evola: Italian philosopher – Giulio Cesare Andrea Evola, meglio conosciuto
come Julius Evola (n. Roma), è stato un filosofo. Fu personalità poliedrica nel
panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici
interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume,
studi sulla razza. Le sue posizioni si inquadrano nell'ambito di una cultura
di tipo aristocratico-tradizionale e di tendenze ideologiche in gran parte
presenti anche nel fascismo e nel nazionalsocialismo, pur esprimendosi talvolta
in chiave critica nei confronti dei due regimi. Mussolini ne apprezza alcune
impostazioni: in particolare il ritorno alla romanità e una teoria della razza
in chiave spirituale. Da parte sua il filosofo nutre una pacata ammirazione nei
confronti del Duce. Evola ha una sua influenza, anche se difficilmente
quantificabile, nel variegato mondo della cultura fascista: con lo scopo di
indirizzarne l'impostazione culturale ed ideologica verso posizioni più affini
al suo pensiero, scrive numerosi saggi, collabora intensamente con riviste e
giornali di grande tiratura e partecipa alla vita accademica del suo tempo in
veste di conferenziere, sia presso alcune prestigiose università italiane e
straniere che nell'ambito dei corsi di mistica fascista. Ma è lo stesso
Evola, nel primo numero della rivista da lui diretta, La Torre, quando espone
il suo pensiero sul mondo della tradizione, a sintetizzare la sua posizione
verso il fascismo: «Nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi,
in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è
tutto».[1] C'è anche chi ritiene che in sede diplomatica Evola svolgesse
missioni ad altissimi livelli per conto dello stesso governo italiano.[2]
Nonostante ciò, le sue idee eterodosse non sempre sono ben accette dalla classe
dirigente italiana del tempo e gli valgono la sospensione di alcune pubblicazioni
da parte dello stesso PNF e in Germania il sospetto delle gerarchie naziste.[3]
Evola contribuisce alla divulgazione in Italia di importanti autori europei del
XIX e del XX secolo: Bachofen, Guénon, Jünger, Ortega y Gasset, Spengler,
Weininger, traducendo alcune loro opere e pubblicando saggi critici. La
complessità del suo pensiero gli procura, anche dopo la fine della guerra, un
grande seguito negli ambienti conservatori italiani ed europei, da quelli più
tradizionalisti del neofascismo (Pino Rauti ed Enzo Erra del Centro Studi
Ordine Nuovo) fino a quelli rappresentati da esponenti della destra più
moderata (Giano Accame, Marcello Veneziani). Le sue opere vengono tradotte e
pubblicate in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Svizzera,
Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Messico, Canada, Romania, Argentina,
Brasile, Ungheria, Polonia, Turchia.[4] Giulio Cesare Evola nacque a
Roma[5]. I genitori di Giulio Cesare Evola furono Vincenzo Evola, nato il 4
maggio 1854[6] e Concetta Mangiapane, nata il 15 agosto 1865[7]. Entrambi i
genitori erano siciliani, nati a Cinisi, un comune della Provincia di Palermo.
I nonni paterni di Giulio Cesare Evola erano Giuseppe Evola e Maria Cusumano.
Giuseppe Evola è riportato come falegname nell'atto di nascita di Vincenzo. I
nonni materni di Giulio Cesare Evola erano Cesare Mangiapane e Caterina Munacó.
Cesare Mangiapane è riportato come bottegaio nel registro delle nascite di
Concetta. Vincenzo Evola e Concetta Mangiapane si sposarono a Cinisi il 25
novembre 1892[8]. Nell'atto di matrimonio Vincenzo Evola è riportato come capo
meccanico telegrafico e già residente a Roma, mentre Concetta Mangiapane è
riportata come possidente. Giulio Cesare Evola aveva un fratello maggiore,
Giuseppe Gaspare Dinamo Evola, nato a Roma il 7 Agosto 1895[9], per cui,
essendo il secondo figlio maschio, seguendo la convenzione di denominazione
siciliana dell'epoca, seppur con una leggera variazione, Giulio Cesare Evola fu
in parte denominato in onore al nonno materno. Benché non lo fosse,
Giulio Cesare Evola è stato spesso riportato come barone[10], in riferimento a
un presunto distante rapporto di discendenza con una famiglia aristocratica
siciliana di antica origine normanna (gli Evoli, baroni di Castropignano in
Molise, nel Tardo Medioevo[11], poi passati in Sicilia) del Regno di
Sicilia. Formazione Giulio Cesare Evola studiò all'Istituto Tecnico
"Leonardo da Vinci" di Roma. Le poche notizie sui suoi anni di
formazione si possono ricavare dall'autobiografia intitolata Il cammino del
cinabro, pubblicata nel 1963 dall'editore Scheiwiller e che, nelle intenzioni
dell'autore, sarebbe dovuta uscire postuma:[12] «Nella prima adolescenza,
mentre seguivo studi tecnici e matematici, si sviluppò in me un interesse
naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell'arte. Da giovinetto,
sùbito dopo il periodo dei romanzi d'avventure, mi ero messo in mente di
compilare, insieme ad un amico, una storia della filosofia, a base di sunti.
D'altra parte, se mi ero già sentito attratto da scrittori, come Wilde e
D'Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi, a tutta la letteratura
e l'arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime
serrato ma libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l'incontro
con pensatori, come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger. Esso valse ad
alimentare una tendenza di base, anche se, a tutta prima, in forme confuse e in
parte distorte, quindi con una mescolanza del positivo col negativo»
(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 5.) La lettura delle opere
degli autori su citati (in particolare Nietzsche), ha sul giovane Evola alcune
dirette conseguenze: in primo luogo un'opposizione al Cristianesimo,
soprattutto in riferimento alla teoria del peccato e della redenzione, del
sacrificio divino e della grazia. In secondo luogo una sorta di insofferenza
verso il mondo borghese, la sua piccola morale e il suo conformismo.[13]
Decide dunque di svincolarsi dalla routine borghese, soprattutto nei suoi
aspetti più concreti e quotidiani: famiglia, lavoro, amicizie. Si iscrive alla
facoltà di ingegneria, ma rifiuta di discutere la tesi per disprezzo dei titoli
accademici[14], poiché «l'apparire come un "dottore" o un
"professore" in veste autorizzata e per scopi pratici, mi sembrò cosa
intollerabile, benché in seguito dovessi vedermi continuamente applicati titoli
che non ho».[15] Prosegue nello studio dell'arte e della filosofia:
«A parte gli autori accennati, va menzionata l'influenza che su me adolescente
esercitò anche il movimento che alla vigilia della prima guerra mondiale e
durante la prima parte di essa ebbe per centro Giovanni Papini con le riviste
Leonardo e Lacerba, in seguito in parte anche con La Voce. Fu il periodo
dell'unico vero Sturm und Drang che la nostra nazione abbia conosciuto,
dell'urgere di forze insofferenti del clima soffocante dell'Italietta borghese
del primo novecento […] A lui e al suo gruppo si deve il nostro venire a
contatto con le correnti straniere più varie e interessanti del pensiero e
dell'arte d'avanguardia, con l'effetto di un rinnovamento e di un ampliamento
di orizzonti» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 5.)
Successivamente si distacca anche da Papini, soprattutto per la sua conversione
al cattolicesimo ed a seguito della pubblicazione del libro Storia di Cristo
(1921). Inizia giovane l'attività in campo artistico: i primi quadri
risalgono al 1915, le prime poesie al 1916. Attraverso Giovanni Papini
entra in contatto con alcuni esponenti del Futurismo quali Giacomo Balla e
Filippo Tommaso Marinetti. Nel 1919 partecipa alla "Grande Esposizione
Nazionale Futurista" di Palazzo Cova a Milano.[16] Ben presto si stacca da
questo movimento per ragioni che lui stesso espone: «Non tardai però a
riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l'orientamento del futurismo
si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il
sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e
esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente
mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre,
per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo. A
quest'ultimo riguardo la divergenza mi apparve netta allo scoppio della prima
guerra mondiale, a causa della violenta campagna interventista svolta sia dai
futuristi che dal gruppo di Lacerba. Per me era inconcepibile che tutti
costoro, con alla testa l'iconoclasta Papini, sposassero a cuor leggero i più
vieti luoghi comuni patriottardi della propaganda antigermanica, credendo sul
serio che si trattasse di una guerra per la difesa della civiltà e della
libertà contro il barbaro e l'aggressore» (Julius Evola, Il cammino del
cinabro, op. cit., p. 8.) A questa prima fase, definita dallo stesso Evola
idealismo sensoriale,[17] appartengono le opere: Fucina, studio di rumori (1917
circa), Five o'clock tea (1918 circa) e Mazzo di fiori (1917-18). Gli
anni della Prima guerra mondiale Monte Cimone di Tonezza, 1917 Frequenta
a Torino un corso per allievi ufficiali e partecipa alla Prima guerra mondiale
come ufficiale di artiglieria sull'altopiano di Asiago dal 1917 al 1918.
Rientra a Roma dopo il conflitto ed attraversa una profonda crisi esistenziale
che lo porta al bordo del suicidio, come egli stesso riporta ne Il cammino del
cinabro: «Questa soluzione [...] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una
illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu
per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento,
e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi»
(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.) Il passo cui si
riferisce Evola è il seguente: «Chi prende l'estinzione come estinzione e,
presa l'estinzione come estinzione, pensa all'estinzione, pensa
sull'estinzione, pensa "Mia è l'estinzione" e si rallegra
dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione».[18] Si tratta di
una traduzione e rielaborazione di una frase del Buddha contenuta nel discorso
del Mulapariyâya Sutta (Canone pāli, Majjhima Nikaya, I).[19] Il secondo
periodo artistico: l'astrattismo mistico Nel 1920 aderisce al Dadaismo ed entra
in contatto epistolare con Tristan Tzara.[20] Come pittore diviene uno dei
massimi esponenti del Dadaismo in Italia.[21] Questa seconda fase viene
definita, sempre da Evola, astrattismo mistico[22][23][24] ovvero una
reinterpretazione dada in chiave di spiritualismo e di idealismo. A questa fase
appartengono alcune importanti opere: Paesaggio interiore 10,30 (1918-20) e
Astrazione (1918-20). Questo periodo vede Evola impegnato in due mostre
personali: quella del gennaio 1920 alla casa d'arte Bragaglia di Roma, e quella
del gennaio 1921 alla galleria Der Sturm di Berlino in cui presenta sessanta
dipinti.[25] Pubblica nel 1920, per la Collection Dada, l'opuscolo Arte
astratta. Sempre nello stesso anno fonda con Gino Cantarelli la rivista Bleu e
pubblica a Zurigo il poema dada La parole obscure du paysage intérieur.
Collabora inoltre con Cronache d'attualità di Anton Giulio Bragaglia e con Noi
di Enrico Prampolini. Nel 1923 cessa l'attività pittorica e fino al 1925 fa uso
di sostanze stupefacenti con il fine di raggiungere stati alterati di
coscienza: «In questo contesto, vi è anche da accennare all'effetto di alcune esperienze
interiori da me affrontate a tutta prima senza una precisa tecnica e coscienza
del fine, con l'aiuto di certe sostanze che non sono gli stupefacenti più in
uso [...] Mi portai, per tal via, verso forme di coscienza in parte staccate
dai sensi fisici».[26] Il mancato suicidio è per Evola il momento di
passaggio più significativo: fine del periodo artistico e inizio del periodo
filosofico. Esce nel 1925 il primo libro di filosofia: Saggi sull'idealismo
magico. Coerentemente con le posizioni teoriche della sua seconda fase
artistica (astrattismo mistico) Evola si distacca dall'idealismo hegeliano in
favore di una libertà interiore assoluta. Il pensiero deve prefiggersi il
compito di superare i limiti dell'umano per andare verso l'oltre-uomo teorizzato
da Nietzsche. L'attualismo gentiliano diventa dunque il punto di partenza:
dall'Io come principio attivo della realtà su un piano logico-astratto, all'Io
come criterio di potenza capace di affermare l'individuo assoluto.[30]
Secondo Evola l'individuo assoluto è immediatamente sé nelle infinite
affermazioni individuali ed in ciascuna di esse si fruisce come libertà, come
incondizionata agilità ed arbitrio assoluto.[31] Termina nel 1924 la Teoria e
fenomenologia dell'individuo assoluto che inizia a scrivere già in trincea (nel
1917) e che viene pubblicata in due volumi (nel 1927 e nel 1930) dall'editore
Bocca. In questo testo Evola si interessa delle dottrine riguardanti il
sovrarazionale, il sacro e la gnosi, con l'obiettivo di tentare il superamento
della dualità io/non-io. Il suo interesse verso le tradizioni orientali si
manifesta in L'uomo come potenza, pubblicato nel 1926, dove compare una
concezione dell'io ispirata ai dettami del tantrismo e del taoismo.
