica che consente di giungere a un conse- guente partendo da un antecedente. Si riprende l'idea dei segni somatici involontari. E infine si accetta la divisione degli indizi
secondo il criterio della temporalità (prima, ora, poi). Tuttavia Cicerone va oltre, e considera tutta la proposizione probatoria e i suoi strumenti (segni e indizi) come una "teoria dell'argomen- tazione":unragionamentocheesponeunatesi,esuccessivamente le prove per verificarla. Le prove, poi, sono segni di due tipi, quel- li piti deboli (appunto probabili) e quelli più forti (necessari). I segni necessari sono facilmente definibili: "ciò che non può ve- rificarsi né essere provato altrimenti da come viene detto", "un conseguente che appare collegato necessariamente con un ante- cedente".'' Quelli probabili sono invece più interessanti, perché rimandano a una definizione duplice: da un lato segni che stati- sticamente rinviano a qualcosa di stabile, dall'altro segni che ven- gono creduti collegati con qualcos'altro nell'opinione comune ("probabile è ciò che suole genericamente accadere, o che è ba-
'' Cicerone, De inventione, i, 46. 40

 sato sulla comune opinione, o che abbia in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso").^ Accanto a questi tre tipi di segni (il credibile, l'opinione, la verosimiglianza), poi, stanno anche gli indizi (veri e propri signa), che si definiscono come fenomeni colti con i sensi, ma contenenti qualcosa che rin- via ad altri fenomeni che appaiono derivare dai primi.
Nelle opere più mature. Cicerone modifica un poco la sua classificazione dei segni (se non altro anche terminológicamen- te) e arriva a una tipologia assai semplice. I segni vengono con- siderati come "luoghi del discorso" (topica), e suddivisi in estrin- seci e intrìnseci. I primi sono le testimonianze o addirittura le in- dicazioni divine. I secondi sono le congetture umane. Le conget- ture sono segni, e si dividono in verosimili, caratteristici delle co- se e indizi. I primi sono ripetizioni statistiche dei fenomeni o cre- denze comuni. I secondi sono effetti necessari di certe cause. Gli ultimi sono inferenze che si traggono dai fatti colti nel loro av- venire specifico, nelle loro circostanze di apparizione.
6.3.Quintiliano (35-95)
llinstitutio oratoria di Quintiliano è davvero un testo "istitu- zionale" per l'antichità: vi si espone infatti la retorica per la pri- ma volta in maniera veramente manualistica. Ma questo è ov- viamente il prezzo che si paga alla decadenza della vitalità del- l'oratoria nell'ambiente romano dell'Impero.
Anche in Quintiliano la retorica fa parte della dimensione giu- ridica dell'oratoria. E quel che interessa la semiotica è una sua parte specifica, quella del ragionamento probatorio. Quintiliano, infatti, razionalizza lo schema del processo in due fasi principa- li: ciò che viene estratto dall'analisi della realtà (prove extratec- niche come le confessioni, le testimonianze, le voci, i giuramen- ti, i pregiudizi, le confessioni sotto tortura, gli atti notarili), e l'u- so sillogistico che ne fa l'oratore (prove tecniche: i segni, le ar- gomentazioni e gli esempi).
Questi tre elementi hanno in comune la caratteristica di es- sere inferenze di diverso grado, cioè conclusioni più o meno pro- babili da premesse più o meno certe. Quintiliano ne dà quattro tipi generali: 1) l'esistenza di una cosa esclude l'esistenza di un'al- tra; 2) l'esistenza di una cosa porta a stabilire l'esistenza di un'al-
®Ivi, passim.
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 tra; 3) la non esistenza di una cosa dimostra l'esistenza di un'al- tra; 4) la non esistenza di una cosa dimostra la non esistenza di un'altra. Siamo, dunque, al tradizionale principio del rinvio da un antecedente a un conseguente, ma con uno schema più ra- zionale.
La novità di Quintiliano, tuttavia, non sta tanto nella più per- fezionata classificazione delle argomentazioni probatorie, quanto piuttosto nella riflessione sui loro gradi di persuasività, come ha sottolineato Eco.^ Ma una minuziosa nuova classificazione pren- de le mosse dall'idea di calcolare l'efficacia^ persuasiva dei segni. Quintiliano riprende in questa prospettiva anche vecchie distin- zioni. Parte ad esempio da quella canonica fra segni necessari e non necessari. Questi segni "non possono presentarsi altrimenti da come si presentano",® e sono incontrovertibili. Possono essere pas- sati, presenti o futuri. Possono essere reversibili o non reversibili. I segni non necessari sono le verosimiglianze, e nuovamente Quin- tiliano dà loro dei gradi: sicure, probabili, non contraddittorie. Al- tri segni non necessari sono gli indizi materiali, che possono an- che essere ambigui, perché la loro probabilità dipende dalla pro- babilità della catena di altri indizi a cui sono collegati (la traccia di sangue può essere indizio di un delitto, ma anche di un sacrifi- cio). In questo senso, si dà notevole importanza al contesto e alle circostanze in cui un segno è collocato, e parallelamente anche al- l'universo di discorso nel quale il suo uso è immesso. Insomma, le due problematiche dell'efficacia dei segni e della loro processua- lità inducono a intravedere in Quintiliano l'abbozzo di una vera e propria semiotica discorsiva.
' cfr. Umberto Eco, Proposai for a History ofSemiotica, in Tasso Borbè (a cu- ra di), Semiotic Unfolding, Mouton, Den Haag 1984, pp. 75-89.
' Quello di "efficacia" va inteso come uno speciñco concetto semiotico, nel senso datogli da Greimas, cioè qualcosa che "fa fare" qualcos'altro al proprio de- stinatario. Cfr. Algirdas J. Greimas-Joseph Courtès (a cura di), Sémiotique. Dic- tionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979.
^ Quintiliano, Institutio oratoria, v, 4, 3. 42

 7. Il primo pensiero cristiano
Il pensiero cristiano sviluppa la problematica classica in due direzioni. Porfirio e Boezio si fanno continuatori della logica ari- stotelica, sant'Agostino del semanticismo platonico da im lato e soprattutto stoico dall'altro.
7.1. Porfirio (233-305)
Porfirio è stato un pensatore assai importante per la storia del- la logica, nell'ambito della tradizione aristotelica. Infatti, da lui de- rivano per secoli (addirittura fino ai nostri tempi) molte riflessio- ni di linguistica e semantica. Ci rimangono di Porfirio un breve commento alle Categorie di Aristotele, e soprattutto una introdu- zione al medesimo volume aristotelico. Isagoge, che tuttavia pone interessanti problemi per la storia della semiotica. Il pensiero di Porfirioèinquestiultimitempioggettodi ricostruzione, attraver- so la grande mole di citazioni e commenti posteriori.
Da un punto di vista semiotico, le osservazioni di Porfirio so- no importanti su due direttrici: la questione dei segni linguistici e del loro valore; il problema delle definizioni. Per quanto con- cerne il primo punto, va rilevato che Porfirio intende le parole scritte come segni delle parole parlate, le quali a loro volta sono segni dei concetti, i quali sono segni delle cose. C'è insomma una catena segnica di natura inclusiva. La vera frattura, in questa ca- tena, è data dalla separazione fra parole e concetti. Secondo Por- firio, infatti, le prime sono di natura convenzionale (e la riprova è il fatto che ogni lingua usa parole diverse). Pertanto, le parole e le frasi che ne sono i composti possono essere ambigue, men-
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 tre i concetti sono uguali per tutti e adeguati a rappresentare i fe- nomeni. Originale è poi il mito - ripreso comunque dall'antichità classica - dell'invenzione delle parole, che Porfirio chiama im- posizione, e suddivide in primaria e secondaria. Le parole hanno infatti una matrice "legislativa", nel senso che sono state decise da saggi individui che le hanno imposte ai concetti: per conven- zione, come si diceva, ma non proprio ad arbitrio, tanto è vero che spesso si ritrova nei nomi una motivazione dalle cose, che l'etimologia serve a ricostruire. L'imposizione primaria dei nomi è quella relativa agli oggetti sensibili (sostanzialmente si può di- re: i nomi concreti). L'imposizione secondaria è di carattere me- talinguistico, perché gli uomini nominano anche le parole (in questo senso, l'imposizione secondaria costituisce il metalin- guaggio della grammatica e della logica, ma si può dire che ri- guardi anche i nomi astratti). Un capitolo a parte, infine, ha per oggetto i "connettori", che sono a un tempo logici e linguistici. Infatti, le frasi sono combinazioni di parole che devono essere collegate, ma anche le proposizioni sono combinazioni di con- cetti, ugualmente da collegarsi. Tali connettori sono le congiun- zioni, gli articoli, le preposizioni, e così via.
Per quanto concerne il secondo grande problema, quello del- le definizioni, Porfirio riprende negli Analitica posteriora, nei To- pica e nelle Categorie la teoria aristotelica che consiste nell'idea di "predicabilità", ovvero dei modi con cui le categorie possono essere applicate a un soggetto. Solo che ai quattro predicabili di Aristotele (genere, proprietà, definizione, accidente) Porfirio so- stituisce questi cinque: genere, specie, differenza, proprietà e ac- cidente. Il metodo aristotelico tendeva a far passare in modo lo- gico dal genere universale fino alla specie più piccola mediante gradi di definizione che individuavano differenze pertinenti. Por- firio attua le sue modificazioni al metodo per compiere la mede- sima operazione in modo più corretto, e in una forma che Eco ha denominato "albero di Porfirio".' In questo senso, il concetto di differenza è fondamentale (tanto è vero che Porfirio ne elenca numerose sottoclassi). Infatti, esso non soltanto permette di far discendere l'albero delle inclusioni dal genere universale (il no- me della categoria) fino alla specie minima, ma anche di elabo- rare strutture collaterali aggiuntive che consentano differenzia-
zioni logiche altrimenti problematiche.
'Cfr.UmbertoEco,Porphiry,inThomasA.Sebeok,Encyclopedic Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin 1986.
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 L'albero di Porfirio sta alla base di una concezione (anche con- temporanea) della semantica come logica della inclusione delle classi, che ha preso il nome di semantica componenziale o semi- ca. Questo tipo di semantica, però, ragiona in termini "diziona- riali" (come afferma Eco 1986): ossia nei termini di una lista fini- ta di universali semantici. Ma proprio la inconsistenza logica deir"albero di Porfirio" dimostra invece che la semantica funzio- na piuttosto secondo un modello che Eco chiama "enciclopedico", cioè una rete di relazioni con cui viene classificata la conoscenza, e che funziona piuttosto come una catena di interpretanti.
7.2.Agostino (354-430)
Sulla "semiologia agostiniana" si è già discusso in maniera ampia.2 Con Agostino, così come in seguito in tutto il pensiero cristiano, lo studio del segno è subordinato all'interpretazione delle Scritture: la semantica è espressamente ermeneutica. Tut- tavia, come hanno notato Eco 1984 e Manetti 1987, con Agosti- no si fa un passo avanti decisivo verso la modernità. Per la pri- ma volta, infatti, si mettono insieme la teoria del segno e quella del linguaggio verbale, in un processo di definitiva unificazione. Le teorie semiotiche agostiniane sono raccolte soprattutto in quat- tro testi: i Principia dialecticce, il De Trinitate, il De magistro (nel libro I, De signis, e nel libro ii, Signa ad discendum nihil valent) e soprattutto nel De doctrina Christiana (nel libro ii. De signis in- terpretandis in Scriptura). Eco 1975 ha tuttavia dimostrato la per- tinenza semiotica dei due scritti agostiniani sulla menzogna {De mendacio, Contra mendacium).
Nel De Trinitate il vescovo di Ippona tratta del verbum, di- stinguendo tre livelli di analisi: la sostanza vocale dimostra che il verbum è un segno di qualcos'altro; la sua sostanza razionale permette di definirlo ed "estrarlo dalla memoria"; infine, il ver- bum permette di giungere alla verità, a Dio, grazie alla sua fun- zione mediatrice. Il secondo livello di analisi di Agostino, quello delsenso,mostralasuaoriginestoica:ilverbum nonèlacosasi- gnificata, perché è assimilato allo stesso pensiero, che si realiz-
^ Cfr. il pionieristico Raffaele Simone, Semiologia agostiniana, in "La cultu- ra", 1969, 7, pp. 88-117, ma anche Lucia Wald, La terminologie sémiologique dans l'œuvre de Aurelius Augustinus, in Actes de la xii^ Conférence Internationale d'É- tudes Classiques, 1978, 1, pp. 89-96.
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 za nel discorso (locutio)-, è un aspetto interiore connaturato al- l'uomo, e non ha nulla a che vedere con le singole lingue. Lo stes- so aspetto fonico {vox verbi) altrimenti "si consumerebbe". Il pro- cesso segnico agostiniano ha quindi uno svolgimento tempora- le: vi è pensiero, poi necessità comunicativa, poi utilizzazione di un materiale (vox verbi):
Il pensiero formato dalle cose che conosciamo è una parola che non è né greca, né latina, né di alcuna altra lingua. Ma, come è necessa- rio trasmetterla alla conoscenza di coloro ai quali parliamo, si adot- ta un segno attraverso il quale essa è significata. La parola che si in- tende dal di fuori è un segno della parola che dà la luce interiore, e il nome di verbum è più adeguato al secondo; perciò, ciò che è pro- nunciato dalla bocca è il suono della parola {vox verbi) [...], il nostro verbum diviene un suono articolato per impronta, non consuman- dosi nell'essere mutato in suono.^
Lo stesso concetto può essere ritrovato nei Principia dialec- ticce: il verbum è inteso come suono, e si oppone da un lato alla dictio (insieme formato dal segno e dal suo effetto nel nostro spi- rito) e al dicibile (ciò che è percepito dallo spirito nel verbum), dall'altro alla res (la cosa reale)."' Di eccezionale valore storico e intellettuale sono poi due osservazioni di sant'Agostino sul segno, definito come:
una cosa che, più che l'impressione che essa produce sui sensi, fa venire di per sé alla mente qualche altra cosa^
e sul suo assetto teorico, che non può non ricordare Buyssens^:
Perché una cosa funzioni come segno, bisogna che l'interprete sap- pia che essa è un segno.^
Tutto ciò implica la consapevolezza del carattere sociale dei segni, e del loro aspetto razionale: perché vi sia segno, occorre
3 Agostino, De Trinitate, 15, §§ 10-11. Id., Principia dialecticcB, vn.
5 Id., De doctrina Christiana, i, 1.
^ Ovvero il principio della riconoscibilità dei segni nel discorso, grazie al si- mulacro dell'atto comunicativo, nonché quello della necessaria intenzionalità del- l'atto linguistico perché vi sia sistema linguistico. Cfr. Eric Buyssens, Le langage et le discours, Office de la PubUcité, Bruxelles 1943.
' Agostino, De Trinitate, x, 1,2. 46

 che esso sia intenzionale e riconoscibile dai due attori della co- municazione. Agostino classifica poi i segni in categorie di gran- de modernità:
Fra i segni, alcuni sono naturali, altri convenzionali. I segni natu- rali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fan- no conoscere, di per sé, qualcos'altro di più di ciò che essi sono. È così che il fumo significa il fuoco, perché lo fa senza volere, ma noi sappiamo per esperienza, osservando e notando le cose, che, anche se il fumo apparisse da solo, vi sarebbe sotto del fuoco. La traccia di un animale che passa appartiene pure a questo genere di segni. Quanto all'espressione di un uomo irritato o triste, essa traduce il sentimento del suo animo, per quanto egli non abbia affatto volontà di esprimere la sua irritazione o la sua gioia. Lo stesso accade per ogni altro moto dell'animo. [...] I segni convenzionali sono quelli che tutti gli esseri viventi fanno gli uni agli altri per mostrare recipro- camente, per quanto possono, i moti del loro animo, cioè tutto ciò che sentono e tutto ciò che pensano. La nostra sola ragione di si- gnificare, cioè di produrre segni, è quella di rendere chiari e di tra- sferire nello spirito altrui ciò che porta nel proprio spirito chi pro- duce il segno.®
Un'altra distinzione riguarda i mezzi attraverso i quali essi sono percepiti:
Fra i segni di cui si servono gli uomini per comunicare fra loro ciò che sentono, alcuni dipendono dalla vista, la maggior parte dall'u- dito, pochissimi dagli altri sensi.®
Sempre nel De doctrina Christiana, sant'Agostino dichiara (se così lo si può interpretare) la predominanza dei segni verbali su quelli non verbali, con una concezione quasi barthesiana:
L'innumerevole moltitudine dei segni che permettono agli uomini di chiarire il loro pensiero è costituita dalle parole. Di fatto, tutti questi segni [...] è con le parole che ho potuto enunciarli, ma le pa- role non avrei potuto in alcun modo enunciarle con questi segni.
Il fatto che i segni verbali costituiscano un modello premi- nente per il riconoscimento di un sistema semiotico non incide comunque sul fatto che, come si è già detto, essi vengono per la
® Id., De doctrina Christiana, ii, 1, 2-3. 'Ivi, n, 1,4.
Ivi,II, 1,5.
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 prima volta collocati accanto a tutti gli altri tipi di segni, come viene a più riprese ribadito, ad esempio nel De magistro. Volen- do quindi ritrovare in Agostino qualche principio semiotico con- temporaneo, si potrebbe piuttosto sostenere, come fa Manetti,'' che ci troviamo dinanzi alla distinzione della scuola di Tariu fra un "sistema modellizzante primario" (il linguaggio verbale), e "si- stemi modellizzanti secondari", e il primo è capace di tradurre i secondi, ma non viceversa. Che il linguaggio verbale faccia par- te di un più vasto sistema di segni è comunque testimoniato dal fatto che Agostino insiste molto sul carattere segnico delle paro- le, laddove nei pensatori che lo hanno preceduto il rapporto fra significante e significato veniva riconosciuto in unità diverse, co- me l'enunciato.
Di notevole interesse è poi la classificazione che Agostino fa dei tipi di segno nel De doctrina Christiana. La prima distinzione è classica: è quella fra segni naturali e segni convenzionali, cioè istituiti per comune consenso. C'è poi una classificazione seman- tica: sono segni letterali quelli che designano le cose in sé, segni fi- gurativi quelli che possono significare di volta in volta cose diver- se (la retorica è per Agostino uno strumento di definizione dei pas- saggi dal letterale al figurativo, attraverso i tropi). Todorov'^ rico- nosce un'altra coppia: quella che suddivide i segni naturali e i se- gniintenzionali (ovverofraciòchevieneinterpretatocomesegno e ciò che viene prodotto volontariamente come tale). A cui an- drebbe probabilmente aggiunta anche la coppia che suddivide i segni a seconda del loro supporto espressivo: segni visivi e segni auditivi. È qui, d'altronde, che si riconosce la modernità di Ago- stino, perché la lista dei segni citati è davvero sorprendentemen- te ampia: tra gli auditivi ci sono i segni musicali, le parole, e per- sino i rumori emessi per comunicare; tra i visivi si collocano i ge-
sti, le espressioni facciali, i movimenti mimici nel teatro, le ban- diere, le insegne, le lettere dell'alfabeto. Vi sono, è vero, anche gli altri tre sensi rappresentati, ma gli esempi apportati sono molto particolari e occasionali, e non si capisce se Agostino stia parlan- do di segni divini o di esempi di altre sensorialità.
Infine Agostino interpreta la scrittura come una semìa sosti- tutiva, cioè costituita da segni di segni.Nell'opera del grande padre cristiano, un ruolo importantissimo è comunque giocato
" Manetti, Le teorìe..., cit., pp. 226-241.
Cfr. Tzvetan Todorov, Théorìes du symbole, Seuil, Paris 1977. Agostino, De doctrìna chrìstiana, ii, 4, 5.
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 dalle analisi del rapporto fra il segno e il suo denotato. È fonda- mentale la contrapposizione fra i segni e le cose che essi signifi- cano (a loro volta le cose possono diventare segni e i segni esse- re significati da altre cose). Il segno ha una ragion d'essere pu- ramente funzionale: quella di significeire un oggetto. Però non lo significa come tale, e neppure significa una nozione in sé, ma l'i- dea che noi ci facciamo dell'oggetto. E infatti la nostra relazione col mondo, con gli oggetti, avviene per mezzo di segni. Agostino distingue i tipi di significazione in rapporto agli oggetti a secon- da della maggiore o minore astrattezza. E questo gli permette di differenziare segni nozionali e segni grammaticali.
Per ultima, abbiamo lasciato la "teoria della menzogna". L'e- lemento assai curioso è che Agostino la tratta semioticamente, e non ontologicamente, in quanto vero e proprio atto linguistico. D'altra parte. Eco'"* sembra proprio riprendere l'idea agostinia- na di menzogna quando sostiene che la significazione è tale per- ché può essere usata per mentire. In altri termini: non esiste la menzogna in sé in un atto di linguaggio, ma solo nell'intenzione dell'emittente, che usa volontariamente il linguaggio stesso per ingannare il destinatario. Agostino, poi, fa una classifica dei gra- di di gravità della menzogna, e ne distingue otto, a partire dal più grave, che consiste nel mentire mentre insegna la fede cristiana, per terminare con il più veniale, che è la menzogna per proteg- gere qualcuno da incidenti fisici. Qualche caso di menzogna è più prettamente semiotico, anche se curioso. Agostino inserisce nel- la classifica anche la poesia (almeno dal punto di vista del con- tenuto), poiché essa è fatta di finzioni (laddove la forma della poesia è invece vera, perché basata su proporzioni e armonie).
i'* Eco, Trattato..., cit., Introduzione.
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 8. La "semiotica" medievale
Anselmo (1033-1109)
Fin dagli esordi della filosofia medievale, la dottrina dei se- gni riguarda, comepersant'Agostino,l'interpretazionedelleScrit- ture, o addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i quali Dio si fa manifesto, e attraverso i qua- li ci indirizza alla verità. Siamo agli albori della logica cristiana, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Se- da il Venerabile.
Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo- no articolate così le prove dell'esistenza di Dio, che costituisco- no un momento di notevole interesse semiotico. Nel Proslogion, Anselmosostieneladifferenzafralinguaggioerealtàconunesem- pio di fede: se secondo il linguaggio si può dire che Dio non esi- ste, non lo si può però pensare secondo il reale. Si tratta della co- siddetta "prova ontologica", importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità proposizionale. Quest'ultima è li- mitata a una pura "asserzione di esistenza", che ha valore indi- pendentemente dall'essenza delle cose. Nel dialogo De veritate, la dicotomia fra segno e referente è maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità della significazione e ve- rità della proposizione. Le cose determinano la verità della pro-
posizione, ma non costituiscono la sua verità. Questa, infatti, è 50

 data da una propria legge logica interna, mentre la verità della significazione non è mai certa, perché dipende dalla realtà onto- logica, con la quale non può essere coerente. La verità della si- gnificazione, che può essere detta in termini moderni "semanti- ca", non si applica che al discorso umano, che riflette piti o me- no le cose, mentre il verbum divino è consustanziale alla Natura, ed è Uno e Indivisibile:
MAESTRO: Quando una proposizione è vera?
DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia afferman- dolo o negandolo; voglio dire che esiste ciò che essa enuncia anche se essa nega l'esistenza di ciò che non è, perché così essa enuncia, in un certo modo, che una cosa è.
M: Ti sembra dunque che la cosa enunciata sia la verità della pro- pcsizione?
D: NO.
M: Perché?
D: Perché nulla è vero che per partecipazione alla Verità, ed è così che la Verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata non sta nella pro- posizione vera; perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la cau- sa della sua verità.
M: Vedi allora se il discorso stesso o la sua significazione o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò che tu cerchi.
D: Non lo penso.
M: Perché?
D: Perché se fosse così, ogni discorso sarebbe vero, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno; il discorso è lo stesso; la signi- ficazione anche, e così tutto il resto.
M: Che cosa ti sembra essere dunque la Verità?
D: Non ne so nulla, se non che, quando essa significa esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera.'
La seconda prova dell'esistenza di Dio consiste nella discus- sione sul linguaggio divino, che Anselmo considera un vero e pro- prio rispecchiamento della natura, un po' come il logos platoni- co o il verbum agostiniano. La differenza fra linguaggio divino e linguaggio umano sta nel fatto che il primo è consustanziale al- la natura, ne è l'esatta immagine, e per questo è perfetto; il se- condo invece permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto necessariamente imperfetto:
1Anselmod'Aosta,Deventate, 11.
51

 Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo comin- ciato a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un segno vocale è applicabile a tutti gli altri segni che si fanno per affermare o negare qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti
Tutte le parole con l'aiuto delle quali noi diciamo mentalmente le cose, cioè di cui ci serviamo per pensarle, sono rassomiglianze o im- magini delle cose di cui esse sono parole; ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o mi- nore fedeltà alle cose che essa rappresenta.^
8.2. Abelardo (Í079-Í142)
Sempre nel secolo xi si sviluppa il dibattito fra nominalisti e realisti, ancora una volta di grande interesse anche per una sto- ria delle idee semiotiche. La prima controversia nasce fra Ros- sellino e Guglielmo di Champeaux a proposito della natura degli universali, che per il primo esistono solo come flatus vocis, come nomi, per il secondo sono inerenti alle cose medesime. La scien- tiasermocinalis (lalogica)sarebbedunquefondatainvoce(co- me per Garlando detto il Computista) oppure in re (come per Od- done di Cambrai). Il nominalismo afferma che non c'è predica- zione fuori del linguaggio, dunque neppure pensiero, o linguag- gio ulteriore, fuori di esso.
Un mediatore fra queste due tesi (tanto da essere definito da alcuni "concettualista") è Pietro Abelardo, uno dei principali fon- datori della logica medievale, che al riguardo ha lasciato numero- se opere, dalla Editio super Porphyrium, alla Dialéctica, alla Logi- caingredientibus,a]ìaLogicanostrorumpetitionisociorum,aììaEdi-
tio super Aristotelem de interpretatione. La mediazione consiste nel fatto che Abeleirdo ammette una significazione che prenda le mos- se dalla realtà, dal momento che il parlante isola aspetti del feno- meno individuale che percepisce. Ma da questi aspetti produce un'astrazione generalizzante: una finzione (figmentum) che è un concetto confuso, che poi diventa per convenzione un nome.
In questo senso, come abbiamo visto in Anselmo, Abelardo parte dall'idea di una ambiguità fra segni e proposizione, e ac- corda alla proposizione un valore di verità intemo a essa, men- tre il valore di verità del segno è in funzione dell'idea da espri-
52
^ Ibidem.
' Anselmo d'Aosta, Monologion, 29-31.

