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Thursday, September 16, 2021

Grice ed Aosta

 Da un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale.

Questo dunque è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia: doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora infine venuto alla luce.
Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo Zorzato per i loro

commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la sensibilità di sempre.
Roma, novembre 2012
Avvertenza
Di regola, le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto.

1. Il gioco
Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante.
Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un minuto.
Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è in

gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro, cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar); hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una penosa confusione?
E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un passo come il seguente, dalla Critica del giudizio:
È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21).
Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le folle non provano

(ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo.
Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza del gioco?
Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi, avendo visto maturare anziché

spegnersi le nostre opinioni e i nostri sentimenti.
Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto sarebbero
ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria.
Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza attraverso questi umili, intimi passi.

2. Il punto di partenza
Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga «solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata (presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama. Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione.
Il secondo commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,

quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza – un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo).
Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata.
Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge

attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il paradigma di questa esplorazione.
La tensione fra trasgressione e apprendimento può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti, l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella storia della fisica.
Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto che esplora è il suo

ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta.
Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia, se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose».
Ad ogni buon conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa, perseguita in

completa autonomia (in accordo con una delle possibili definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico:
Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto).
Alla fine del libro, però, la chiude con decisione:
Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero, intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p. 195).
A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile» (p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica, spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45).
Càpita spesso che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su

come il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza, sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente» socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così (implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco.
Superata anche questa difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso; violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità).
Abitudini e aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato – a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé stesso, e questo comportamento avventato implica

inequivocabilmente dei rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88; traduzione modificata).
Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa. Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato, urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente, fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?

3. Caos e ordine
Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo, cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio, perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando, esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente.
Certo è possibile che le leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate; nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo

per quel che la scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in puri dogmi.
In assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è andata dissolta (p. 135).
Col progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari – [...] rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario agguerrito, impegnato a convertirlo (p. 147).
Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro?
Una modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso viene dalla teoria del caos.

A dispetto del suo nome, questa teoria non dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo, nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in un altro punto.
Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole: informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla.
In un caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale, non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –

senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità; nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però, estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale, perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione. Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità (intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi», conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente.
Fin qui la teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente fino a che punto siamo in grado di conoscerle),

finché non si sia deciso in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato; è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una qualsiasi determinazione.)
Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano, leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra l’altro, da qual è la mia occupazione.)
Secondo la teoria della complessità, vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di vista autosufficiente che costituisce la

sua realtà, e non c’è una realtà neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di poter emettere qualsiasi frase dotata di senso.
Una delle difficoltà più ardue con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati; qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale comportamento?
La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel vuoto. L’esercizio che

è opportuno per acquisire questa capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco, rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno) dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa. Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’ preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per forza.
Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso – perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo «sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non conta,

che al momento è solo possibile.

4. Regole
Avendo così tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti. La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto, e molto di sorprendente, ma non può fare tutto.
Per dirla altrimenti, la mia descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere per libertà e risponderò che di solito non

s’intende un’infinita capacità di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento.
Nel primo capitolo ho mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p. 66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere.
Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli

più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze.
Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla.
A rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e televisiva delle ossessioni.
Non è strano che questa retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che

avremo creato (e sotto la protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva.
L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un gioco già in atto.
Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente, fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite.

A riprova della pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda.
I bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci, urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato, afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade, nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci, comparire o sparire,

senza che il gioco cambi, perché esso consiste proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco», dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata un desiderio» (p. 146), e continua:
è una regola interna, una regola di autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole di questo.
Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86).
Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto importanti, me ne dissocio.
Ho detto che la logica aristotelica è analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che

sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie.
Tutto quel che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di «giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte, affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta [...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua

evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza. Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura, si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti (essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto. Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul
quale dovrò ritornare):
prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30).
Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte) quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro.
Ecco allora come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua

volta trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle regole» (p. 24).
Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?

5. Microcosmi
Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza, dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però, questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto, soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse «fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere.
Cominciando con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa da

centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci sia lecito improvvisare.
Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza.
In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica? Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà

con orrore da manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo trarre importanti conseguenze.
Prepararsi alle sorprese che il futuro ci riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri. Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di una meteora o di un tornado.
Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»; voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora, e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si annidano in un universo caotico e

coltivare al tempo stesso, senza farsi troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, da qualcosa di diverso.
La mia immagine nello specchio mi rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra, o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo:
L’essenziale dell’immagine non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa contribuire alla sua efficacia (p. 112).
Ho detto che i giochi per procura si svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo

alcuni movimenti e atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero.
Quest’ultima osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente. (In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito; in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto.
Siamo così tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente ludico; ma

qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un sistema di regole?
Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco.
Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la bimba

non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone decidono di abitare.
Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più rischiosi.)
C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto: è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada. Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale, nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza, con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di un’automobile, dove incontrerà altre

resistenze che accetterà come regole di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione, che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi.
Nell’Essere e il nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere. Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me, d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso conto allora che avevo davanti un essere umano.
In Verso un’ecologia della mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco” stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè: quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi, analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza stessa dell’attività e della vita.
La nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p. 235).

Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per questo all’altro prima o poi si arrenderà.