Queste ultime opere segnano un'ulteriore svolta: passaggio da una posizione
filosofica di tipo teoretico ad una di tipo pragmatico. Evola cerca infatti di
individuare strumenti concreti per mezzo dei quali calare nella vita quotidiana
la teoria dell'Individuo assoluto. A partire dal 1924 inizia un'intensa
esperienza giornalistica: partecipa alla redazione di Lo Stato democratico, una
rivista contemporaneamente antifascista ed antidemocratica, e tra il 1924 e il
1926 collabora a riviste come Ultra, Bilychnis, Ignis, Atanor e Il mondo. In
questo periodo Evola frequenta i circoli esoterici romani e partecipa alla vita
notturna della capitale intrattenendo un tempestoso rapporto sentimentale con
Sibilla Aleramo, come lei stessa riporta nel libro Amo dunque sono del
1927: «Disumano qual è, gelido architetto di teorie funambolesche,
vanitoso, perverso, s'è trovato dinanzi a me come a cosa tutta viva, tutta
schietta, mentre aveva fantasticato chissà... quale avventura necrofila. E
questa cosa tutta schietta l'ha turbato, l'ha commosso, segretamente […]»
(Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Milano, Mondadori, 1927, p. 104.) La
versione tedesca di Imperialismo pagano Tra il 1927 e il 1929 coordina il
Gruppo di Ur, che si occupa di esoterismo e di ricerche sulle tradizioni extra
europee: un'antologia dei fascicoli editi viene più tardi pubblicata in tre
volumi (tra il 1955 e il 1956) con il titolo Introduzione alla magia quale
scienza dell'Io. Conosce Arturo Reghini e legge i suoi scritti. Anche sulla
scorta di esperienze condivise con il noto esoterista, nel 1928 pubblica un
libro che gli procura grande fama: Imperialismo pagano. In questo pamphlet (poi
tradotto in tedesco nel 1933[32]) Evola attacca violentemente il Cristianesimo
ed esorta il Fascismo a ritrovare l'antica grandezza della civiltà
romana: «Oserà dunque il fascismo assumere qui, qui donde già le aquile
imperiali partirono per il dominio del mondo sotto la potenza augustea, solare,
regale […] oserà qui riprendere la fiaccola della tradizione
mediterranea?» (Julius Evola, Imperialismo pagano, Padova, Edizioni di
Ar, 1996, p. 24.) Influenzato dalla lettura delle opere di René Guénon
abbandona in seguito le tesi estremiste di Imperialismo pagano a favore del
concetto di "tradizione" e fonda con Emilio Servadio la rivista La
Torre (uscita in soli dieci numeri tra febbraio e giugno del 1930), destinata a
difendere principi sovrapolitici, in realtà «una tribuna di intellettuali che
si battevano per un fascismo più radicale e più intrepido».[33] Critiche mosse
ad alcuni personaggi del Regime dalle pagine de La Torre, provocano
l'intervento di Starace che prima diffida Evola dal continuare la
pubblicazione, poi proibisce a tutte le tipografie romane di stampare la
rivista la cui pubblicazione, alla fine, viene sospesa. Evola viene
sorvegliato dal regime in quanto accusato di affiliazione all'Ordo Templi
Orientis ed è costretto ad assumere alcune guardie del corpo (come testimoniato
da Massimo Scaligero) .[14] Inizia un periodo dedicato interamente
all'alpinismo. Nel 1930, con la guida alpina Eugenio David, affronta la scalata
della parete settentrionale del Lyskamm Orientale.[34] Di questa e di altre
esperienze viene poi redatto un libro nel 1973: Meditazioni delle vette.[35]
Evola intende l'alpinismo come pratica ascetica e meditazione spirituale:
superamento dei limiti della condizione umana attraverso l'azione e la
contemplazione, che divengono due elementi inseparabili, «un'ascesa che si
trasforma in ascesi».[36] Successivamente pubblica due opere: La
tradizione ermetica (1931) e Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo
(1932). La prima è una disamina dell'aspetto magico, esoterico e simbolico
dell'alchimia. La seconda è un saggio critico su quelle correnti di pensiero
che, secondo Evola, «invece di elevare l'uomo dal razionalismo moderno e dal materialismo,
lo portano ancora più in basso: spiritismo, teosofia, antroposofia e
psicoanalisi».[37] Nel 1934 appare la sua opera fondamentale, Rivolta contro il
mondo moderno, nella quale traccia un affresco della storia letta secondo lo
schema ciclico tradizionale delle quattro età: oro, argento, bronzo e ferro
nella tradizione occidentale e satya, treta, dvapara e Kali Yuga in quella
induista. In Rivolta Evola oppone il mondo tradizionale al mondo moderno.
Nella prima parte analizza le categorie qualificanti l'uomo della tradizione e
le antiche "razze divine"; nella seconda analizza la genesi del mondo
moderno ed i processi a causa dei quali la civiltà tradizionale è crollata (dal
dominio dell'autorità spirituale al dominio del "quarto stato").
Partendo da questi presupposti, tre anni dopo, esamina a fondo Il mistero del
Graal (1937) e le sue implicazioni dottrinarie nelle visioni dei diversi
periodi storici, impostando tutta la sua disamina sul concetto di
"tradizione ghibellina dell'impero", cercando di svincolare il Graal
e la sua portata simbolica dalla tradizione cristiana. A partire dal 1934
Evola collabora attivamente con la Scuola di mistica fascista, fondata da
Niccolò Giani nel 1930, tenendo alcune conferenze e figurando nel comitato di
redazione della rivista Dottrina fascista. La maggior parte degli interventi di
Evola in conferenze e scritti, riguardano principalmente il tema del razzismo,
argomento che trova appoggio sia da parte di Giani che da parte dello stesso
Mussolini. Secondo Evola, tuttavia, l'espressione mistica fascista rappresenta
un'incongruenza potendo parlare, al più, di etica fascista. Questo perché in
realtà il fascismo, secondo Evola, «non affronta il problema dei valori
superiori, i valori del sacro, solo in relazione ai quali si può parlare di
mistica».[38] Jean-Paul Lippi – giurista e saggista francese, tra i più
importanti studiosi d'oltralpe del pensatore tradizionale – rileva di come
Evola ravveda nella mistica «un elemento rilevatore di una spiritualità lunare
e del polo femminile dello spirito».[39] E infatti il sottotitolo di Diorama
filosofico – la pagina prima mensile e poi quindicinale curata da Evola nel
quotidiano Il Regime Fascista di Cremona tra il 1934 e il 1943 – è: Problemi
dello spirito nell'etica fascista. Nel 2009 una serie di scritti di Evola
relativi alla scuola di mistica fascista, sono stati pubblicati dall'editore
Controcorrente di Napoli,[40] e aiutano in parte a chiarire le posizioni
assunte dal filosofo all'interno della suddetta corrente. Le tesi sulla
razza «Sia razzialmente, sia in fatto di ideali, esiste una grande opposizione
fra l'uomo ariano e tradizionale europeo e il giudeo. Fin dalle origini il
giudeo ci è apparso come un essere diviso in se stesso. A differenza
dell’ariano egli fu sempre incapace di concepire e di realizzare un'armonia fra
spirito e corpo. Il corpo significò per lui la carne, cioè una crassa e
peccaminosa materialità, da cui deve redimersi per raggiungere lo spirito che
per lui sta in una sfera astratta, fuori della vita. Ma nel giudeo questo
impulso alla liberazione fallisce ed allora le prospettive si invertono: colui
che era tormentato dal pungolo della redenzione si precipita disperatamente
nella materia, si abbandona ad una brama illimitata per la materia, per la
potenza materiale e per il piacere. Voi così vedete un uomo che si sente
schiavo della carne e per questo vuol vedere intorno a sé solo degli schiavi
come lui. Perciò egli gode dovunque egli scopra l’illusorietà dei valori
superiori, dovunque torbidi retroscena si palesino dietro la facciata della
spiritualità, della sacralità, della giustizia e dell’innocenza.» (Julius
Evola, La civiltà occidentale e l’intelligenza ebraica) A metà degli anni
trenta Evola inizia ad orientare i propri studi su aspetti più propriamente
politici, legati in particolar modo alla "questione della razza".
Riprende l'attività giornalistica scrivendo su quotidiani: Il Regime Fascista,
Corriere Padano, Il Giornale della Domenica, Roma, Il Popolo d'Italia, La
Stampa e Il Mattino; su stampe e periodici: Logos, Educazione Fascista, La
Rivista del Club Alpino Italiano, Politica, Nuova Antologia, '900, Il progresso
religioso, La difesa della razza, Augustea, Carattere, Insegnare e Scuola e
cultura.[56] Nel 1937 pubblica Il Mito del Sangue (poi riedito nel 1942)
dove ricostruisce le concezioni sulla razza dalle civiltà antiche fino alle
teorie del XVIII secolo (de Gobineau, Woltmann, de Lapouge, Chamberlain),
contrapponendole alla versione moderna del razzismo biologico di stampo
nazionalsocialista. Segue nel 1941 Sintesi di dottrina della razza. In questi
testi esprime le sue concezioni antisemite non basate su un razzismo biologico,
ma spirituale. Gli ebrei, per Evola, non possono essere considerati una razza:
«Già la Bibbia parla di 7 popoli che avrebbero concorso a formare il sangue
ebraico [...] Come da questo composto etnico abbia potuto sorgere un sentimento
così vivo di solidarietà e di fedeltà al sangue [...] tale da far pensare che
il popolo ebraico praticamente sia stato fra i popoli più razzisti della storia
- questo è un mistero [...] La formula, in ogni modo, è che gli ebrei non sono
una razza ma solo una Nazione».[57] Edizione russa dei Protocolli
del 1912 Egli oppone a livello tradizionale "Giudei" ed "Ariani"
(da "Arya") nel nome di una differenza di spirito. Nel 1937 pubblica
la Introduzione alla quinta edizione italiana dei Protocolli dei savi di Sion,
manifestando adesione al feroce e maniacale antisemitismo di Giovanni Preziosi,
traduttore ed editore del pamphlet. In questa Introduzione afferma che non
avrebbe importanza la non autenticità storica dell'opuscolo, visto che comunque
lo stesso manifesta veridicità secondo lui attendibile nel descrivere i maneggi
ebraici per il controllo della società (banche, stampa, mercato, politica).
L'ebraismo è per Evola una colpa senza redenzione: «nemmeno il battesimo e la
crocefissione cambia la natura ebraica».[58] Si esprime negativamente sul
colonialismo giudicando l'Etiopia conquistata dall'Italia nient'altro che una
«contraffazione degenerescente di un organismo tradizionale».[59] Sempre in
quegli anni tiene un ciclo di conferenze presso le Università di Firenze e di
Milano su richiesta del Ministro dell'Educazione Nazionale Bottai. Benché non
ve ne sia traccia nella biografia dell'autore, il saggista Franco Cuomo scrive
che Evola, nel 1938, è tra i firmatari del cosiddetto Manifesto della
razza.[60] Tutt'oggi la "questione razziale" di Evola rimane un tema
molto dibattuto tra gli studiosi[senza fonte]. A partire dagli anni sessanta,
Evola, a più riprese, cerca di ribadire – in alcuni casi rivedendo certe
posizioni giovanili – la sua concezione sulla razza. Già ne Il mito del
sangue (1937) Evola, in riferimento alla concezione biologica che i tedeschi
fanno del razzismo, espone le sue perplessità: «È ben possibile che in questo
stato il razzismo avrebbe potuto aver la possibilità di sviluppare più
proficuamente gli elementi valevoli che esso può comprendere in sé. Invece, con
l'assurgere a ideologia ufficiale di una rivoluzione [quella nazionalsocialista
germanica], il razzismo ha finito con il pregiudicare siffatti elementi»[61]
facendo riferimenti espliciti alla figura di Hitler: «[...] l'idea razzista da
parte dello Hitler [...] quanto a idee nuove rispetto a quel che finora abbiamo
conosciuto, non ve ne è quasi nessuna».[62] Dedica un intero capitolo (Il
problema della razza) della sua autobiografia a questo tema in cui ribadisce la
necessità di interpretare il concetto di razza da un punto di vista spirituale
e non biologico, contestando ad Alfred Rosenberg (il principale esponente del
razzismo nazionalsocialista) la strada del razzismo materialistico intrapresa a
suo tempo dalla Germania, definendola «materialismo zoologico»[63] e
condannando apertamente il «fanatismo antisemita».[18] Fanatismo verso il
quale, nel 1963, dichiara: «né io, né i miei amici in Germania sapevamo degli
eccessi nazisti contro gli ebrei [...] e se ne avessimo saputo in alcun modo
avremmo potuto approvarli».[64] Evola ha una concezione dell'uomo come
essere costituito da corpo, anima e spirito, dove la parte spirituale deve
avere il primato su quella corporea. Secondo Evola «l'opportunità di questa
formulazione risiede nel fatto che una razza può degenerare, anche restando
biologicamente pura, se la parte interiore e spirituale è morta, diminuita o
obnubilata, se ha perso la propria forza (come presso certi tipi nordici
attuali). Inoltre gli incroci, di cui oggi pochissime stirpi sono esenti,
possono avere come conseguenza che ad un corpo di una data razza siano legati,
in un individuo, il carattere e l'orientamento spirituale propri di un'altra
razza, donde una più complessa concezione del meticciato».[65] Lo storico
Renzo De Felice, pur molto critico e severo rispetto al pensiero e alle tesi di
Evola, testimonia di come lo stesso Evola respinge «anche più recisamente
[dell'Acerbo] ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente
biologica»,[66] ponendo il pensatore tradizionale tra coloro che «imboccata una
certa strada, la seppero percorrere, in confronto con tanti che scelsero quella
della menzogna, dell'insulto, del completo obnubilamento di ogni valore
culturale e morale, con dignità e persino con serietà».[66] A tale
proposito De Felice segnala anche che Evola non è il solo a prendere le distanze
dal razzismo biologico di matrice nazionalsocialista. Altre note figure della
cultura fascista del tempo, come Giacomo Acerbo, e meno note, come Vincenzo
Mazzei, se ne dissociano.[67] L'impostazione critica data da De Felice su
questo passaggio del pensiero di Evola è particolarmente apprezzata dagli
autori filo-evoliani.[68] Anche Paolo Orano sviluppa, secondo taluni, una
forma di antisemitismo etico-sociale che rinvia a Il mito del sangue di
Evola.[69] L'approccio al "problema della razza" di Evola, come quello
di Acerbo ed Orano, pur se sviluppato da posizioni e secondo logiche diverse,
viene apprezzato da Mussolini che ne intravede gli elementi differenziatori da
quello germanico, anche se successivamente il "Duce" non si farà
scrupolo di dare patente di legittimità anche all'antisemitismo di un Preziosi,
di un Interlandi e di un Gayda. Altri autori, invece, ritengono che
l'opera e il pensiero di Evola continuino ad essere razzisti tout court o
addirittura emuli delle tesi di Paolo Orano. È di questo avviso Attilio Milano
che, a proposito della campagna antiebraica fascista, scrive: «Primo, in ordine
di tempo, e per notorietà personale, come già ricordato, fu Paolo Orano [...]
dietro di lui, con una vena più scadente, comparvero anche Ebrei,
Cristianesimo, Fascismo, di Alfredo Romanini, Tre aspetti del problema ebraico,
di Giulio Evola [...]».[70] Lo storico Francesco Germinario nel suo saggio
Razza del Sangue, razza dello Spirito[71] analizza in particolare il
progressivo avvicinamento di Evola al nazionalsocialismo, specialmente in
relazione all'ammirazione che il filosofo aveva nei confronti delle SS.