 mere. Ne consegue che il segno è una istituzione intenzionale e convenzionale, che non ha rapporto con le cose reali (rapporto il cui studio infatti pertiene alla metafísica):
Significare non appartiene solo alle parole, ma anche alle cose; le lettere che uno disegna, e che si mostrano agli occhi, ci rappresen- tano gli elementi delle parole; è perciò che si dice nel De interpreta- tione: "le parole scritte sono le marche delle parole pronunciate", ov- vero le significano. Parimenti spesso delle cose sono significate da altre in virtù di una somiglianza: così una statua di Achille rappre- senta Achille in persona. Ancora è possibile che noi suggeriamo qual- cosa tramite i segni; e si dice propriamente che significano quelle cose che, come le parole e la scrittura, sono state istituite per adem- piere a questo ufficio. Pertanto noi passiamo sovente da una cosa all'altra in assenza di ogni rapporto espresso di significazione, ma piuttosto a causa di un'abitudine, o di una relazione. Fra di esse noi vediamo qualcosa che siamo abituati a vedere; o ancora, se noi ve- diamo il padre o i figli di qualcuno, subito, a causa della relazione che li lega, pensiamo all'altro."*
Nella Logica ingredientibus, Abelardo sottolinea la conven- zionalità del processo di significazione, che avviene in intellectu e non dipende dalle cose; è il classico esempio della cosa che non esiste, come le rose d'inverno, il che non impedisce la significa- zione. La significazione può avere diverse forme. Abelardo ne ri- conoscecinque.Laprimaformaèperdeterminazione, econsiste nell'attività di riferimento (la comprensione avviene infatti per mezzo della contestualità del discorso). La seconda è per genera- zione, e avviene generando i concetti a partire dalle parole. La terza è per rimozione, ovverosia per negazione (negare un termi- necostituisceinfattisignificato).Laquartaèperassociazione, e funziona nel caso dell'inferenza o della connotazione. La quinta èinfineperimposizione, ovveropermezzodelgestointenziona- le e arbitrario dell'attribuzione del significato (ad esempio, l'in- venzione, l'istituzione e l'imposizione vera e propria).
Comunque, propriamente parlando, per Abelardo la signifi- cazione consiste nell'abbinamento di un suono a un concetto, e questo avviene significando (si dà al suono un intellectus), no- minando (sidarmonomiaiconcetti)edesignandoodenotando(si danno definizioni ai concetti). Molto acuta, per concludere, è la differenza che Abelardo intravede fra le descrizioni e le defini-
Abelardo, Dialéctica, i, 3.
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 zioni. La prime funzionano per mezzo delle differenze specifiche, del genere, della specie e degli accidenti, dei soli accidenti; le se- conde solo per mezzo delle differenze specifiche e del genere.
8.3. Verso la "logica moderna"
Le teorie semantiche dell'xi e xii secolo e la teoria degli uni- versali sono illustrate e commentate da Giovanni di Salisbury. Sugli universali, nel Metalogicon, Salisbury rifiuta ogni soluzio- ne realista, e ne conferma il valore astratto, puramente intellet- tuale:
Se Aristotele, che dice che il genere e la specie non esistono come tali, ha ragione, allora le ricerche posteriori, concernenti la loro so- stanza, qualità, quantità o origine, sono futili? Non possiamo de- scrivere la qualità o la quantità altrimenti che come ciò che manca di sostanza. [...] Dunque, se non si vuol rompere con Aristotele col pretendere che gli universali esistano come tali, si devono rigettare le opinioni che identificano gli universali con i suoni delle parole (voces), il contenuto delle parole (senno), le cose sensibili, le idee, le forme originali o le classi. Perché tutte queste cose senza alcun dub- bio esistono.^
Quanto al rapporto fra nomi e cose, Giovanni di Salisbury è meno convenzionalista dei suoi predecessori:
Agostino dice che ci sono tre cose da considerare in ogni proposi- zione: la dictio, il dicibile e la res. La res è ciò a proposito del quale è fatta la proposizione; il dicibile è ciò che si predica della cosa; la dic- tio è il modo in cui è fatta la predicazione. Perciò, talora si arriva a che la dictio è la res stessa, come quando una parola è impiegata per riferimento a lei stessa. Ciò si produce in quello che i nostri maestri chiamano "imposizione materiale", come quando diciamo "uomo è un nome" e "egli corre è un verbo". Le res e i dicibilia provengono di solito dalla natura, mentre la dictio dipende dalla libera volontà del- l'uomo. Di conseguenza, quando cerchiamo la verità, è necessario che la res non sia interamente fuori della nostra conoscenza, che il dicibile sia conforme alla cosa di cui è il soggetto, cioè a ciò di cui si questiona, e infine che la dictio sia conforme ai due precedenti, per- ché ogni motivo di critica sia effettivamente scartato.*
^ Giovanni di Salisbury, Metalogicon, n, 20. « Ivi, II, 5.
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 Il XIII secolo segna il punto di massimo sviluppo della logica. Da Alano di Lilla a Pietro Ispano, da William di Shyreswood a Lamberto di Auxerre, fino a Guglielmo d'Occam, comincia a pren- dere forma la "logica moderna", come gli stessi autori la chia- marono. Pietro Ispano, nelle Summulce logicales e nelle Supposi- tiones fìssa la categoria di suppositio, distinta in suppositio ma- terialis(cioèrelazionesemanticafradictioevox)esuppositio for- malis (cioè relazione fra nome e concetto). La supposizione è pu- ramente un rapporto di subordinazione o superordinazione fra due concetti, ovvero il rapporto per il quale un termine proposi- zionale sta per un altro. Dunque, differisce sostanzialmente dal- la significazione (cioè il riferimento del segno al suo denotato). William di Shyreswood precisa ulteriormente quattro proprietà deiterminisignificatio esuppositio, cheabbiamogiàvisto,eco-
pulatio e appelatio. La copulatio è una supposizione riferita ad aggettivi,participieavverbi(gli"accidenti"diunasostanza),men- tre la suppositio vera e propria riguarda i nomi (le sostanze), llap- pelatio infine è la vera e propria capacità del segno di riferirsi a dei denotata, mentre la significatio è più precisamente la capa- cità di un segno di presentare qualche forma all'intelletto. Di gran- de importanza è poi l'interesse rivolto al concetto stoico (ripreso attraverso Prisciano) di sincategorema, cioè di elemento verbale che ha un effetto relazionale sui categoremi nel discorso, e che corrisponde alle particelle modificatrici (congiunzioni, preposi- zioni eccetera):
Per dirlo propriamente, il sincategorema non significa nulla, ma quando è aggiunto ad altre parole, rende queste parole significanti, o fa sì che "suppongano" una cosa o delle cose in un modo preciso.'
Sempre di interesse semiotico sono le indagini dei Modistce, filosofi studiosi di cosiddette "grammatiche speculative", che eb- bero grande fortuna fra il xiii e il xrv secolo.® Tali grammatiche sonoinrealtàfondatesull'analisideimodisignificandi, intesico- me universali della significazione, in contrasto con la classica ri- cerca descrittiva (per esempio di Prisciano e Donato). I Modisti distinguevano i modi essendi (le proprietà dell'essere, il livello on- tologico) dai modi intelligendi (il livello concettuale) e dai modi
'' Guglielmo d'Occam, Summa logicce, i, 4.
8 Cfr. la dettagliata analisi di Costantino Marmo, Semiotica e linguaggio nel- la Scolastica: Parigi, Bologna, Erfurt 1270-1330. La semiotica dei Modisti, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1994,
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 significandi (illivellosemantico-linguistico).Soloinquestosen- so potevano concepire la grammatica come scienza:
Poiché una scienza rimane la stessa per tutti gli uomini e il suo og- getto resta lo stesso, il soggetto della grammatica deve restare lo stes- so per tutti gli uomini. Ma il discorso grammaticalmente ordinato o l'enunciazione articolata che può essere messa in forma gramma- ticale non è lo stesso per tutti gli uomini, e per questa ragione non sarà l'oggetto della grammatica.®
Nei Modisti, particolarmente in Sigieri di Courtrai e Thomas von Erfurt, troviamo una precisa concezione del segno, di stam- po neoaristotelico, assai simile a quella saussuriana. I modi si- gnificandi, infatti, determinano la designazione di un concetto per mezzo di una vox:
Una cosa è corporea e anche concepita prima che essa sia designa- ta attraverso una vox, perché le voci sono i segni delle passioni, co- me è detto nel De interpretatione}'^
Se ne conclude che i modi significandi sono quelli che con- sentono la trasformazione di una vox (significante) in sermo (se- gno) conferendole un signifìcatum. Heidegger leggeva in manie- ra husserliana tutto il processo: "Le forme di significazione {mo- di significandi) sono così legate al filo conduttore del dato {mo- dus essendi), il quale a sua volta non è tale se non come cono- sciuto {modus intelligendi)" Recentemente, si è cominciato ad attribuire ai Modisti un ruolo piuttosto importante nell'ambito della formazione delle teorie tardo-medievali di logica. Ad esem- pio, si è scoperto che dei Modisti è debitore Dante Alighieri'^ (1265-1321), che nel De vulgari eloquentia (la sua principale ope- ra linguistica), ma anche nell'Epistola a Cangrande della Scala (sul modo di interpretare la Commedia), nel Convivio e nel De monarchia, fa riferimento alla nozione di universale come segno delle varie espressioni della realtà, da intendersi come struttura generale del linguaggio donata agli uomini da Dio con l'atto stes- so della creazione, laddove invece le diverse lingue (dopo Babe-
' Roberto Kilwardby, Commento alle sentenze, Prologo. Sigieri di Courtrai, Summa modorum significandi, Prologo.
" Cfr. Martin Heidegger, Die Kategorien und Bedeutungslehre des Duns Sco- tus, Narr, Tübingen 1916, p. 152.
Cfr. Maria Corti, Dante a un nuovo crocevia, Vierra, Firenze 1981. 56

 le) sono forme accidentali e storicamente determinate. I segni del linguaggio sono per Dante, come per i Modisti, convenzionali. Ma non tutti i segni: quelli poetici, infatti, rispondono invece al principio nomina sunt consequentia rerum (tanto è vero che non sono traducibili da una lingua a un'altra). Tutto ciò dipende dal- la polisemia del linguaggio poetico, che incassa nelle medesime parole quattro sensi diversi: il letterale, l'allegorico, l'etico e l'a- nalogico.
Un pensatore assai originale nel quadro della "semiotica me- dievale" è senza dubbio Ruggero Bacone (1214-1292). Le sue teo- rie, che pure fanno riferimento esplicito alla dottrina agostinia- na, mettono in luce per la prima volta il problema dell'aspetto pragmatico del segno, cioè della sua relazione con il proprio pub- blico. Nel De signis (1267) e nel Compendium studii theologice (1290 ca), Bacone sostiene che la significazione può essere inte- sa in due modi: come rapporto fra il segno e l'interprete del se- gno, e fra il segno e l'oggetto di riferimento. Dal primo punto di vista se ne deve dedurre che la stabilità del significato dei segni è temporanea. Infatti, se un segno è sempre e soltanto segno per qualcuno, ciòsignificacheisegnifunzionanoperunattodiim- posizione da parte di qualcuno e che vale per qualcuno, ma può anche variare col tempo, o cessare la propria esistenza. La riprova è che esistono parole cadute in disuso, oppure termini che han- no cambiato significato nella storia, o infine neologismi. In linea di massima, pertanto, si può anche affermare che il linguaggio è un sistema aperto all'infinito, poiché chiunque ha la possibilità di creare termini nuovi per imposizione. In pratica, questa aper- tura è invece limitata, a causa dell'esistenza di schemi e struttu- re, che devono essere rispettati nel lavoro di imposizione (crea- zione) linguistica. Resta, in ogni caso, il principio che la signifi- cazione dipende più che altro dai parlanti, e non da caratteri in- trinseci ai segni.
In qualche caso, tuttavia, i segni "motivati" esistono. Bacone, infatti, propone una classificazione dei segni assai sottile, che parte dalla canonica suddivisione fra segni naturali e segni dati. I segni naturali a loro volta possono essere o inferenze (necessa- rie o probabili), come il fumo che segnala la presenza del fuoco, o somiglianze, come le immagini, che ci mostrano in modo im- mediato oggetti e concetti sensibili. I segni dati si distinguono in- vece in segni volontari, come il linguaggio umano, i gesti, gli in- dicatori, le estensioni, e involontari, come i suoni degli animali, o le reazioni emotive degli uomini. Le interiezioni si collocano al
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 confine fra i due gruppi di segni dati. Notevole, per concludere, è l'osservazione di Bacone secondo la quale il segno ha la curio- sa proprietà di poter essere dato, ma continuando a funzionare concettualmente come se fosse naturale: cioè attraverso il mec- canismo primario dell'inferenza.
8.4. Tommaso d'Aquino (1225-1274)
Il massimo esponente dell'aristotelismo cristiano è san Tom- maso d'Aquino. Il problema del segno è interpretato però, come è frequente in questo periodo, con precise finalità religiose a pro- posito della lettura delle Scritture e della Storia sacra. Ad esem- pio,nellaSumma theologice(i-ii,101-103)Tommasoinsistemol- to sul fatto che i segni delle Scritture non sono equivoci, cioè da interpretareinsensoallegorico,ma rigorosamente univoci,refe- renziali. Se l'autore scrive che si è verificato qualcosa, è segno che quel qualcosa si è verificato veramente. Però quel qualcosa a sua volta non è un evento, un referente reale, ma un segno che fa parte del linguaggio divino, un segno disposto dal Signore per- ché noi leggessimo il nostro dovere e il suo volere, e il cui refe- rente è quindi in mente DeiP Dunque le Scritture sono solo una "semìa sostitutiva", costituita di segni che rinviano ad altri segni, gli eventi, che hanno sempre Dio come punto di riferimento. Ma questa struttura di doppio "rinvio" (dalla scrittura all'evento ai referenti divini) costituisce uno dei fondamentali temi semiotici (per la verità non moltissimi) del pensiero di san Tommaso. Tan- to è vero che viene ripreso anche in un testo più teorico, le Quce- stiones quodlihetales. L'aquinate distingue il senso letterale e quel- lo allegorico, e precisa meglio che il secondo appartiene solo al- le Scritture, e non al linguaggio, ma nel senso che per "allegoria"
dobbiamo intendere direttamente i fatti raccontati, e non il rac- conto dei fatti. Ecco allora che gli eventi delle Scritture sono i so- li a essere soggetti alla famosa teoria dei "quattro sensi" (lettera- le, allegorico, etico, analogico), e costituiscono una specie di "lin- guaggio evenemenziale". Quanto alle parole - sia pure apparte- nenti alle Scritture stesse - siamo in presenza di una attività go- vernata da leggi retoriche, che Tommaso chiama parabolismo (tropi, figure), e che continuano ad appartenere al cosiddetto "sen- soletterale",siapureespressoinchiavepoetica.NellaSumma vi
Tommaso d'Aquino, Summa theologice, i, q. 39, a. 4. 58

 è una ulteriore precisazione: quando nell'Antico Testamento com- paiono gesti, azioni, oggetti, ebbene questi sono segni allegorici che rinviano a eventi del Nuovo Testamento, mentre le stesse co- se espresse nel Nuovo Testamento sono aspetti parabolici, diret- tamente poetici.
Una dimostrazione della non-allegoricità del Nuovo Testa- mento è del resto fornita dalla teoria tomista dei sacramenti, i quali sono per Tommaso dello stesso genere dei segni pur aven- do la particolarità di essere segni efficaci. Detto altrimenti: un sa- cramento è testimonianza della presenza della grazia divina, ma fa anche quel che dice di fare (nella comunione l'ostia consacra- ta è davvero il corpo di Cristo, nella confessione i peccati sono veramente cancellati dal sacerdote che assolve il peccatore). In termini moderni siamo a quelli che vengono chiamati performa- tivi. La loro natura è convenzionale: infatti agiscono in forza di una legge stabilita da Dio, che attribuisce un senso efficace a co- se prescelte arbitrariamente fra le innumerevoli possibili, e che agiscono come cause strumentali. Ovviamente, si pone subito il problema della falsificabilità di questi speciali segni (i sacramenti valgono ancora se a celebrarli è qualcuno che non crede, che scambia gli oggetti prescritti con altri, che rovescia il loro rito?). E qui Tommaso introduce il problema dell'intenzionalità dell'e- mittente di un messaggio, nonché delle condizioni di felicità ne- cessarie alla sua esatta comprensione.
Ma con ciò siamo dentro la più generale e complessa que- stione dell'interpretazione, che l'aquinate tratta, oltre che nella Summa, neìì'Expositio in librum Aristotelis perì hermeneias. In termini semiotici, si potrebbe dire che Tommaso propende per l'identificazione di significazione e interpretazione. Infatti, in- nanzitutto distingue fra significato dei termini e significato del- le proposizioni, e assegna solo a queste ultime il tratto di verità o falsità (insomma: si dichiara per una semantica intensionale, laddove i termini singoli sono degli universali, corrispondenti al- le cose, e pertanto da inserire eventualmente in una semantica estensionale). Il problema della referenza è d'altronde chiaro in Tommaso.'"^ I segni sono per lui legati convenzionalmente ai con- cetti (o anche "passioni dell'anima"), e questi sono invece corre- lati per similitudine (o analogia) alle cose.
Cfr. Eco, Porphiry, cit.
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 8.5. Guglielmo d'Occam (1290-1349)
Occam, puro nominalista rispetto ai concettualisti medieva- li, cambia sostanzialmente i termini del dibattito logico intomo al segno. Pur partendo da una sostanziale adesione al pensiero aristotelico,nellaSumma logicceeneiCommentarii costmisceun sistema logico-filosofico più sofisticato e complesso. Comincia- mo dalle definizioni. Occam dà del segno una definizione all'ini- zio pienamente aristotelica. Il segno è per lui:
Tutto ciò che, una volta appreso, fa venire a conoscere qualche al- tra cosa.
A essere pedanti, tuttavia, bisogna sapere che "segno" può avere due accezioni: in un senso significa tutto quello che, appreso, fa cono- scere qualcosa d'altro, sebbene non ci dia una conoscenza primaria di questa cosa [...] ma una conoscenza, attUcJe e susseguente a una conoscenza abituale della stessa cosa. [...] Diversamente, con "se- gno" s'intende ciò che fa conoscere qualcosa ed è atto a stare per quella cosa o a essere aggiunto in una proposizione a un segno di tal fatta: del qual tipo sono i termini sincategorematici e i verbi e quelle parti del discorso che non hanno una significazione definita, o ciò che può essere composto di termini di tal sorta, come il di- scorso. I termini categorematici hanno una significazione definita e precisa. Così questo nome, "uomo", significa tutti gli uomini, e questo nome, "animale", significa tutti gli animali, e questo nome, "bianchezza", tutte le bianchezze.'^
Riproduce poi ancor più precisamente Aristotele, distin- guendo fra segno naturale, che è il concetto (intentio animce) e che è prodotto dalle cose stesse, e segno convenzionale, che è isti- tuito ad arbitrio a significare più cose, cioè la parola (a sua vol- ta distinta in orale e scritta, che è segno della prima):
Dico poi che le parole sono segni subordinati ai concetti o intenzioni dell'anima, non perché, prendendo in senso proprio questo vocabo- lo segno, le parole significhino appunto i concetti dell'anima in pri- mo luogo e propriamente, ma perché le parole vengono imposte a significare quelle stesse cose che sono significate dai concetti della mente.
Quindi, il concetto significa qualche cosa primariamente e natural- mente, e la parola significa secondariamente quella cosa stessa; in modo che, essendo stata istituita la parola per significare un qual-
Guglielmo d'Occam, Summa logicce, i, 4. 60

 cosa che è significato dal concetto mentale, se quel concetto mu- tasse il suo significato, immediatamente anche la parola, senza una nuova convenzione, muterebbe il suo significato
Il sistema occamiano, riassunto nel primo libro dei Com- mentarii (sive qucestiones) in rvsententiarum libros, chiamato an- che Ordinatio, è schematicamente il seguente: la scienza formu- la le sue proposizioni non sulle cose materiali, ma sui concetti (distinzione fra referente e significato); i concetti sono sempli cemente segni delle cose singole, una sorta di artifici mnemoni ci che ci servono per catalogarle e classificarle raggruppando gli individui in rubriche più generali. E questi sono segni naturali Ma per assolvere alle esigenze comunicative occorrono i segni linguistici, convenzionali e istituzionali, che sono segni di segni, perché rinviano sotto forma di significante ai concetti. Il proces- so di formulazione dei segni e dei concetti è identico, secondo una semantica totalmente estensionale:
Tra questi termini, poi, possiamo trovare alcune differenze. Una è che un concetto o affezione dell'anima significa naturalmente tutto ciò che significa; im termine parlato, invece, o scritto, non significa nulla se non secondo convenzione. Da ciò segue un'altra differenza. Cioè, che il significato di un termine parlato o scritto può essere mu- tato liberamente. Il termine mentale, invece, non muta il suo signi- ficato ad arbitrio di nessuno.
Stando a questa formulazione, il concetto di segno ha due ac- cezioni: una accezione più generica fa del segno qualsiasi cosa che, conosciuta, provoca il ricordo di un'altra cosa diversa ma ugualmente conosciuta, oppure l'individuazione di una cosa sco- nosciuta; una accezione più specifica vede come segno ogni ter- mine del linguaggio che rimandi a degli oggetti e ne sia loro so- stituto in una proposizione (o anche ogni proposizione in quan- to composta di tali segni). Occam riconosce tre tipi di sistemi se- gnici: un tipo mentale (e naturale) che consiste nel rapporto fra intelletto e realtà, e due tipi convenzionali (arbitrari) che ripro- ducano esattamente il primo e si identificano nel linguaggio ver- bale e scritto. La corrispondenza fra linguaggio mentale e lin- guaggio verbale permette che l'analisi del secondo porti alla lu- ce l'organizzazione del primo:
Ivi, I, 2. " Ivi, I, 10.
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 Bisogna sapere che [...], siccome ci sono tre tipi di hnguaggio, quel- lo scritto, parlato e mentale, che esiste solo nell'intelletto, così an- che il termine è di tre tipi, cioè scritto, parlato e mentale. Il termi- ne scritto è una parte di una proposizione scritta su un qualche cor- po, che è vista o può essere vista da un occhio corporeo. Il termine parlato fa parte di una proposizione profferita con la bocca, e che può essere udita da un orecchio corporeo. Il termine mentale è una intentio o passio dell'anima significante o co-significante qualcosa naturalmente, che può essere parte di una proposizione mentale e che sta in luogo di quella cosa
Il linguaggio orale è fatto di voces che si organizzano nella oratio. Questa può essere di diversi tipi: indicativa, imperativa, ot- tativa,interrogativa. SoloYoratioindicativaserveallascienza,per- ché esprime una realtà e può essere detta vera o falsa. Il funzio- namento del linguaggio mentale è ovviamente analogo; tuttavia i segni del linguaggio mentale (i concetti) hanno un'origine e una natura particolari, che fanno sì che essi funzionino in maniera anche peculiare. Il concetto è un segno naturale che fa conosce- re senza nessuna mediazione l'oggetto che rappresenta. Il con- cetto è singolare se significa una realtà singola, universale se si- gnifica realtà diverse. Tutti i concetti sono conoscenze intuitive delle cose e le rappresentano direttamente. I segni convenziona- li (parole scritte o orali) sono propriamente segni dei concetti; però, quando le parole sono usate specificamente come segni del linguaggio, allora esse significano pure direttamente gli oggetti.
Una distinzione fondamentale viene operata da Qccam fra i ter- mini (incomplexa) che compongono le proposizioni (complexa)-, in primo luogo ritroviamo i categoremata e i sincategoremata, i primi con significato definito, i secondi con significato indefini- to dipendente dalla loro collocazione nel discorso:
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I termini sincategorematici, d'altro canto, come questi: "ogni", "nes- suno", "qualcuno", "tutto", "tranne", "soltanto", "in quanto" e simi- li non hanno una significazione definita e precisa, e non significa- no cose distinte da quelle significate dai termini categorematici. Pro- prio come in un sistema di numeri lo zero posto da solo non signi- fica nulla, ma aggiunto a un altro numero gli dà un nuovo signifi- cato, così il termine sincategorematico propriamente parlando non significa nulla, ma aggiunto a un altro lo fa significare qualcosa, o lo fa stare in modo determinato per qualcosa o per più cose, o svol- ge un'altra funzione circa il termine categorematico."
'«Ivi, I, 11. Ivi, I, 12.