6. Calma e gesso
Nel gioco del biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo, prima di riprendere il cammino.
Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto, un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo. Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non «sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto stesso di cui

volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della passività con la
libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54).
In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide
solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su un’altra scimmia che con la

medesima casualità scopra come far cadere un cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità, riassume storie analoghe in questo modo:
Sarei tentato di avanzare l’ipotesi poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p. 37).
Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41).
Il gioco, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende possibile l’uso di strumenti (p. 43).
La libertà espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.)
L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale:
[Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29).
E anche Piaget parla di polarità:
il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso cui

converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino, pp. 213-214).
il gioco si riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o meno differenziato (pp. 218-219).
Io però intendo proporre qui un’operazione più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole) siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette, semplicemente,

alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture.
Che all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso di regole.)
Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire «tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più audace delle avventure s’incagli su un binario morto.

7. Illusioni
Nel quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le «figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato, inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è, letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci.
Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il pittore

voleva mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un teschio.
Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo.
Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita:

Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172).
A mente fredda diremo poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito – metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo infelice destino.
L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione, ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna, traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne (dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra.
«Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un coniglio –

è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte, che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini multiple, l’illusione percettiva.
Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere, cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona, sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra, in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale, per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni, ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene all’arte, la ragion d’essere.
Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282).
Il piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich,
dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli abissi dell’infinito su una

superficie piatta e fa sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è altro che una tela o un semplice piano» (p. 254).
Se questo gioco viene a mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a costituire l’arte.
In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni.
In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di

attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa:
gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25).
In secondo luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana:

«Ma questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa» (p. 173).
In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno per oggetti artistici.
C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto ossessionate dal filetto o dalla briscola.
Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro. L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti

più di una scrollata di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci) e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.

8. Il fattore in gioco
Una cosa che ho appena detto può dare adito a perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi. Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti? Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco».
L’osservazione è acuta e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola. Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare, insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono?
Non necessariamente. Basta osservare che, se stiamo giocando e se il

presunto oggetto del nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto.
Che cosa succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale? Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine.
Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che

ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole.
Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi.
Cominciamo con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco: è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro. All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste, anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla.
Il tema che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana

importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto:
I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35).
Buona parte dei giochi comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi autori?
Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la sua sopravvivenza e il suo benessere.

Depurato di ogni altro aspetto, qui il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con sé stessi.
Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando – o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa di un gioco.
Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero. Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio, insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso ludico e della vera umanità.
(Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici, numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità «ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e soprattutto «autorità competenti»

sentite come estranee e predatrici. Un ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».)
Il fascino e l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise barriere (regole): «Formalmente [...] [la] nozione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens, p. 43). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro:
L’esito del gioco d’azzardo è di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta [...]. [G]iurisdizione e ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125).
La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco.

9. Compagni di gioco
Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme.
In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.)
Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il sacro:

La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp. 22-23).
Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco, che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole («Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore.
L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del gioco.
Che cosa succede quando si manifesta questa seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale, non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo andare, fulminando la lampadina); il

tavolinetto è fatto per appoggiarci bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza. Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono; ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi oltre il davanzale si esce in giardino!
Ho detto che «costruire figure» è un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività.
Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra

dover essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto, illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito a scoprire da solo.
C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze, riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo» (o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie» a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali, addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma insisto sulle tre tesi seguenti:
(a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto giocando «per procura»).
(b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita (direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile: meno gioco vuol dire meno umanità.

(c) Il gioco è tanto più gioco se giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il «con» introduce un complemento di compagnia).
Come gestire allora i pericoli e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più gravi.
Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali, come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta di uno o più avversari:
i giochi di regole sono giochi di combinazioni sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui (senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto).
il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria

dell’individuo sugli altri (p. 247).
È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione.
Per capirci, supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza).
La percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere

invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte.

10. Azione!
Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione, sensibilità e allegria.
Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni di Flushing Meadows, qualche

anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci.
Nell’antica Atene la naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro cammino.
La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua.
Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni altra

indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso, per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua repubblica).
Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna, però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione (Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’ il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo.
È una delicata questione metafisica se, quando un attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il

loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.)
La recente scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio.
Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme.
C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a

raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il “bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90; traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio «solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco?
Posso immaginare circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti, eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso, rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà più

audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla appunto in gioco.
La morale di questo discorso è che gli autentici solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa, applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di personaggi e storie.
Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati, più o meno

vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta).
Che cos’è un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!».

11. Giochi di parole
A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa spazio.
A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la

zavorra – in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si associa, che su tale
fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso, ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero», quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende «albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente (che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche (un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali. Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti, echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E, invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma, si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato: in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica; e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere? Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro, dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare, potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica. Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine «scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto, comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa; bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline (ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa) normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e (altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale (cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali, costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo, direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile, come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto, improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato, invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente (a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente: l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione, delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale? Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile, ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione» nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate, le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio: solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05 la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi, per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura, la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco (cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza, ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama «pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni). Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero, più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro, trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento: non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa; certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura, i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia, perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume, scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio, la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]», Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo «tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo, un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio. Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale, pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto: si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie. Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano? Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo, intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei, mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita. Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che, sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta: che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge, giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere, non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco» filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile. Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro, dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente, peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri, eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato, dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco (palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita, allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse – devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo scomparire.

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