La tesi di maggior rilievo del saggio di Germinario consiste nel tentativo di
interpretare il razzismo evoliano come una sorta di differenzialismo in nuce, ovvero
un razzismo che identifica il suo obiettivo principale nella ricomposizione dei
cosiddetti tre ordini di razza: corpo, anima, spirito. Dunque, secondo
Germinario, Evola riprende, seppur in maniera meno esplicita, alcune delle
teorie del de Gobineu che cercano di identificare una gerarchia ideale nei
gruppi delle razze umane.[72] Lo storico torinese Francesco Cassata, che ha
dedicato molti suoi scritti al rapporto tra fascismo e razzismo e agli studi
sull'eugenetica, nel suo A destra del fascismo,[73] sottolinea di come il
razzismo sia un aspetto centrale del pensiero evoliano, e che in realtà lo
stesso è volutamente depotenziato e purificato dai suoi estimatori con lo scopo
di dare una visione edulcorata delle teorie del filosofo. Più dura la posizione
del giornalista Gianni Scipione Rossi, che con il volume Il razzista
totalitario[74] cerca di mettere in luce quegli aspetti contraddittori del
pensiero evoliano rispetto al tema della razza. Ma soprattutto Il razzista
totalitario tenta di dimostrare che quella di Evola non è una parentesi
razzista, ma una costruzione originale ed autonoma di una teoria che accompagna
tutta l'opera evoliana. Per il germanista Furio Jesi Evola è «un razzista così
sporco che ripugna toccarlo con le dita».[75] Lo storico e saggista torinese
infatti dubita fortemente della definizione spiritualistica attribuita al
razzismo di Evola[76] e ritiene anzi che le sue teorie farmeticanti e triviali
conducano direttamente ad Auschwitz: «Egli [Evola] non si è mai dichiarato
paladino dei roghi dei libri, anche se bisogna precisare che implicitamente, da
intellettuale, s'intende, ha dato una mano ai forni crematori non per libri ma
per uomini».[77] La maggior parte delle critiche mosse a Evola e ai suoi
studi sulla razza (per esempio da Dana Lloyd Thomas, Gianni Scipione Rossi,
Francesco Germinario, Francesco Cassata), sostanzialmente, cercano di
dimostrare che il cosiddetto razzismo spirituale in realtà è una sofisticata
costruzione teorica utilizzata dall'autore e ancor più dai suoi epigoni per
celare il convincimento di un vero e proprio razzismo di matrice biologica, e
che dunque c'è in realtà un filo diretto tra le teorie nazionalsocialiste e
quelle evoliane, queste ultime solo apparentemente diverse.[78] In ogni caso è
in concomitanza con la campagna antiebraica scatenata dal regime fascista a
partire dal 1937 che Julius Evola, grazie al suo "razzismo
spirituale", entra definitivamente a far parte, a pieno titolo, della
cultura e dell'intelligencija fascista di quegli anni. Secondo Fabio Venzi, in
maniera del tutto infondata, ciò non impedisce ad Evola di avere una
"doppia affiliazione" ed essere pure membro della
Massoneria[79]. Evola non aderisce al Partito fascista e tale
mancata adesione gli impedisce nel 1940 di arruolarsi come volontario contro
l'Unione Sovietica nel corso della Seconda guerra mondiale. Nel 1942 viene
pubblicato un suo saggio dal titolo Per un allineamento politico-culturale
dell'Italia e della Germania[80] nel quale esprime ammirazione per il nazismo
tedesco, considerandolo superiore al fascismo in ragione del coraggio nel
risvegliare l'antico spirito ariano e germanico. Critica tuttavia
l'incompletezza nell'attuazione di questo programma, non abbastanza radicale e
aderente ai principi della "Tradizione": per esempio una difesa della
razza improntata giuridicamente ad una sorta di "igiene razziale" e
il potere del Führer derivato dal popolo e non un potere regale di origine
divina come nell'ideale società ario-germanica delle origini. Evola teorizza
dunque il tradizionalismo puro, ideale e radicale, capace di attuare i propri
principi e di far trionfare la cultura romana e pagana delle origini. Tra
l'Unione Sovietica bolscevica e gli Stati Uniti d'America capitalistici, il
nazionalsocialismo tedesco gli sembra proporre una terza via: un impero europeo
e pagano sotto la guida egemonica della Germania di Hitler. Nel 1943,
riprendendo temi già trattati nei suoi anni giovanili, pubblica La dottrina del
risveglio, un saggio sull'ascesi buddhista. Nel 1951 l'opera viene poi tradotta
in inglese[81] da Harold Edward Musson (Ñāṇavīra Thera) con l'avallo della Pali
Society, anche se l'unica fonte che riporta questa informazione è lo stesso
Evola: «L'edizione inglese aveva avuto il crisma della Pali Society, noto
istituto accademico di studi sul buddhismo delle origini, che aveva
riconosciuto la validità della mia trattazione».[82] Ancor oggi rimane
aperto, tra gli studiosi, il dibattito sull'adesione di Evola alla Repubblica
Sociale, alla quale fanno accenno saggi ed opere enciclopediche di larga
diffusione.[83] In realtà subito dopo l'8 settembre, il filosofo romano, che si
trova in Germania per tenere alcune conferenze, raggiunge a Monaco gli altri
esuli fascisti «[...] osservando con distacco reazionario scelte che non lo convincono».[84]
Farà ritorno nell'Italia liberata solo al termine della guerra. Essendo Evola
rigorosamente contrario all'abrogazione della Monarchia e alla trasformazione
dell'Italia in una Repubblica, intraprende tentativi di influenza sulle SS e
sui nazisti tedeschi, compreso lo stesso Heinrich Himmler. Si scopre poi, nel
dopoguerra, che Evola è – sia in Germania che in Italia – tenuto sotto stretta
sorveglianza dall'Ahnenerbe.[85] Le SS gli permettono di avere ruoli culturali
di rilievo solo nei casi in cui questo giovi alla causa tedesca. Tuttavia Evola
collaborò con la sezione delle SS che si occupava di studiare e combattere le
trame occulte e antitradizionali della massoneria e dei poteri forti in
genere[86]. Nel 1945 Evola si trova a Vienna e nell'intento «di non
schivare anzi di cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la
sorte»[87] si avventura in una passeggiata durante i bombardamenti sovietici
che colpiscono la capitale austriaca. Sbalzato da uno spostamento d'aria,
subisce una lesione al midollo spinale che gli provoca una paralisi permanente
agli arti inferiori.[88] Solo nel 1948, grazie all'interessamento di Umberto
Zanotti Bianco – presidente della Croce Rossa Internazionale – viene trasferito
prima al sanatorio di Cuasso al Monte, poi a Bologna e infine, nel 1951, a
Roma, come egli stesso riporta in una lettera inviata all'amico poeta Girolamo
Comi.[89 A partire dal 1949 inizia la collaborazione con la rivista La
Sfida fondata da Enzo Erra, Pino Rauti ed Egidio Sterpa, ispirando poi la
nascita della nuova rivista Imperium che vede la luce nel 1950. Nel 1950
pubblica su Imperium l'opuscolo Orientamenti nel quale vengono sintetizzate in
undici punti le sue idee (poi sviluppate nei libri successivi e riedite nel
1970). Nel 1951 Evola viene arrestato con le accuse di apologia di
fascismo e di essere l'ispiratore di alcuni gruppi neofascisti: si tratta del
processo ai FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria). In questa occasione Evola
viene difeso gratuitamente dall'avvocato Francesco Carnelutti[90] e dall'ex
ministro dell'RSI Piero Pisenti ed egli stesso tiene dinanzi al Tribunale
un'autodifesa poi pubblicata integralmente dalla Fondazione Julius Evola.[91]
Scrive Evola: «Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo, non in
quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la
riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in
genere. Io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni
in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali
concezioni. Ma in tal caso si dovevano far sedere sullo stesso banco degli
accusati: Platone, un Metternich, un Bismarck, il Dante del De Monarchia e via
dicendo» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., pp. 94-95.)
Pino Rauti ricorda che Evola viene portato dall'infermeria di Regina Coeli
nella I sezione della Corte d'Assise di Roma su un telo retto da quattro
detenuti, per l'occasione trasformati in infermieri, in quanto in tutta la
Corte non vi è una sedia a rotelle.[92] Una rara fotografia degli
anni cinquanta Il processo ai FAR si conclude il 20 novembre del 1951 con
l'assoluzione di Evola con formula piena. Successivamente lo scrittore
Marcello Veneziani, in relazione all'accusa mossa ad Evola di essere
l'ispiratore e ideologo dei FAR, scrive che «[...] gli errori compiuti da chi
ha cercato di tradurre Evola sul terreno sismico della politica, appartengono a
chi li ha compiuti e non ad Evola».[93] Analoga tesi sostiene Giorgio
Galli,[94] sottolineando inoltre di come lo stesso Evola è molto polemico nei
confronti delle ristampe cosiddette "non autorizzate" che alcuni
fanno dei suoi testi, soprattutto in relazione agli scritti giovanili
(Imperialismo pagano in particolare) e a quelli relativi al problema della
razza (Il mito del sangue, Indirizzi per una educazione razziale, Sintesi di
dottrina della razza). Scrive Evola in L'Italiano: «Non è certo colpa mia
se alcuni giovani hanno fatto un uso arbitrario, confuso e poco serio di alcune
idee dei miei libri, scambiando piani molto diversi».[95] Secondo Gianfranco De
Turris, non potendo accusare Evola direttamente per i suoi scritti, si tenta di
effettuare una "doppia lettura" dei suoi testi: una lettura palese
per il volgo ed una "esoterica" per gli "iniziati".[96]
Furio Jesi è il primo ad avanzare questa teoria nel suo famoso Cultura di
destra del 1979.[77] Altri autori sostengono invece che Evola sia un vero
e proprio cattivo maestro. Felice Pallavicini – partigiano e frequentatore di
Evola – così stigmatizza l'influenza del pensatore tradizionale sui giovani
neofascisti: «Non ha fabbricato ordigni esplosivi, non è stato il capo di una
banda di dinamitardi, ma le idee producono fatti, conseguenze [...] Ebbene
l'evolismo ha prodotto fascismo, razzismo e antisemitismo. La rivolta ha senso
solo se alla distruzione segue la ricostruzione, ma Evola ha badato solo a
distruggere».[97] Nel 1953 pubblica Gli uomini e le rovine – testo che
esercita grande influenza negli ambienti della destra italiana – nel quale
spiega la decadenza del mondo moderno in seguito alla distruzione del principio
di autorità e di ogni possibilità di trascendenza per l'affermarsi del
razionalismo, in contrasto con le antiche civiltà e i valori della Tradizione.
Nel 1958 esce la Metafisica del sesso sulla forza magica e potentissima
dell'atto sessuale, attraverso lo studio dei simboli esteso a numerose
tradizioni. Nel 1959 esce un testo sul pensiero di Jünger: L'«Operaio» nel
pensiero di Ernst Jünger. Nel 1961 è la volta di Cavalcare la tigre in cui
prosegue la sua critica al mondo moderno, offrendo una guida per coloro che pur
non sentendo di appartenere interiormente a questo mondo, hanno intenzione di
non cedervi psicologicamente ed esistenzialmente. Scrive anche su alcune riviste
ispirate al concetto metafisico ed immanente di Tradizione, come Il Ghibellino.
Gli uomini e le rovine e Cavalcare la tigre sono considerati due testi
fondamentali grazie ai quali c'è «una fattiva adesione dei giovani di destra al
ribellismo antisistema partito dalle università»[98] alla fine degli anni
sessanta. Scrive Pino Tosca: «Se si medita bene, ci si accorgerà che la
posizione dei tradizionalisti nei fatti del '68, proviene in massima parte
dalla lettura miscellanea di questi due testi».[99] Nel 1963 pubblica Il
cammino del cinabro, la sua autobiografia, e nel 1968 un volume di saggi:
L'arco e la clava. In questi anni torna all'attenzione del pubblico la
sua produzione artistica: nel 1963 Enrico Crispolti organizza una mostra dei
suoi quadri alla galleria La Medusa di Roma; nel 1969 viene pubblicata da
Scheiwiller Raâga Blanda, una raccolta di tutte le sue poesie, tra cui alcuni
lavori inediti. Riprende anche l'attività giornalistica e scrive su Meridiano
d'Italia, Monarchia, Barbarossa, Ordine Nuovo, Domani, Il Conciliatore,
Totalità, Vie della Tradizione e Il Borghese. In questo periodo Evola assiste
alla costituzione del Gruppo dei Dioscuri, sodalizio dedito al ripristino della
cultualità romana ed italica, di cui è uno degli ispiratori,[100] attraverso i
suoi scritti sulla romanità, il paganesimo e le idee imperiali, oltre che
attraverso un particolare rapporto di intimità intellettuale con i fondatori
dei Dioscuri. Gli ultimi anni Julius Evola in una fotografia del
1973 Vive gli ultimi anni con una pensione di invalido di guerra facendo
traduzioni e scrivendo articoli, sostenuto economicamente da alcuni ammiratori
guidati da Sergio Bonifazi, direttore del trimestrale Solstitivm. Un primo
scompenso cardiaco si manifesta nel 1968, un secondo nel 1970. In quest'ultima
occasione viene fatto ricoverare in ospedale da Placido Procesi, suo medico
personale. Evola è infastidito dalle suore che lo assistono e minaccia di
denunciarle per sequestro di persona. Viene fatto rientrare nella sua
abitazione. La sua salute continua costantemente a peggiorare: inizia ad avere
difficoltà respiratorie ed epatiche. Poco prima della morte detta lo
statuto originario di quella che sarebbe diventata la Fondazione Julius Evola
per la difesa dei valori di una cultura conforme alla Tradizione.[101] Muore
nella sua casa romana di corso Vittorio Emanuele l'11 giugno del 1974.
Pierre Pascal così lo ricorda nei suoi ultimi giorni: «Gli dissi il desiderio
supremo di Henry de Montherlant: essere ridotto in ceneri dal fuoco, affinché
fossero disperse a brezza leggera del Foro, tra i Rostri e il Tempio di Vesta.