 Fra i termini categorematici si distinguono quelli connotati- vi e quelli assoluti: i secondi significano direttamente qualcosa, i primi hanno anche significati secondari:
Bisogna sapere dunque che alcuni nomi sono puramente assoluti, altri sono connotativi. Nomi puramente assoluti sono quelli che non significano qualche cosa principalmente e qualche altra cosa o an- che la stessa secondariamente; ma qualsiasi cosa venga significata dallo stesso nome, è significata primariamente. Ciò è chiaro, ad esem- pio, per questo nome, "animale", che non significa se non buoi, asi- ni, uomini, e così tutti gli altri animali, e non significa una cosa pri- mariamente e un'altra secondariamente, così che occorra esprime- re qualcosa in caso nominativo e qualcos'altro in caso obliquo, e non è necessario nella definizione che esprime il significato del nome porre queste distinzioni o qualche participio in casi diversi. Anzi, propriamente parlando, tali nomi non hanno una definizione che ne esprima il significato [...].
Nome connotativo, poi, è quello che significa un qualcosa prima- riamente e qualcos'altro secondariamente. Questo nome ha pro- priamente una definizione che ne esprime il significato e spesso oc- corre mettere un termine di quella definizione in caso nominativo e un altro termine in caso obliquo, come ad esempio per il nome bianco; infatti esso ha una definizione che ne esprime il significato nella quale un termine è posto in nominativo e un altro in un caso obliquo. Per cui, se si chiede che cosa significhi "bianco", si potrà rispondere che significa ciò che significa tutta questa frase: "qual- cosa qualificato dalla bianchezza", oppure "qualcosa che ha la bian- chezza". Ed è chiaro che una parte di questa proposizione è posta in caso nominativo, e una parte in caso obliquo.^®
L'altra distinzione riguarda termini univoci ed equivoci. Univo- co è un segno convenzionale sottoposto a un solo concetto, anche se è segno di più cose. Il termine equivoco significa più cose, ma è sottoposto anche a più concetti: può essere predicato di più cose delle quali non è possibile dare un'unica definizione nominale. Può infine essere casualmente o intenzionalmente equivoco: casual- mente, quando un nome è imposto allo stesso titolo a più individui per mezzo di più concetti, intenzionalmente quando è imposto a più cose a titolo diverso ed è subordinato a più concetti:
È poi una parola equivoca quella che, significando più cose, non è un segno subordinato a un solo concetto, ma è un unico segno su-
20 Ivi, I, 13.
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 bordinato a più concetti o contenuti mentali. Questo intende Ari- stotele quando dice che il nome è comune ed è lo stesso, ma il si- gnificato sostanziale è diverso, cioè i concetti o contenuti mentali, come le descrizioni e le definizioni, e anche i concetti semplici so- no diversi, tuttavia la parola è una sola [...].
Univoco, poi, è detto ogni termine che è subordinato a un solo con- cetto, sia che significhi più cose oppure no.^'
L'ultimadistinzione,infine,èrelativaaiterminidiprima im- posizione che riguardano cose, e quelli di seconda intenzione che
significano altri segni;
Dei nomi convenzionali, alcuni sono nomi di prima imposizione, e altri sono nomi di seconda imposizione. I nomi di seconda imposi- zione sono nomi istituiti per significare segni convenzionali e anche ciò che accompagna tali segni; ma solo finché sono segni [...]. Tutti quei nomi, poi, diversi da questi, che, cioè, non sono nomi di se- conda imposizione [.,.] si dicono nomi di prima imposizione.^^
Accanto a una teoria del discorso - come quella che abbiamo visto occuparsi delle funzioni (indicativa, imperativa, ottativa, in- terrogativa) e della sua natura proposizionale piuttosto che ter- ministica - e accanto a una teoria della significazione, che ab- biamo visto comprendere anche la connotazione, sia pure in mo- do non ancora moderno, sta anche una teoria logica del lin- guaggio.Occamchiamainfattisuppositio laproprietàdelsegno categorematico di stare al posto di qualcos'altro (ovviamente quando è soggetto o predicato di una proposizione). Vengono in- dicati tre tipi principali di supposizione: quella personale, che consiste nel normale uso del termine per significare degli indivi- dui o delle specie; quella materiale, che consiste nella proprietà di significare se stesso ("uomo è una parola"); quella semplice, che consiste nel rinvio che un termine mentale fa a un concetto
("uomo è un concetto"). In altre parole, l'uso di un termine pro- duce una inferenza, che può essere di carattere referenziale, me- talinguistico o metamentale.
Le supposizioni personali danno luogo a un sistema ulte- riormente analitico. Ad esempio, i nomi propri e i dimostrativi sono termini categorematici che posseggono supposizioni di- screte, poiché il loro riferimento è variabile a seconda della posi-
Ibidem. " Ibidem.
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 zione in un discorso determinato. Tutti gli altri categorematici hannosupposizionicomuni. Alorovolta,questeultimepossono essere determinate oconfuse. Quelledeterminate occorrono quan- do dalla proposizione che le contiene si inferisce un caso ine- quivocabile, quelle confuse valgono più genericamente. Ma le si possono ulteriormente distinguere indistributive econfuse in sen- so stretto. Sono distributive quelle supposizioni che permettono di andare dal generale al particolare (per esempio: "tutti gli uo- mini sono mortali").
Altro carattere logico della teoria occamiana è la definizione di un criterio di verità delle proposizioni. Qgni proposizione può essere in principio tanto vera che falsa, e si distingue per una for- ma canonica di base, che è la sequenza soggetto-verbo-predica- to. In questo caso viene detta categorica. Ma ci sono anche pro- posizioni ipotetiche (quando due categoriche sono legate da ap- positisincategorematicicomese,quando eccetera).Ecisonopro- posizioni modali e non-modali, a seconda che vi si esprima una modalità (necessità, contingenza, possibilità, impossibilità). Quanto al criterio di verità, Qccam lo attribuisce alle proposi- zioni categoriche non-modali, e afferma che condizione neces- saria e sufficiente per la verità di una singola proposizione af- fermativa è il fatto che soggetto e predicato rinviino alla stessa cosa, ma per una proposizione che discenda verso il particolare occorre anche che il predicato rinvii ad alcune delle supposizio- ni del soggetto, e per una proposizione che risalga verso l'uni- versale occorre che il predicato rinvii a tutte le supposizioni del soggetto. Di qui, viene costruito un criterio di verità per le pro- posizioni negative e per quelle complesse.
La semiotica occamiana è, come si vede, la più completa trat- tazione medievale riguardo alla teoria dei segni, e, per quanto non totalmente originale, influenzerà a lungo tutto il pensiero po- steriore per alcuni secoli, sia dal punto di vista di una teoria del- la significazione sia da quello di una filosofia del linguaggio.
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 9. Umanesimo e Rinascimento in Italia
Con l'Umanesimo si afferma una concezione radicalmente di- versa della conoscenza, fondata sulla centralità dell'individuo- uomo rispetto all'universo e sulla sua capacità di sviluppare nuo- vi sistemi dèi sapere, per quanto imperfetti rispetto all'assoluto rappresentato da Dio. Questa vera e propria "rivoluzione" avvie- ne con la riscoperta dei classici antichi, e col conseguente ab- bandono della principale prospettiva filosofica finora seguita, cioè l'aristotelismo, in favore delle tendenze platoniche e neo- platoniche. Così, rispetto alla logica e al razionalismo medieva- li, nascono nuove maniere di vedere i rapporti fra gli uomini e fra uomo e mondo. Le riassumeremo sotto quattro titoli fonda- mentali: l'apparizione di una "semiotica del mondo naturale"; il suo corollario di una "teoria dei geroglifici"; lo svilupparsi di "si- stemi enciclopedici" a scopo didattico o mnemotecnico; il loro corollario in vere e proprie teorie degli "specifici" codici delle ar- ti e dei comportamenti.
9.1. La visione "pansemiotica" del mondo
Ovviamente, gli scarti culturali non si producono dal nulla. L'idea che il mondo naturale sia l'espressione "segnica" di una volontà superiore, organizzata secondo un disegno e una coe- renza, e che si possa apprendere e praticare una sua "lettura" è già presente nel pensiero medievale, anche se in una forma dif- ferente. Ramon Llull (Raimondo Lullo) scrive infatti in chiave ermeneutica la sua Ars magna già nel 1273, replicandola poi con l'Ars inventiva nel 1289 e con l'Ars generalis ultima fra il 1305 e
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 il 1308. Si tratta di un sistema assai complesso di classificazio- ne e notazione delle conoscenze naturali e intellettuali, elabo- rato, come era frequente nel pensiero medievale, a partire da una tipologia di tali conoscenze che, per via di regole combina- torie, potevano condurre al raggiungimento di qualunque ve- rità. Naturalmente, a patto che le sue basi fossero già state re- gistrate;macolvantaggiodirappresentareunaformidabilemne- motecnica.
Llull è un caso particolare nel quadro del pensiero medieva- le, ma non a caso l'autore catalano si è confrontato con molte esperienze culturali eterogenee nel corso dei suoi lunghi viaggi in Africa e in Asia, che ne fanno così in qualche modo anche un precursore delle rielaborazioni umanistiche. Il Quattrocento e il Cinquecento, però, hanno una impostazione radicalmente di- versa. Il nuovo enciclopedismo non si fonda più su di una tipo- logia della cultura di carattere notazionale (cioè, trattando co- me voci di dizionario tutti i temi preesistenti, e poi ponendoli in una gerarchia ordinata). Adesso, l'atteggiamento è quello di con- siderare il mondo naturale come il prodotto di una intelligenza divina superiore, cioè come un sistema compiuto, di fronte al quale l'individuo si pone con la coscienza della propria limita- tezza, ma anche con la consapevolezza di poter "decifrare" i se- greti del mondo, per quanto ancora ignoti. Il mondo - detto con parole moderne - è una specie di testo prodotto da una entità superiore, e prodotto con una sua logica intema. Ogni parte, ogni oggetto del mondo è dunque correlato al sistema, e ne co- stituisce un segno, identificabile dall'intelletto umano ancorché esso sia segreto.
Sono fondamentalmente due gli autori che meglio defini- scono tale "semiotica del mondo naturale": Nikolaus Chrypffs o Krebs (o Nicola da Cusa, o Nicola Cusano) e Pico della Mi- randola. Nicola Cusano (1400-1464) elabora soprattutto, traen- dola e modificandola da sant'Agostino, l'idea della "dotta igno- ranza" {De docta ignorantia, 1440), ovvero della debolezza in- tellettuale umana dinanzi alla perfezione del mondo, che può tradursi però in sapienza se si pone con atteggiamento umile al lavoro di decrittazione dei segni del sistema-mondo. L'errore è sempre possibile, ovviamente, proprio perché quel sistema di segni è cifrato, ma anche la conoscenza è sempre possibile. Lo dimostrano gli antichi, i quali hanno saputo trovare delle veri- tà persino senza possedere l'unica vera fede, e l'hanno infatti espressa in maniere bizzarre, ma pur sempre utili per noi e per
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 la scoperta del "grande rebus dell'universo" (De ludo globi, 1463).!
Appartiene invece a Giovanni Pico della Mirandola (1463- 1494) un fortunatissimo concetto, quello di magia naturalis, che corrisponde appunto alla visione di un mondo creato come una
vera e propria "semiosfera", come un sistema coerente nel quale tutti gli elementi convergono nell'unità, e nel quale ciascuno rin- AÁa a qualche misterioso significato. Raggiungere quest'ultimo è possibile anche per i limitati esseri umani, magari indagandone gli aspetti segreti, o, appunto, magici o ermetici del pur già logi- co sistema della natura (Conclusiones philosophicce, cabalisticce et theologicce, 1486). Accusato di eresia, Pico della Mirandola si difese distinguendo la magia diabolica, tendente a sfruttare la co- noscenza per mutare peccaminosamente l'ordine delle cose, dcil- la magia naturale, che vuole invece indagare il libro della natura rimanendo rispettosamente legata all'ordine da essa mostrato (Disputationes adversus astrologiam divinatrìcem, 1494).
Le idee sulla "segreta" e "segnica" organizzazione del mondo derivano dalla pubblicazione delle opere dell'antichità, soprat- tutto minori. E infatti il grande successo letterario dell'Umane- simo è il Pimander, tradotto da Marsilio Ficino nel 1471, primo dei diciassette trattati del cosiddetto corpus hermeticum, attri- buitoalmìtico Ermete Trismegisto. Fattostachel'ideadiunaoc- culta organizzazione dell'universo si fa strada in modo impetuo- so tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento, e durerà fino ai primi del Seicento. E porta anche alla nascita di interpretazioni della cifra del mondo a volte davvero bizzarre nel loro esoteri- smo, che Eco ha classificato come "semiosi ermetica".^ L'evolu- zione dell'idea pansemiotica del mondo passa per alcuni perso- naggi-chiave del Cinquecento, come Cornelio Agrippa (Heinrich Cornélius Agrippa di Nettesheim, 1486-1535), autore del De oc- culta philosophia nel 1510, nel quale il teologo, astrologo e EI- chimista tedesco costruisce un sistema simbolico di corrispon- denze fra macrocosmo (l'universo, derivante da una volontà di- vina superiore) e vari microcosmi (astrali, corporei, materiali). E passa anche per una serie infinita di trattati esoterici, che si fondano sul medesimo principio: chiromanzia, cartomanzia, astrologia, emblematica simbolica.
' Hélène Védrine, La nouvelle image du monde de Nikolaus Krebs à Giordano Bruno, in François Chatelet (a cura di). Histoire de la philosophie, vol. 3, Hachette, Paris 1972 (trad. it. Storia della ftlosofia, vol. 3, Rizzoli, Milano 1976, p. 28).
^ Umberto Eco, I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990. 68

 Una chiave particolare dell'idea pansemiotica si trova sul finire del Cinquecento in Giordano Bruno (1548-1600). Il filo- sofo di Nola riprende in modo scientifico il concetto di corri- spondenza fra la totalità dell'universo e i vari microcosmi che lo compongono, modificando in senso quasi avveniristico le ipotesi di Copernico sull'astronomia: il mondo è un infinito, che arriva a coincidere con Dio stesso o quanto meno con la più importante delle sue caratteristiche, appunto l'infinità, tan- to è vero che nella principale formula del pensatore nolano, "Deus naturaque", le due entità sono quasi indistinguibili {De l'infinito universo et mondi, 1584). Il compito del filosofo è quel- lo di raggiungere la pienezza della verità mediante la cono- scenza del mondo, che è pertanto contemporaneamente ade- sione al divino. Fondamentale è allora organizzare la serie del- le conoscenze, in modo che anche lo spirito abbia la forma si- stemica del cosmo. In questa prospettiva, Bruno riprende le ipotesi mnemotecniche medievali di Llull, aggiornate neopla- tonicamente secondo i dettami del suo panteismo, ed elabora una complessa tecnica di articolazione del mondo delle idee e di raggiungimento, per questa via, della conoscenza {De um- bris idearum, 1582).^
Tra il medievale Llull e il rinascimentale Bruno si apre, co- munque, una ricca stagione di trattati che tentano di indagare i misteri del mondo, presupposti tuttavia essere un sistema di cui occorre identificare la chiave di lettura e interpretazione. La stra- da privilegiata è quella di intendere il sistema come costruito da liste di elementi che in apparenza non sono significanti, ma che invece posseggono un contenuto segreto al quale rinviano. È la forma del simbolismo: ogni entità rimanda in modo nascosto a tm significato stabilito biunivocamente.'* La tradizione del sim- bolismo è di origine platonica e neoplatonica, e dunque ancora una volta è dovuta alla riscoperta umanistica dei classici non ari- stotelici {aparteunaChyromantiaAristotelis "riscoperta" nel 1497, e attribuita evidentemente al grande filosofo greco per ragioni politiche di aggiramento degli interdetti cattolici sulla magia). I pensatori, soprattutto fiorentini, del Quattrocento vi aggiungo- no in proprio l'idea che esistano anche delle specifiche "scrittu-
^ Cfr. Francés A. Yates, Giordano Bruno and the Hennetic Tradition, Univer- sity of Chicago Press, Chicago 1964, ma anche Paolo Rossi, Clavis Universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria in Lullo e Leibniz, Ricciardi, Milano 1960.
^ Ernst H. Gombrich, Imagines symbolicœ, Phaidon Press, London 1972, p. 238.
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 re simboliche", che ricorrono a modelli visivi nei quali si ha ana- logia o imitazione fra segno e referente, ma appunto il segno si trasforma però in simbolo. Il libro che meglio rappresenta questa convinzione è un manoscritto egizio del iv secolo d.C., scoperto nell'isola di Andros da Cristoforo de' Buondelmonti e portato a Fi- renze nel 1419. Si tratta degli Hieroglyphica di Orapollo, che ri- scosse, per così dire, un enorme successo fra gli intellettuali del- l'epoca,^ e maturò in Pico della Mirandola la certezza che il lin- guaggio ideale consista in una forma enigmatica, di natura emi- nentemente visiva, che racchiude dentro di sé una serie di signifi- cati fondamentali. La moda dei geroglifici durerà oltre un secolo e mezzo, passando dagli Hieroglyphica (1556) di Pierio Valeriano, per raggiungere YHypnerotomachia Poliphili (1499) attribuita a FrancescoColonna,eaddiritturaAthanasiusKircherversolametà del Seicento, convinto di averne trovato la chiave di decifrazione.
L'idea di un sistema-mondo produce, come si è detto, una con- cezione parimenti sistemica della conoscenza attraverso "segni", che dal primo derivano e che vengono raccolti e memorizzati at- traverso un metodo mnemotecnico. Si tratta di concezioni a vol- te particolarmente complesse, a volte, invece, più propriamente enciclopediche. Annoveriamo in questa categoria trattati gene- rali o sottosistemi particolari del sapere, talora costruiti su mo- delli visivi come il theatrum (vedi quello elaborato da Giulio Ca- millo) o il tacuinum (ad esempio i tacuina sanitatis), e che, oltre a funzionare mediante meccanismi simbolici, sono anche retti da sistemi di relazioni inteme e da interdefinizioni. Ne fanno fe- de gli innumerevoli trattati riguardanti singole arti, che assumo- no la fisionomia di veri e propri codici specifici, inclusi quelli di fisiognomica (GiovanBattistadellaPorta)odicodificazionedel comportamento (il più famoso è senza dubbio II libro del corte- giano di Baldesar Castiglione, scritto fraill513eill518, che rie- sce anche a teorizzare il suo manuale e altri come "forma del vi- vere", da intendersi precisamente in senso stmttm-alistico come "regola" del vivere). Poco prima del Castiglione o sulla sua scia troviamo infatti Leone Ebreo sulla danza, Biringuccio sulla pi- rotecnia, il Messesbugo sulla cucina, Giovanni Della Casa sulle buone maniere, e via seguitando.
' Cesare Vasoli, Il mito dei geroglifici come linguaggio sacro e simbolico, in Luigi Rotondi Secchi Tarugi, Il simbolo, dall'Antichità al Rinascimento, Nuovi Orizzonti, Milano 1995. Cfr. anche Maria Teresa Girardi, La cultura umanistica e il simbolismo neoplatonico, in Gianfranco Bettetini et al. (a cura di). Semiotica I. Origini e fondamenti, La Scuola, Brescia 2000.
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 Un capitolo a parte, poi, meritano i trattati sulle arti e sulla pittura in particolare, che iniziano con Leon Battista Alberti e il De pictura (1435-36), proseguono con trattati simiU di Piero del- la Francesca e Luca Pacioli dedicati alla prospettiva, continuano con Leonardo da Vinci e si concludono sul finire del xvi secolo con Giampaolo Lomazzo. Le arti, o una sola di esse, vengono dav- vero intese come un sistema di precetti pratici e di teorie inter- definitefi-aloro in una visione d'insieme del "linguaggio" di cia- scuna di esse o di qualche sua parte (è il caso dei sistemi del co- lore, a uso tanto della pittura quanto dell'emblematica).^ È illu- minante, in questo senso, il modo con cui Leonardo e altri ri- prendono il tema deir"ut pictura poesis", trasformandolo nel co- siddetto "paragone delle arti": invece di limitarsi all'affermazio- ne della superiorità di questa o quella pratica sulle altre, si va ol- tre, trovando a volte dei sistemi di corrispondenze inaspettati (co- me quello fra letteratura e musica o fra pittura e musica, con l'i- dea di un comune principio ritmico o di una comune architettu- ra retorica).
® Omar Calabrese, La macchina della pittura, Laterza, Bari 1985.
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 10. L'empirismo inglese
Ì0.\. Bacone (1561-1626)
Con Francesco Bacone inizia, da parte empirista, una profon- da rimeditazione dei problemi linguistici che porterà alla vera e propria cosciente fondazione della semiotica con John Locke. Le motivazioni delle analisi semiotiche dell'empirismo (sviluppate poi in quasi tutto il Seicento inglese) nascono da un rinnovato interesse per la scienza in tutte le sue branche. Il che porta na- turalmente i filosofi-scienziati a riflettere sul fatto linguistico nel suo semplice modo di funzionamento, sulla base dell'osserva- zione. Un'altra è poi la considerazione di fondo dello scetticismo ereditato dal Cinquecento verso il linguaggio quale strumento ef- ficace per conoscere e comunicare i dati della realtà.' Nel De di- gnitate et augmentis scientiarum, Bacone parte dall'esame degli organi, del metodo e dell'ornamento della comunicazione. In- nanzitutto, si interpretano i nomi aristotelicamente come eti- chette imposte alle cose per fungere da mediazione fra l'uomo e la realtà. Riprendendo il problema del linguaggio in termini em- piristi, Bacone può procedere così nella sua analisi dal punto di vista della comunicazione. E ne deriva che si esaminano le pa- role prima di tutto in quanto segni:
' Questa è, almeno, l'opinione di Lia Formigari e della maggioranza degli studiosi (cfr. Lia Formigari, Linguistica ed empirismo nel '600 inglese, Laterza, Ba- ri 1970), del resto anche recentemente confortata dalla mancanza quasi assolu- ta di voci su autori cinquecenteschi in Sebeok (a cura di), Encyclopedic Dictio- nary ofSemiotics, cit. Tuttavia, il campo rimane da indagare: probabilmente una "semiotica" del xv e xvi secolo si trova là dove non ci si aspetterebbe, ad esempio nella trattatistica d'arte.
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 Cominciamo col porre questo principio tutto: ciò che può distin- guersi in sì gran numero di differenze da prestarsi a esplicare la va- rietà dei concetti (purché siano differenze sensibili), può divenire veicolo del commercio dei pensieri tra uomo e uomo. Noi vediamo, infatti, che anche popoli di differente lingua commerciano fra loro intendendosi con i gesti.^
Tanto che l'autore giunge a differenziare i segni puramente arbitrari come le parole dai segni analogici (chiamati simboli, ma assomigliano alle icone peirciane):
Ora, i sistemi di notazione che, senza il soccorso o l'intromissione delle parole, riescono a significare le cose, sono di due tipi, l'uno dei quali è fondato sull'analogia, l'altro è puramente arbitrario. Del pri- mo tipo sono i geroglifici e i gesti; del secondo tipo sono i caratteri reali [...]. Bisogna che i geroglifici e i gesti abbiano sempre qualche somiglianza con la cosa che vogliono rappresentare, e siano così dei simboli, e per questa ragione noi li abbiamo chiamati notazioni per analogia. Invece i caratteri reali non hanno nulla di simbolico e so- no del tutto irrappresentativi, come le lettere dell'alfabeto; e sono stati costituiti ad arbitrio e sono entrati poi nell'uso per abitudine e quasi per un tacito accordo.^
Benché nel passo appena citato Bacone parli di analogia fra segni e cose, tuttavia egli si dimostra altrove uno stretto conven- zionalista, soprattutto a proposito del ririnovato dibattito tra (|)ùaiç e vó^oc, natura e convenzione, di origine antica. La tradi- zionale querelle si concretizza a proposito di due questioni: l'ori- gine del linguaggio, e il rapporto fra nomi e cose. Bacone con- ferma la sua posizione convenzionalista dimostrandosi scettico a proposito della ricostruzione della lingua edenica, la lingua sup- posta come originaria e naturale: non essendo possibile rico- struirla, bisogna fermarsi alle lingue come sono, fatte di elementi convenzionali non intrinsecamente razionali (tanto è vero che so- no portatrici di Idola). La congruità dei segni alle cose dipende caso mai soltanto dalla loro funzione di strumento atto a distin- guere le cose. Anche in Bacone l'accento posto sul carattere fun- zionale della comunicazione è fondamentale, tanto piti che que- sta prescinde dalla sostanza in cui si realizza:
2 Francis Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, libro vi, p. 286. 3 Ivi, pp. 287-288.
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 E benché questa parte dell'organo del discorrere sembri di assai scar- sa utilità, perché l'uso delle parole e delle lettere nella scrittura è sen- za dubbio il più comodo di tutti per tramandare il pensiero, ci è sem- brato opportuno farne menzione in questo luogo perché si tratta di un argomento non ignobile. Noi trattiamo qui, per così dire, la mo- neta delle cose intellettuali, e non è fuori luogo sapere che quella moneta può essere coniata anche con altro materiale che non sia oro o argento, cioè che si possono fabbricare notazioni anche con altri mezzi, che non siano le parole e le lettere."*
Ilconvenzionalismo delrapportofraparoleecoseèpoi esprès- so chiaramente nella proposta di istituzione di una grammatica filosofica, diversa da quella letteraria, "che esamina il potere e la natura delle parole, in quanto esse sono tracce e impronte della ragione"^:
Abbiamo pensato di formare una grammatica speciale, che noti con diligenza, non le analogie delle parole fra loro, ma le analogie delle parole con le cose, o con la ragione; indipendentemente da quella interpretazione, che appartiene alla logica. Anzitutto noi non ap- proviamo quella curiosa ricerca che un genio come Platone non ha però disdegnato d'intraprendere, sulla imposizione dei nomi e sul- la etimologia originaria delle parole; nella supposizione che i nomi non siano stati stabiliti fin da principio ad arbitrio, ma derivati e de- dotti con una certa ragione e secondo il significato.*
In questo quadro, vanno messi in risalto due fondamentali aspetti del pensiero semiotico di Bacone. Il primo è che il filo- sofo inglese diventa il propugnatore di una metodologia della scienza fondata sul ragionamento induttivo. Ma ciò lo conduce a pensare al linguaggio come lo strumento stesso dell'induzione. Il segno, infatti, diventa una maniera per fissare l'osservazione dei fenomeni, ed è la sanzione di un ragionamento già avvenuto. La proposizione, poi, col suo carattere inferenziale, è il tipo stes- so dell'induzione.
Contrariamente ad altre grandi "difese" dell'induzione av- venute nell'antichità, quella di Bacone prevede anche le forme di errore del ragionamento induttivo, poiché introduce la no- zione di soggettività. Nel pensiero come nel linguaggio la sog- gettività produce le incomprensioni, i falsi, gli sbagli. Bacone
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Bacon, De dignitate..., cit., p. 299.
^ Id., The Advancement ofLeaming, fr. xxx. ' Id., De dignitate..., cit., pp. 286-288.