Allora quest'uomo, che era davanti a me, disteso, con le belle mani incrociate
sul petto mi mormorò dolcemente e quasi impercettibilmente: "Io vorrei...
ho disposto... che le mie fossero lanciate dall'alto di una
montagna"».[102] L'esecuzione testamentaria è affidata all'avvocato Paolo
Andriani, condirettore della rivista Civiltà e amico fraterno, il quale riesce,
dopo molte peripezie, a far cremare il corpo di Evola – come da sua esplicita
richiesta – presso il cimitero di Spoleto. L'amica di Evola Amalia Baccelli
ricorda che il feretro rimane per molti giorni bloccato al Cimitero del Verano
nella stanza mortuaria.[103] Un'urna contenente le ceneri viene consegnata alla
guida emerita del CAI Eugenio David – compagno di scalate di Evola in
giovinezza – e calata nel crepaccio del Lyskamm Orientale sul Monte Rosa dal
Direttore del Centro Studi Evoliani di Genova Renato Del Ponte[104]. Una
seconda urna si trova invece presso la tomba di famiglia al cimitero del
Verano. Evola è propugnatore del Tradizionalismo, un modello ideale e
sovratemporale di società caratterizzato in senso spirituale, aristocratico e
gerarchico. Secondo l'autore tale modello si riscontra, da un punto di vista
storico, in civiltà quali quella egiziana, romana e indiana. Tali civiltà non
si basano su criteri economici, materiali e biologici, ma sono suddivise e
gestite in base a criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e
spirituale. L'essere e il divenire Secondo Evola ogni azione che avviene
durante la vita biologica (il divenire) rispecchia direttamente una medesima
azione di carattere metafisico (l'essere) e dunque imperitura e
sovratemporale. Il tempo e l'involuzione dell'uomo Il cammino dell'uomo
durante la sua involuzione (come la definisce lo stesso Evola in aperto
contrasto con le teorie darwiniane) avviene attraverso un percorso di tipo
circolare, non lineare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio, nello
schema proposto da Esiodo relativo alla cosiddetta teoria delle cinque età
(dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi, del ferro), corrispondenti ai
quattro yuga dell'induismo. Queste civiltà menzionate – ritenute superiori da
Evola – si basano dunque su una più elevata dimensione metafisica e spirituale
dell'esistenza, anziché su criteri di ordine materiale. La naturale decadenza
di queste società è direttamente proporzionale all'aumento del progresso e
della modernità. Tale processo di decadenza ha inizio con la perdita dell'unico
polo che in passato racchiude sia l'autorità spirituale che quella temporale e
prosegue con la spinta propulsiva dei valori illuministi espressi con la
Rivoluzione francese: si arriva così alla società odierna dove la dimensione
spirituale dell'esistenza è andata definitivamente perduta. In particolare
Evola rifiuta totalmente il concetto di egualitarismo, in favore di una visione
differenziatrice della natura umana. Ne consegue un netto rifiuto per la
democrazia (intesa come strumento di massa) e parimenti per ogni forma di
totalitarismo, anch'esso ritenuto uno strumento di massa che si basa non su
un'autorità spirituale, bensì su un'autorità esclusivamente di tipo
temporale. La via iniziatica Secondo Evola l'uomo ha la possibilità di
elevarsi alla sfera divina e metafisica attraverso precise strade (il rito e
l'iniziazione), utilizzando determinati strumenti (l'azione e la
contemplazione) all'interno di contesti sociali predeterminati (la casta,
l'impero). In aperto contrasto con le teorie di Sant'Agostino espresse nel De
civitate dei ed in sintonia con i dettami del buddhismo delle origini, Evola
sostiene che non esiste differenza quantitativa tra l'uomo e il dio. Per
l'autore ogni uomo è un dio mortale e ogni dio un uomo immortale.[106] Il
razzismo "spirituale" Conseguenza di questo pensiero è che le
differenze naturali tra gli esseri umani si rispecchierebbero anche nelle
razze. Il filosofo rifiuta una visione razzista della vita in senso biologico,
sostenendo invece la sua teoria del cosiddetto "razzismo spirituale".
La "razza interiore" di cui parla Evola è definita come un patrimonio
di tendenze e attitudini che, a seconda delle influenze ambientali,
giungerebbero o meno a manifestarsi compiutamente. L'appartenenza a una razza si
individuerebbe dunque sulla base delle caratteristiche spirituali, e in seguito
di quelle fisiche, diventandone col tempo queste ultime il segno visibile.
Partendo da questi presupposti assiomatici, Evola definisce gli ebrei come
razza materialista e spiritualmente inferiore rispetto alla razza ariana, in
sintonia con alcune idee del nazismo tedesco. Nonostante il rifiuto della
concezione pseudo-scientifica del razzismo biologico, nei confronti degli ebrei
il "razzismo spirituale" di Evola non rappresenta una versione attenuata
dell'antisemitismo nazista, ma un suo ribaltamento in senso metafisico: secondo
Enzo Collotti, «il razzismo spirituale del quale parla Evola vuole partire
appunto dal dato biologico, che gli pare ancora troppo rozzo e deterministico,
per sublimarlo e portarlo a pieno compimento "sul piano dello
spirito", ossia sul piano metafisico. In tal modo Evola intendeva
potenziare e nobilitare, e non già attenuare, il razzismo, avvolgendolo in una
nebulosa filosofeggiante e scrostandolo di quel tanto di ruvido
antropologismo»[107]. Nel 1994 vengono ritrovate presso l'archivio
crociano di Napoli sette lettere scritte da Evola a Benedetto Croce (più una,
l'ottava, indirizzata all'editore Laterza). Tale ritrovamento, ad opera di
Stefano Arcella – funzionario dei Beni Culturali presso la biblioteca di Napoli
– permette di ricostruire almeno in parte i rapporti tra Evola e il filosofo
del liberalismo. Evola invia inizialmente a Croce, in una lettera del 13 aprile
1925, la richiesta di intercedere presso l'editore Laterza per la pubblicazione
dei Saggi sull'idealismo magico e Teoria dell'individuo assoluto. Pochi giorni
dopo Evola risponde ad una cartolina postale di Croce ringraziandolo per il
giudizio di apprezzamento sul lato formale dei due manoscritti. Laterza,
nonostante l'appoggio favorevole di Benedetto Croce, scrive ad Evola una
lettera il 14 settembre 1925 in cui precisa di volersi riservare «la massima
libertà di decidere anche nei riguardi di autorevoli amici».[108] L'8 aprile
1930 Evola scrive nuovamente a Croce chiedendo aiuto per la sua nuova opera
sull'alchimia: La tradizione ermetica. In una successiva, breve lettera, Evola
ringrazia Croce per l'interessamento e l'anno successivo, il manoscritto esce
per i tipi dell'editore barese. Secondo Stefano Arcella[109] in questo
periodo si realizza un collegamento tra due opposizioni culturali al fascismo:
una in senso tradizionale (Evola) ed una in senso liberale (Croce). Secondo
Gianfranco De Turris[110] Evola si rivolge a Croce in quanto preferisce
aperture presso uomini e gruppi non dogmatici, più che presso l'ufficialità del
regime fascista. Poiché Evola non lascia un archivio epistolare, non è
possibile analizzare le risposte date da Croce alle missive dello stesso Evola.
Senza le risposte di Croce diventa infatti difficile valutare l'apertura del
pensatore liberale verso i contributi filosofici del pensatore
tradizionale. Lettere a Giovanni Gentile Giovanni Gentile Evola
invia, tra il 1927 e il 1929, quattro lettere al Senatore Gentile. Nonostante
le marcate divergenze sul piano filosofico – Evola si discosta dall'attualismo
gentiliano in favore di una rigida codificazione teoretica (l'idealismo magico)
– il pensatore tradizionale cerca un confronto con uno dei massimi esponenti
del mondo accademico. Tale confronto, secondo Stefano Arcella[111] – curatore
del volume Lettere di Julius Evola a Giovanni Gentile (1927-1929) – non produce
risvolti interessanti sotto il profilo speculativo in quanto i due filosofi
sono su posizioni eccessivamente distanti, ed anche i presupposti dottrinali e
religiosi sono inconciliabili. Sempre Arcella afferma che «il tentativo
evoliano di aprire un colloquio costruttivo rimane un fiore che non
sboccia».[112] Evola cerca di costruire, pur senza risultati apprezzabili, un punto
di riferimento culturale alternativo all'ambiente gentiliano. Nel Cammino dei
cinabro tenta di spiegare così le ragioni di questo mancato incontro:
«Tutti i riferimenti extra-filosofici di cui il mio sistema filosofico era
ricco servirono come un comodo pretesto per l'ostracismo. Si poteva liquidare
con un'alzata di spalle un sistema che accordava un posto perfino al mondo
dell'iniziazione, della "magia" e di altri relitti superstiziosi. Che
tutto ciò da me fosse fatto valere nei termini di un rigoroso pensiero
speculativo, a poco servì. Però anche da parte mia vi era un equivoco, nei
riguardi di coloro ai quali, sul piano pratico, la mia fatica speculativa
poteva servire a qualcosa. Si trattava di una introduzione filosofica ad un
mondo non filosofico, la quale poteva avere un significato nei soli rarissimi
casi in cui la filosofia ultima avesse dato luogo ad una profonda crisi
esistenziale. Ma vi era anche da considerare (e di questo in seguito mi resi
sempre più conto) che i precedenti filosofici, cioè l'abito del pensiero
astratto discorsivo, rappresentavano la qualificazione più sfavorevole affinché
tale crisi potesse essere superata nel senso positivo da me indicato, con un
passaggio a discipline realizzatrici» (Julius Evola, Il cammino del cinabro,
op. cit., p. 61.) Gentile tuttavia riconosce ad Evola una certa competenza in
campo esoterico-alchemico ed infatti chiede al filosofo della tradizione di
curare la voce Atanor per l'Enciclopedia Italiana.[113] Anche alcuni allievi di
Gentile riconoscono ad Evola una certa stima, in particolare Guido
Calogero.[114] Alessandro Giuli successivamente[115] riporta altre
informazioni, relative al carteggio Evola-Gentile, reperite all'interno della
"Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici", occupandosi in
particolare dei vari volumi[116] che Evola invia con dedica al Senatore.
Lettere a Carl Schmitt Carl Schmitt Si tratta di sette lettere inviate da
Evola a Schmitt tra il 1951 e il 1963, conservate nel Nachlass Carl Schmitt
dell'Archivio di Stato di Düsseldorf.[117] L'epistolario mette in luce da una
parte alcune amicizie e conoscenze in comune tra i due pensatori (Ernst Jünger,
Armin Mohler e il principe di Rohan), dall'altra il tentativo di proporre la
pubblicazione in italiano del saggio di Schmitt sul tradizionalista cattolico
Donoso Cortés.[118] Tale tentativo non va in porto, così come fallisce anche il
secondo progetto editoriale, risalente al 1963, di pubblicare un'antologia
schmittiana. Di rilievo, all'interno dello scambio epistolare, le due divergenti
visioni rispetto alle teorie di Donoso Cortés sul ruolo dell'uomo politico e la
sua autonomia. Evola interpreta il concetto di dictatura coronada come
«necessità di un potere che decida assolutamente, ma ad un livello di una
dignità superiore, indicata dall'aggettivo coronada».[119] Per il giurista
tedesco, invece, esiste prima di tutto un passaggio significativo che porta dal
concetto della legittimità del regnare a quello della dittatura. Per Cortés,
scrive Schmitt, «la dittatura incoronata, la dictadura coronada, significava
solo un pis-aller pratico [...] mai ha concepito questo espediente pragmatico
come una forma di salvezza religiosa o teologica».[120] Anche in questo
caso – così come già ampiamente esposto in Rivolta contro il mondo moderno[121]
– il costante rimando evoliano ad un fondamento trascendente dell'ordine
politico rimane «quell'ineliminabile discrimine che non può essere in alcun
modo occultato o minimizzato».[122] Antonio Caracciolo sottolinea anche di come
l'epistolario assume rilievo in relazione al tentativo di «fornire di solidi
contrafforti ideologici e culturali il mondo conservatore che, nel dopoguerra
italiano, si trovava a combattere la sua battaglia politica».[123]
Lettere a Gottfried Benn Gottfried Benn Evola entra in contatto
epistolare con Gottfried Benn – medico e poeta tedesco appartenente alla
cosiddetta Rivoluzione conservatrice – fin dal 1930. Il primo incontro risale
invece al 1934, durante la tappa berlinese di un viaggio che Evola effettua in
Germania. Da quell'incontro scaturisce una famosa recensione-saggio di Benn
alla traduzione tedesca di Rivolta contro il mondo moderno[124] che appare nel
1935 sulla rivista Die Literatur di Stoccarda.[125] Nel presentare l'opera,
Benn espone le sue teorie convergendo con la visione del mondo di
Evola.[126] Successivamente Francesco Tedeschi rintraccia nello
Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv di Marbach due lettere
manoscritte (la prima del 30 luglio e la seconda del 9 agosto 1934) più una
dattiloscritta del 13 settembre 1955 che Evola invia a Benn. Le prime due
lettere sono importanti in quanto chiariscono la comunanza di vedute dei due
autori rispetto al tema della tradizione e di una visione del mondo
conservatrice, oltre al fatto che entrambi non si riconoscono nel nazismo
tedesco. Dalla lettera del 9 agosto: «Sono sempre più convinto che a chi voglia
difendere e realizzare senza compromessi di sorta una tradizione spirituale e
aristocratica non rimanga purtroppo, oggi e nel mondo moderno, alcun margine di
spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario».[3] La terza
lettera è importante in quanto testimonia il tentativo di Evola di riprendere,
nel dopoguerra, i rapporti con quegli esponenti conservatori che conosce negli
anni trenta e quaranta.[127] Lettere a Tristan Tzara Tristan Tzara
in un ritratto di Lajos Tihanyi Nel 1975 compaiono, in un articolo di Giovanni
Lista,[128] brani di due lettere inviate da Evola a Tristan Tzara, il fondatore
del Dadaismo. Dall'articolo non si evince però la loro collocazione. Solo nel
1989, grazie al lavoro di ricerca della studiosa Elisabetta Valento, tutta la
corrispondenza viene trovata presso l'archivio della Fondation Jaques Doucet
della biblioteca Sainte-Geneviève di Parigi. Si tratta di una trentina di
documenti tra lettere e cartoline: la prima è del 7 ottobre 1919, l'ultima del
1º agosto 1923. Molte tappe del cammino artistico del filosofo romano sono già
note prima del rinvenimento della corrispondenza con Tzara: in parte perché lo
stesso Evola ne parla nella sua autobiografia,[129] in parte perché dedotte dai
critici e dagli studiosi nelle partecipazioni, in qualità di articolista, che
Evola ha in alcune riviste d'arte dell'epoca: Noi, Cronache d'Attualità, Dada e
Bleu. Secondo la Valento, ciò che invece non è noto prima del rinvenimento
della corrispondenza, sono «le modalità dell'avventura evoliana nella sfera
artistica, ovvero come essa si attuò, come fu vissuta, a che
mirava».[130] L'archivio della corrispondenza tra i due artisti ha, inoltre,
il pregio di colmare il vuoto di un periodo giovanile poco conosciuto di Evola.
Questo vuoto si colma sia attraverso la ricostruzione di tappe cronologiche (il
recupero di alcune date, partecipazioni a mostre, riviste, incontri) sia
attraverso il recupero di tappe più specificamente «psicologiche».[131] In
particolare quelle che portano Evola ad annunciare il proprio suicidio (lettera
24 del 2 luglio 1921) e che raccontano di un uomo colto nel pieno male di
vivere, di una sperimentazione del travaglio interiore che l'artista vive tra
il 1920 e il 1921, dove la «sofferenza acuta si alterna alla
disperazione».[130]Opere dell'autore Julius Evola, Arte Astratta, posizione
teorica, Roma, Maglione e Strini, 1920. ISBN non esistente (FR) Julius Evola,
La parole obscure du paysage intérieur, Roma-Zurigo, Collection Dada, 1921.