 indica quattro tipi di errori: gli idoli della tribù, che dipendono da attitudini biologiche della specie umana; gli idoli della ca- verna, che si costituiscono a partire da deficienze degli indivi- dui; gli idoli del mercato, che sono causati da percezioni distor- te dalla socializzazione nei gruppi etnici; gli idoli del teatro, do- vuti alle abitudini e alle esibizioni dei gruppi sociali sulla scena della collettività.
Si tratta comunque della prima volta che appare una rifles- sione sul ruolo anche soggettivo e non eminentemente oggettivo del linguaggio. E si può anche dire che, attraverso questa rifles- sione, nasce una pur timidissima sociosemiotica.
10.2. Hobbes (1588-1679)
Nella dottrina materialista di Thomas Hobbes il problema del segno linguistico è assai importante, a cominciare dalla sua fun- zione:
La più nobile e utile invenzione fu quella del linguaggio, consisten- te in nomi e appellativi e nella loro connessione, onde gli uomini esprimono i loro pensieri, li rievocano quando sono passati, e se li scambiano tra loro per mutua utilità e conversazione. Senza di es- so tra gli uomini non ci sarebbe stato governo, società, contratto, pace piti di quanto non ve ne sia tra i leoni, gli orsi e i lupi.''
In Hobbes appare la teoria della lingua universale - la lingua adamica, o edenica - che sarebbe stata da Dio stesso scompagi- nata con l'episodio della torre di Babele. Piià importante però di questa idea (del resto solo accennata), è la teoria hobbesiana del funzionamento del linguaggio:
L'uso generale del linguaggio è di trasferire il nostro discorso in di- scorso verbale, o la serie dei pensieri in una serie di parole; e que- sto per due comodità. La prima è di notare le conseguenze dei no- stri pensieri, i quali, potendo sfuggire dalla memoria e costringerci a un nuovo lavoro, possono di nuovo essere richiamati alla mente per mezzo delle parole che li esprimono; sicché il primo uso dei no- mi è quello di designazioni o note mnemoniche. L'altra comodità è che molti usano le stesse parole per comunicarsi l'un l'altro, con la loro connessione e col loro ordinamento, quel che essi concepisco-
' Thomas Hobbes, Leviathan, p. 22.
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 no o pensano su ciascuna materia, o anche il desiderio o il timore, o qualunque altro sentimento. Per tale uso le parole sono chiamate signa.^
Daunlato,dunque,isegnisonopurinotamina, rubrichedi registrazioni mnemoniche; dall'altro essi sono strumenti di co- municazione. Hobbes distingue così fra uso privato e uso pub- blico del linguaggio. L'uso privato si serve di "marche" per regi- strare l'esperienza, quello pubblico di veri e propri segni. Hob- bes distingue anche quattro funzioni che il linguaggio assolve: una funzione di registrazione di cause ed effetti, una funzione co- municativa, una funzione affettiva e una estetica. Siamo quasi a Jakobson e alle sue funzioni discorsive:
Usi speciali del linguaggio sono questi: primo, il registrare quello che, con la meditazione, troviamo come causa di qualche cosa, pre- sente o passata, e quello che troviamo che possono produrre, cioè l'effetto che è insomma un accrescimento di arti; secondo, mostra- re agli altri il sapere che abbiamo acquistato, cioè consigliarci e in- segnarci l'un l'altro; terzo, far conoscere agli altri i nostri desideri e propositi e la mutua speranza, che abbiamo l'uno per l'altro; quar- to, compiacere e allietare noi stessi e gli altri, e ricrearci con le no- stre parole per diletto e ornamento, innocentemente.®
Hobbes considera il linguaggio come fondato su una con- venzione, proprio in ragione della sua utilità, che è quella di per- metteredelleoperazioni.Adesempio,lageometriaèun linguaggio della massima utilità perché stabilisce preliminarmente i signi- ficati dei segni e le loro regole di connessione: "La maniera, per cui il linguaggio serve a ricordare il legame tra cause ed effetti, consiste nel fissare i nomi e le loro connessioni". (Bisogna ricor- dare che per "nome" Hobbes non intende la parte grammatica- le, ma essenzialmente una unità significativa di maggiore o mi- nore estensione, esprimibile con una parola o con un intero di- scorso.)
Soggetto dei nomi è tutto quanto può far parte o essere considera- to in un conto, o essere aggiunto a un altro nome per fare una som- ma, o sottratto da un altro e lasciare il resto. I latini chiamavano i conti del denaro rationes, e il calcolo ratiocinatio] e ciò che noi nel-
8 Ivi, pp. 23-24. 9 Ivi, p. 24.
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 le note o libri di conti diciamo item, essi chiamavano nomina, cioè nomi, onde pare che derivi che essi estendevano la parola ratio alla facoltà di calcolare tutte le altre cose.'®
Anche se fautore della convenzionalità, Hobbes pensa però che il linguaggio abbia un rapporto con il reale e che dipenda da questo. I nomi sono infatti degli universali relativi, cioè comuni a diversi oggetti singoli che si assomigliano, mentre la cosa no- minata è sempre singola e particolare. I nomi sono dunque degli universali imposti a numerose cose in virtii della loro rassomi- glianza o del loro possedere qualità identiche.
Per quanto riguarda i segni, Hobbes li considera inferenze che traiamo a partire dai dati dell'esperienza. Un segno, infatti, è qualcosa che deve essere osservato anticipare o seguire la co- sa significata. Insomma, si tratta di una "presunzione" del con- seguente in presenza del suo antecedente, o viceversa. Piià fre- quentemente la loro connessione è stata osservata, più certo è il segno. Hobbes attribuisce l'interpretazione dei segni (intesi co- me casi individuali) a tutti gli animali. Solo l'uomo, però, è in grado di capire il discorso (connessione di segni) e formare il pensiero. Hobbes aggiunge, peraltro, un terzo tipo di segni a quelli fondati sull'anticipazione del futuro o sulla rammemora- zione del passato (conseguente dall'antecedente, antecedente dal conseguente): si tratta dei segni immediati, che sono i segni del- le passioni.
Nell'ambito di una tipologia dei segni, Hobbes distingue fra segni naturali e segni arbitrari. I segni naturali sono quelli in cui le relazioni di antecedenza e conseguenza sono indipendenti dal- la volontà umana, come le nuvole per la pioggia, o la pioggia per le nuvole. Tuttavia, li riconosciamo come segni, e li usiamo co- me se la natura ci parlasse. I segni arbitrari sono quelli stabiliti dagli uomini a loro piacere e per esplicito o tacito accordo, per esempio gli emblemi, i simboli dell'autorità e ovviamente i nomi.
Tornando alla differenza fra privato e pubblico, e collegando- la con quella fra segni naturali e arbitrari, va detto che ciò deve es- serepostoincollegamentoconl'ideahobbesianadiuna conoscenza prudenziale contrapposta a quella scientifica. La conoscenza pru- denziale deriva dall'esperienza e dalla formulazione di un sistema di attese sulla base del ricordo e della statistica, e ovviamente si fonda soprattutto sui segni naturali. Hobbes la giudica utile, ma
>0 Ivi, p. 29.
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 assolutamente non autentica, poiché non ci dice nulla sul legame fra antecedente e conseguente; non dà certezza sulla ripetizione futura dei fenomeni osservati; non ci assicura dell'uniformità del corso della natura. La scienza invece non procede dall'esperienza delle connessioni naturali tra i fatti, ma dai nomi che si danno ar- bitrariamente alle cose, dalle loro definizioni, dalle conseguenze logiche che si traggono dalle loro combinazioni.
10.3. Wilkins (1614-1672) e Dalgamo (1627-1687)
Nel periodo che va da Bacone a Locke si introducono le pri- me definizioni di quella stessa scienza che sarà tra poco chiamata per la prima volta "semiotica", e che alcuni autori denominano "semiologia" o "sematologia". John Wilkins, ad esempio, è l'au- tore di un'opera sui modi segreti del comunicare, il Mercury, or the Secret and Swift Messenger del 1641, in cui si parte dalla con- siderazione che il linguaggio verbale è solo uno dei sistemi di co- municazione possibili. Accanto a esso, Wilkins pone per esempio la scrittura e i gesti, e ai tre generi di linguaggio corrispondono altrettanti sistemi di comunicazione segreta, e altrettante parti dell'arte grammaticale, la criptologia, la criptografia e la semio- logia. La scienza dei segni è insomma legata al criterio della de- crittazione.
Unaltroautore,GeorgesDalgamo,nell'Arssignorum del1661, si occupa ugualmente di questi tre tipi di linguaggio, giudicati tutti convenzionali:
Ritengo anzi che l'uso delle lettere [...] sia stato ab initia. Certo, gli uomini non scrivevano ancora su materiale solido e capace di con- servare i caratteri, ma chi accenna col capo, ammicca con gli occhi, muove un dito nell'aria eccetera, scrive non meno di colui che trac- cia caratteri sulla carta, sul marmo e sul bronzo. La ragione per cui riterrei che i caratteri siano esistiti ab initia è che per l'uomo non è meno naturale comunicare con figure che con suoni; naturali per l'uomo sono entrambe le cose; scrivere questi o quei caratteri, pro- nunciarequesteoquellevoci,èdeltuttoad placitum.
I segni verbali o visivi sono studiati nella sematologia, che si occupa del loro statuto di segni artificiali, mentre dei segni so- prannaturali si occupa la crematologia, e dei segni naturali la fi- siologia. È vero che si rimane, sostanzialmente, a una classifica- zione dei linguaggi - vera e propria anticipazione di un atteggia-
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mento che sarà tipico dell'epoca dei lumi e del nascente pensie- ro scientifico, ovvero quello di una razionale classificazione del- le scienze. Altro elemento che ritornerà, sia pure con segno op- posto, nel XVIII secolo è la questione della "genesi" (più che ori- gine) delle lingue. Qui, ancora, si rimane fermi all'idea di una ori- gine contemporanea a quella dell'umanità stessa: uomo e lin- guaggio coincidono.
A. Locke (1632-1704)
John Locke, per quanto poco portato allo studio della logica eall'analisilinguistica,halasciatonelSaggiosull'intelligenza uma- na il testo più ampio e consapevole a proposito della teoria dei segni. Proprio a conclusione del quarto e ultimo libro, Locke ne dà addirittura una definizione come scienza:
Tutto ciò che può entrare nella sfera dell'interesse umano essendo, in primo luogo, la natura delle cose quali sono in se stesse, i loro rapporti, e il modo della loro operazione; o, in secondo luogo, ciò che l'uomo stesso ha il dovere di fare, come agente razionale e vo- lontario, per il raggiungimento di un qualunque fine, e specialmen- te della felicità; o, in terzo luogo, i modi e i mezzi coi quali viene rag- giunta e comunicata la conoscenza di questi due ordini di cose; ri- tengo che la scienza possa venir propriamente divisa in queste tre specie [...]."
E accanto alla <1>uoiktì, o filosofìa naturale, e alla IlpaKTiKri, o etica, egli pone una terza scienza:
Terzo. Il terzo ramo può essere chiamato STIUEICOTIKIÌ, ossia la dot- trina dei segni) e poiché la parte più consueta di essa è rappresenta- ta dalle parole, assai acconciamente essa viene anche chiamata Ao- YIKTÌ, ossia logica. Il suo compito è di considerare la natura dei se- gni di cui fa uso lo spirito per l'intendimento delle cose, o per tra- smettere ad altri la sua conoscenza. Poiché le cose che la mente con- templa non essendo mai, tranne la mente stessa, presenti all'intel- letto, è necessario che qualcos'altro, come un segno o una rappre- sentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spiri- to, e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costitui- sce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all'immediata visione di un altrp, né essere accumulata altrove che nella memoria,
" John Locke, Essay Concerning Human Understanding, iv, xxi, 1.
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 //

 che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comuni- care ad altri i nostri pensieri, nonché per registrarli a uso nostro, so- no altresì necessari dei segni delle nostre idee, e quelli che gli uo- mini hanno trovato più convenienti a tale scopo, e di cui perciò fan- no uso generalmente, sono i suoni articolati. Perciò la considera- zione delle idee e delle parole, in quanto grandi strumenti della co- noscenza di chi voglia esaminare la conoscenza umana in tutta l'e- stensione sua.'^
Comunque, al di là delle definizioni generali e introduttive, tutto il Saggio lockiano costituisce un vero e proprio trattato di semiotica, dal momento che l'indagine sulla conoscenza umana parte dal presupposto che essa formi un sistema di segni, così co- me le parole sono segni rispetto alle idee. Non sta qui, però, la novità del pensiero lockiano, perché una simile idea è abbastan- za antica, così come antica è la concezione convenzionalista del- le parole (indifferenza del suono rispetto al significato). La no- vità risiede nell'aver ehminato la "cosa" dal processo significati- vo, attribuendo anche alle idee una natura arbitraria, dipenden- te dal modo in cui una società data in un'epoca data segmenta la realtà per i propri fini conoscitivi. L'opposizione rispetto alle con- cezioni metafisiche precedenti è evidente: finora, infatti, si pen- sava che la relazione fra il mondo estemo (le cose) e le loro rap- presentazionimentalifossequelladell'analogiaodell'identità. L'i- dea è, in questa prospettiva, al massimo la forma della cosa in sé (donde il titolo di "teoria formistica" della conoscenza). Secon- do Locke, invece, la relazione fra idea e referente esterno è co- stituitadallanominalità. ELockeinfattidistinguefrar"essenza nominale" e r"essenza reale": quella è caratterizzata semplice- mente dall'intelletto o dall'immaginazione umana, senza rapporti col carattere naturale di questa.
Vediamo i passi principali del convenzionalismo di Locke, te- nendo presente che è particolarmente in tutto il terzo libro (de- dicato alle parole) che esso viene espresso:
In tal modo possiamo concepire come le parole, che di natura loro erano così adattate a quello scopo, venissero a essere impiegate da- gli uomini come segni delle loro idee, non per alcuna connessione naturale che vi sia tra particolari suoni articolati e certe idee, poi- ché in tal caso non ci sarebbe tra gli uomini che un solo linguaggio.
Ivi, IV, XXI, 4. 80

 ma per una imposizione volontaria, mediante la quale una sola pa- rola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea.
I segni (del linguaggio) servono secondo Locke (come già per Hobbes) a una funzione di memorizzazione, e anche a una fun- zione comunicativa; ma Locke va ancora più avanti, cioè pre- suppone l'esistenza di un codice comune, tacitamente rispettato, fra emittente e destinatario:
Egli suppone che le sue parole siano il segno delle idee che si tro- vano anche nella mente di altri coi quali comunica. Poiché altrimenti parlerebbe invano e non potrebbe esser capito, se i suoni applicati a una data idea fossero tali che l'ascoltatore li applicasse a un'altra; il che significa parlare due lingue diverse.
Ne consegue che da un lato il linguaggio è inteso come isti- tuzione sociale, e dall'altro che ogni soggetto è perfettamente li- bero di innovare continuamente e liberamente il codice, o di isti- tuire nuovi usi creativi dello stesso:
Ma che esse soltanto significhino le peculiari idee degli uomini, e le rappresentino per un'imposizione perfettamente arbitraria, è co- sa evidente, in quanto spesso esse non riescono a suscitare in altri (anche tra coloro che usano lo stesso linguaggio) le stesse idee di cui assumiamo che esse siano il segno; e ogni uomo ha una così in- violabile libertà di far sì che le parole stiano per le idee che a lui piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nel- la mente le stesse idee che ha lui, quando pur usino le stesse paro- le che egli usa.'^
Ivi, II, 7.
Ivi, II, 9. 15 Ivi, II, 11.
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 11. Il razionalismo francese
11.1. Cartesio (1596-1650)
Cartesio si è occupato molto marginalmente del problema del linguaggio, soprattutto a causa dello scarso interesse per la comunicazione del sapere, dovuto alla sua teoria sostanzialisti- ca delle categorie del pensiero. I brani propriamente linguistici si riducono soltanto a pochi passi del Discorso sul metodo e del- la Lettera a Mersenne, nonché al giovanile II mondo. Tuttavia, un famoso saggio di Noam Chomsky' e una articolata risposta di Luigi Rosiello^ hanno determinato un interesse forse maggiore del dovuto per la cosiddetta "linguistica cartesiana", quel setto- re dello studio del linguaggio ispirato a ipotesi razionaliste, e che dalle ipotesi port-realiste di grammatica generale giunge fino a Humboldt e alla linguistica moderna. Del resto, lo stesso Chom- sky poneva l'accento pivi sulla utilizzazione delle ipotesi meto- dologiche e conoscitive di Cartesio, da parte degli studiosi po- steriori, che sulla sua reale importanza diretta. In sostanza, Car- tesio infatti attribuisce al linguaggio soltanto la facoltà di di-
stinguere l'uomo dall'automa o dall'animale in viriti della capa- cità umana di utilizzare in modo creativo le parole e i segni (so- lo quelli non naturali):
1 Cfr. Noam Chomsky, Cartesian Linguistics. A Chapter in the History of Ra- tionalist Thought, Harper & Row, New York 1966.
2 La risposta di Rosiello è poi pereJtro la versione più correntemente accet- tata del pensiero di Cartesio. Cfr. Luigi Rosiello, Linguistica illuminista, il Muli- no, Bologna 1967, e in seguito Ancora sul cartesianesimo linguistico, in Lia For- migari-Franco Lo Piparo (a cura di), Prospettive di storia della linguistica, Edito- ri Riuniti, Roma 1988, pp. 127-134.
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 Poiché si può ben immaginare una macchina che profferisca delle parole, e anzi ne profferisca alcune riguardanti azioni corporali che producano qualche alterazione nei suoi organi, come domandare qualcosa, se toccata in una parte, o gridare che le si fa male, se toc- cata in altra parte, e simili cose; ma non già che essa disponga le pa- role diversamente, per rispondere a tono di tutto quello che uno può dirle, come invece saprebbe anche l'uomo più idiota.^
La differenza fra uomo e macchina consiste cioè nel fatto che, mentre questa ha bisogno di stimoli opportunamente disposti per rispondere, quelloinveceprocedecreativamente,perchépossie- de idee innate che formano la struttura reale del mondo:
Poiché è cosa ben certa che non ci sono uomini così idioti e stupi- di, o addirittura gli insensati, i quali non sappiano combinare in- sieme diverse parole, e comporre un discorso per farsi intendere; e che, al contrario, non c'è altro animale, per quanto perfetto e feli- cemente nato, che faccia similmente. E questo non accade per di- fetto di organi, giacché vediamo le gazze e i pappagalli profferire pa- role come noi, e tuttavia non poter parlare come noi, mostrando cioè di pensare quel che dicono; laddove gli uomini che, nati sordi e mu- ti, si trovano, quanto le bestie e più ancora, privi degli organi per parlare, sogliono inventar da se stessi alcuni segni, con cui si fanno intendere da quelli che, vivendo ordinariamente con essi, haimo mo- do d'imparare il loro linguaggio.''
L'interpretazione di questi passi è abbastanza controversa: per Chomsky, essi riflettono l'attenzione per la creatività del lin- guaggio, anticipatrice di Humboldt, mentre Rosiello fa notare che nell'innatismo cartesiano la lingua non è uno strumento del- la ragione, ma coincide con la ragione stessa.
Le teorie cartesiane sul segno compaiono per la prima volta, come si è detto, ne II mondo. Non si tratta di idee molto origina- li, perché risalgono alla scolastica, agli Stoici e ad altri autori del- l'antichità. Cartesio pensa a una struttura triadica del segno, co- stituita da un aspetto materiale (i suoni delle parole), un aspetto mentale che è loro direttamente collegato (il significato) e i fe- nomeni della realtà, che le parole rappresentano. Tuttavia, non vi è relazione diretta fra parole e cose, e il linguaggio va consi- derato un'istituzione, cioè arbitrario. Cartesio include a volte nel- la categoria di linguaggio anche fenomeni non verbali, come la
' René Descartes, Discours surla méthode, p. 169. ••ivi, pp. 169-170.
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 luce, il riso, il pianto, quando sono usati come segni. Nel Discor- so sul metodo arriverà a indicare anche i gesti dei sordomuti e persino i segni naturali che esprimono le passioni.^
L'idea di Cartesio è che la natura del linguaggio corrisponda al- la divisione fra corpo e mente, corpo e anima. Non a caso, infatti, l'aspetto materiale del linguaggio è variabile, come è variabile da individuo a individuo o da gruppo a gruppo la stessa natura uma- na(lelinguesonodifferenti),malastrutturadelpensiero rimane lastessa,ehacarattereuniversale.Unbell'esempioèquellodistam- po psicologico riportato ne II mondo: noi ricordiamo quel che ci viene detto, anche se non ricordiamo in che lingua ci è stato det- to. Altro esempio è quello della Seconda meditazione: le lingue so- no come la cera, possono essere modellate in molte maniere, ma la loro struttura profonda resta la medesima. La conseguenza del- la varietà delle lingue è che, ovviamente, esse si presentano in mo- do ambiguo, oscuro, incerto a causa delle abitudini, degli usi sba- gliati, della cattiva comprensione da parte degli utenti.
Nel Discorso sul metodo, nella Lettera a Canuto e nella Lettera a Moro compaiono anche altre osservazioni stimolanti, sempre ri- ferite alla natura materiale del linguaggio. Cartesio infatti distin- gue fra parole che esprimono concetti e altri segni che esprimono sentimenti. Nel primo caso siamo di fronte a una attività spiritua- le e razionale, nel secondo a una attività animale (che tocca anche l'uomo, in quanto animale). Tuttavia, possono esistere alcuni casi in cui i segni naturali provocano pensieri, e altri in cui le parole provocano sentimenti e passioni. Nasce forse per la prima volta una "teoria delle passioni" come vero e proprio linguaggio.^
Nella Lettera a Mersenne, infine, la questione dell'imperfezio- ne del linguaggio, causata dalla sua natura materiale, induce Car- tesio a proporre una lingua universale, o lingua perfetta, che co- stituisca uno schema simbolico capace di far avanzare con cer- tezza la conoscenza. Questa lingua è una specie di schema per l'ordinamento dei concetti e del ragionamento, e ha a che fare col progetto cartesiano di elaborazione di un sistema di simboli ma- tematici.'^
5 Cfr. Herman Parret, Les passions. Essai sur la mise en discours de la subjec- tivité, Mardaga, Bruxelles 1986.
' Cfr. Algirdas J. Greimas-Jacques Fontanille, Sémiotique des passions. Des états des choses aux états d'âme, Hachette, Paris 1990.
' Cfr. Eco, I limiti dell'interpretazione, cit., e Roberto PeUerey, Le lingue per- fette nel secolo dell'utopia, Laterza, Bari 1994.
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 11.2. Port-Royal (xvii secolo)
Né Cartesio né i primi cartesiani hanno elaborato una teoria hnguistico-semiotica degna di nota. Lo sviluppo di una vera e propria linguistica cartesiana (razionalista) deve attendere la Grammatica e la Logica, o arte di pensare di Amauld (1612-1694), Lancelot (1615 ca-1695) e Nicole (1625-1695), appartenenti alla setta giansenista del convento di Port-Royal. L'importanza di que- sta opera per gli sviluppi che essa ha portato nel pensiero con- temporaneo è stata messa in luce da Noam Chomsky e da molti altridopodilui.ChomskyvedeaddiritturanellaGrammatica la prima intuizione della grammatica generativa trasformazionale, riferendosi alla suddivisione postulata da Amauld e Lancelot fra modelli della lingua e modelli del pensiero. Luigi Rosiello, tutta- via, polemicamente ribatte che in realtà tale suddivisione (fra res extensa e res cogitans) deriva soltanto dalla applicazione delle teo- rie cartesiane, e quindi medievali, e quindi aristoteliche, a pro- posito della tesi che le categorie del linguaggio siano omologiche alle categorie del pensiero e dipendano da queste.
IlpuntodipartenzadellaGrammatica, infatti,ècheessapuò cogliere i tratti universali dell'attività linguistica umana, che so- no uguali per tutti, perché questa è soltanto la manifestazione materiale e convenzionale dell'attività di pensiero, anch'essa ari- stotelicamente e razionalisticamente intesa come uguale per tut- ti gli uomini. Amauld e Lancelot derivano queste convinzioni dal- latesidelDeinterpretatione, tradottoefiltratodaBoezio,secon- dolaquale,appunto,illinguaggioè rispecchiamento delpensie- ro. Distinguendo, però, tra oratio mentalis e oratio vocalis, che è la forma sensibile con cui la prima si attualizza, in pratica si af- fida alla grammatica il compito di studiare la corrispondenza tra materiale significante e significato mentale. Chomsky ha voluto vedervi di piti. Il linguaggio come sistema di segni rappresente- rebbe la stmttura superficiale, il pensiero invece sarebbe la stmt- tura profonda. In realtà, forse, ci si dovrebbe limitare a una in- terpretazionemoltopiticauta.L'impalcaturadella Grammatica riflette semplicemente una stmttura deduttiva data a priori per- ché analoga a quella del pensiero, e dunque derivante dalla logi- ca il suo fondamento. Se proprio delle anticipazioni sui contem- poranei vogliono essere trovate, allora si potrà piuttosto porre l'accento sulle riflessioni semiotiche dei signori di Port-Royal. Ri- flessioni che trovano la loro conferma nella Logica di Amauld e Nicole, nata con scopi pedagogici per ricondurre l'uomo a fame
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 un uso proprio. Tra queste riflessioni, due sono assai rimarche- voli. Il pensiero non può essere raggiunto che tramite ciò che Io significa, i segni; ma poiché questi non sono congrui al pensie- ro, occorre stabilire le condizioni generali per servirsi di qualco- sa come segno. Un po' tutta la Logica è fondata su queste esi- genze, e pertanto i passi che seguono devono essere considerati come puri ritagli arbitrari in una trattazione che ne possiede sva- riati altri, altrettanto indicativi:
Quando si considera un oggetto in se stesso e nel suo proprio esse- re, senza spingere lo sguardo dello spirito a ciò ch'esso può rappre- sentare, l'idea che se ne ha è un'idea di cosa, come l'idea della Ter- ra, del Sole. Ma quando si considera un certo oggetto come rappre- sentante di un altro, l'idea che se ne ha è un'idea di segno, e quel pri- mo oggetto si dice segno. In questo modo consideriamo solitamen- te le mappe e i quadri. Il segno quindi racchiude due idee, l'idea del segno e quella della cosa che rappresenta; e la sua natura consiste nel suscitare la seconda mediante la prima.®
Segue una distinzione di tipi di segno: i TEKutopia, che sono segni certi, come la respirazione lo è della vita, e i ari(XEÌa, che so- no segni probabili, come il pallore lo è della gravidanza; poi ci sono segni congiunti con le cose, come i sintomi, o separati da esse, come i segni dell'Antico Testamento rispetto alla passione di Cristo. I signori di Port-Royal riepilogano:
1. Non si può mai concludere né dalla presenza del segno alla pre- senza della cosa significata, perché ci sono segni di cose assenti; né dalla presenza del segno all'assenza della cosa significata, poiché ci sono segni di cose presenti. Di ciò dunque bisogna giudicare in ba- se alla particolare natura del segno.
2. Benché una cosa, in uno stato, non possa essere segno di se stes- sa in quello stesso stato, poiché ogni segno esige una distinzione tra la cosa rappresentante e la cosa rappresentata, è tuttavia possibile che una cosa in un certo senso rappresenti sé in im altro stato, co- me è possibile che un uomo nella sua stanza rappresenti sé predi- cando; sicché basta la sola distinzione di stato tra la cosa figurante e la cosa figurata, cioè una stessa cosa può essere in un certo stato cosa figurante, e in un altro stato cosa figurata.
3. È possibile che una stessa cosa celi e sveli al tempo stesso un'al- tra cosa. [...] Infatti, poiché una stessa cosa può essere allo stesso
® Amauld e Nicole, Logique, ou art de penser, i, rv. 86