ISBN non esistente Julius Evola, Saggi sull'idealismo magico, Todi-Roma,
Atanòr, 1925. ISBN non esistente Julius Evola, L'individuo e il divenire del
mondo, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1926. ISBN non esistente Julius
Evola, L'uomo come potenza, Todi-Roma, Atanòr, 1927a. ISBN non esistente Julius
Evola, Teoria dell'individuo assoluto, Torino, Bocca, 1927b. ISBN non esistente
Julius Evola, Imperialismo pagano, Todi-Roma, Atanòr, 1928. ISBN non esistente
Julius Evola, Fenomenologia dell'individuo assoluto, Torino, Bocca, 1930. ISBN
non esistente Julius Evola, La tradizione ermetica, Bari, Laterza, 1931. ISBN
non esistente Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo,
Torino, Bocca, 1932. ISBN non esistente Julius Evola, Rivolta contro il mondo
moderno, Milano, Hoepli, 1934. ISBN non esistente Julius Evola, Tre aspetti del
problema ebraico, Roma, Mediterranee, 1936. ISBN non esistente Julius Evola, Il
mistero del Graal, Bari, Laterza, 1937a. ISBN non esistente Julius Evola, Il
mito del sangue, Milano, Hoepli, 1937b. ISBN non esistente Julius Evola,
Indirizzi per una educazione razziale, Napoli, Conte, 1941a. ISBN non esistente
Julius Evola, Sintesi di dottrina della razza, Milano, Hoepli, 1941b. ISBN non
esistente Julius Evola, La dottrina del risveglio, Bari, Laterza, 1943. ISBN
non esistente Julius Evola, Lo Yoga della potenza, Torino, Bocca, 1949. ISBN
non esistente Julius Evola, Orientamenti, Roma, Imperium, 1950. ISBN non
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DVD pubblicato nel 2006 dalla Società Editrice Barbarossa di Milano, della
durata di 101 min., che ripercorre il periodo artistico di Evola. Con musiche
di: Ain Soph, Kaiserbund, Roma, Wien, Zetazeroalfa. Voci correlate
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Julius Evola, su futur-ism.it. URL consultato il 29 dicembre 2012. Julius Evola
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fascistaPersonalità del neofascismoOrientalisti italianiSepolti nel cimitero
del VeranoNeopaganesimo in ItaliaAnticomunisti italiani[altre]. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Evola," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Eubulides’s
paradox -- sorites: an argument
consisting of categorical propositions that can be represented as or decomposed
into a sequence of categorical syllogisms such that the conclusion of each
syllogism except the last one in the sequence is a premise of the next
syllogism in the sequence. An example is ‘All cats are felines; all felines are
mammals; all mammals are warm-blooded animals; therefore, all cats are
warm-blooded animals’. This sorites may be viewed as composed of the two
syllogisms ‘All cats are felines; all felines are mammals; therefore, all cats
are mammals’ and ‘All cats are mammals; all mammals are warm-blooded animals;
therefore, all cats are warm-blooded animals’. A sorites is valid if and only
if each categorical syllogism into which it decomposes is valid. In the
example, the sorites decomposes into two syllogisms in the mood Barbara; since
any syllogism in Barbara is valid, the sorites is valid. Then there is the
sorites paradox from Grecian soros, ‘heap’, any of a number of paradoxes about
heaps and their Sorel, Georges sorites paradox 864 864 elements, and more broadly about
gradations. A single grain of sand cannot be arranged so as to form a heap.
Moreover, it seems that given a number of grains insufficient to form a heap,
adding just one more grain still does not make a heap. If a heap cannot be
formed with one grain, it cannot be formed with two; if a heap cannot be formed
with two, it cannot be formed with three; and so on. But this seems to lead to
the absurdity that however large the number of grains, it is not large enough
to form a heap. A similar paradox can be developed in the opposite direction. A
million grains of sand can certainly be arranged so as to form a heap, and it is
always possible to remove a grain from a heap in such a way that what is left
is also a heap. This seems to lead to the absurdity that a heap can be formed
even from just a single grain. These paradoxes about heaps were known in
antiquity they are associated with Eubulides of Miletus, fourth century B.C.,
and have since given their name to a number of similar paradoxes. The loss of a
single hair does not make a man bald, and a man with a million hairs is
certainly not bald. This seems to lead to the absurd conclusion that even a man
with no hairs at all is not bald. Or consider a long painted wall hundreds of
yards or hundreds of miles long. The left-hand region is clearly painted red,
but there is a subtle gradation of shades and the right-hand region is clearly
yellow. A small double window exposes a small section of the wall at any one
time. It is moved progressively rightward, in such a way that at each move
after the initial position the left-hand segment of the window exposes just the
area that was in the previous position exposed by the right-hand segment. The
window is so small relative to the wall that in no position can you tell any
difference in color between the exposed areas. When the window is at the
extreme left, both exposed areas are certainly red. But as the window moves to
the right, the area in the right segment looks just the same color as the area
in the left, which you have already pronounced to be red. So it seems that one
must call it red too. But then one is led to the absurdity of calling a clearly
yellow area red. As some of these cases suggest, there is a connection with
dynamic processes. A tadpole turns gradually into a frog. Yet if you analyze a
motion picture of the process, it seems that there are no two adjacent frames
of which you can say the earlier shows a tadpole, the later a frog. So it seems
that you could argue: if something is a tadpole at a given moment, it must also
be a tadpole and not a frog a millionth of a second later, and this seems to
lead to the absurd conclusion that a tadpole can never turn into a frog. Most
responses to this paradox attempt to deny the “major premise,” the one
corresponding to the claim that if you cannot make a heap with n grains of sand
then you cannot make a heap with n ! 1. The difficulty is that the negation of
this premise is equivalent, in classical logic, to the proposition that there
is a sharp cutoff: that, e.g., there is some number n of grains that are not
enough to make a heap, where n ! 1 are enough to make a heap. The claim of a
sharp cutoff may not be so very implausible for heaps perhaps for things like
grains of sand, four is the smallest number which can be formed into a heap but
is very implausible for colors and tadpoles. There are two main kinds of
response to sorites paradoxes. One is to accept that there is in every such
case a sharp cutoff, though typically we do not, and perhaps cannot, know where
it is. Another kind of response is to evolve a non-classical logic within which
one can refuse to accept the major premise without being committed to a sharp
cutoff. At present, no such non-classical logic is entirely free of
difficulties. So sorites paradoxes are still taken very seriously by
contemporary philosophers. The heap was one of the four known paradoxes by
Eubulides. Refs.: Grice, “Eubulides, and solving his paradoxes.”
EX-DVCTVM -- eductum: eduction, the process of initial clarification, as of
a phenomenon, text, or argument, that normally takes place prior to logical
analysis. Out of the flux of vague and confused experiences certain
characteristics are drawn into some kind of order or intelligibility in order
that attention can be focused on them Aristotle, Physics I. These
characteristics often are latent, hidden, or implicit. The notion often is used
with reference to texts as well as experience. Thus it becomes closely related
to exegesis and hermeneutics, tending to be reserved for the sorts of
clarification that precede formal or logical analyses.
EX-FECTVM -- effectum: causa efficiencis -- effective procedure for the
generation of a conversational implicaturum --, a step-by-step recipe for
computing the values of a function. It determines what is to be done at each
step, without requiring any ingenuity of anyone or any machine executing it.
The input and output of the procedure consist of items that can be processed
mechanically. Idealizing a little, inputs and outputs are often taken to be
strings on a finite alphabet. It is customary to extend the notion to procedures
for manipulating natural numbers, via a canonical notation. Each number is
associated with a string, its numeral. Typical examples of effective procedures
are the standard grade school procedures for addition, multiplication, etc. One
can execute the procedures without knowing anything about the natural numbers.
The term ‘mechanical procedure’ or ‘algorithm’ is sometimes also used. A
function f is computable if there is an effective procedure A that computes f.
For every m in the domain of f, if A were given m as input, it would produce fm
as output. Turing machines are mathematical models of effective procedures.
Church’s thesis, or Turing’s thesis, is that a function is computable provided
there is a Turing machine that computes it. In other words, for every effective
procedure, there is a Turing machine that computes the same function.
EX-HIBITVM -- inhibitium/exhibitum
distinction, the: exhibitum: Grice: “For one, I will introduce a pair of not
really antonyms: the exhibitive and not the inhibitive, but the protreptic.”
Grice contrasts this with the protrepticum – A piece of a communicatum is an
exhitibum if it is a communication-device for the emisor to display his
psychological attitude. It is protrepticum if the emisor intends the sendee to
entertain a state other than the uptake – i. e. form a volition to close the
door, for how else will he comply with the order in the imperative
modeprotrepticum: the opposite of the exhibitium.
EX-MISSVM -- emissum: emissor. A construction out of ex- and ‘missum,’ cf. Grice
on psi-trans-mis-sion. Grice’s utterer, but turned Griceian, To emit, to
translate some Gricism or other. Cf. proffer. emissum. emissor-emissum distinction.
Frequently ignored by Austin. Grice usually formulates it ‘roughly.’ Strawson
for some reason denied the reducibility of the emissum to the emissor. Vide his
footnote in his Inaugural lecture at Oxford. it is a truth implicitly
acknowledged by communication theorists themselves -- this acknowledgement is
is certainly implicit in Grice's distinction between what speakers actually
say, in a favored sense of 'say', and what they imply (see "Utterer's
Meaning, SentenceMeaning and Word-Meaning," in Foundations of Language,
1968) -- that in almost all the things we should count as sentences there is a
substantial central core of meaning which is explicable either in terms of
truth-conditions or in terms of some related notion quite simply derivable from
that of a truth-condition, for example the notion, as we might call it, of a
compliance condition in the case of an imperative sentence or a
fulfillment-condition in the case of an optative. If we suppose, therefore,
that an account can be given of the notion of a truthcondition itself, an
account which is indeed independent of reference to communicationintention,
then we may reasonably think that the greater part of the task of a general
theory of meaning has been accomplished without such reference. So let us see
if we can rephrase the distinction for a one-off predicament. By drawing a
skull, Blackburn communicates to his fellow Pembrokite that there is danger
around. The proposition is ‘There is danger around’. Of the claims, one is
literal; the other metabolical. Blackburn means that there is danger around.
Blackburn communicates that there is danger around, possibly leading to death.
The emissum, Blackburn’s drawing of the skull ‘means’ that there is danger
around. Since the fact that Blackburn communicates that p is diaphanous, we
have yet another way of posing the distinction: Blackburn communicates that
there is danger around. What is communicated by Blackburn – his emissum – is
true. Note that in this diaphanous change from ‘Blackburn communicates that
there is danger around’ and ‘What Blackburn communicates, viz. that there is
danger around, is true’ we have progressed quite a bit. There are ways of
involving ‘true’ in the first stage. Blackburn communicates that there is danger
around, and he communicates something true. In the classical languages, this is
done in the accusative case. emissum.
emit. V. emissor. A good verb used by Grice. It gives us ‘emitter, and it is
more Graeco-Roman than his ‘utterer,’ which Cicero would think a barbarism.
EX-MOTVM -- emotum: the emotum, the motum. Grice enjoyed a bit of history of
philosophy. Cf. conatum. And Urmson’s company helped. Urmson produced a
brilliant study of the ‘emotive’ theory of ethics, which is indeed linguistic
and based on Ogden. Diog. Laert. of Zeno of Citium. πρὸς τὸν εἰπόντα,
"πολλοί σου καταγελῶσιν," "ἀλλ ἐγώ," ἔφη, "οὐ κατα-
γελῶμαι; to the question, who is a friend?, Zeno’s answer is, ‘a second self
(alter ego). One direct way to approach friend is via emotion, as
Aristotle did, and found it aporetic as did Grice. Aristotle discusses philia
in Eth. Nich. but it is in Rhet. where he allows for phulia to be an emotion.
Grice was very fortunate to have Hardie as his tutor. He overused Hardies
lectures on Aristotle, too, and instilled them on his own tutees! Grice is
concerned with the rather cryptic view by Aristotle of the friend (philos,
amicus) as the alter ego. In Grices cooperative, concerted, view of
things, a friend in need is a friend indeed! Grice is interested in Aristotle
finding himself in an aporia. In Nicomachean Ethics IX.ix, Aristotle poses the
question whether the happy man will need friends or not. Kosman correctly
identifies this question as asking not whether friends are necessary in order
to achieve eudæmonia, but why we require friends even when we are happy. The
question is not why we need friends to become happy, but why we need friends
when we are happy, since the eudæmon must be self-sufficient. Philia is
required for the flourishing of the life of practical virtue. The solution by
Aristotle to the aporia here, however, points to the requirement of friendships
even for the philosopher, in his life of theoretical virtue. The olution
by Aristotle to the aporia in Nicomachean Ethics IX.ix is opaque, and the
corresponding passage in Eudeiman Ethics VII.xii is scarcely better. Aristotle
thinks he has found the solution to this aporia. We must take two things into
consideration, that life is desirable and also that the good is, and thence
that it is desirable that such a nature should belong to oneself as it belongs
to them. If then, of such a pair of corresponding s. there is always one s. of
the desirable, and the known and the perceived are in general constituted by
their participation in the nature of the determined, so that to wish to
perceive ones self is to wish oneself to be of a certain definite
character,—since, then we are not in ourselves possessed of each such
characters, but only in participation in these qualities in perceiving and knowing—for
the perceiver becomes perceived in that way in respect in which he first
perceives, and according to the way in which and the object which he perceives;
and the knower becomes known in the same way— therefore it is for this reason
that one always desires to live, because one always desires to know; and this
is because he himself wishes to be the object known. emotion, as
conceived by philosophers and psychologists, any of several general types of
mental states, approximately those that had been called “passions” by earlier
philosophers, such as Descartes and Hume. Anger, e.g., is one emotion, fear a
second, and joy a third. An emotion may also be a content-specific type, e.g.,
fear of an earthquake, or a token of an emotion type, e.g., Mary’s present fear
that an earthquake is imminent. The various states typically classified as
emotions appear to be linked together only by overlapping family resemblances
rather than by a set of necessary and sufficient conditions. Thus an adequate
philosophical or psychological “theory of emotion” should probably be a family
of theories. Even to label these states “emotions” wrongly suggests that they
are all marked by emotion, in the older sense of mental agitation a
metaphorical extension of the original sense, agitated motion. A person who is,
e.g., pleased or sad about something is not typically agitated. To speak of
anger, fear, joy, sadness, etc., collectively as “the emotions” fosters the
assumption which James said he took for granted that these are just qualitatively
distinct feelings of mental agitation. This exaggerates the importance of
agitation and neglects the characteristic differences, noted by Aristotle,
Spinoza, and others, in the types of situations that evoke the various
emotions. One important feature of most emotions is captured by the older
category of passions, in the sense of ‘ways of being acted upon’. In many
lanemotion emotion 259 259 guages
nearly all emotion adjectives are derived from participles: e.g., the English
words ‘amused’, ‘annoyed’, ‘ashamed’, ‘astonished’, ‘delighted’, ‘embarrassed’,
‘excited’, ‘frightened’, ‘horrified’, ‘irritated’, ‘pleased’, ‘terrified’,
‘surprised’, ‘upset’, and ‘worried’. When we are, e.g., embarrassed, something
acts on us, i.e., embarrasses us: typically, some situation or fact of which we
are aware, such as our having on unmatched shoes. To call embarrassment a
passion in the sense of a way of being acted upon does not imply that we are
“passive” with respect to it, i.e., have no control over whether a given
situation embarrasses us and thus no responsibility for our embarrassment. Not
only situations and facts but also persons may “do” something to us, as in love
and hate, and mere possibilities may have an effect on us, as in fear and hope.