 tempo cosa e segno, essa può celare come cosa quello che svela co- me segno. Così la cenere calda cela il fuoco come cosa, e Io svela co- me segno [...].
4. Dato che la natura del segno consiste nel suscitare nei sensi, tra- mite l'idea della cosa figurante, quella della cosa figurata, è possi- bile concludere che finché questo effetto sussiste, cioè finché que- sta duplice idea è suscitata, il segno sussiste, anche se quella cosa fosse distrutta nella sua natura propria.®
Ultima classificazione di segni è quella che comprende i se- gni naturali e quelli convenzionali:
Tra i segni [...] ce ne sono alcuni naturali, non dipendenti dal volere dell'uomo, così un'immagine che appare in uno specchio è segno na- turale di quello che rappresenta; e altri dovuti a una istituzione e a una convenzione, sia che con la cosa figurata abbiano qualche lonta- no rapporto, sia che non ne abbiano alcuno. Così le parole sono per istituzione segni dei pensieri, e così i caratteri delle parole.
Altrove Amauld e Nicole precisano però il valore della arbi- trarietà dei segni:
C'è un grosso equivoco nella parola "arbitrario", quando si dice che la significazione delle parole è arbitraria. Infatti è vero che con- giungere una certa idea a un certo suono piuttosto che a un altro è cosa puramente arbitraria; ma le idee non sono cose arbitrarie, e di- pendenti dalla nostra fantasia, per lo meno quelle chiare e distinte. E, per mostrarlo con evidenza, pensiamo a quanto sarebbe ridicolo immaginarsi i realissimi effetti che potrebbero dipendere da cose puramente arbitrarie. Ora, quando un uomo ha, col ragionamento, concluso che l'asse di ferro passante attraverso le due mole di un mulino potrebbe girare senza far girare quella di sotto, se, essendo rotondo, esso passasse per un foro rotondo, ma anch'esso non po- trebbe girare senza far girare quella di sopra, se, essendo quadrato, fosse innestato in un foro quadrato della mola di sopra, l'effetto che egli ha raggiunto si produce infallibilmente. E di conseguenza, il suo ragionamento non è stato un raccoglier nomi secondo una conven- zione interamente dipendente dalla fantasia delle cose, dovuto alla considerazione delle idee ch'egli ne ha nello spirito, che agli uomi- ni è piaciuto contrassegnare con certi nomi.^°
» /btdem.
•0 Ibidem.
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 12. Il relativismo iberico
12.1. Sanc/zez (1552-1632)
Il problema del rapporto fra le parole e le cose, come si è vi- sto, aleggia per un secolo intero sullo sfondo del pensiero se- miotico dell'epoca che si avvia alla nascita della scienza moder- na. E se in molti filosofi, soprattutto empiristi, si tenta una defi- nizione su base induttiva del linguaggio, in seguito alla fiducia che questo abbia una relazione stretta con la realtà, è anche ve- ro che dall'altro lato si tende a radicalizzare una concezione del linguaggio come specchio del pensiero, in modo da renderlo au- tonomo dal mondo sensibile. Ma esistono anche posizioni inter- medie, come quelle che tendono ad assegnare al linguaggio una sua sfera di mediazione fra natura e cultura. Tesi, questa, molto ben chiara anche in certi precursori di Bacone, come lo spagno- lo Francisco Sanchez, autore di una ottima grammatica tardo-ri- nascimentale, il Minerva:
Nessuno potrà negare che i nomi sono come lo strumento e il segno delle cose. Ora, lo strumento di una qualsiasi attività si adatta tal- mente a quella attività, che appare inadatto a ogni altra [...] è da cre- dere che coloro che imposero per primi i nomi alle cose lo abbiano fatto a ragion veduta, e sarei portato a credere che questo abbia in- teso Aristotele dicendo che i nomi hanno significato a piacere. Co- loro infatti che pretendono che i nomi siano stati foggiati a caso so- stengono una tesi estremamente audace non meno, certo, di quelli che asserivano che l'ordinamento e la struttura dell'universo sono prodotti ciechi e fortuiti. Ben volentieri affermerei con Platone che i nomi e i verbi indicano sicuramente la natura delle cose, se egli di- cesse questo solo per la prima di tutte le lingue, come leggiamo nel
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 Genesi [...]. Ecco che in quel primo linguaggio, quale che fosse, i no- mi e le etimologie delle cose sono state ricavate dalla natura stessa. Ma se possiamo affermare questo di ogni lingua, mi sono però per- suaso che in ciascuna si può spiegare ogni denominazione.'
Come si vede, siamo, sì, a un empirismo razionalista di deri- vazione aristotelica: ma il linguaggio è intanto diventato un og- getto "strumentale", e aristotelismo e platonismo vengono alle- gramente mischiati insieme.
12.2. Pom50i (1589-1644)
John Poinsot fu un eminente filosofo dell'Università di Alcalá, in Spagna, nella quale si sviluppò - parallelamente all'Università di Salamanca e a quella di Coimbra - una vera e propria scuola teoretica, di cui solo recentemente si è riscoperta l'importanza. Qualche autore addirittura intravede in Poinsot uno degli "anel- li mancanti" nella storia della riflessione sui segni che possono riempire la strana frattura esistente tra il pensiero medievale e la moderna epistemologia secentesca.
Poinsot fu autore di un Tractatus de signis (1632) che è lar- gamente anticipatore delle idee di Locke. La sua concezione me- tafisica è in effetti assai nuova. Mentre tradizionalmente si as- seriva una divisione fra natura e cultura (o meglio tra i fenome- ni naturali e quelli sociali), che portava come conseguenza alla definizione di una separatezza fra i segni che rendono conto del- l'esperienza (di natura sociale) e quelli che esprimono l'esisten- za (naturali), Poinsot opera una riconciliazione dei due "mon- di" proprio attraverso i segni. Questo avviene negando ogni va- lore conoscitivo al problema dell'esistenza della realtà: per lui, non esiste realtà se non perché questa è affermata nell'intera- zione sociale.
È forse la prima volta che si afferma una teoria del relativi- smo cognitivo, sulla base di una teoria sociale del linguaggio. Il modo con cui Poinsot costruisce il suo relativismo è interessan- te. Parte, infatti, da una critica alla tradizione aristotelica, che aveva posto le basi della "filosofia naturale" sulle determinazio- ni dell'ens reale contrapposto all'ens rationis, e sostenendo l'ina- deguatezza della definizione aristotelica dell'ens reale come so-
' Francisco Sánchez, Minerva, pp. 2-4.
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 stanza più accidenti. Ora, quest'ultima dava luogo all'ontologia: condizioni dell'esistenza delle cose che diventano condizioni di verità. Per Poinsot, la prospettiva va mutata: l'ontologia fonda- mentale sono i modi in cui le cose appaiono, e che sono eviden- temente relative, perché dipendono dagli individui e dalle cir- costanze.
Tutto ciò è dimostrato dalla natura stessa della relazione, che è il solo modo di realtà in cui l'essenza è separata dalle sue cau- se, e dipende precisamente dall'intersoggettività. La relazione, poi,èdistintainduetipi:secundum esse,equestaèlasignifica- zione(unacosastaalpostodiun'altra),esecundum dici,ovvero la rappresentazione (una cosa viene detta in rapporto a un'altra). Come si vede, afferma Poinsot, in entrambi i casi ogni segno è un essere totalmente relativo, perché può cambiare a seconda dei parametri utilizzati.
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 13. Il razionalismo tedesco
13.1. lefèmz (1646-1716)
Direttamente in rapporto con Locke sta Gottfried Wilhelm Leibniz, sia per motivi storici (i Nuovi saggi sull'intelletto umano sono scritti in esplicita contrapposizione al Saggio del filosofo in- glese, e il terzo libro. Delle parole, ha perfino titolo analogo), sia per motivi filosofici (costituisce la risposta razionalista alle pro- poste empiriste di Locke). La problematica semiotica leibnizia- na va inquadrata entro i limiti rigorosi di tutta la sua imposta- zione teorica. Infatti, se da un lato troviamo l'esigenza raziona- listica della costruzione di una lingua universale, dall'altro tro- viamo anche quella di un'analisi empirica delle lingue storiche. Ma questa apparente ambiguità si risolve tutta nell'ambito della nuova logica di Leibniz, fondata sulla characteristica universalis, cioè sulla combinatoria. Con Leibniz, infatti, si esce dalla tradi- zionale logica semantica che doveva necessariamente compren- dere problemi di interpretazione dei segni, per entrare nella lo- gica sintattica, indipendente dalla grammatica e dal linguaggio articolato, che possono così essere fondati empiricamente. In al- tri termini: Leibniz pensa a un sistema di segni non solo per rap- presentare l'intera conoscenza, costruendo una sorta di "alfabe- to" dei pensieri umani, ma anche per generare nuova conoscen- za, in modo da ottenere un modo meccanico per la verifica del- la validità dei concetti. Il sistema di segni leibniziano prende for- ma come notazione matematica, e costituisce così la prima logi- ca intesa come sistema formale e simbolico.
Rispetto alle problematiche semiotiche moderne, Leibniz si pone la questione di definire il segno, e lo intende come "qual-
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 cosa che percepiamo in un dato momento, e che poi consideria- mo come connesso a qualcos'akro, in virtù dell'esperienza pre- cedente, nostra o di altri". Detto questo, è più semplice adden- trarsi nelle teorie del linguaggio di Leibniz, per lo più riassunte appunto nel terzo libro dei Nuovi saggi. Il primo argomento trat- tato è quello tradizionale dell'arbitrarietà del segno:
E si riconosce che non è già perché fra certi suoni articolati e certe idee v'abbia qualche connessione naturale (giacché, in tal caso, non vi sarebbe che una lingua sola tra gli uomini), sebbene per una isti- tuzione arbitraria, in virtù della quale una certa parola hi presa de- liberatamente per segno d'una certa idea.'
Ma questo principio non è accettato totalmente:
So che, nelle scuole e dovunque, si suol dire che i significati delle pa- rolesonoarbitrari{exinstituto), edèinfattiverocheessinonfuro- no affatto determinati da una necessità naturale; essi lo furono per altro, e da ragioni naturali, nelle quali entra la scelta. E forse esisto- no lingue artificiali tutte di scelta e totalmente arbitrarie, come si crede la cinese; o come quelle di Georgius Dalgamus e del fu Wilkins, vescovo di Chester Ma le lingue, che sappiamo essere state tratte da lingue note, sono di scelta e, insieme, mescolate di ciò che v'ha del- la natura e del caso nelle lingue ch'esse presuppongono.^
Leibniz propende quindi per una tripartizione dei segni a se- conda della loro relazione di motivazione con i loro significati. I nessi segnici possono essere determinati da scelta (e quindi ar- bitrarietà), da caso (e quindi arbitrarietà inconsapevole, accordo tacito) e da natura (motivazione). Tuttavia questa tripartizione non è assoluta, ha un valore invece molto relativo, perché lo stes- so Leibniz sul piano dello studio storico-comparato delle lingue sostiene che all'origine delle parole vi sono sempre delle espe- rienze sensibili, che poi in certi casi con l'uso non sarebbero più sentite come tali, e in altri lo sarebbero ancora. Il problema del- l'arbitrarietà è quindi trasferito su un altro piano, non quello del- la questione della rappresentatività delle cose da parte dei segni, ma quello della metodologia della definizione dei termini.^ La funzione metalinguistica delle definizioni permette di eliminare
' Gottfried Wilhelm Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, il, 6. ^ Ibidem.
^ Cfr. anche ivi, m, 2, 1 sgg.
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 la realtà empirica per fermarsi sul loro statuto logico. Su questa base, Leibniz nei Nuovi saggi e nella Méthode de la certitude ten- de alla fondazione di una scienza universale mediante l'articola- zione di un sistema logico-semiotico.
I campi nei quali Leibniz esamina l'uso dei segni sono sva- riati: il sistema legale, nel quale fin dai primi lavori propone l'im- piego di simboli speciali per la regolarizzazione dello ius-, la ma- tematica, in cui si sviluppa l'idea della characteristica universa- lis; e poi la crittografia, la cartografia, lo studio dei geroglifici, il linguaggio animale, l'araldica, la numismatica, l'etimologia, la linguistica comparativa, perfino i sistemi educativi.
Sempre di interesse semiotico è la distinzione funzionale dei sistemi di segni, che per Leibniz possono avere funzione cogni- tiva (dare coerenza ai modi del conoscere) oppure comunicativa (consentire l'espressione fra uomini). Dal punto di vista cogniti- vo, è importante sottolineare che, mediante la combinatoria, è possibile l'accrescimento della conoscenza, e, pertanto, si può di- re che i segni sono costitutivi dei pensieri. Attraverso i segni, in- fine, si può costruire quello che Leibniz chiama mondo possibi- le, e che è una ipotesi di realtà virtuale, purché sorretta da una logica di coerenza (uno dei mondi possibili è anche il mondo rea- le, che il filosofo prussiano considera il migliore di tutti dal pun- to di vista etico). In questo modo, si stabilisce una delle regole per giungere alla verità necessaria, che è evidentemente di ordi- ne logico e non ontologico, in quanto consiste appunto nella coe- renza delle relazioni segniche poste in essere.
13.2. Wo/f (1679-1754)
I risultati del progetto leibniziano possono già vedersi in un suo immediato seguace, Christian E von Wolff, che tenta di da- re una sistemazione organica a tutti i campi teorici analizzati dal maestro. Nell'Onio/ogia, Wolff dichiara espressamente che ogni procedimento conoscitivo può essere considerato processo se- gnico, e dà una stringata definizione del segno in termini logici, qualificandolo come "ente da cui si inferisce la presenza o l'esi- stenza passata o futura di un altro ente"."* Nella stessa definizio- ne è implicita anche una classificazione dei vari tipi di segno: "il segnodimostrativo indicaundesignatopresente,quelloprogno-
Christian E von Wolff, Ontologie, 952.
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 stico indica un designato futuro, quello commemorativo (o me- moriale) indica un designato passato".^
Seguendo Leibniz, Wolff pensa a una sistematica dei segni seguendo questo procedimento: in primo luogo va stabilito un inventario di verità preliminari, e in seguito si deve costituire un linguaggio ideale di segni {disquisitio de loquela), che superi le difficoltà e ambiguità del linguaggio comune. In questo senso il sistema di segni deve provvedere: 1 ) ad assegnare un segno a ogni concetto; 2) a correlare le distinzioni fra segni con le distinzioni fra concetti; 3) a correlare le relazioni fra segni con le relazioni fra oggetti. I segni si riferiscono alle cose, dunque, soltanto in se- conda battuta e indirettamente, dopo essere passati per la rela- zione con i concetti. Il modello di un simile linguaggio ideale è, come sempre, l'algebra, anche se l'inventariazione dei concetti appartiene alla tradizione della retorica antica.
5 Ivi, 953. 94

 14. Il secondo empirismo inglese
\4.l. Berkeley (1685-1753)
L'opera di George Berkeley occupa un posto fondamentale nella storia del pensiero semiotico, innanzitutto per l'ossessività l'on la quale il filosofo inglese ha trattato il problema del segno in tutte le sue opere, àaW'Alcifrone, fondamentale perle teorie del 1inguaggio,alTrattatosuiprìncipi dellaconoscenza umana, aiSag- y,i per una nuova teoria della visione, al Linguaggio della visione, lino addirittura al Siris, curioso saggio di filosofia iatrochimica scritto allo scopo di illustrare le virtù terapeutiche dell'acqua di latrame. Considerato da molti semplicemente un critico della teoria lockiana delle idee generali astratte, oggi Berkeley è og- getto di un nuovo interesse dal punto di vista semiotico.' La con- I e/.ione della semiotica di Berkeley è in effetti assai vasta. Tutto l'universo è inteso come un sistema simbolico, comprese le no- stre percezioni che costituiscono un linguaggio per mezzo del liliale Dio (1"'Autore della Natura") ci presenta il mondo. Tutto il sistema semiotico è fondato e giustificato dalla visione teologi- ca. Meli'Alcifrone troviamo la più ottimistica e sicura dichiara- zione di fede nella semiotica:
Si troverà che tutte le scienze, per quello che esse sono di universa- le e dimostrabile da parte della ragione umana, si fondano su dei se-
' Si pensi invece che fino a pochi anni or sono le teorie di Berkeley erano un po' misconosciute. Rosiello {Linguistica..., cit.) lo liquida brevemente. Molti ac- i i-imi, ma solo accenni, sono contenuti in Umberto Eco, Il segno, Isedi, Milano 1972. Qualcosa di più in Tomás Mzildonado, Avanguardia e razionalità, Einaudi,
l'orino 1974.
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 gni che sono i loro oggetti immediati [...]. Io tendo a pensare che la dottrina dei segni è un punto di grande importanza e di espressio- ne generale e che, se la si studiasse convenientemente, getterebbe una non piccola luce sulle cose.^
L'atto di fede così espresso non può essere inteso però se lo si astrae da tutto il sistema di pensiero berkeleyano. In realtà, es- so dipende strettamente dall'ossessività con cui l'inventore del- T'immaterialismo" confuta la teoria delle idee generali astratte di Locke, come appare chiaramente dagli Appunti che egli scri- veva tra il 1706 e il 1708. Mentre per Locke le parole sono segni delle idee, e queste sono a loro volta segni delle cose, Berkeley ri- fiuta l'esistenza del secondo sistema, rivendicando ai segni del linguaggio la capacità di essere strumenti di conoscenza e ac- cordando a essi, e non alle idee, la caratteristica della generalità, che non dipende da una astrazione ma dal fatto che ogni parti- colare può essere assunto operativamente come rappresentante di altri particolari. La nozione di segno serve quindi a Berkeley per confutare le idee generali di Locke, e ridefinime la funzione e lo statuto, quello di idee particolari assunte a stare per altre idee particolari della stessa sorta:
EUFRANORE: Le parole, si è d'accordo, sono dei segni; forse non è ma- ledunqueesaminarel'impiegodialtrisegnialfinediconoscerequel- lo delle parole. Per esempio, uno impiega dei gettoni [...] soltanto come segni che si sostituiscono alla moneta come le parole alle idee. Ora ditemi, Alcifrone, è necessario formare un'idea della somma e del valore precisi che rappresenta ciascun gettone ogni volta che uno se ne serve nel corso della giornata?
ALCIFRONE: Assolutamente no; basta che i giocatori si accordino sui loro valori rispettivi e che alla fine li rimpiazzino coi loro valori.
E: E quando uno fa una somma, dove le cifre rappresentano le ster- line, gli scellini, i pence, pensate che sia necessario, durante tutto lo svolgersi dell'operazione, di formare a ogni passo delle idee di ster- line, scellini e pence?
A: Non basterà che alla fine tali cifre guidino i nostri atti in confor- mità alle cose.
E: Da dove, allora, risulta che le parole possono non essere sprovvi- ste di senso anche se, ogni volta che servono, non risvegliano nei no- stri intelletti le idee che significano? Perché basta che abbiamo il potere di sostituire le cose e le idee ai loro segni quando è il caso. Ne risulta anche, allora, che si possono impiegare le parole altri-
2 George Berkeley, Alcyphrone, vii, 13. 96

 menti che per segnare e suggerire le idee distinte, in particolare per influenzare la nostra condotta e le nostre azioni [...]. Le parole che designano un principio attivo, un'anima, uno spirito, non rappre- sentano delle idee, nel senso strettamente proprio del termine. Per- ciò non sono sprovviste di significazione; perché io comprendo il senso del termine "io" o "me", io so che cosa vogliono dire. Questo non è un'idea, né qualcosa di simile a un'idea, è questo che pensa, questo che vuole, questo che sceglie le idee e opera su di esse. Cer- to bisogna convenire che abbiamo qualche nozione, e che com- prendiamo e conosciamo il senso dei termini "me", "volontà", "me- moria", "amore", "odio", e di altri ancora; comunque, per dirla pre- cisamente, queste parole non suggeriscono delle idee distinte corri- spondenti.
A: Che cosa ne vorreste concludere?
E: Ciò che è stato già concluso: che le parole possono avere un sen- so, anche se non rappresentano delle idee. Mi pare che sia stata la presunzione del contrario che ha generato la dottrina delle idee astratte.^
Il senso concreto delle meditazioni sul linguaggio (che ser- vono a eliminare la nozione delle idee generali astratte) è ancor meglio chiarito dalla introduzione al Trattato sui principi della co- iKiscenza umana-.
La prova addotta per dimostrare che non abbiamo nessuna ragione di pensare che i bruti abbiano idee generali consiste nel fatto che non osserviamo in loro l'uso di parole o di altri segni generali. Dal che seguirebbe che gli uomini, i quali si servono del linguaggio, so- no capaci di astrarre ossia di generalizzare le loro idee. Che questo sia quanto l'autore vuol dimostrare, appare anche dalla risposta al problema che egli pone in un altro punto. "Dato che tutte le cose che esistono sono altrettanti particolari, come mai arriviamo a termini generali?" E la risposta che dà è questa: "Le parole diventano gene- rali perché vengono usate come segni di idee generali" (Locke, Sag- gio sulVintelligenza umana, Libro ni, 3.6). A questo non posso con- sentire perché credo che una parola diventi generale non perché ven- ga usata come segno d'una idea generale astratta, ma perché serve a designare diverse idee particolari. Quando ad esempio si afferma: "la variazione del movimento è proporzionale alla forza impressa", ovvero "tutto ciò che ha estensione è divisibile", queste proposizio- ni vanno intese per il movimento e per l'estensione in generale. Ma non consegue da ciò che quelle parole suggeriscono al mio pensie- ro l'idea del movimento senza un corpo che si muova e senza una
' Ivi, VII, 5.
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 cupa molto del problema del segno, tuttavia il suo approfondi- mento della teoria del segno come rappresentante di idee parti- colari è di un certo interesse, anche perché accenna a un criterio di strutturazione del sistema dei significati che assomiglia per qualche aspetto alle nozioni di campo associativo di Saussure e Bally:
Quando abbiamo trovato una somiglianza fra diversi oggetti che ci capitano spesso innanzi, diamo a tutti lo stesso nome, qualunque siano le differenze che possiamo osservare nei gradi della loro quan- tità e qualità, e qualunque altra differenza possa apparire fra loro. Acquistata questa abitudine, nell'udire quel nome l'idea di uno di quegli oggetti si risveglia, e fa sì che l'immaginazione la concepisca in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni. Ma siccome la stessa parola fu probabilmente usata di frequente per altri indivi- dui, differenti sotto molti aspetti dall'idea presente immediatamente alla mente, la parola, non essendo capace di far rivivere l'idea di tutti questi individui, si limita a toccar l'anima, se così posso espri- mermi, e fa rivivere l'abitudine che abbiamo contratto nell'esami- narli. Essi non sono realmente, di fatto, presenti alla mente, ma so- lo in potenza; né li facciamo sorgere tutti distintamente nell'im- maginazione, ma ci teniamo pronti a prendere in considerazione l'uno e l'altro di essi, secondo che ci spinga qualche intento o ne- cessità presente. La parola ci sveglia un'idea individuale, e insieme con essa una certa abitudine; e quest'abitudine produce ogni altra idea individuale, secondo che l'occasione richiede. Ma, poiché la produzione di tutte le idee, alle quali il nome può essere applicato, è cosa impossibile nella maggior parte dei casi, noi abbreviamo que- sto lavoro limitandolo a una considerazione più ristretta, senza che sorgano da questa abbreviazione troppi inconvenienti per i nostri
Hume riprende quindi un famoso esempio di Berkeley, quel- lo del triangolo, per dimostrare la sua teoria sull'uso del lin- guaggio:
Se dicendo la parola "triangolo" ci formiamo, quale idea corrispon- dente, quella di im particolare triangolo equilatero, e, in seguito, af- fermiamo che i tre angoli di un triangolo sono uguali fra loro, le al- tre idee individuali di scaleno e di isoscele, che avevamo trascurato, farebbero ressa immediatamente su di noi, per farci cogliere la fal- sità di quella proposizione, per quanto vera in relazione all'idea che ci eravamo formata [...]. L'abitudine, anzi, arriva a essere perfetta co-
6 David Hume, Treatise Concerning Human Understanding, VII. 100
ragionamenti.^

 sì che la stessa idea può essere annessa a molte parole differenti ed entrare in ragionamenti diversi, senza pericolo di sbagliare per que- sto. Ad esempio, l'idea di un triangolo equilatero di un pollice d'al- tezza può servirci parlando d'una figura, d'una figura rettilinea, d'u- na figura regolare, d'un triangolo, d'un triangolo equilatero: tutti que- sti termini sono accompagnati, in questo caso, dalla stessa idea; e siccome siamo soliti usarli con maggiore o minore estensione, ecci- tano abiti mentali a loro particolari, tenendo in questo modo la men- te sempre pronta e attenta, affinché non si arrivi a nessuna conclu- sione contraria aUe idee comunemente in essi contenute.
Prima che l'abitudine sia diventata del tutto perfetta, può darsi che la mente si contenti di formarsi l'idea di un solo individuo, e ne vo- glia percorrere parecchi, per darsi ragione del significato del termi- ne generale e dell'estensione di quella collezione che intende espri- mere con esso. Così, per fissare il significato della parola "figura", possiamo far passare nella nostra mente le idee di circoli, quadrati, parallelogrammi, triangoli differenti per grandezza e proporzione, e non arrestarci mai sulla singola immagine o idea.'
Va anche detto, tuttavia, che le idee di Hume vengono ripre- se dal pili vicino dei suoi allievi, Thomas Reid,® che le esprime per l'appunto in termini semiotici. La ragione dell'assenza di una vera e propria teoria esplicita dei segni in Hume è stata ricon- dotta al fatto che, mentre in precedenza la tradizione filosofica distingueva fra segni e cause, Hume elabora una teoria della cau- salità che è una semiotica, e in particolare una semiotica del se- gno indicativo naturale. Questa teoria può essere riassunta in cin- que punti:
1. Una causa non è piiì il criterio per determinare l'esistenza delle cose, ma è solo uno strumento intellettuale per conoscerle.
2. In questo senso, una causa è esattamente uguale al segno indicativo naturale, dal momento che gli elementi caratteristici delle cause sono la contiguità spaziotemporale, la successione temporale, la congiunzione costante.
3. La riprova è che l'inferenza causale di Hume è un'inferen- za per mezzo di segni, ovvero una inferenza debole, senza dimo- strazione necessaria ma solo probabile.
' Ibidem.
® Cfr. Jonathan Bennati, Locke, Berkeley, Hume, Clarendon Press, Oxford 1971.
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 4. Pertanto, non può dar luogo a un giudizio razionale, ma solo fondare dei principi di associazione nell'immaginazione umana, che danno luogo a sistemi di attese, ad abiti mentali.
5. L'unica forma di certezza è pertanto una certezza "debo- le", la credenza nel fatto che certi fenomeni si ripeteranno a par- tire dalla loro notazione passata.
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 15. Gli enciclopedisti
15.1. Rousseau (1712-1778)
Il contributo di Jean-Jacques Rousseau alla storia della se- miotica può sembrare marginale, essendo sostanzialmente limi- tato all'Essai sur l'origine des langues (1764), che è un trattatello di carattere escatologico, più che storico, dedicato al tema del- l'origine del linguaggio umano. Tuttavia, le tesi che Rousseau atì esprime sono del più grande interesse non solo per una storia del- la semiotica, ma anche per il ritrovamento di alcuni problemi tut- tora fondamentali per la disciplina in senso moderno.
Rousseau, nel suo pessimismo antiumanistico, è convinto che il linguaggio sia una costruzione innaturale, non necessaria alla specie umana in quanto tale, e contrasta in modo radicale sia l'ipotesi razionalista della coesistenza di uomo e linguaggio sia quella spiritualista del linguaggio come dono divino all'atto della creazione. Il linguaggio articolato è invece secondo lui il frutto di una evoluzione - peraltro negativa, una degenerazione - della specie stessa. La riprova è che molti animali riescono a re- stare autosufficienti anche senza linguaggio. Il punto è allora che si può stabilire una serie di gradi evolutivi del genere uma- no partendo da un momento inaugurale privo di linguaggio, pas- sando per un momento in cui nasce la necessità dello scambio comunicativo fra individui che si associano e ai quali è suffi- ciente un sistema di suoni inarticolati per esprimere passioni, per giungere a un altro momento in cui è sufficiente la nomina- zione degli oggetti e, arrivando all'epoca moderna, in cui si pos- siedono concetti astratti, sintassi e altre strutture regolative del sistema linguistico.
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 Questa ipotesi - genetica più che storica - sull'origine fun- zionale delle lingue verrà accettata da molti altri autori (fra i pri- mi, da Condillac). Ma Rousseau la dimostra in modo diverso e originale rispetto a tutti gli altri attraverso il collegamento fra lin- guaggio umano e musica. Rousseau afferma infatti che nella mu- sica i suoni non vengono affatto presi in sé e per sé, ma collega- ti a significati: sono dunque segni che rinviano a un contenuto, che è però di natura emotiva e passionale:
I suoni di una melodia non ci colpiscono semplicemente come suo- ni, ma come segni delle nostre affezioni dell'anima, dei nostri sen- timenti. È per questa ragione che eccitano in noi le emozioni che es- saesprime,elacuiimmaginenoivi riconosciamo.'
Nella musica, insomma, vi è una relazione fra intonazione e ritmo da una parte e significati passionali dall'altra. Ma questa relazione esiste anche nel linguaggio, o meglio nel discorso in at- to, che infatti costituisce una delle sue dimensioni fondamenta- li, purtroppo trascurate in favore di quella eminentemente co- gnitiva. Il parallelo fra musica e linguaggio, peraltro, prosegue con altre considerazioni di natura sociosemiotica. Rousseau no- ta, infatti, che differenti tradizioni, che dipendono magari perfi- no dalle diverse condizioni percettive, danno luogo a sistemi espressivi musicali del tutto variabili. E lo stesso accade pun- tualmente anche per le lingue.
Nel libro più famoso di Rousseau, Il contratto sociale, le ri- flessioni precedenti danno luogo a conclusioni ancor più profon- de dal punto di vista sociosemiotico. Il filosofo ginevrino, infat- ti, utilizza gli esempi della musica e delle lingue come prova del- l'esistenza di un contratto implicito fra gli uomini per regolare la loro esistenza obbligata alla collettività. Questo contratto si evol- ve (degenera) sempre di più con necessità di esplicitazione, e per- ciò si razionalizza, con la conseguente pèrdita di espressività, ov- vero con la progressiva soppressione della comunicazione emo- tiva. Il che porterà - secondo l'autore - all'inevitabile avvento di una società totalmente raffreddata nei sentimenti, e proiettata verso la tirannide.
' Jean-Jacques Rousseau, Essai sur l'origine des langues, Introduzione. 104