The possibility emotions are sometimes characterized as “forward-looking,” and
emotions that are responses to actual situations or facts are said to be
“backward-looking.” These temporal characterizations are inaccurate and
misleading. One may be fearful or hopeful that a certain event occurred in the
past, provided one is not certain as to whether it occurred; and one may be,
e.g., embarrassed about what is going to occur, provided one is certain it will
occur. In various passions the effect on us may include involuntary
physiological changes, feelings of agitation due to arousal of the autonomic
nervous system, characteristic facial expressions, and inclinations toward
intentional action or inaction that arise independently of any rational
warrant. Phenomenologically, however, these effects do not appear to us to be
alien and non-rational, like muscular spasms. Rather they seem an integral part
of our perception of the situation as, e.g., an embarrassing situation, or one
that warrants our embarrassment. emotive
conjugation: I went to Oxford; you went to Cambridge; he went to the London
School of Economics”: a humorous verbal conjugation, designed to expose and
mock first-person bias, in which ostensibly the same action is described in
successively more pejorative terms through the first, second, and third persons
e.g., “I am firm, You are stubborn, He is a pig-headed fool”. This example was
used by Russell in the course of a BBC Radio “Brains’ Trust” discussion. It was
popularized later that year when The New Statesman ran a competition for other
examples. An “unprecedented response” brought in 2,000 entries, including: “I
am well informed, You listen to gossip, He believes what he reads in the
paper”; and “I went to Oxford, You went to Cambridge, He went to the London School
of Economics” Russell was educated at Cambridge and later taught there. -- emotivism, a noncognitivist metaethical
view opposed to cognitivism, which holds that moral judgments should be
construed as assertions about the moral properties of actions, persons,
policies, and other objects of moral assessment, that moral predicates purport
to refer to properties of such objects, that moral judgments or the
propositions that they express can be true or false, and that cognizers can
have the cognitive attitude of belief toward the propositions that moral
judgments express. Noncognitivism denies these claims; it holds that moral
judgments do not make assertions or express propositions. If moral judgments do
not express propositions, the former can be neither true nor false, and moral
belief and moral knowledge are not possible. The emotivist is a noncognitivist
who claims that moral judgments, in their primary sense, express the
appraiser’s attitudes approval or
disapproval toward the object of
evaluation, rather than make assertions about the properties of that object.
Because emotivism treats moral judgments as the expressions of the appraiser’s
pro and con attitudes, it is sometimes referred to as the boohurrah theory of
ethics. Emotivists distinguish their thesis that moral judgments express the
appraiser’s attitudes from the subjectivist claim that they state or report the
appraiser’s attitudes the latter view is a form of cognitivism. Some versions
of emotivism distinguish between this primary, emotive meaning of moral
judgments and a secondary, descriptive meaning. In its primary, emotive
meaning, a moral judgment expresses the appraiser’s attitudes toward the object
of evaluation rather than ascribing properties to that object. But secondarily,
moral judgments refer to those non-moral properties of the object of evaluation
in virtue of which the appraiser has and expresses her attitudes. So if I judge
that your act of torture is wrong, my judgment has two components. Its primary,
emotive sense is to express my disapproval of your act. Its secondary,
descriptive sense is to denote those non-moral properties of your act upon
which I base my disapproval. These are presumably the very properties that make
it an act of torture roughly, a causing
of intense pain in order to punish, coerce, or afford sadistic pleasure. By
making emotive meaning primary, emotivists claim to preserve the univocity of
moral language between speakers who employ different criteria of application
for their moral terms. Also, by stressing the intimate connection between moral
judgment and the agent’s non-cognitive attitudes, emotivists claim to capture
the motivational properties of moral judgment. Some emotivists have also
attempted to account for ascriptions of truth to moral judgments by accepting
the redundancy account of ascriptions of truth as expressions of agreement with
the original judgment. The emotivist must think that such ascriptions of truth
to moral judgments merely reflect the ascriber’s agreement in noncognitive
attitude with the attitude expressed by the original judgment. Critics of
emotivism challenge these alleged virtues. They claim that moral agreement need
not track agreement in attitude; there can be moral disagreement without
disagreement in attitude between moralists with different moral views, and
disagreement in attitude without moral disagreement between moralists and
immoralists. By distinguishing between the meaning of moral terms and speakers’
beliefs about the extension of those terms, critics claim that we can account
for the univocity of moral terms in spite of moral disagreement without
introducing a primary emotive sense for moral terms. Critics also allege that
the emotivist analysis of moral judgments as the expression of the appraiser’s
attitudes precludes recognizing the possibility of moral judgments that do not
engage or reflect the attitudes of the appraiser. For instance, it is not clear
how emotivism can accommodate the amoralist
one who recognizes moral requirements but is indifferent to them.
Critics also charge emotivism with failure to capture the cognitive aspects of
moral discourse. Because emotivism is a theory about moral judgment or
assertion, it is difficult for the emotivist to give a semantic analysis of
moral predicates in unasserted contexts, such as in the antecedents of
conditional moral judgments e.g., “If he did wrong, then he ought to be
punished”. Finally, one might want to recognize the truth of some moral
judgments, perhaps in order to make room for the possibility of moral mistakes.
If so, then one may not be satisfied with the emotivist’s appeal to redundancy
or disquotational accounts of the ascription of truth. Emotivism was introduced
by Ayer in Language, Truth, and Logic 2d ed., 6 and refined by C. L. Stevenson
in Facts and Values 3 and Ethics and Language 4. Refs.:
Luigi Speranza, “Croce, Collingwood, and Grice on the expression of emotion” --
There is an essay on “Emotions and akrasia,” but the topic is scattered in
various places, such as Grice’s reply to Davidson on intending. Grice has an
essay on ‘Kant and friendship,’ too, The H. P. Grice Papers, BANC.
EX-PERITVM -- Experitum – ex-peri – In Roman, ex-
preferred, in Grecian, im-preferred, ex-pĕrĭor , pertus ( I.act.
experiero, Varr. L. L. 8, 9, 24 dub.), 4, v. dep. a. [ex- and root per-;
Sanscr. par-, pi-parmi, conduct; Gr. περάω, pass through; πόρος, passage; πεῖρα,
experience; Lat. porta, portus, peritus, periculum; Germ. fahren, erfahren;
Eng. fare, ferry], to try a thing; viz., either by way of testing or of attempting
it. I. To try, prove, put to the test. A. In tempp. praes. constr. with the
acc., a rel. clause, or absol. (α). With acc.: “habuisse aiunt domi (venenum),
vimque ejus esse expertum in servo quodam ad eam rem ipsam parato,” Cic. Cael.
24, 58: “taciturnitatem nostram,” id. Brut. 65, 231: “amorem alicujus,” id.
Att. 16, 16, C, 1: “his persuaserant, uti eandem belli fortunam experirentur,”
Caes. B. G. 2, 16, 3: “judicium discipulorum,” Quint. 2, 5, 12: “in quo totas
vires suas eloquentia experiretur,” id. 10, 1, 109: “imperium,” Liv. 2, 59, 4:
“cervi cornua ad arbores subinde experientes,” Plin. 8, 32, 50, § 117 et saep.—
“With a personal object: vin' me experiri?” make trial of me, Plaut. Merc. 4,
4, 29: “hanc experiamur,” Ter. Hec. 5, 2, 12 Ruhnk.: “tum se denique errasse
sentiunt, cum eos (amicos) gravis aliquis casus experiri cogit,” Cic. Lael. 22,
84: “in periclitandis experiendisque pueris,” id. Div. 2, 46, 97.—So with se.
reflex., to make trial of one's powers in any thing: “se heroo (versu),” Plin.
Ep. 7, 4, 3 variis se studiorum generibus, id. ib. 9, 29, 1: “se in foro,”
Quint. 12, 11, 16.— (β). With a rel.-clause, ut, etc.: vosne velit an me
regnare era quidve ferat Fors, Virtute experiamur, Enn. ap. Cic. Off. 1, 12, 38
(Ann. v. 204, ed. Vahl.): “lubet experiri, quo evasuru'st denique,” Plaut.
Trin. 4, 2, 93: “experiri libet, quantum audeatis,” Liv. 25, 38, 11; cf. Nep.
Alcib. 1, 1: “in me ipso experior, ut exalbescam, etc.,” Cic. de Or. 1, 26,
121; cf. with si: “expertique simul, si tela artusque sequantur,” Val. Fl. 5,
562.— (γ). Absol.: “experiendo magis quam discendo cognovi,” Cic. Fam. 1, 7,
10: “judicare difficile est sane nisi expertum: experiendum autem est in ipsa
amicitia: ita praecurrit amicitia judicium tollitque experiendi potestatem,”
id. Lael. 17, 62.— B. In the tempp. perf., to have tried, tested, experienced,
i. e. to find or know by experience: “benignitatem tuam me experto praedicas,”
Plaut. Merc. 2, 2, 18: “omnia quae dico de Plancio, dico expertus in nobis,”
Cic. Planc. 9, 22: “experti scire debemus, etc.,” id. Mil. 26, 69: “illud tibi
expertus promitto,” id. Fam. 13, 9, 3: “dicam tibi, Catule, non tam doctus,
quam, id quod est majus, expertus,” id. de Or. 2, 17, 72: “puellae jam virum
expertae,” Hor. C. 3, 14, 11; 4, 4, 3; cf. Quint. 6, 5, 7: “mala captivitatis,”
Sulp. Sev. 2, 22, 5: “id opera expertus sum esse ita,” Plaut. Bacch. 3, 2, 3:
“expertus sum prodesse,” Quint. 2, 4, 13: “expertus, juvenem praelongos
habuisse sermones,” id. 10, 3, 32: “ut frequenter experti sumus,” id. 1, 12,
11.— “Rarely in other tenses: et exorabile numen Fortasse experiar,” may find,
Juv. 13, 103.— C. To make trial of, in a hostile sense, to measure strength
with, to contend with: “ut interire quam Romanos non experiri mallet,” Nep.
Ham. 4, 3: “maritimis moribus mecum experitur,” Plaut. Cist. 2, 1, 11: “ipsi
duces cominus invicem experti,” Flor. 3, 21, 7; 4, 10, 1; cf.: “hos cum Suevi,
multis saepe bellis experti, finibus expellere non potuissent,” Caes. B. G. 4,
3, 4: “Turnum in armis,” Verg. A. 7, 434. II. To undertake, to attempt, to make
trial of, undergo, experience a thing. A. In gen.: “qui desperatione debilitati
experiri id nolent, quod se assequi posse diffidant. Sed par est omnes omnia
experiri, qui, etc.,” Cic. Or. 1, 4; cf.: “istuc primum experiar,” Plaut. Truc.
2, 7, 47: “omnia experiri certum est, priusquam pereo,” Ter. And. 2, 1, 11:
“omnia prius quam, etc.,” Caes. B. G. 7, 78, 1: “extrema omnia,” Sall. C. 26,
5; cf. “also: sese omnia de pace expertum,” Caes. B. C. 3, 57, 2: “libertatem,”
i. e. to make use of, enjoy, Sall. J. 31, 5: “late fusum opus est et multiplex,
etc. ... dicere experiar,” Quint. 2, 13, 17: “quod quoniam me saepius rogas,
aggrediar, non tam perficiundi spe quam experiundi voluntate,” Cic. Or. 1,
2.—With ut and subj.: “nunc si vel periculose experiundum erit, experiar certe,
ut hinc avolem,” Cic. Att. 9, 10, 3: “experiri, ut sine armis propinquum ad
officium reduceret,” Nep. Dat. 2, 3.— B. In partic., jurid. t. t., to try or
test by law, to go to law: “aut intra parietes aut summo jure experietur,” Cic.
Quint. 11, 38; cf.: “in jus vocare est juris experiundi causa vocare,” Dig. 2,
4, 1; 47, 8, 4: “a me diem petivit: ego experiri non potui: latitavit,” Cic.
Quint. 23, 75; Liv. 40, 29, 11: “sua propria bona malaque, cum causae dicendae
data facultas sit, tum se experturum,” Liv. 3, 56, 10: “postulare ut judicium
populi Romani experiri (liceat),” id. ib.—Hence, 1. expĕrĭens , entis, P. a.
(acc. to II.), experienced, enterprising, active, industrious (class.): “homo
gnavus et industrius, experientissimus ac diligentissimus arator,” Cic. Verr.
2, 3, 21, § 53: “promptus homo et experiens,” id. ib. 2, 4, 17, § “37: vir
fortis et experiens,” id. Clu. 8, 23: “vir acer et experiens,” Liv. 6, 34, 4:
“comes experientis Ulixei,” Ov. M. 14, 159: “ingenium,” id. Am. 1, 9, 32. —With
gen.: “genus experiens laborum,” inured to, patient of, Ov. M. 1, 414: “rei
militaris experientissimi duces,” Arn. 2, 38 init.; cf. Vulg. 2 Macc. 8,
9.—Comp. appears not to occur.— 2. expertus , a, um, P. a. (acc. to I.), in
pass. signif., tried, proved, known by experience (freq. after the Aug. per.):
“vir acer et pro causa plebis expertae virtutis,” Liv. 3, 44, 3: “per omnia
expertus,” id. 1, 34, 12: “indignitates homines expertos,” id. 24, 22, 2:
“dulcedo libertatis,” id. 1, 17, 3: “industria,” Suet. Vesp. 4: “artes,” Tac.
A. 3, 17: saevitia, Prop. 1, 3, 18: “confidens ostento sibi expertissimo,”
Suet. Tib. 19.—With gen.: “expertos belli juvenes,” Verg. A. 10, 173; cf. Tac.
H. 4, 76.—Comp. and adv. appear not to occur. Empeireia – experiential -- empiricism: One of Grice’s
twelve labours -- Condillac, Étienne Bonnot de, philosopher, an empiricist who
was considered the great analytical mind of his generation. Close to Rousseau
and Diderot, he stayed within the church. He is closely perhaps excessively
identified with the image of the statue that, in the Traité des sensations
Treatise on Sense Perception, 1754, he endows with the five senses to explain
how perceptions are assimilated and produce understanding cf. also his Treatise
on the Origins of Human Knowledge, 1746. He maintains a critical distance from
precursors: he adopts Locke’s tabula rasa but from his first work to Logique
Logic, 1780 insists on the creative role of the mind as it analyzes and
compares sense impressions. His Traité des animaux Treatise on Animals, 1755,
which includes a proof of the existence of God, considers sensate creatures
rather than Descartes’s animaux machines and sees God only as a final cause. He
reshapes Leibniz’s monads in the Monadologie Monadology, 1748, rediscovered in 0.