 15.2. Dînerai (1713-1784)
Denis Diderot è senza dubbio uno dei grandi pionieri dello studio moderno del linguaggio. ìlEncyclopédie, massima opera del secolo dei lumi curata insieme a D'Alembert, è essa stessa - col suo nuovissimo sistema di classificazione del sapere - un immenso lavoro semiotico: infatti i termini previsti nel lemma- rio, il trattamento delle voci e le loro interconnessioni definisco- no di per sé la cultura come un deposito di relazioni fondamen- talmente segniche. D'altra parte Diderot - sempre neW!Ency- clopédie - ha anche elaborato un sistema classificatorio della co- noscenza umana (siamo agli albori della classificazione delle scienze, che impegna tutta l'epistemologia moderna) nel quale la comunicazione e la significazione giocano un ruolo decisivo pro- prio dal punto di vista cognitivo. Dopo aver fatto dipendere la Teoria (scienza dell'uomo per eccellenza) dal combinato di Me- moria, Ragione e Immaginazione, il filosofo francese distingue fra Etica e Logica, a cui affida il compito di dare coerenza all'in- tendimento umano, e da cui dipendono delle tecniche: l'Arte di pensare, l'Arte di ricordare e, appunto, l'Arte di comunicare, che consiste essenzialmente in una Grammatica Generale. Al suo in- temo, ritroviamo dei sottosistemi, che sono tutti di natura se- miotica: i segni (gesti e caratteri), i tratti prosodici (segmentali e sovrasegmentali), i costmtti (figure dello stile), la sintassi (ordi- ne del discorso e usi linguistici) e infine gli aspetti metalingui- stici (filologia, critica, pedagogia, ovvero le discipline che parla- no dei vari linguaggi).
Ma, al di là della costruzione sistematica di una scienza del- l'uomo in cui la semiotica occupa un posto tanto rilevante, Di- derot si è occupato singolarmente di moltissimi aspetti delle scien- ze del linguaggio. In primo luogo ritroviamo una tipologia dei se- gni: Diderot prende in esame infatti non solo le parole, ma anche isegnivisivi,auditiviepersinotattili{Lettresurlesaveugles, 1749) e, anzi, a proposito delle parole afferma che queste, in fondo, so- no le sole, insieme con le immagini, a cogliere la dinamica co- stante dei fenomeni del mondo. Tuttavia, le parole denotano so- lo approssimativamente la realtà, e pertanto la loro vera natura ò quella di servire da stmmento non tanto di conoscenza, quan- to di decodifica del reale in un quadro di intersoggettività fra in- dividui. È a partire dall'uso sociale dei segni che Diderot spiega l'aspetto convenzionale dei segni medesimi.
Ma qui sta anche uno dei contributi pivi originali di Diderot:
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 la convenzione sociale, proprio perché utilitaristica e metafìsi- camente debole, non deve far sì che l'uso dei segni sia normati- vo, ma che anzi faccia nascere un impulso alla creatività lingui- stica, all'innovazione comunicativa costante da parte degli uo- mini. In altri termini Diderot parte dall'idea di linguaggio come sistema regolato di procedure comunicative, ma lo fa per esalta- re la natura inventiva dell'arte di comunicare: quella che tra- sforma l'uomo in uomo di genio (Réfutation d'Helvétius, 1774). Tutto ciò si inserisce con coerenza in una fìlosofìa generale del- la vita, che secondo Diderot è tutta impostata sull'esistenza di strutture, norme, sistemi, ma solo per far vedere l'invenzione, a ogni livello, come uscita dal sistema, come produzione dinami- ca del mutamento.
Sono di particolare modernità anche le riflessioni diretta- mente svolte sul linguaggio verbale. Per esempio, si può vedere in Diderot la nascita di una antropologia linguistica ben prima di Humboldt. A suo parere, infatti, le lingue naturali costituisco- no il ritratto più attendibile del popolo che le parla, e addirittu- ra sono la fonte delle idee dei parlanti, ciò che costituisce la pri- ma apparizione del concetto secondo il quale il linguaggio coin- cide con il pensiero. Tutto questo accade perché nella concezio- ne di Diderot il sistema semantico (l'organizzazione dei signifi- cati) non cambia col mutare delle culture. Ma le culture differi- scono per il diverso uso dei significanti, del sistema dell'espres- sione, che rappresenta così la varietà dei punti di vista dei diver- si gruppi sociali, determinata dalla diversità dei modi di sentire e memorizzare le sensazioni. Ma anche questa concezione rela- tivistica dell'espressione è in accordo con il criterio generale del- la libertà inventiva che esiste all'interno di sistemi generali e pro- cedurali quali sono le lingue, e di conseguenza le culture.^
15.3. Condilkc (1715-1780)
Con Condillac abbiamo il più chiaro esempio di una teoria empirista dei segni concepita nell'ambito del secolo dei lumi. "Lin- guistica illuminista" l'ha chiamata Luigi Rosiello,^ dando a que-
^ Cfr. Sylvain Auroux, La sémiotique des Encyclopédistes, Payot, Paris 1979.
^Rosiello,Linguistica..., cit.MapiùdirecentevedisuCondillacancheFran- cesco Marsciani, Condillac, in Sebeok (a cura di), Encyclopedic Dictionary of Se- miotics, cit.
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 sto termine non il tradizionale valore storico, ma quello di una certa militanza culturale. Per Condillac la riflessione sul lin- guaggio è un punto fondamentale di tutta la riflessione sulla co- noscenza, perché la seconda è basata esattamente sul potere ana- litico del primo:
Il nostro oggetto principale, che non dobbiamo mai perdere di vi- sta, è lo studio dello spirito umano - e ciò allo scopo non già di sco- prirne la natura, ma di conoscerne le operazioni, di osservare con quali arti si combinano, e in quale maniera dobbiamo compierle per giungere al massimo grado di intelligenza di cui siamo capaci. Oc- corre pertanto risalire alle origini delle nostre idee, pome in luce la genesi, seguirle fino ai limiti che la natura ha prescrìtto a esse, e fis- sare in tal modo l'estensione e i confini della nostra conoscenza, rin- novando la comprensione dell'intelletto umano.
Noi possiamo condurre a termine queste indagini soltanto median- te le osservazioni; e possiamo aspirare soltanto a scoprire una pri- ma esperienza che nessuno possa mettere in dubbio, e che sia suf- ficiente a scoprire tutte le altre. Essa deve dimostrarci in maniera sensibile qual è la fonte della nostra conoscenza, quali ne sono i ma- teriali, in base a quale principio sono organizzati, quali strumenti vengono impiegati a questo scopo, e qual è la maniera in cui dob- biamo servircene. Mi sembra di aver trovato la soluzione di tutti que- sti problemi nella connessione deUe idee con i segni e nella loro con- nessione reciproca.^
Nel linguaggio Condillac vede quindi un metodo, l'analisi, che tiiventa fondamentale per spiegare la conoscenza, un metodo da- toci dalla natura ("le nostre facoltà determinate dai nostri biso- uni") per discemere gli elementi dei sensi, attraverso i quali la co- noscenza stessa passa. Il problema del linguaggio, d'altra parte, transita attraverso il problema dell'origine dei segni, non tanto por un bisogno di sapere la loro genesi, quanto la loro struttura:
Le idee sono connesse con i segni, e soltanto per questo mezzo [...] si connettono tra loro. Pertanto, dopo aver determinato i materiali delle nostre conoscenze, la distinzione dell'anima e del corpo, e la funzione delle sensazioni, sono stato costretto [...] non soltanto a se- guire nei loro progressi le operazioni dell'anima, ma anche a ricer- care in quale maniera abbiamo acquisito l'abitudine di usare le va- rie specie di segni, e quale uso dobbiamo fame.
ÉtienneBonnotdeCondillac,Essaisurl'originedesconnaissances humai- nes, Introduzione,
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 Per realizzare questo duplice programma si è dovuto partire da lon- tano il più possibile. Da un lato si è dovuto risalire alla percezione, poiché essa costituisce la prima operazione che si può osservare nel- l'anima; e si è mostrato in quale modo, e con quale ordine, essa pro- duce tutte le altre operazioni di cui possiamo accertare l'esistenza. Dall'altro lato si è dovuto risalire al linguaggio di azione, per stabi- lire come esso abbia prodotto le varie arti che esprimono i nostri pensieri; l'arte dei gesti, la danza, la parola, la declamazione, l'arte di accompagnarla col canto, l'arte della pantomima, la musica, la poesia, l'eloquenza, la scrittura e i differenti caratteri delle lingue. Questa storia del linguaggio stabilirà le circostanze in cui i segni so- no stati immaginati, rivelandone il vero senso.^
A proposito dei segni, Condillac riprende la concezione di Berkeley che essi sono rappresentativi di molte idee particolari (Essai, 1, rv, I, 69), ma la approfondisce: ogni segno è capace di significare una classe, anche se le classi non dipendono dalla na- tura, ma dal nostro modo di concepire:
Tutte le idee generali sono dunque insieme idee astratte; e voi vede- te che noi non le formiamo se non prendendo in ciascuna idea in- dividuale ciò che è comune a tutte. Ma che cos'è in fondo se non la realtà che una idea generale e astratta ha nel nostro spirito? Non è che un nome; o se è qualche altra cosa, cessa necessariamente di es- sere astratta e generale.*
Condillac riconosce (per giungere a quella storia della for- mazione dei segni necessaria a capirne il meccanismo) tre tipi di segni:
1)1 segni accidentali, o gli oggetti che certe circostanze particolari hanno legato con qualcuna delle nostre idee, cosicché sono propri a risvegliarle; 2) i segni naturali, o i gridi che la natura ha stabilito per i sentimenti di gioia, d'odio, di dolore eccetera; 3) i segni istitu- zionali, o quelli che noi stessi abbiamo scelto, e che non hanno che un rapporto con le nostre idee.^
Ma essi gli servono intanto per stabilire non piii un rapporto ontologico o logico (con la cosa, con il concetto), bensì psicolo- gico con il comportamento della nostra sensibilità; inoltre i se-
' Ibidem.
^ Étienne Bonnot de Condillac, Logique, ii, 5. ^ Id., Essai..., cit., p. 19.
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 gni naturali costituiscono per Condillac la prima forma di lin- guaggio umano, il langage d'action, che è una sorta di codice na- turale innato, sul modello del quale si è organizzato il linguaggio articolato, arbitrario e istituzionale. Ma questo impianto "stori- co" diventa matrice di una considerazione che potremmo chia- mare "sincronica", e che è assai importante. Senza dirlo esplici- tamente, Condillac riconosce al linguaggio tre funzioni: una co- noscitiva o referenziale, accordata al linguaggio articolato (che comprende quello ordinario e quello analitico) proprio per le dif- ferenze mostrate rispetto a quello d'azione; una espressiva, o emo- tiva, che è rivelata dal fatto che il linguaggio articolato è model- lato su quello d'azione (e questa funzione è realizzata nella poe- sia); infine una funzione che Rosiello chiama direttiva, e che po- tremmo parzialmente identificare con quella conativa di Jakob- son, ma che più precisamente è una funzione persuasivo-retori- ca, come dimostra il fatto che essa si realizza nell'eloquenza: que- sta funzione è determinata dal manifestarsi di una mescolanza dei caratteri del linguaggio articolato e di quello d'azione. Le ri- llessioni di Condillac su questi aspetti dei segni possono essere l itrovate, per quanto riguarda la funzione referenziale, nel sag- gio La langue des calculs, del 1798: "Ogni lingua è un metodo ana- litico, ogni metodo analitico è una lingua", vi afferma Condillac. Mentre la concezione della funzione direttiva è espressa nel Cours d'études pour l'éducation du Prince de Parme, del 1775:
Lo stile poetico e il linguaggio ordinario, legandosi l'uno all'altro, la- scerebbero fra di loro uno spazio mediano, dove l'eloquenza pren- de la sua origine, e da dove essa si distacca per avvicinarsi tanto al tono della poesia, quanto a quello della conversazione.®
' Id., Cours d'études pour l'éducation du Prince de Parme, li, 85.
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16. Il tardo Illuminismo
 16.1. Ultimi illuministi francesi: Maupertuis (1698-1759) e Turgot (1727-1781)
Di stampo sensista è la posizione di Maupertuis, contenuta nel breve saggio Riflessioni filosofiche sull'origine delle lingue e il significato delle parole, del 1748. Scienziato, Maupertuis vede nel linguaggio, come Condillac, un metodo di analisi delle percezio- ni. Se si dovesse risalire alla sua origine, dovremmo constatare che esso nasce per l'esigenza di classificarle: gli uomini produ- cono dei segni che sono capaci di rubricarle per funzioni mne- moniche. L'originalità di Maupertuis sta però nell'asserzione che i primi segni corrispondono a degli enunciati, a delle frasi inte- re, e che solo una ulteriore analisi, dovuta a principi di econo- mia, ha fatto sì che essi fossero scomposti in quelle che oggi so- no le parti del discorso e i nomi generali:
I segni per mezzo dei quali gli uomini hanno designato le loro prime idee hanno tanta influenza su tutte le nostre conoscenze, che io cre- do che ricerche sull'origine delle lingue e sulla maniera in cui queste si sono formate meritano pari attenzione e possano essere, nello stu- dio della filosofia, non meno utili d'altri metodi, che erigono spesso sistemi su parole il cui senso non è stato mai approfondito.
È vero che tutte le lingue, tranne quelle che sembrano non essere che traduzioni di altre, furono semplici nei loro inizi. Esse non devono la loro origine se non a uomini semplici e rozzi, i quali non coniarono dapprima che i pochi segni di cui avevano bisogno per esprimere le loro prime idee. Ma ben presto le idee si combinarono fra loro e si moltiplicarono; e furono moltiplicate le parole, spesso anche al di là
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 del numero delle idee. [...] Ricevendo queste percezioni, vedrei subi- to che sono diverse, cercherei di distinguerle; e non possedendo alcun linguaggio costituito, le distinguerei con qualche segno, e potrei con- tentarmi delle espressioni A e B per le stesse cose che oggi intendo quando dico "vedo un albero" e "vedo un cavallo". Ricevendo in se- guito nuove percezioni, potrei designarle in questo modo [...].
Ma fra questo grande numero di percezioni, ciascuna avente il suo segno, avrei ben presto difficoltà a distinguere a quale segno ciascu- na percezione appartiene, e dovrei ricorrere dunque a un altro lin- guaggio. Noterei che certe percezioni hanno qualcosa di simile, e una stessa maniera di operare su di me, che potrei comprendere sotto uno stesso segno. Per esempio, nelle percezioni di cui sopra, osser- verei che ciascuna delle prime due ha certi caratteri che sono gli stes- si e che potrei designare con un segno comune: è così che cambierei le mie prime espressioni semplici A e B in altre, CD e CE, che non differirebbero dalle prime se non per questa nuova convenzione.'
Il sia pur breve scritto di Maupertuis suscitò un certo dibatti- to, soprattutto riguardo alla scomposizione dei primi segni in se- gni più funzionali, e questo è dimostrato da un testo di Boindin,^ e da uno di Turgot,^ e dalla risposta dello stesso Maupertuis,"' che più tardi, nel 1755, ebbe a riprendere in mano il problema del lin- guaggio, approfondendo il tema della sua origine funzionale, e ri- chiamandosi esplicitamente al Condillac del langage d'action-.
Se fosse possibile risalire a tempi in cui gli uomini non avevano lin- guaggio di sorta, si potrebbe pensare che essi cercassero dapprima di esprimere i loro bisogni più pressanti; e qualche gesto e grido a ciò non bastava. Questa fu la prima lingua dell'uomo, ed è ancora quella in cui tutti i popoli si intendono, ma in cui non possono ren- dere che un piccolissimo numero di idee. Non fu se non molto tem- po dopo che si pensò ad altre maniere di esprimersi. Questo primo linguaggio poteva essere ampliato aggiungendo ai gesti e alle grida naturali grida e gesti convenzionali che supplissero ciò che i primi non potevano esprimere.^
' Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Réflexions philosophiques sur l'origi- ne des langues et le signifié des mots, i.
^ Nicolas Boindin, Observations sur les réflexions philosophiques sur l'origi- ne des langues et le signifié des mots.
^ Anne-Robert-Jacques Turgot, Observations critiques sur les observations phi- losophiques de Maupertuis.
'' Maupertuis, Réponse aux observations de Boindin.
' Id., Dissertation sur les divers moyens dont les hommes se sont servis pour l'xprimer leurs idées, Introduzione.
ili

 16.2. Gli "idéologues": Cabanis (1757-1808), Degérando (1772-1842), Maine de Biran (1766-1824), Destutt de Tracy (1754-1836)
Il periodo immediatamente postilluminista, quello dei cosid- detti idéologues (contrapposti ai philosophes precedenti), è rela- tivamente poco conosciuto. Eppure, anche dal punto di Aàsta del- le teorie semiotiche, è molto interessante proprio per l'apporto che a temi di tradizionale impianto filosofico vengono a dare dei veri empiristi: medici, matematici, scienziati di ogni genere. E l'interesse che essi hanno sentito per il problema dei segni è di- mostrato addirittura da un concorso per un saggio sull'influen- za dei segni sulla nostra facoltà di pensare, che si concluse con la premiazione di Joseph Degérando (Des signes et de l'art de pen- ser considerés dans leurs rapports mutuels) e la segnalazione di Pierre Prevost (Des signes envisagés relativement à leur influence sur la formation des sciences). Al medesimo concorso erano di- rette anche le Notes sur l'influence des signes di Maine de Biran, mai terminate. Il concorso era articolato in cinque quesiti: se la trasformazione delle sensazioni in idee esigesse o meno l'uso dei segni; se la perfezione del pensiero dipendesse dalla perfezione dell'arte dei segni; se le verità universali dipendessero dalla per- fezione dei segni che le indicano; se le dispute dipendessero dal- l'imperfezione dei segni; se una riforma dell'arte dei segni potes- se rendere tutte le scienze passibili di dimostrazione, È evidente che le risposte al primo interrogativo sono quelle più importan- ti, perché ne discendono tutte le altre. E che la questione fosse centrale lo testimonia la varietà delle soluzioni dibattute comu- nemente all'epoca. Per esempio, il più materialista degli idéolo- gues, Pierre-Jean-Georges Cabanis (medico e filosofo), seguace
soprattutto di Diderot, d'Holbach e La Mettrie, sosteneva che le sensazioni non differiscono tra loro, e che solo perché vi vengo- no associati dei segni (che le rappresentano con i loro legami) es- se vengono distinte; di più: ogni sistema metodologico che serva a fissare e ordinare le sensazioni è senza dubbio un linguaggio:
I suoni prodotti dalla laringe dell'uomo derivano dalla sua struttu- ra física: le grida emesse per esprimere gioia, dolore, vari appetiti sono spontanee come i primi movimenti muscolari: esse sono de- terminate da un vago istinto. La cosa è diversa per quel che riguar- da la parola. Parlare è un'arte che si impara lentamente, attribuen- do a ogni articolazione un senso convenuto.^
6 Pierre-Jean-Georges Cabanis, Rapports entre le physique et le moral de l'hom- me, II, Memoria, vi.
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 Maine de Biran propone invece soluzioni che salvano anco- ra la suddivisione fra attività fisiche e attività spirituali,' cosic- ché egli da un lato si colloca nella direzione che sarà matrice del- lo spiritualismo, mentre Cabanis è sulla linea del positivismo. La volontà di Biran di salvare T'activité de lame" è riscontrabile in diversi passi delle sue opere. Nelle Notes sur l'influence des signes egli sostiene che, se l'animo non influenza il pensiero altro che con i segni convenzionali, allora l'attività non è essenziale all'a- nimo. Però l'origine dei segni dimostra che essi non esercitano una legislazione sullo spirito: allora è necessario osservare se la genesi dei segni non presupponga certe condizioni dipendenti dalla natura dello spirito:
Bisognerà in primo luogo esaminare se i segni stessi [...] non pre- suppongono certe condizioni nell'oggetto, considerato unicamente sotto rapporti astratti e indipendenti da ogni altro punto di vista che non sia quello dello spirito. La costanza e l'uniformità, sia nella sua natura sia nella maniera in cui esso è percepito da ogni intelletto: queste condizioni escludono tutto ciò che dipende dalla sensibilità umana.®
La stessa opinione Biran sostiene nella Nota, polemizzando con Maupertuis e Turgot:
"Ci sono lingue - dice Maupertuis - specialmente lingue di popoli molto lontani, che sembrano essere state cdstruite su schemi men- tali così lontani dai nostri, che è pressoché impossibile tradurre nel- le nostre lingue ciò che è stato espresso in quelle." Sarebbe stato au- gurabile che il filosofo avesse dato esempi di questa differenza di schemi mentali e avesse citato lingue in cui non vi siano certi segni per esprimere le sostanze e i loro modi, le cause e i loro effetti [...]. Turgot non è d'accordo su questi schemi mentali: "Tutti i popoli - dice - sono dotati degli stessi sensi e sui sensi si formano le idee [...]". Non è un buon motivo. Non è perché tutti gli uomini hanno gli stessi sensi che tutti gli schemi mentali, e perciò le lingue che vi corrispondono, sono gli stessi. Ciò che è in questione non è il mate- riale delle lingue o i sistemi di segni per esprimere gli oggetti sensi- bili. Già questo materiale non può essere molto variabile, perché, se i sensi sono gli stessi per tutti i popoli, gli oggetti delle sensazioni sono però diversi; e questa diversità basta a far sì che a essere di-
' Maine de Biran, Note sur les réflexions de Maupertuis et Turgot sur l'origine des langues.
® Id., Notes sur l'influence des signes, i, p. 246.
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 versi non siano gli schemi mentali primitivi e dunque la metafìsica delle lingue, il loro patrimonio primitivo e la natura specifica dei se- gni che lo costituiscono; ma che piuttosto le idee sensibili, e dunque i singoli segni usati per dar loro un'esperienza esteriore, abbiano tut- ta la diversità che si può constatare.®
Per gli idéologues tutti, comunque, i segni del linguaggio de- vono essere subordinati all'ordine della conoscenza, che analiz- za la scienza delle idee: i segni "corrispondono al sistema formale e universale che articola e rappresenta le idee per produrre il ra- gionamento".'" L'ideologia diventa una sorta di semiotica gene- ralizzata,soprattuttoinDestuttdeTracy,chenegliÉléments d'idéo- logie assegna alla seconda parte lo studio della grammatica:
La Grammatica non è soltanto la scienza dei segni; è la continua- zione della scienza delle idee. Il gusto per l'analisi e l'esame rigoro- so delle sue opere e delle sue facoltà non è per l'uomo affatto un se- gno di decadenza. È un nuovo progresso della sua intelligenza [...]. Il merito di questa Grammatica è di cominciare dall'inizio, di esse- re il seguito di un trattato d'ideologia. Non è affatto un'arte del par- lare; è un trattato di scienza dei segni, continuazione di quella del- le idee, introduzione a quella del ragionamento."
Abbiamo già detto dell'opera di Joseph Degérando, Des signes et de l'art de penser considérés dans leurs rapports mutuels. Essa è forse meno importante di quanto Alain Rey non dica, perché ri- prende più o meno fedelmente le idee di Condillac sul rapporto fra linguaggio articolato e linguaggio d'azione (Degérando lo chia- ma langage de la nature). Interessante, a proposito di quest'ulti- mo, è la distinzione (all'interno dei segni nati spontaneamente da bisogni comunicativi) fra segni indicatori (gesto, grido, dito pun- tato),segniimitativi (pantomima,pittura),segnìfìgurati (gestime- taforici, simboli). Tutti questi segni sono fondati sull'analogia, e perciò Degérando li riunisce sotto la denominazione di linguag- gio d'analogia, e procede poi a una loro diversa classificazione a seconda dei materiali che servono a formarli: gesti, parole, scrit- tura simbolica. Per "parola" e "scrittura simbolica" non si inten- de però ancora il segno linguistico articolato, né la sua semia so-
stitutiva: si tratta ancora di uno studio in cui alla parola corri-
' Id., Note sur les réflexions..., cit., p. 1.
Alain Rey, Théories du signe et du sens, Klincksieck, Paris 1973, p. 169.
" Destutt de Tracy, Éléments d'idéologie, ir, La Grammaire, Table analytique, p. 394.
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 sponde l'onomatopea e alla scrittura il pittogramma. Tutti i segni analogici con la ripetizione divengono però segni abitudinari, e il rapporto di analogia si indebolisce, finché, per esempio, il segno linguistico si complica fino a diventare arbitrario e a costituirsi in sistema. Questa interpretazione genetica dei segni è suffragata dal modo in cui il bambino passa da uno stadio di segni naturali a uno di segni analogici, fino a quello dei segni arbitrari:
Il primo, il più semplice mezzo che si offre all'uomo è quello di ri- petere con riflessione ciò che sente, senza prevedere il seguito, cioè di riprodurre quelle azioni attraverso le quali egli ha avuto la fortu- na di farsi comprendere. Così si formerà un primo linguaggio, che chiamerò linguaggio della natura, perché non si compone che di se- gni con i quali la natura aveva già senza di noi rivestito i nostri pen- sieri segreti, per renderli sensibili agli altri.
L'uso che l'uomo ne farà non sarà volto soltanto a far conoscere al suo simile i bisogni, le sensazioni che egli prova nel momento stes- so in cui parla. Spesso egli vorrà fargli conoscere fatti passati, an- nunciargli quelli che prevede, spesso vorrà interrogarlo su ciò che sa, su ciò che pensa. Quali cose non avranno da dirsi due esseri che hanno tanto forte bisogno l'uno dell'altro, e che tutto spinge ad as- sociare le loro conoscenze, come a unire le loro forze!
Ma il linguaggio della natura si rifiuterà di prestare i mezzi di una corrispondenza così estesa, e ogni giorno essi ne sentiranno la in- sufficienza. In effetti, esisterà per loro una massa di situazioni nuo- ve, per le quali non avranno ancora affatto dei segni. Spesso, anche se un segno avessero, non potranno riprodurlo. Inoltre, questo lin- guaggio sarà pieno di equivoci, sia perché lo stesso segno sarà co- mune a un gran numero di idee, sia perché lo stesso segno non rap- presenterà più la stessa idea per tutti e due [...].
Allora si farà sentire il bisogno di supplire a questo primo linguag- gio attraverso un secondo che sia più facile, più fecondo e più sicu- ro. Ed ecco come essi ne troveranno i mezzi. Ci sono due tipi di co- se sulle quali essi possono sentire il bisogno di intrattenersi. Le pri- me sono presenti e colpiscono, o possono almeno colpire, nel mo- mento stesso, i sensi di ciascuno di loro; le altre sono lontane, o al- meno invisibili, e non esistono al momento che nello spirito di co- lui che parla. Ora, quanto agli oggetti che sono o possono essere at- tualmente sottomessi ai sensi, non sarà un problema per colui che vuole parlare attirare l'attenzione del suo simile e dirigerla sull'og- getto che egli vuole mostrare. Avvertirà dunque il suo compagno con un grido o un movimento, e quando si vedrà fissato a lui, fisserà a sua volta la cosa che vuole indicargli. Forse si tratterà di un gesto o del dito per meglio indicare la direzione che prende il suo sguardo. L'altro non mancherà di imitarlo, e la sua curiosità lo porterà a os-
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servare ciò che occupa il suo vicino. Questi gesti, questo grido, que- sto dito, questo cenno formano una specie di segni istituzionali, che potremo chiamare indicatori.
Riguardo aUe cose che non possono essere mostrate, esse si divido- no ancora in due classi. Le prime sono degli oggetti sensibili, ma as- senti, dei fatti materiali passati, o a venire; le altre sono delle situa- zioni interiori, che, attuali o no, non possono mai essere sottomes- se ai sensi, cioè le diverse operazioni dello spirito e i diversi atti di volontà.
Supponiamo ora che uno dei due individui voglia parlare all'altro di un qualunque oggetto sensibile, ma posto per il momento fuori del- la portata del loro sguardo, di un animale, per esempio, visto nella foresta vicina. Egli si rammarica che non sia lì per mostrarglielo. Vorrebbe per un momento trasportarlo per dargliene una giusta idea. Gli viene l'idea di rimpiazzarlo facendo del suo meglio e di giocare lui stesso il suo ruolo. Ecco che si mette a imitare i suoi atteggia- menti, le sue grida, i suoi movimenti. È una scena da commedia di cui egli stesso è attore. Se il suo compagno ha visto qualche volta questo animale, se ne ricorderà in virtù dell'associazione d'idee. Se non lo conosce, se ne formerà un'immagine approssimativa [...]. È unasecondaspeciedisegniistituzionalichechiamerò imitativi. L'efficacia di questi segni è fondata su due condizioni. La prima, che essi riproducano una parte delle sensazioni che l'oggetto stesso su- sciterebbe se fosse presente, e che attraverso di essa risveglino l'im- magine di tutti gli altri. La seconda che essi siano presi per un gio- co e non per una realtà [...]. Il segno imitativo sta in rapporto con l'oggetto cui appartiene pressappoco come l'idea rispetto alla sen- sazione corrispondente: non si vede in esso che un modello al qua- le l'oggetto si rapporta.
Intanto, se uno dei due interlocutori vuole intrattenere l'altro su fat- ti che passano o sono passati dentro di lui, e che sfuggono ai sensi e che la soia coscienza percepisce, se vuole dirgli i suoi segreti e i suoi desideri, i suoi piaceri o le sue pene, i suoi giudizi o i suoi dubbi, co- me dovrà comportarsi? Si lamenterà che queste segrete modifica- zioni non siano sensibili come gli altri oggetti che è uso a dipingere; desidererà poter loro prestare momentaneamente una forma e tra- sportarli sotto gli occhi del suo vicino. Ma come aveva saputo gioca- re il ruolo degli esseri animati o inanimati per supplire alla loro as- senza, noterà che fra le cose sensibih molte possono imitare assai be- ne ciò che passa dentro di lui. Così l'occhio, guardando, si compor- ta all'incirca come l'attenzione dello spirito quando essa fissa. Le ma- ni quando pesano due corpi somigliano molto al giudizio che bilan- cia due partiti da prendere. [...] Sarà dunque possibile trasformare le sue maniere d'essere in oggetti materiali, e impiegando i segni di questi ultimi riuscirà per mezzo di una doppia analogia a far nasce- re nello spirito del suo compagno gli stessi pensieri che lo occupano.