In the Langue des calculs Language of Numbers, 1798 he proposes mathematics as
a model of clear analysis. The origin of language and creation of symbols
eventually became his major concern. His break with metaphysics in the Traité
des systèmes Treatise on Systems, 1749 has been overemphasized, but Condillac
does replace rational constructs with sense experience and reflection. His
empiricism has been mistaken for materialism, his clear analysis for
simplicity. The “ideologues,” Destutt de Tracy and Laromiguière, found Locke in
his writings. Jefferson admired him. Maine de Biran, while critical, was
indebted to him for concepts of perception and the self; Cousin disliked him;
Saussure saw him as a forerunner in the study of the origins of language. Empiricism
– one of Grice’s twelve labours – This implicates he saw himself as a
Rationalist, rather -- Cordemoy, Géraud de, philosopher and member of the
Cartesian school. His most important work is his Le discernement du corps et de
l’âme en six discours, published in 1666 and reprinted under slightly different
titles a number of times thereafter. Also important are the Discours physique
de la parole 1668, a Cartesian theory of language and communication; and Une
lettre écrite à un sçavant religieux 1668, a defense of Descartes’s orthodoxy
on certain questions in natural philosophy. Cordemoy also wrote a history of
France, left incomplete at his death. Like Descartes, Cordemoy advocated a
mechanistic physics explaining physical phenomena in terms of size, shape, and
local motion, and converse Cordemoy, Géraud de 186 186 held that minds are incorporeal thinking
substances. Like most Cartesians, Cordemoy also advocated a version of
occasionalism. But unlike other Cartesians, he argued for atomism and admitted
the void. These innovations were not welcomed by other members of the Cartesian
school. But Cordemoy is often cited by later thinkers, such as Leibniz, as an
important seventeenth-century advocate of atomism. Empiricism: one of Grice’s twelve labours --
Cousin, V., philosopher who set out to merge the psychological tradition with the pragmatism
of Locke and Condillac and the inspiration of the Scottish Reid, Stewart and G.
idealists Kant, Hegel. His early courses at the Sorbonne 1815 18, on “absolute”
values that might overcome materialism and skepticism, aroused immense
enthusiasm. The course of 1818, Du Vrai, du Beau et du Bien Of the True, the
Beautiful, and the Good, is preserved in the Adolphe Garnier edition of student
notes 1836; other early texts appeared in the Fragments philosophiques
Philosophical Fragments, 1826. Dismissed from his teaching post as a liberal
1820, arrested in G.y at the request of the
police and detained in Berlin, he was released after Hegel intervened
1824; he was not reinstated until 1828. Under Louis-Philippe, he rose to
highest honors, became minister of education, and introduced philosophy into
the curriculum. His eclecticism, transformed into a spiritualism and cult of
the “juste milieu,” became the official philosophy. Cousin rewrote his work
accordingly and even succeeded in having Du Vrai third edition, 1853 removed
from the papal index. In 1848 he was forced to retire. He is noted for his
educational reforms, as a historian of philosophy, and for his translations
Proclus, Plato, editions Descartes, and portraits of ladies of
seventeenth-century society. Empiricism – one of Grice’s twelve labours --
empirical decision theory, the scientific study of human judgment and decision
making. A growing body of empirical research has described the actual
limitations on inductive reasoning. By contrast, traditional decision theory is
normative; the theory proposes ideal procedures for solving some class of
problems. The descriptive study of decision making was pioneered by figures including
Amos Tversky, Daniel Kahneman, Richard Nisbett, and Lee Ross, and their
empirical research has documented the limitations and biases of various
heuristics, or simple rules of thumb, routinely used in reasoning. The
representativeness heuristic is a rule of thumb used to judge probabilities
based on the degree to which one class represents or resembles another class.
For example, we assume that basketball players have a “hot hand” during a
particular game producing an
uninterrupted string of successful shots
because we underestimate the relative frequency with which such
successful runs occur in the entire population of that player’s record. The
availability heuristic is a rule of thumb that uses the ease with which an
instance comes to mind as an index of the probability of an event. Such a rule
is unreliable when salience in memory misleads; for example, most people
incorrectly rate death by shark attack as more probable than death by falling
airplane parts. For an overview, see D. Kahneman, P. Slovic, and A. Tversky,
eds., Judgment Under Uncertainty: Heuristics and Biases, 2. These biases, found
in laypeople and statistical experts alike, have a natural explanation on
accounts such as Herbert Simon’s 7 concept of “bounded rationality.” According
to this view, the limitations on our decision making are fixed in part by
specific features of our psychological architecture. This architecture places
constraints on such factors as processing speed and information capacity, and
this in turn produces predictable, systematic errors in performance. Thus,
rather than proposing highly idealized rules appropriate to an omniscient
Laplacean genius more characteristic of
traditional normative approaches to decision theory empirical decision theory attempts to formulate
a descriptively accurate, and thus psychologically realistic, account of
rationality. Even if certain simple rules can, in particular settings,
outperform other strategies, it is still important to understand the causes of
the systematic errors we make on tasks perfectly representative of routine
decision making. Once the context is specified, empirical decision-making
research allows us to study both descriptive decision rules that we follow
spontaneously and normative rules that we ought to follow upon reflection. empiricism from empiric, ‘doctor who relies
on practical experience’, ultimately from Grecian empeiria, ‘experience’, a
type of theory in epistemology, the basic idea behind all examples of the type
being that experience has primacy in human knowledge and justified belief.
Because empiricism is not a single view but a type of view with many different
examples, it is appropriate to speak not just of empiricism but of empiricisms.
Perhaps the most fundamental distinction to be drawn among the various
empiricisms is that between those consisting of some claim about concepts and
those consisting of some empirical empiricism 262 262 claim about beliefs call these, respectively, concept-empiricisms
and belief-empiricisms. Concept-empiricisms all begin by singling out those
concepts that apply to some experience or other; the concept of dizziness,
e.g., applies to the experience of dizziness. And what is then claimed is that
all concepts that human beings do and can possess either apply to some experience
that someone has had, or have been derived from such concepts by someone’s
performing on those concepts one or another such mental operation as
combination, distinction, and abstraction. How exactly my concepts are and must
be related to my experience and to my performance of those mental operations
are matters on which concept-empiricists differ; most if not all would grant we
each acquire many concepts by learning language, and it does not seem plausible
to hold that each concept thus acquired either applies to some experience that
one has oneself had or has been derived from such by oneself. But though
concept-empiricists disagree concerning the conditions for linguistic
acquisition or transmission of a concept, what unites them, to repeat, is the
claim that all human concepts either apply to some experience that someone has
actually had or they have been derived from such by someone’s actually
performing on those the mental operations of combination, distinction, and
abstraction. Most concept-empiricists will also say something more: that the
experience must have evoked the concept in the person having the experience, or
that the person having the experience must have recognized that the concept
applies to his or her experience, or something of that sort. What unites all
belief-empiricists is the claim that for one’s beliefs to possess one or
another truth-relevant merit, they must be related in one or another way to
someone’s experience. Beliefempiricisms differ from each other, for one thing,
with respect to the merit concerning which the claim is made. Some
belief-empiricists claim that a belief does not have the status of knowledge
unless it has the requisite relation to experience; some claim that a belief
lacks warrant unless it has that relation; others claim that a belief is not
permissibly held unless it stands in that relation; and yet others claim that
it is not a properly scientific belief unless it stands in that relation. And
not even this list exhausts the possibilities. Belief-empiricisms also differ
with respect to the specific relation to experience that is said to be
necessary for the merit in question to be present. Some belief-empiricists
hold, for example, that a belief is permissibly held only if its propositional
content is either a report of the person’s present or remembered experience, or
the belief is held on the basis of such beliefs and is probable with respect to
the beliefs on the basis of which it is held. Kant, by contrast, held the
rather different view that if a belief is to constitute empirical knowledge, it
must in some way be about experience. Third, belief-empiricisms differ from
each other with respect to the person to whose experience a belief must stand
in the relation specified if it is to possess the merit specified. It need not
always be an experience of the person whose belief is being considered. It
might be an experience of someone giving testimony about it. It should be
obvious that a philosopher might well accept one kind of empiricism while
rejecting others. Thus to ask philosophers whether they are empiricists is a
question void for vagueness. It is regularly said of Locke that he was an
empiricist; and indeed, he was a concept-empiricist of a certain sort. But he
embraced no version whatsoever of belief-empiricism. Up to this point,
‘experience’ has been used without explanation. But anyone acquainted with the
history of philosophy will be aware that different philosophers pick out
different phenomena with the word; and even when they pick out the same phenomenon,
they have different views as to the structure of the phenomenon that they call
‘experience.’ The differences on these matters reflect yet more distinctions
among empiricisms than have been delineated above.
EX-PLANATVM
-- explanatum:
cf. iustificatum – That the distinction is not absolute shows in that
explanatum cannot be non-iustificatum or vice versa. To explain is in part to
justify – but Grice was in a hurry, and relying on an upublication not meant
for publication! Grice on explanatory versus justificatory reasons -- early
15c., explanen, "make
(something) clear in the mind, to make intelligible," from Latin explanare "to explain, make
clear, make plain," literally "make level, flatten," from ex "out" (see ex-) + planus "flat" (from PIE root *pele- (2) "flat; to
spread"). The spelling was altered by influence of plain. Also see plane (v.2). In 17c.,
occasionally used more literally, of the unfolding of material things: Evelyn
has buds that "explain into leaves" ["Sylva, or, A discourse of
forest-trees, and the propagation of timber in His Majesties dominions,"
1664]. Related: Explained; explaining; explains. To explain
(something) away "to deprive of significance by explanation,
nullify or get rid of the apparent import of," generally with an adverse
implication, is from 1709. I
think we may find, in our talk about reasons, three main kinds of case. (1) The
first is that class of cases exemplified by the use of such a sentence as
"The reason why the bridge collapsed was that the girders were made of
cellophane". Variant forms would be exemplified in "The (one) reason
for the collapse of the bridge was that . . ." and "The fact that the
girders were made of cellophane was the (one) reason for the collapse of the
bridge (why the bridge collapsed)", and so on. This type of case includes
cases in which that for which the (a) reason is being given is an action. We
can legitimately use such a sentence form as "The reason why he resigned
his office (for his resigning his office) was that p"; and, so far as I
can see, the same range of variant forms will be available. I shall take as
canonical (paradigmatic) for this type of case (type (1)) the form "The
(a) reason why A was (is) that B". The significant features of a type (1)
case seem to me to include the following. (a) The canonical form is 'factive'
both with respect to A and to B. If I use it, I imply both that it is true that
A and that it is true that B. (b) If the reason why A was that B, then B is the
explanation of its being the case that A; and if one reason why A was (that) B,
then B is one explanation of its being the case that A, and if there are other
explanations (as it is implicated that there are, or may be) then A is
overdetermined; and (finally) if a part of the reason why A was that B, then B
is a part of the explanation of A's being so. This feature is not unconnected
with the previous one; if B is the explanation of A, then both B and A must be
facts; and if one fact is a reason for another fact, then it looks as if the
connection between them must be that the first explains the second. (c) In
some, but not all, cases in which the reason why A was that B, we can speak of
B as causing, or being the cause of, A (A's being the case). If the reason why
the bridge collapsed was that the girders were made of cellophane, then we can
say that the girders' being made of cellophane caused the bridge to collapse
(or, at least, caused it to collapse when the bus drove onto it). But not end
p.37 in all cases; it might be true that the reason why X took offence was that
all Tibetans are specially sensitive to comments on their appearance, though it
is very dubious whether it would be proper to describe the fact, or
circumstance, that all Tibetans have this particular sensitivity as the cause
of, or as causing, X to take offence. However, it may well be true that if B
does cause A, then the (or a) reason why A is that B. (d) The canonical form employs
'reason' as a count-noun; it allows us to speak (for example) of the reason why
A, of there being more than one reason why A, and so on. But for type (1) cases
we have, at best, restricted licence to use variants in which 'reason' is used
as a massnoun. "There was considerable reason why the bridge collapsed
(for the bridge collapsing)" and "The weakness of the girders was
some reason why the bridge collapsed" are oddities; so is "There was
good reason why the bridge collapsed", though "There was a good
reason why the bridge collapsed" is better; but "There was (a) bad
reason why the bridge collapsed" is terrible. The discomforts engendered
by attempts to treat 'reason' as a mass-noun persist even when A specifies an
action; "There was considerable reason why he resigned his office" is
unhappy, though one would not object to, for example, "There was
considerable reason for him to resign his office", which is not a type (1)
case. (e) Relativization to a person is, I think, excluded, unless (say) the
relativizing 'for X' means "in X's opinion", as in "for me, the
reason why the bridge collapsed was . . .". Again, this feature persists
even when A specifies an action: "For him, the reason why he resigned was
. . ." and "The reason for him why he resigned was . . ." are
both unnatural (for different reasons). I shall call type (1) cases
"reasons why" or "explanatory reasons" – for
etymologically, they make something ‘plain’ – out of nothing, almost – vide
Latin explanare – but never IM-planare – and in any case, not to be confused
with what Carnap calls an ‘explication’! (2) The cases which I am allocating to
type (2) are a slightly less tidy family than those of type (1). Examples are:
"The fact that they were a day late was some (a)reason for thinking that the
bridge had collapsed." "The fact that they were a day late was a
reason for postponing the conference." We should particularly notice the
following variants and allied examples (among others): end p.38 That they were
a day late was reason to think that the bridge had collapsed. There was no
reason why the bridge should have collapsed. The fact that they were so late
was a (gave) good reason for us to think that . . . He had reason to think that
. . . (to postpone . . .) but he seemed unaware of the fact. The fact that they
were so late was a reason for wanting (for us to want) to postpone the meeting.
I shall take as the paradigmatic form for type (2) "That B was (a) reason
(for X) to A", where "A" may conceal a psychological verb like
"think", "want", or "decide", or may specify an
action. Salient features seem to me to include the following. (a) Unlike type
(1), where there is double factivity, the paradigmatic form is non-factive with
respect to A, but factive with respect to B; with regard to B, however,
modifications are available which will cancel factivity; for example, "If
it were (is) the case that B, that would be a reason to A." (b) In
consonance with the preceding feature, it is not claimed that B explains A
(since A may not be the case), nor even that if A were the case B would explain
it (since someone who actually does the action or thinks the thought specified
by A may not do so because of B). It is, however, in my view (though some might
question my view) claimed that B is a justification (final or provisional) for
doing, wanting, or thinking whatever is specified in A. The fact that B goes at
least some way towards making it the case that an appropriate person or persons
should (or should have) fulfil (fulfilled) A. (c) The word "cause" is
still appropriate, but in a different grammatical construction from that used
for type (1). In Example (1), the fact that they were so late is not claimed to
cause anyone to think that the bridge had collapsed, but it is claimed to be
(or to give) cause to think just that. (d) Within type (2), 'reason' may be
treated either as a count-noun or as a mass-noun. Indeed, the kinds of case
which form type (2) seem to be the natural habitat of 'reason' as a mass-noun.