 Basterà che attraverso un segno indicatore egh avverta che non in- tende parlare degli oggetti estemi che egli ricorda, ma di ciò che pro- va dentro di sé e di cui questi oggetti sono la descrizione visiva. È una terza specie di segni che chiamerò segni figurati.
La riunione di queste tre specie di segni basta, come si vede, per l'in- tera traduzione del pensiero. Poiché è l'analogia che conduce a isti- tuirli tutti, poiché è essa a prestare loro la loro forza, li riunirò sot- to la denominazione comune di linguaggio d'analogia. Classifican- do gli elementi di questo linguaggio secondo la natura dei materia- li che servono a formarli se ne distingueranno tre specie: i gesti, la parola e la scrittura simbolica.'^
16.3. Illuministi britannici: Harris (1709-1780) e Monboddo (1714-1799)
La più importante grammatica generale scritta in Inghilter- ra appartiene a James Harris, ma non va collocata nello spirito meccanicistico e sensistico dell'Illuminismo di Condillac. La sua derivazione è da un lato quella razionalista di Port-Royal, dal- l'altro invece una sorta di neoplatonismo precursore dello spiri- tualismo. A Harris, come a Maupertuis e Degérando, dà grande importanza Alain Rey,'^ ma ci sembra che le loro teorie rispec- chino invece in tutto e per tutto idee correnti nel pensiero lin- guistico precedente o loro contemporaneo. A Harris si deve Her- mes, o Ricerche filosofiche sulla grammatica universale del 1751. Harris incentra le sue riflessioni sul nome, e a proposito di esso operaunadistinzionedeisegniarbitraridaquellimotivati,echia- ma simboli i primi:
La materia, o soggetto comune del linguaggio, è questa specie di suoni che si chiamano voci articolate. Ciò che rimane da esamina- re nel capitolo seguente è il linguaggio nella sua forma caratteristi- ca e particolare, cioè il linguaggio considerato non come suono, ma come mezzo d'espressione delle nostre idee.
Una parola è una voce articolata che, in virtù di una convenzione stabilita, esprime un senso o una significazione qualunque; e una grande quantità di parole che abbiano, in virtù delle stesse conven- zioni, ciascuna la propria significazione forma un linguaggio o un idioma particolare. Così, si può definire la parola "una voce parti- colare significativa per convenzione"; e il linguaggio "un sistema di
Joseph Degérando, Des signes et de l'art de penser considerés dans leurs rap' ports mutuels. Introduzione.
Rey,Histoire..., cit
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 voci significative nello stesso modo". Dietro le nozioni che abbiamo esposto, si potrebbe essere portati a guardare al linguaggio come a una sorta di quadro dell'universo; dove le parole sono, in qualche modo, le figure o immagini di tutti gli oggetti particolari. La giu- stezza di questo paragone potrebbe nondimeno essere contestata sotto qualche rispetto; poiché, se le figure che compongono un qua- dro non sono che l'imitazione della natura, ne consegue che ogni uomo, organizzato per conoscere gli oggetti naturali, sarebbe su- scettibile, per mezzo degli stessi organi, di conoscere anche le loro imitazioni. Ma non se ne deve affatto concludere che chi conosce qualche sostanza debba anche conoscerne il nome greco o latino. La verità è che ogni mezzo attraverso il quale offriamo un oggetto alla contemplazione di qualcuno è o derivata dagli attributi natura- li di questo oggetto, e allora è una imitazione, o tratta da accidenti del tutto arbitrari, e allora è un simbolo.'''
L'Illuminismo ha sviluppi originali, sempre in Inghilterta, con le tesi di James Bumett, lord Monboddo. Questi riprende le idee correnti di Condillac, Maupertuis e Rousseau, innestate sull'em- pirismo inglese (Hobbes, Locke, Berkeley), ma con un indirizzo autonomo e abbastanza specifico. Monboddo rifiuta per esem- pio la concezione tradizionale di linguaggio primitivo (il lin- guaggio d'azione) di origine onomatopeica, e così la sua origine monosillabica oppure di canto; e dall'altra parte scarta decisa- mente l'idea di una sua nascita individuale, immediato corolla- rio del concetto di derivazione da una lingua madre, divina o me- no. Egli mette da parte la concezione logico-gnoseologica in fa- vore di una nuova impostazione antropologica. I presupposti del- le teorie antropologiche di Monboddo sono due: 1) la pura ani- malità dell'uomo come suo punto di partenza, e la sua capacità di adattamento che produce l'evoluzione delle sue strutture fisi- che e mentali; 2) il linguaggio è solo uno strumento che nasce in funzione di bisogni determinati: il suo presupposto è dunque uno stadio in cui gli esseri umani si associano, formano la società (in- tesa come organizzazione economica), ovvero il suo presuppo-
sto è la necessità della divisione del lavoro.
Numerose sono le conseguenze di tali premesse: se l'uomo nonèinorigineanimalerazionale,nonèneppureanimai loquens. Infatti, ai primi bisogni corrisponde uno stadio linguistico di se- gni disarticolati, che solo con il complicarsi dei bisogni stessi di- ventano segni articolati e poi strutturati in sistema. Monboddo
^^ James Harris, Hermes, iii. 111. 118

 assume in virtù di questa tesi anche la teoria di Maupertuis che i primi segni corrispondano a delle proposizioni. Ma al di là del- le considerazioni parziali, resta basilare la fondazione di una ve- ra e propria antropologia linguistica:
Con tutto ciò siamo arrivati soltanto a fare dell'uomo un animale ra- zionale. Ci resta ancora di farne un animale parlante, e per questo io ritengo che la società sia assolutamente necessaria. Infatti, se è vero che un primitivo solitario può, con il passare del tempo, ac- quistare l'abito a formare idee, è però impossibile supporre che sia in grado di formare un metodo per comunicarle, dato che gliene manca l'occasione. Il nostro argomento ci sollecita dunque ancora a indagare sull'origine della società, la quale secondo Rousseau ha un rapporto così necessario con il linguaggio.'^
16.4. Illuministi tedeschi: Herder (1744-1803) e Lambert (1728-1777)
Le idee di Monboddo hanno avuto notevole influenza su Johann Gottfried Herder, che fu tra l'altro traduttore del saggio Sull'origine e la storia del linguaggio. L'antropologia linguistica di Monboddo ben si adattava alle idee di Herder, convinto antime- tafisico, e assertore di un rinnovamento della filosofia, che do- veva farsi antropologia, mettersi al servizio dell'uomo.
Per Herder il linguaggio è lo strumento" per mezzo del quale può realizzarsi l'unità della teoria concettuale e della prassi so- ciale, perché le strutture del linguaggio e quelle logiche coinci- dono: "Le nutrici che ci insegnano la lingua sono le nostre prime insegnanti di logica".'^ Pensiero e linguaggio coincidono, anche se tale connessione si realizza e si sviluppa poi sempre in una di- mensione sociale. Indicativi sono al proposito i seguenti fram- menti:
Un popolo indifferenziato il quale costruiva il proprio linguaggio dapprima sotto la spinta del bisogno e poi, via via, al fine di vivere con maggiori comodità.
Il linguaggio è lo strumento della formazione umana della nostra specie.'^
" James Bumett, lord Monboddo, About the Origin and the Histoty of Lan- guage, 1.
Johann Gottfried Herder, Fragmente, i, 1. " Ibidem.
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 Da questi presupposti socioantropologici per Herder è facile arrivare a definire poi il linguaggio come strumento per eccel- lenza delle scienze e come forma stessa delle scienze: perché le scienze possono esprimere i loro risultati usando il linguaggio, ma in un certo senso i loro risultati dipendono anche dalla stmt- tura di quest'ultimo. E a questo punto Herder chiarisce anche che la filosofìa, ambito generale delle scienze, deve avere un ti- po ben preciso di linguaggio, una semiotica:
Per parlare degnamente del vero linguaggio filosofico, bisogna in- tanto non tenere affatto conto se esista una linea al mondo che sia giunta a livello filosofico, se uno o più scrittori vi si siano av- vicinati, se all'infuori di quest'unico scrittore ne esistano ancora altri al mondo; in breve, è per intanto da trascurare totalmente se una lingua siffatta sia accessibile, comprensibile e utile agli uo- mini [...]. Essa di certo non è poetica; secondo la sua interna di- gnità e conformazione rinuncia a ogni pretesa di bellezze lingui- stiche poetiche. Armonia fonica delle parole, ritmo di sillabe, espressione toccante, ornamento di immagini: tutto ciò, che al- trove è validissimo, qui non conta, propriamente parlando, asso- lutamente nulla [...].
Se i principi di una semiotica a priori fossero sia pure parzialmen- te applicabili a una lingua reale, la composizione di queste parti se- miotiche avrebbe come risultato una lingua della filosofia. Non par- lo dunque dei pochi segni che sono stati inventati per indicare sil- logismi e figure, bensì della rigorosissima esposizione di concetti, deduzioni e dimostrazioni nella loro compiutezza.'®
Diversa è la filosofìa semiotica di Johann Heinrich Lambert. Lambert è contemporaneo di Kant, e benché la sua fortuna cri- tica non sia stata eccezionale, fu assai ammirato dall'illustre col- lega, come dimostra una sua lettera a Lambert stesso. Lambert è autore di un'opera (il terzo libro del Nuovo organo) specifica- mente dedicata alla semiotica; ed è curioso osservare che proprio il quarto libro del Nuovo organo, la Fenomenologia, introduca per la prima volta questo termine nella storia della filosofia, come è documentato dalla lettera di Kant sopra citata.
Lambert vive nel periodo illuminista della critica al wolfismo, culminata con la reazione al materialismo filosofico in Rüdiger, Cmsius e nel Kant della Ricerca sui principi della teologia natu- rale e della morale del 1781. Ma le tesi di Lambert sono del tutto
Johann Gottfried Herder, Herders sammtliche Werke, xxi, p. 195. 120

 autonome rispetto a questo movimento di pensiero. Anzi, il filo- sofo tedesco riprende le teorie leibniziane della mathesis univer- salis, di una scienza generale di tipo matematico che contenga tutti i principi delle scienze particolari e ne renda possibile la de- duzione. E questa scienza deve fondarsi su un sistema di tutte le proposizioni ricavabili da tali principi, ma nello stesso tempo è necessario che si basi su principi fondamentali della realtà. Per fare ciò, occorre stabilire un sistema di segni in grado di rappre- sentare come in geometria e in algebra l'estensione e le connes- sioni fra i concetti. La filosofia potrà divenire scientifica solo fa- cendosi matematica. Dal punto di vista della logica, Hegel criti- cherà a fondo i principi lambertiani di sottomissione alla mate- matica di logica, metafisica, etica, gnoseologia.'^
La Semiotica di Lambert è dedicata, nel quadro di questo progetto di fondazione di un sapere a priori, allo studio dell'in- flusso determinante del linguaggio sulla conoscenza, e mira a stabilire le condizioni di scientificità dei sistemi di segni, in par- ticolare delle lingue. Il libro è suddiviso in quattro sezioni: nel- la prima si esaminano l'utilità e la funzione dei segni e della lin- gua scientifica:
Nella Semeiotica si troveranno moltissimi e diversi scopi e, se non erro, tutti quelli che ci si può raffigurare nei riguardi della lingua e dei segni. Nella prima sezione dimostro la necessità affatto natura- le del discorso per la designazione di pensieri e cose e, dopo aver in- dicato il carattere proprio dei segni scientifici, che cioè la loro teo- ria deve poter servire in luogo della teoria dell'oggetto stesso, riesa- mino tutte le specie di segni finora note, e li giudico secondo tale ca- rattere. Contemporaneamente sono resi conoscibili in un modo più particolareggiato anche i casi in cui si possono impiegare più o me- no dei segni scientifici. Le altre sezioni sono tutte rivolte alla lingua, e precisamente alle lingue possibili e reali, pressoché senza distin- zione. A questo proposito viene indagato ciò che di arbitrario, di na- turale, di necessario e, in parte, di scientifico, compare nelle lingue, e come ciò che di metafìsico vi è in esse si distingua dall'elemento caratteristico epuramentegrammarica/e.
Poiché la lingua non solo è necessaria in sé e molto vasta, ma com- pare anche in ogni altra specie di segni, non ci si meraviglierà del fatto che io abbia dedicato agli altri segni solo la prima parte della Semeiotica, mentre ho esteso la considerazione della lingua aUe al- tre nove sezioni successive. Infatti, le altre specie di segno sono an- che troppo particolari per dover fornire di ciascuna una teoria spe-
GeorgWilhelmFriedrichHegel,Logikwissenschaft, n,568.
121

 cifica, che, del resto, come per esempio in musica, coreografia, arit- metica, algebra eccetera, è in gran parte già esistente.^"
Queste considerazioni generali sono del più grande interes- se. Lambert, infatti, ha già un'idea "saussuriana" della semioti- ca: esistono per lui molti sistemi di segni, che, tutti alla pari, de- vono dar luogo a una teoria generale; fra questi, un posto pre- minente spetta a quelli linguistici, ma solo perché li conosciamo meglio e in modo più approfondito, e perché nella lingua ritro- viamo più compiutamente una struttura del tutto elaborata. Al- tri sistemi (musica, danza, matematica) sono "quasi" articolati sistemicamente. Altri ancora, apparentemente più "naturali" e intuitivi, devono invece essere messi a punto.
Ma Lambert va ancora oltre. In primo luogo, riconduce la na- tura dei segni al loro rapporto con la materia sensoriale che fun- ge loro da supporto, e li distingue pertanto essenzialmente per il loro carattere visivo e/o auditivo. Va notato, a questo proposito, che il "visivo" può stare anche laddove non ce lo attenderemmo, e cioè nello stesso linguaggio verbale. Le metafore vengono in- fatti definite come immagini "tradotte" verbalmente. Ma persino i sillogismi hanno qualcosa di figurato: mostrano infatti visiva- mente le relazioni fra concetti, esibiscono una geometria del ra- gionamento.
Moltomodernaèpoil'ideadellascientificità deisistemidise- gni. Secondo Lambert, questa si verifica quando i segni, oltre a designare concetti e oggetti, presentano una struttura tale che la teoria dell'oggetto e quella dei suoi segni possono essere inter- scambiabili.
La teoria lambertiana, però, è soprattutto un grande quadro sinottico, una vera e propria "tipologia dei segni", alla stregua di quella che costituirà una delle parti portanti della semiotica di Peirce. Lambert riconosce natura di segno, innanzitutto, a quel- le che continua a chiamare "figure", e che sono sostitutive della scrittura, secondo il pensiero eurocentrico ai tempi suoi in voga (i caratteri cinesi, i geroglifici), ma persino le nostre lettere del- l'alfabeto. Seguono le note musicali, e le figure della danza, che sono forme complesse che uniscono la geometria dei passi a quel- la del tempo musicale. I segni chimici e astronomici sono "ab- breviazioni" usate al posto delle parole, laddove i gradi del tem- po orario sono segni scientifici. Formidabile, per l'antropologia
Johann Heinrich Lambert, Novum organon, rv, p. 9. 122

 moderna, è l'osservazione che i gradi di parentela sono pure se- gni (di derivazione e di appartenenza a una specie), e addirittu- ra di natura scientifica. Segni più poetici sono invece i simboli e gli emblemi. E segni massimamente scientifici sono invece quel- li appartenenti al sistema di numerazione e all'algebra. A metà fra di loro sta la metrica della poesia.
Curiosi sono gli esempi per distinguere segni arbitrari e mo- tivati: l'araldica è del primo genere, e la carta geografica del se- condo. Ma nella lista dei segni eirbitrari Lambert colloca anche l'insieme delle cerimonie, il suono delle campane, i simboli di guerra, i cenni della mano, il modo di bussare, le minacce: ov- viamente, si tratta di segni che sono arbitrari in misura variabi- le, a seconda di un piccolo grado di somiglianza con i propri og- getti che a volte li caratterizza. Molti dei segni motivati, invece, più che dalla somiglianza, derivano questa loro peculiarità dal fatto di essere "naturalmente" similari ai loro oggetti: il fumo per il fuoco, il rosso del tramonto per il bel tempo, e in generale tut- ti i sintomi utilizzati in medicina come diagnostici.
Un ultimo punto riguarda infine il modo con cui si produce la rappresentazione segnica degli oggetti, che è molto diversa da caso a caso. Ad esempio: l'imitazione è una ricerca di somiglian- za volutamente graduale da parte del produttore. La riproduzio- ne, invece, mira a una pura copia dell'originale. L'allegoria e rÈK<|)paaic sono riproduzioni, ma tradotte da un sistema rappre- sentativo a un altro. Sono riproduzioni di cose astratte (tradu- zioni dall'astratto al concreto, si potrebbe dire) le metafore e le immagini materiali.
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 17. Kant (1724-1804)
Il XIX secolo, che pure vede il sorgere della linguistica come scienza, registra in filosofìa un ritomo alle visioni metafìsiche e un contemporaneo disinteresse per il problema del linguaggio, dal momento che (per esempio in Kant) si riabilita la nozione di "concetto" come forma a priori. Kant, pur con la sua monu- mentale opera, è il pensatore che nella storia del pensiero fìlo- sofìco si è forse occupato meno del linguaggio. Solo in qualche passo della Critica del giudizio, dell'Antropologia e del giovanile Tentativo di introdurre in filosofia il concetto di grandezza nega- tiva è dato trovare qualche utile indicazione. È chiaro che le "ca- tegorie" kantiane si risolvono in categorie logiche e linguistiche, ed è chiaro quindi che per il fìlosofo tedesco tutta la conoscen- za si riduce all'uso dei segni; ma sta di fatto che, come ha detto De Mauro, siamo di fronte a un "silenzio di Kant".' Si veda per esempio nel Tentativo come l'utilizzazione dei simboli aritmeti- ci + e - nel discorso metafìsico avvenga eludendo ogni aspetto linguistico:
Si può chiamare avversione un desiderio negativo, odio un amore ne- gativo, bruttezza una bellezza negativa, rimprovero un elogio negati- vo eccetera. Uno non potrebbe vedervi altro che un gioco di parole. Ma chi ha una minima conoscenza di matematica non ignora quan- to sia più vantaggioso che le espressioni indichino nello stesso tem- po la relazione con dei concetti già conosciuti.^
'Cfr.DeMauro,Introduzione..., cit.
2 Immanuel Kant, Tentativo di introdurre in filosofia il concetto di grandezza negativa, p. 73.
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 Nella Crìtica del giudizio Kant afferma che parole e segni vi- sibili (algebrici, numerici) sono tutti espressione dei concetti, ov- vero "caratteri sensibili che designano concetti e servono come strumenti soggettivi di riproduzione". Più interessanti sono le os- servazioniapropositodelsimbolofatteneWAntropologia. Isim- ili)li sono rappresentazioni analogiche degli oggetti intuiti, e per- ciò "chi sa esprimersi sempre soltanto in modo simbolico ha po- l'Iii concetti intellettuali, e ciò che spesso si ammira nella vivace espressione che i selvaggi (e talvolta anche i pretesi sapienti di un popolo rozzo) usano nei loro discorsi, non è che povertà di idee e di parole per esprimerle".^
Tullio De Mauro, nell'Introduzione alla semantica, dedica ap- punto un lungo e meditato capitolo al "silenzio di Kant". Che Kant non si curi del linguaggio è un dato oggettivo, così come è un da- lo oggettivo che questo suo disinteresse abbia provocato la tota- le scomparsa dagli interessi filosofici successivi di un dibattito linguistico che invece nel Sei-Settecento aveva toccato vertici di grande importanza. La questione, secondo De Mauro, è però quel- la di comprenderne le ragioni. Non si può certamente trattare né di una dimenticanza fortuita, né di una sottovalutazione. De Mau- ro dimostra che ICant da un lato conosceva benissimo i testi di Locke, Leibniz, Berkeley e Hume, e dall'altro aveva piena consa- pevolezza del problema dei segni, come risulta da due passi del- la Crìtica della ragion pura e della Crìtica del giudizio:
Alla base dei nostri concetti sensibili puri non ci sono immagini di oggetti, ma schemi. Nessuna immagine di triangolo potrebbe mai essere adeguata al concetto di triangolo in generale. Essa infatti non adeguerebbe il concetto in quella sua generalità per cui vale tanto per il triangolo rettangolo quanto per l'isoscele eccetera, ma reste- rebbe hmitata soltanto a una parte di questo ambito. Lo schema del triangolo non può esistere altrove che nel pensiero, e significa una regola della sintesi della immaginazione rispetto a figure pure nel- lo spazio. Molto meno ancora un oggetto dell'esperienza o una sua immagine adeguano il concetto empirico; ma questo si riferisce sem- pre immediatamente a uno schema dell'immaginazione, che è la re- gola della determinazione della nostra intuizione conforme a un de- terminato concetto generale. Il concetto del cane designa una rego- la secondo cui la mia immaginazione può descrivere la figura di un quadrupede in generale senza Hmitarla a una forma in particolare che mi offra l'esperienza o a ciascuna immagine possibile, che io
' Id., Anthropologie, l, 38.
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possa concretamente rappresentarmi. Questo schematismo del no- stro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro forma immediata, è una tecnica celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero ma- neggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi.''
A torto, e con uno stravolgimento di senso, i logici moderni accol- gono l'uso della parola "simbolico" per designare un modo di rap- presentazione opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi,cioèesibizioni(exhibitiones), nonsono"caratterismi",cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitan- ti, che non contengono nulla che appartenga all'intuizione dell'og- getto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo una legge dell'associazione immaginativa [...]; tali sono, in quanto semplici espressioni dei concetti, le parole oppure i segni visivi (al- gebrici e anche mimici). Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime con- tengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le pri- me procedono dimostrativamente, le seconde analogicamente [...]. Appunto in tal modo si rappresenta uno stato monarchico, come un corpo animato quando esso sia governato da leggi popolari sue, e invece come una semplice macchina (una specie di mulino a brac- cia), quando sia dominato da un'unica assoluta volontà; in tutti e due casi la rappresentazione è soltanto simbolica. Non c'è, è vero, alcuna somiglianza tra uno stato dispotico e un mulino a braccia, ma l'analogia sta tra le regole con le quali riflettiamo nelle due co- se e la loro casualità. Questo fatto è stato finora poco chiarito, seb- bene meriti un più profondo esame; ma non è questo il luogo di in- trattenervisi. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette fondate sull'analogia in cui l'espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione. Ta- li sono le parole fondamento (appoggio, base), dipendere (esser te- nuto dall'alto), derivare da qualche cosa (invece di seguire), sostan- za, e innumerevoli altre ipotiposi non schematiche, ma simboliche,
e altre espressioni che designano concetti non mediante intuizioni dirette, ma soltanto secondo l'analogia con queste, cioè col trasferi- re la riflessione su di un oggetto dell'intuizione a un concetto del tut- to diverso, al quale forse non potrà mai corrispondere direttamen- te un'intuizione. Se si può già chiamare conoscenza un semplice mo- do di rappresentazione [...] allora tutta la nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica.^
'' Id., Kritik der reinen Vemunft, pp. 165-166. 5 Id., Krìtik der Urtheilskraft, pp. 218-219.

 II disinteresse, o per lo meno la scarsissima attenzione, di Kant per il linguaggio gli è rimproverata da molti filosofi, soprattutto studiosi di logica come Georg Hamann. E questo perché in effetti Kant aveva dato un suo sostanzioso, benché minimo, contributo alla logica con l'importante differenziazione fra giudizi analitici e giudizi sintetici (nei primi il predicato non contiene nulla che non sia presente e pensato nel concetto dal loro soggetto, nei secondi iiuesto non avviene). Hamann rimprovera a Kant di aver trascu- rato il problema del linguaggio naturale, cioè del linguaggio che solo è dato da Dio e sul quale sono state costruite le lingue artifi- ciali (idea agostiniana). Kant non può aver ignorato le critiche: l'u- nica ipotesi attendibile è pertanto che egli pensasse che le nozioni ili comunicazione e comunicabilità fossero inteme a quelle di co- noscenza. Sta di fatto però che Kant non risponde direttamente a I lamann. La conclusione che De Mauro trae è quindi che il silen- zio di Kant sia un silenzio "parlante", un tacito assenso e una com- pleta adesione alle argomentazioni di Berkeley e Hume.
D'altra parte, è anche vero che la filosofìa di Kant è tutta tesa i\ stabilire le precondizioni logiche dell'attività conoscitiva: in que- sto senso le sue tesi fondamentali sono di carattere sistemico, e del lutto pertinenti anche da un punto di vista semiotico. Ad esempio, si può dire che Kant, occupandosi di cognizioni e non di oggetti, eostruisce un metalinguaggio sulla conoscenza del mondo, di cui lòrmula le defìnizioni rispetto al linguaggio-oggetto, un po' come larà Hjelmslev. Anche dal punto di vista della semantica, inoltre, l'erte osservazioni kantiane sono importanti. Ad esempio, quella li a significato e referente, che porterà direttamente a Frege: se di uno stesso numero (poniamo il 7) posso avere due espressioni di- verse (poniamo 3+4 o 5+2), è evidente che le due espressioni han- no lo stesso referente, ma non lo stesso significato, perché si trat- ta di due espressioni che mettono in luce qualcosa di diverso fra ili loro. E infine, siamo a un passo da Wittgenstein quando Kant sostiene che il suo interesse per i concetti è determinato dalla vo- lontà di rinvenire delle regole del pensiero, non la natura del pen- siero. I concetti sono insomma dei regolatori della comprensione, li1nzionanopertrasformarerappresentazioni differentiinuna rap- presentazione comune. In questo senso è chiara la loro presuppo- sizione semantica. E infine, le stesse categorie sono delle funzioni l<)gichedellaconoscenza, edevonodarvita,nellaterminologia kan- liana, a una grammatica trascendentale. Ma questa è evidente- mente la base stessa del linguaggio umano, che dunque rimane sta- lliImentesullosfondodellasua fìlosofìa.
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 18. La Romantik e lo storicismo linguistico
Tutta la filosofia del Romanticismo tedesco, come ha perfet- tamente segnalato Lia Formigari,' è permeata dalla ricerca di sta- bilire i caratteri fondamentali di una "storia" del linguaggio. Una storia, tuttavia, da intendersi come filogenetica: incentrata sulla questione dell'origine delle lingue (e sulla natura dei loro segni), della loro evoluzione, del loro rapporto con le identità etniche e culturah dei loro parlanti. Allo stesso tempo, però, proprio l'a- spetto filogenetico non può impedire la costruzione di un im- pianto teorico che definisca la struttura e le funzioni del linguag- gio, e i suoi eventuali rapporti con il pensiero. Pertanto, ecco il paradosso: l'orizzonte storicista della prima metà del xix secolo si traduce nell'affermazione di alcuni caratteri generali, che sa- ranno tenuti in considerazione anche nelle ipotesi novecentesche più radicalmente sistemiche (ad esempio, da Chomsky che ri- legge Humboldt).
Le teorie del linguaggio interessanti per la semiotica pos- sono essere riassunte in quattro categorie: 1 ) la discussione sul- la natura arbitraria, convenzionale o motivata dei segni; 2) la teoria del segno come dialettica fra rappresentazione e presen- tazione iVorstellung/Darstellung)-, 3) l'idea del linguaggio come totalità (Sprache) superiore alle sue parti (Sprechen)-, 4) l'iden- tità fra linguaggio e sistema della cultura, in una prospettiva antropologica.
' Lia Formigari, La logica del pensiero vivente. Il linguaggio nella filosofia del- la Romantik, Laterza, Bari 1977.
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 18.1. La motivazione dei segni
In opposizione radicale airilluminismo e a Kant, i romantici tedeschi negano in maniera più o meno assoluta la natura arbi- traria e/o convenzionale del linguaggio. In Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), ad esempio, si parla dell'origine del linguag- gio come necessità, derivante dal desiderio degli uomini di sot- tomettere la natura non ragionevole alla ragionevolezza umana. Questo tentativo passa attraverso l'uso di tutti i sensi, e di siste- mi di segni dotati dunque di diversi piani dell'espressione. Con un unico comun determinatore: designare gli oggetti sensibili per imitazione. Soloperevoluzionesuccessiva, eper conseguenti pro- cessi di astrazione, si può giungere alla perdita di memoria del- la primigenia imitatività, e alle designazioni di oggetti spirituali apparentemente non imitative. Anche perché i segni che appar- tengono alla categoria del linguaggio sono sempre intenzionali, cioè relativi alla volontà di comunicare (pur se esistono altre pos- sibilità di espressione, involontarie, come le interiezioni o le pas- sioni, ma queste non sono linguaggi).^ Se in Fichte troviamo una posizione moderata riguardo l'eventuale convenzionalità dei se- gni, in altri autori questa affermazione viene negata in maniera più netta. Ad esempio, nel maggiore dei fratelli Schlegel, August Wilhelm (1767-1845), il quale sostiene la preminenza dei segni naturali sui segni artificiali, e la giustifica con la loro originaria sensibilità: che può venire perduta per il predominio dell'intel- letto sui sensi e per le necessità comunicative che ne impongono l'allontanamento, ma che è sempre recuperabile, per esempio at- I raverso l'attività estetica e la poesia,^ che sono appunto attività crcatrice orientata al recupero della sensibilità.
18.2. Darstellung e Vorstellung
Se i segni costituiscono in prima istanza un'imitazione del mondo sensibile, essi derivano evidentemente da una rappre- sentazione{Vorstellung) concettualedelmondodapartedellospi- rito umano. Con questa rappresentazione non coincidono, però: altrimentisaremmo inpresenza diunlinguaggiopuramente men-
^ Johann Gottlieb Fichte, Von der Sprachfahigkeit und der Ursprung der Spra- rhi'. 1795.
' August Wilhelm Schlegel, Briefe über Poesie, Silbenmass und Sprache, 1795. 129

 tale. I segni sono invece una mediazione, rivestita di forma sen- sibile, della rappresentazione medesima: sono una presentazio- ne {Darstellung). Ci troviamo insomma in presenza di un solido referenzialismo, ma triadico, come in parte poi avverrà nella lin- guistica saussuriana e nella semiotica peirciana: le parole sono presentazioni di rappresentazioni dei referenti. Questa posizio- ne, più o meno presente in tutta la filosofìa romantica del lin- guaggio, viene espressa dal più linguista dei filosofi tedeschi, va- le a dire August F. Bemhardi.^ Proprio perché più linguista, tut- tavia Bernhardi cerca di conciliare la teoria imitativa del segno con quella convenzionalista. Non nega, infatti, l'esistenza di se- gni convenzionali. Semplicemente ne spiega la maggiore mecca- nicità, e sostanzialmente l'inferiorità creativa e conoscitiva. Il se- gno naturale, infatti, "in generale è dotato di necessità, ma nel caso individuale l'accidentalità è non solo possibile, ma reale".^ In altre parole, la presentazione della rappresentazione può es- sere anche molto aderente alle cose (come nel caso dei segni vi- sivi o delle onomatopee), ma questa corrispondenza può inde- bolirsi per inadeguatezza o per oblio della propria natura origi- naria. Laddove si perda il senso della relazione imitativa, allora i segni sono arbitrari, e il nesso con i designata è frutto di imma- ginazione. A seconda dei tipi di segno utilizzati è poi possibile classifìcare le attività del pensiero, da quelle estetiche a quelle analitiche.
18.3. // tutto e le parti
Durante la Romantik, i fìlosofì del linguaggio sono anche os- sessionati dal bisogno di classifìcare tipologicamente le lingue, spesso con motivazioni etnocentriche. È nota, ad esempio, la tri- partizione di Friedrich Schlegel (1772-1829) fra lingue "isolan- ti", "agglutinanti" e "flessive": e queste ultime, per lo più europee, sarebbero superiori alle altre. Per giungere a tale conclusione, però, è necessaria una giustifìcazione teorica. E questa viene ri- trovata nella correlazione - posta più che dimostrata - fra lingua e cultura. È lo stesso Bernhardi a postulare un duplice significa- to al termine "parlare": il primo è sostantivato, e consiste nell'i- dea di lingua come di un universale della cultura, correlato a quel-
^ August F. Bernhardi, Sprachlehre, 1801, e Anfangsgrunde der Sprachwis- senschaft, 1805.
5 Bernhardi, Sprachlehre, pp. 102-103. 130

 lo di "popolo"; il secondo è un termine verbale, e indica la pro- duzione linguistica concreta o la creazione di segni. Forse è già tutta qui la futura concezione del rapporto fra langue e parole, per quanto non ancorata alla sola opposizione fra sistema e pro- cesso, o fra sistema e uso.
Fatto sta che la lingua si correla a una identità sociale (o na- zionale) solo perché essa è un tutto organico. Oltre a Bemhardi, fanno riferimento a questo concetto Karl F. Becker {Organism der Sprache, 1827), il già citato Friedrich Schlegel (Philosophische Vorlesungen, 1828),eprimadiloroFriedrichW.J.Schelling(1775-
1854), fin dal 1806, anno di uscita della Philosophie der Kunst, che sarà poi pubblicata con più compiute specificazioni nel 1826 (Einleitung inderPhilosophie derMythologie). ASchelling,inpar- ticolare, si deve la teorizzazione dell'organismo linguistico come totalità da cui dipende ogni singolo elemento, che non può esse- re afferrato senza il ricorso al tutto (questa concezione, come è noto, verrà superata solo con l'affermazione del "circolo erme- neutico"). Di più: Schelling intende come totalità la stessa no- zione assoluta di linguaggio (Ursprache), dal quale discendono le lingue naturali per diversificazione e parcellizzazione.
18.4. Humboldt e l'antropologia linguistica
Una diversa e più moderna antropologia linguistica viene ela- borata da Wilhelm von Humboldt (1767-1835), per questo non a torto considerato da molti come il vero padre della linguistica moderna, sia pure nella sua forma comparativistica e storica. Il concetto di correlazione fra Sprache e Volk, lingua e popolo, che abbiamo visto espresso in Bemhardi e altri, viene sviluppato da Humboldt, e profondamente modificato. La lingua, infatti, pur essendo un organismo e una totalità, non manifesta direttamen- te il pensiero: è piuttosto uno Zwischenwelt, un "intramondo", mediatore fra pensiero e realtà attraverso caratteristiche proprie del sistema linguistico, e che si sviluppano nel corso del tempo. La totalità organica del linguaggio non è infatti statica, ma di- namica. Ciascuno dei suoi elementi non va considerato come un "prodotto" immutabile ('épYov, Werk), ma come il fmtto di una at- tività formatrice incessante (èvépYeia, Tätigkeit). In questo senso, la lingua è contemporaneamente sistema oggettivo ed esperien- za soggettiva, è unitaria e molteplice. E, infine, è una mediazio- ne fra aspetto sensibile (imitativo) e intellettuale (convenziona-
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 le), poiché unisce le possibilità di astrazione e schematizzazione con quelle dell'espressività e della creatività. Le teorie linguisti- che di Humboldt mantengono una certa coerenza fin dal primo scritto importante suUa materia {Latium und Hellas, 1806) per ar- rivareall'ultimoepiùfamoso{Einleitungindasgesammte Sprach- studium, 1830-35), passando per l'altrettanto noto scritto degli anni venti Über die Verschiedenheiten des menschliches Sprach- baues (1827-29).
ÈchiarocheleteoriediHumboldtfondanol'ideadiuna gram- matica generale come grammatica storica, e avviano gli studi comparati di linguistica come analisi collocate diacronicamen- te. È anche vero, però, che Humboldt può essere considerato il padre di una linguistica sistemica, dal momento che pone le ba- si dei concetti di lingua come struttura, di lingua come totalità e insieme come processo, di relazione fra lingua e sistema cultu- rale. Come afferma Lia Formigari, nasce una linguistica nuova, a cui "compete di considerare il linguaggio nella sfera generale dell'umanità, come organo dell'intelletto umano; nella sfera del- la nazionalità, come organo del genio popolare; e nella sfera del- l'individualità, come lingua dei singoli e come coincidente con l'estetica".^
' Formigari, La logica del pensiero vivente, cit. 132

19. Hegel (1770-1831)
 Hegel è soprattutto il grande metafìsico di questo periodo, tuttavia si è occupato maggiormente di altri del segno e della si- gnifìcazione nel linguaggio. La filosofia dello spirito soggettivo implica una conoscenza intuitiva legata alla sensazione e all'af- l'etto {Empfindung), ma la rappresentazione {Vorstellung) fa ac- cedere alla concettualizzazione. La rappresentazione si manife- staperl'azionedell'immaginazioneedellamemoria.Questa,però, non è in Hegel il ricordo {Erinnerung), ma una attività creativa {Gedächtnis) che sta alla base del codice linguistico. La rappre- sentazione si realizza sensibilmente attraverso i segni, ma è "sog- gettiva", ovvero arbitraria, senza rapporto con il mondo. Siamo alla massima espressione dell'idealismo: la rappresentazione di- viene un sistema di relazioni, una semiotica. L'arbitrarietà del se- gno è quasi totale (sono escluse solo le onomatopee, che sono in rapporto con i rumori naturali) e questa caratteristica garantisce la validità del ragionamento:
In questa unità, che procede dall'intelligenza, della rappresentazio- ne indipendente e di un'intuizione, la materia dell'ultima è ben dap- prima un qualcosa di ricevuto, un qualcosa di immediato o di dato (per esempio il colore della coccarda e simili). Ma l'intuizione, in questa identità, non vale come se rappresenti positivamente e rap- presenti se stessa; ma come se rappresenti qualcosa d'altro. Essa è un'immagine, che ha ricevuto in sé la rappresentazione indipendente dall'intelligenza, come anima il suo significato. Questa intuizione è il "segno".
Il segno è una certa intuizione immediata che rappresenta un con- tenuto affatto diverso da quello che ha per sé: è la piramide nella quale si è messa e si serba un'anima straniera. Il segno è diverso dal
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simbolo, da un'intuizione, la cui determinazione propria, secondo la sua essenza e concetto, è più o meno il contenuto, che essa espri- me come simbolo: invece, nel segno come tale, il contenuto proprio dell'intuizione, e quello di cui essa è segno, sono indifferenti l'un l'al- tro. Perciò, come significatrice, l'intelligenza spiega un più libero ar- bitrio e signoria nell'adoperare l'intuizione che non come simbo- leggiatrice.
Ordinariamente, il segno e il linguaggio vengono inseriti in un qual- siasi luogo, come appendici nella Psicologia, o anche nella Logica senza che si pensi alla loro necessità e alla loro connessione nel si- stema dell'attività dell'intelligenza. Il luogo vero del segno è quello indicato: che cioè l'intelligenza - la quale come intuitrice produce la forma del tempo e dello spazio, ma appare come tale che accoglie il contenuto semplice e si foggia con questa materia la rappresen- tazione - l'intelligenza dà ora, dal suo seno stesso, alle sue rappre- sentazioni indipendenti un'esistenza; adopra lo spazio e il tempo riempiti, ossia l'intuizione, come sua, cancella il contenuto imme- diato e peculiare di essa, e le dà un cJtro contenuto come significa- to e anima. Questa attività creatrice di segni può essere chiamata principalmente la memoria produttiva (la MVTIHOOÚVTI, dapprima astratta); giacché la memoria, che, nella vita ordinaria, viene spes- so scambiata e usata come equivalente col ricordo, e anche con la rappresentazione e l'immaginazione, ha da fare sempre solamente con segni.
459. L'intuizione, che è dapprima immediatamente un qualcosa di dato e di spaziale, riceve, in quanto è adoprata come segno, la de- terminazione essenziale di essere solo in quanto superata. L'intelli- genza è questa sua negatirità; così la forma più vera dell'intuizione, quale segno, è l'esistenza nel tempo: uno sparire dell'esistenza men- tre è - e secondo la sua restante determinazione esterna e psichica, è una posizione per opera dell'intelligenza, nascente dalla natura- lità propria di questa (antropologica) - il tono; l'estrinsecazione com- piuta dell'interiorità che si manifesta. Il tono, che si articola più am- piamente per le rappresentazioni determinate, il discorso, e il siste- ma di questo, il linguaggio, dà alle sensazioni, intuizioni e rappre- sentazioni una seconda esistenza, più alta di quella immediata, un'e- sistenza in universale, che ha vigore nel dominio della rappresenta- zione.
Il linguaggio si considera qui solo nella determinazione peculiare, di prodotto dell'intelligenza che manifesta le sue rappresentazioni in un elemento estemo. Se si dovesse trattare del linguaggio in mo- do concreto, bisognerebbe, pel materiale, (per la parte lessicale) di esso, richiamare il punto di vista antropologico, e più particolar- mente quello psicofisiologico per la forma (la grammatica) antici- pare il punto di vista dell'intelletto. Pel materiale elementare del lin- guaggio, da una parte si è abbandonata la teoria della mera acci-

 dentalità; dall'altra il principio dell'imitazione è stato limitato al suo piccolo ambito, agli oggetti risonanti [...]. Siffatta sovrabbondanza nel sensibile, nell'insignificante, non è da calcolare come ciò che de- ve costituire la ricchezza di una lingua colta. Anche ciò che è pecu- liarmente elementare non riposa tanto su una simbolica estema, che si riferisca a oggetti estemi, quanto sulla simbohca intema; cioè sul- l'articolazione antropologica, come su un gesto della manifestazio- ne linguistica corporale. Così si è cercato per ogni vocale e conso- nante, come pei loro elementi più astratti (gesti di labbra, di pala- to, di lingua), e poi per le loro combinazioni, il significato peculia- re. Ma questi mdimenti confusi e incoscienti vengono modificati da nuovi fatti estemi e da bisogni di coltura, così da diventare invisi- bili e insignificanti ed essenzialmente con ciò, che essi stessi ven- gono abbassati, in quanto intuizioni sensibili, a segni; e così il loro significato proprio e originario intisichisce e si spegne. Ma la parte formale del linguaggio è l'opera dell'intelletto, che imprime in esso le sue categorie: questo istinto logico produce la parte grammatica- le del linguaggio [...]. Accanto al linguaggio fonico, che è l'origina- rio, può anche essere menzionato - ma qui solo di passaggio - il lin- guaggio scritto; esso è soltanto una formazione ulteriore nel domi- nio particolare del linguaggio, che prende ad aiuto un'attività este- riormente pratica. Il linguaggio scritto entra nel campo dell'intuire immediato e spaziale, nel quale esso prende e produce i segni. Più particolarmente, la scrittura per geroglifici designa le rappresenta- zioni mediante figure spaziali; la scrittura alfabetica, invece, suoni, che sono già essi stessi segni.'
Nella Propedeutica filosofica, e precisamente nella terza par- ie dedicata alla filosofia dello spirito, le tesi di Hegel intomo al segno e al linguaggio sono espresse forse con maggiore chiarez- za, anche se con altrettanta approssimazione. In maniera insoli- lamente schematica, Hegel tratta del problema della significa- zione, e in particolare della arbitrarietà del segno:
155. Il segno in generale. La rappresentazione essendo stata libera- ta della realtà presente esteriore e resa soggettiva, questa realtà e la rappresentazione interna sono situate faccia a faccia come due co- se distinte. Una realtà esteriore presente diviene segno quando è ar- bitrariamente associata a una rappresentazione che non le corri- sponde e che se ne distingue parimenti attraverso il suo contenuto, in modo tale che questa realtà deve esseme la rappresentazione o significazione.
' Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissen- •«•híiften im Grundrisse, ii, 1, §§ 458-459.
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156. La memoria creatrice produce dunque l'associazione fra intui- zione e rappresentazione, ma una associazione libera nella quale si trova invertito il rapporto precedente, dove la rappresentazione ri- posava sull'intuizione. Nell'associazione quale è operata dalla me- moria creatrice, la realtà sensibile presente non ha alcun valore in se stessa e per se stessa, ma il suo solo valore è quello che le confe- risce lo spirito.
 157. La realtà presente di ordine sensibile si rapporta, attraverso le sue determinazioni, assolutamente parlando, a un'altra realtà pre- sente. Ma dal momento che la memoria creatrice fa di una rappre- sentazione la sua propria determinazione, essa diviene essenzial- mente di per se stessa, reazione fra certe rappresentazioni e altre es- senzialmente capaci di rappresentazione; ed è così che comincia la comunicazione teorica di tali esseri gli uni con gli altri.
158. Il linguaggio. L'opera più alta della memoria creatrice è il lin- guaggio, che è, da un lato, verbale, dall'altro, scritto. La memoria creatrice o (xvrifAO0iJvr| essendo la fonte del linguaggio, non si pone la questione di un'altra fonte altro che per ciò che concerne la sco- perta di segni determinati.
159. Il suono è la manifestazione fenomenica favorevole di una in- teriorità, la quale, in questa esteriorizzazione, non resta una realtà estema, ma si fa conoscere come realtà soggettiva, interiore, che si- gnifica essenzialmente qualche cosa. - È particolarmente impor- tante che l'articolazione dei suoni permetta di designare non sola- mente delle immagini nelle loro determinazioni, ma anche delle rap- presentazioni astratte. - Assolutamente parlando, il segno verbale fa della rappresentazione concreta una realtà senza immagine, che si identifica con il segno. Il linguaggio è sparizione del mondo sen- sibile nella sua presenza immediata [...].
160. Per quanto conceme l'invenzione di segni determinati, è natu- rale che, per i fenomeni sonori (mmori, fremiti, fracassi), si siano scelti dei segni verbali che ne sono le imitazioni immediate. Per al- tri oggetti o modificazioni sensibili, il segno è, assolutamente par- lando, arbitrario. Per mezzo della designazione dei rapporti e delle determinazioni astratte, la simbolizzazione gioca un molo essen- ziale e la formazione ulteriore dei linguaggi appartiene alla facoltà dell'universale, cioè dell'intendimento.^
Ma le più interessanti annotazioni semiotiche di Hegel sono contenute ne\^Estetica, quando all'inizio della seconda parte si discute sul simbolo in generale:
2 Id., Philosophische Propadeutik, ii, 1, §§ 155-160. 136

Simbolo in generale è un'esistenza estema che è immediatamente presente o data all'intuizione, ma che non deve essere presa in base a lei stessa, non così come immediatamente si presenta, bensì in un senso più ampio e più universale. Quindi nel simbolo vanno subito distinti due lati: il significato e la sua espressione. Il primo è una rappresentazione o un oggetto, qualunque ne sia il contenuto, la se- conda è un'esistenza sensibile o un'immagine di qualsiasi specie.
Il simbolo come segno
 Il simbolo è innanzitutto un segno. Ma nella semplice designazione la connessione reciproca che vi è fra il significato e la sua espres- sione è un legame del tutto arbitrario. Questa espressione, questa cosa sensibile o questa immagine rappresenta allora tanto poco se stessa, che essa porta invece a rappresentazione un contenuto a es- sa estraneo, con cui non ha bisogno di aver propriamente nulla in comune. Per esempio, nelle lingue i suoni sono segni di una rap- presentazione, di una sensazione eccetera, ma la maggior parte dei suoni della lingua è legata con le rappresentazioni che essi espri- mono in un modo accidentale per il contenuto, quantunque si pos- sa mostrare, seguendo lo sviluppo storico, che la connessione origi- naria era di natura diversa; e la differenza delle lingue consiste prin- cipalmente nel fatto che la medesima rappresentazione è espressa con suoni diversi. Altri esempi di questi segni sono i colori ("les cou- leurs") usati nelle coccarde e nella bandiera per indicare a quale na- zione appartenga un individuo o una nave. Tale colore non contie- ne in se stesso alcuna qualità, che esso abbia in comune con quel che significa, cioè con la nozione che da esso viene rappresentata. Noi non dobbiamo prendere, in rapporto all'arte, il simbolo nel sen- so di questa indifferenza di significato e designazione; giacché l'ar- te in generale consiste proprio nella relazione, nell'artista e nella concreta compenetrazione reciproca di significato e forma.^
Chiarito il carattere arbitrario del simbolo in quanto segno, I legel però dà una ulteriore determinazione: quando il segno di- venta simbolo, in questo caso certe qualità della forma coinci- dono con certe qualità del significato. D'altra parte, questo lega- me non presuppone che forma e contenuto siano motivati in tut- to e per tutto: ogni forma è portatrice di molteplici determina- zioni, che ne garantiscono l'ambiguità:
Diversamente stanno le cose per il segno che deve essere un simbo- lo. Il leone, per esempio, è considerato simbolo del coraggio, la vol- pe simbolo dell'astuzia, il cerchio simbolo dell'eternità, il triangolo
' là., Ästhetik, ii, 1, Introduzione, 1.
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 della Trinità. Ma il leone, la volpe possiedono per sé le qualità di cui devono esprimere il significato [...]. In questi generi di simbolo, quin- di, le esistenze sensibilmente date hanno già nel proprio esserci quel significato per la cui rappresentazione ed espressione esse sono im- piegate; e il simbolo, considerato in questo senso più ampio, non è dunque un semphce segno indifferente, ma un segno che nella sua esteriorità abbraccia in sé anche il contenuto della rappresentazio- ne che esso fa apparire. Al contempo però esso deve portare a co- scienza non se stesso come questa singola cosa concreta, ma solo quella qualità universale in sé del significato.
Il disaccordo parziale tra forma e significato
Va poi in terzo luogo notato che il simbolo, sebbene non debba es- sere del tutto inadeguato al suo significato, come il segno sempli- cemente estemo e formale, non deve neanche, per rimanere simbo- lo, farsi a esso interamente commisurato. Infatti, sebbene per un la- to il contenuto, che è il significato, e la forma che è usata per il si- gnificato, concordino in una qualità, tuttavia la forma simbolica con- tiene per sé ancora altre determinazioni assolutamente indipendenti da quella qualità in comune che essa ha prima designato; come egual- mente non è necessario che il contenuto sia un contenuto astratto, quale la forza, l'astuzia, ma può essere un contenuto concreto, che da parte sua può possedere anche qualità peculiari diverse dalla pri- ma proprietà che costituisce il significato del suo simbolo, e ancor più dalle altre qualità peculiari di questa forma [...]. Il contenuto perciò, rimane anche indifferente nei riguardi della forma che lo rappresenta, e la determinatezza astratta che esso è può egualmen- te essere presente in infinite altre esistenze e figurazioni [...]. Da qui deriva che il simbolo, secondo il suo concetto, rimane essenzial- mente ambiguo.''

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