A short version of an explanation of this fact (to which I was helped end p.39
by George Myro) seems to me to be that (i) there are no degrees of explanation:
there may be more than one explanation, and something may be a part (but only a
part) of the explanation, but a set of facts either does explain something or
it does not. There are, however, degrees of justification (justifiability); one
action or belief may be more justifiable, in a given situation, than another
(there may be a better case for it). (ii) Justifiability is not just a matter
of the number of supporting considerations, but rather of their combined weight
(together with their outweighing the considerations which favour a rival action
or belief). So a mass-term is needed, together with specifications of degree or
magnitude. (e) That B may plainly be a reason for a person or people to A;
indeed, when no person is mentioned or implicitly referred to, it is very
tempting to suppose that it is being claimed that the fact that B would be a
reason for anyone, or any normal person, to A. One might call type (2) cases "justificatory reasons" or
"reasons for (to)". (3) Examples: John's reason for thinking Samantha
to be a witch was that he had suddenly turned into a frog. John's reason for
wanting Samantha to be thrown into the pond was that (he thought that) she was
a witch. John's reason for denouncing Samantha was that she kept turning him
into a frog. John's reason for denouncing Samantha was to protect himself
against recurrent metamorphosis. If X's reason for doing (thinking) A was that
B, it follows that X A-ed because B (because X knew (thought) that B). If X's
reason for doing (wanting, etc.) A was to B, it follows that X A-ed in order to
(so as to) B. The sentence form "X had several reasons for A-ing, such as
that (to) B" falls, in my scheme, under type (3), unlike the seemingly
similar sentence "X had reason to A, since B", which I locate under
type (2). The paradigmatic form I take as being "X's reason(s) for A-ing
was that B (to B)". Salient features of type (3) cases should be fairly obvious.
end p.40 (a) In type (3) cases reasons may be either of the form that B or of
the form to B. If they are of the former sort, then the paradigmatic form is
doubly factive, factive with respect both to A and to B. It is always factive
with respect to A (A-ing). When it is factive with respect to B, factivity may
be cancelled by inserting "X thought that" before B. (b) Type (3)
reasons are "in effect explanatory". If X's reason for A-ing was that
(to) B, X's thinking that B (or wanting to B) explains his A-ing. The
connection between type (3) reasons being, in effect, explanatory, and their
factivity is no doubt parallel to the connection which obtains for type (1)
reasons. I reserve the question of the applicability of "cause" to a
special concluding comment. (c) So far as I can see, "reason" cannot,
in type (3) cases, be treated as a mass-noun. This may be accounted for by the
explanatory character of reasons of this type. We can, however, here talk of
reasons as being bad; X's reasons for A-ing may be weak or appalling. In type
(2) cases, we speak of there being little reason, or even no reason, to A. But
in type (3) cases, since X's reasons are explanatory of his actions or
thoughts, they have to exist. (I doubt if this is the full story, but it will have
to do for the moment.) (d) Of their very nature, type (3) reasons are relative
to persons. Because of their hybrid nature (they seem, as will in a moment, I
hope, emerge, in a way to partake of the character both of type (1) and of type
(2)) one might call them "Justificatory-Explanatory" reasons.
Strawson said my explanation required an explanation. ex-plāno , āvi, ātum, 1, v. a. * I. Lit., to flatten or
spread out: “suberi cortex in denos pedes undique explanatus,” Plin. 16, 8, 13,
§ 34.— II. Trop., of speech, to make plain or clear, to explain (class.: “syn.:
explico, expono, interpretor): qualis differentia sit honesti et decori,
facilius intelligi quam explanari potest,” Cic. Off. 1, 27, 94; cf. Quint. 5,
10, 4: “rem latentem explicare definiendo, obscuram explanare interpretando,
etc.,” Cic. Brut. 42, 152: “explanare apertiusque dicere aliquid,” id. Fin. 2,
19, 60: “docere et explanare,” id. Off. 1, 28, 101: “aliquid conjecturā,” id.
de Or. 2, 69, 280: “rem,” id. Or. 24, 80: “quem amicum tuum ais fuisse istum,
explana mihi,” Ter. Ph. 2, 3, 33: “de cujus hominis moribus pauca prius
explananda sunt, quam initium narrandi faciam,” Sall. C. 4, 5.—Pass. impers.:
“juxta quod flumen, aut ubi fuerit, non satis explanatur,” Plin. 6, 23, 26, §
97.— 2. To utter distinctly: “et ille juravit, expressit, explanavitque verba,
quibus, etc.,” Plin. Pan. 64, 3.—Hence, explānātus , a, um, P. a. (acc. to
II.), plain, distinct (rare): “claritas in voce, in lingua etiam explanata
vocum impressio,” i. e. an articulate pronunciation, Cic. Ac. 1, 5, 19: parum
explanatis vocibus sermo praeruptus, Sen. de Ira, 1, 1, 4.—Adv. ex-plānāte ,
plainly, clearly, distinctly: “scriptum,” Gell. 16, 8, 3.—Comp.: “ut definire
rem cum explanatius, tum etiam uberius (opp. presse et anguste),” Cic. Or. 33,
117.
EX-PLICATVM -- implicaturum-explicaturum
distinction, the: – “I am aware that with
‘implicaturum,’ as opposed to ‘implicaturum,’ the distinction with ‘implicatio’
is lost – for ‘what is implied,’ in contrast, sounds vulgar.” And then there’s
‘entailment” is not as figurative as it sounds: it inovolves property and
limitation -- “Paradoxes of entailment,” “Paradoxes of implication.” Philo and
his teacher. Grice is not sure about ‘implicaturum.’ The quote by Moore, 1919
being:"It might be suggested that we should say "p ent q"
'means' "p ) q AND this proposition is an instance of a formal
implication, which is not merely true but self-evident, like the laws of formal
logic." This proposed definitions would avoid the paradoxes involved in
Strachey's definition, since such true formal implications as 'All the persons
in this room are more than five years old' are certainly not self-evident; and,
so far as I can see, it may state something which is in fact true of p and q,
whenever and only whenp ent q. I do not myself think that it gives the meaning
of 'p ent q,' since the kind of relation which I see to hold between the
premises and a conclusion of a syllogism seems to me one which is purely
'objective' in the sense that no psychological term, such as is involved in the
meaning of 'self-evident' is involved in its definition (it it has one). I am
not, however, concerned to dispute that some such definition of "p ent
q" as this may be true." --- and so on. So, it is apparently all
Strachey's fault. This
view as to what φA . ent . ψA means has, for instance, if I understand him
rightly, been asserted by Mr. O. Strachey in Mind, N.S., 93; since he asserts
that, in his opinion, this is what Professor C. I. Lewis means by “φA strictly
implies ψA,” and undoubtedly what Professor Lewis means by this is what I mean
by φA . ent . ψA. And the same view has been frequently suggested (though I do
not know that he has actually asserted it) by Mr. Russell himself (e.g.,
Principia Mathematica, p. 21). I 1903 B. Russell Princ.
Math. ii. 14 How far formal implication is definable in terms of implication
simply, or material implication as it may be called, is a difficult
question. Source : Principles : Chapter III. Implication and Formal Implication.
– Source : Principia, page 7 : "When it is necessary explicitly to
discriminate "implication" [i.e. "if p, then q" ] from
"formal implication," it is called "material implication."
– Source : Principia, page 20 : "When an implication, say ϕx.⊃.ψx, is said to
hold always, i.e. when (x):ϕx.⊃.ψx, we shall say that ϕx formally implies ψx"Many logicians did use ‘implicaturum’ not necessarily to
mean ‘conversational implicaturum,’ but as the result of ‘implicatio’.
‘Implicatio’ was often identified with the Megarian or Philonian ‘if.’ Why?
thought that we probably did need an entailment. The symposium was held in New
York with Dana Scott and R. K. Meyer. The notion had been mis-introduced
(according to Strawson) in the philosophical literature by Moore. Grice is
especially interested in the entailment + implicaturum pair. A philosophical
expression may be said to be co-related to an entailment (which is rendered in
terms of a reductive analysis). However, the use of the expression may
co-relate to this or that implicaturum which is rendered reasonable in the
light of the assumption by the addressee that the utterer is ultimately abiding
by a principle of conversational helfpulness. Grice thinks many philosophers
take an implicaturum as an entailment when they surely shouldnt! Grice was more
interested than Strawson was in the coinage by Moore of entailment for logical
consequence. As an analyst, Grice knew that a true conceptual analysis needs to
be reductive (if not reductionist). The prongs the analyst lists are thus
entailments of the concept in question. Philosophers, however, may misidentify
what is an entailment for an implicaturum, or vice versa. Initially, Grice was
interested in the second family of cases. With his coinage of disimplicaturum,
Grice expands his interest to cover the first family of cases, too. Grice
remains a philosophical methodologist. He is not so much concerned with any
area or discipline or philosophical concept per se (unless its rationality),
but with the misuses of some tools in the philosophy of language as committed
by some of his colleagues at Oxford. While entailment, was, for Strawson
mis-introduced in the philosophical literature by Moore, entailment seems to be
less involved in paradoxes than if is. Grice connects the two, as indeed his
tutee Strawson did! As it happens, Strawsons Necessary propositions and entailment
statements is his very first published essay, with Mind, a re-write of an
unpublication unwritten elsewhere, and which Grice read. The relation of
consequence may be considered a meta-conditional, where paradoxes
arise. Grices Bootstrap is a principle designed to impoverish the
metalanguage so that the philosopher can succeed in the business of pulling
himself up by his own! Grice then takes a look at Strawsons very first
publication (an unpublication he had written elsewhere). Grice finds Strawson
thought he could provide a simple solution to the so-called paradoxes of
entailment. At the time, Grice and Strawson were pretty sure that nobody then
accepted, if indeed anyone ever did and did make, the identification of the
relation symbolised by the horseshoe with the relation which Moore calls
entailment, p⊃q, i. e. ~(pΛ~q) is rejected as an analysis of p entails q
because it involves this or that allegedly paradoxical implicaturum, as that
any false proposition entails any proposition and any true proposition is
entailed by any proposition. It is a commonplace that Lewiss amendment had
consequences scarcely less paradoxical in terms of the implicatura. For if p is
impossible, i.e. self-contradictory, it is impossible that p and ~q. And
if q is necessary, ~q is impossible and it is impossible that p and ~q; i. e.,
if p entails q means it is impossible that p and ~q any necessary proposition
is entailed by any proposition and any self-contradictory proposition entails
any proposition. On the other hand, Lewiss definition of entailment (i.e. of
the relation which holds from p to q whenever q is deducible from p) obviously
commends itself in some respects. Now, it is clear that the emphasis laid on
the expression-mentioning character of the intensional contingent statement by
writing pΛ~q is impossible instead of It is impossible that p and ~q does not
avoid the alleged paradoxes of entailment. But it is equally clear that the
addition of some provision does avoid them. One may proposes that one
should use “entails” such that no necessary statement and no negation of a
necessary statement can significantly be said to entail or be entailed by any
statement; i. e. the function p entails q cannot take necessary or
self-contradictory statements as arguments. The expression p entails q is to be
used to mean p⊃q is necessary, and neither p nor q is either necessary or
self-contradictory, or pΛ~q is impossible and neither p nor q, nor either of
their contradictories, is necessary. Thus, the paradoxes are avoided. For let
us assume that p1 expresses a contingent, and q1 a necessary, proposition. p1
and ~q1 is now impossible because ~q1 is impossible. But q1 is necessary. So,
by that provision, p1 does not entail q1. We may avoid the paradoxical
assertion that p1 entails q2 as merely falling into the equally paradoxical
assertion that p1 entails q1 is necessary. For: If q is necessary, q is
necessary is, though true, not necessary, but a contingent intensional
(Latinate) statement. This becomes part of the philosophers lexicon: intensĭo,
f. intendo, which L and S render as a stretching out, straining, effort.
E. g. oculorum, Scrib. Comp. 255. Also an intensifying, increase. Calorem suum
(sol) intensionibus ac remissionibus temperando fovet,” Sen. Q. N. 7, 1, 3. The
tune: “gravis, media, acuta,” Censor. 12. Hence:~(q is necessary) is,
though false, possible. Hence “p1Λ~(q1 is necessary)” is, though false,
possible. Hence p1 does NOT entail q1 is necessary. Thus, by adopting the view
that an entailment statement, and other intensional statements, are
non-necessary, and that no necessary statement or its contradictory can entail
or be entailed by any statement, Strawson thinks he can avoid the paradox that
a necessary proposition is entailed by any proposition, and indeed all the other
associated paradoxes of entailment. Grice objected that Strawsons cure was
worse than Moores disease! The denial that a necessary proposition can entail
or be entailed by any proposition, and, therefore, that necessary propositions
can be related to each other by the entailment-relation, is too high a price to
pay for the solution of the paradoxes. And here is where Grices implicaturum is
meant to do the trick! Or not! When Levinson proposed + for conversationally
implicaturum, he is thinking of contrasting it with ⊢. But things aint that easy.
Even the grammar is more complicated: By uttering He is an adult, U explicitly
conveys that he is an adult. What U explicitly conveys entails that he is not a
child. What U implies is that he should be treated accordingly. Refs.: One
good reference is the essay on “Paradoxes of entailment,” in the Grice papers;
also his contribution to a symposium for the APA under a separate series, The
H. P. Grice Papers, BANC. EX-PLICATVM -- Implicaturum/explicaturum
distinction, the: explicatum: Grice is
clear here. There is explicat- and explicit-. Both yield different fields. The
explicit- has to do with what is shown. The explicat- does not. But both are
cognate. And of course, the ambiguity replicates in implicit- and implicat-
Short and Lewis have both ‘explicatus’ and ‘explicitus’ as Part.
and P. a., from explico. “I wonder why they had to have TWO!” – Grice.He once asked this to his master at Clifton. And he said,
“because this is a participium heteroclitum.” Grice never forgot that! An
Heteroclite Participle. R E D U N D A N S abounding. Art'cipium the
Participle faepe o/?em redundat abounds, ut as Perfe&tum the perfe&?
ter/? [aid] priùs before ; ut as explico to unfold conduplicat doubles [its
Participle] explicitus explicatufque, making both explicitus and explicatus. Et
and fic /3 fevi I have plantea folet is wont dare to give fatus planted, &
and ferui I have put fertus placed. Cello to bcat vult will mittere produce
-celfus ab -ui from [the perfe&* tenfe in] -ui ; fed but -culfus ab -i
-cu!fus from [its perfr&7 in] -i. Compofitum à fto the Compound offlo to
/fand [ makes] - ftaturus, pariterque amd aff? -ftiturus [in the future
Participle.] Etiam alfo duplex two Participles fit are made à fimplice perfeéto
from one perfe&i tenfe ; tendo to/lretch habet hath tentus, and tenfus;
pando to opem takes fibi to itfejf paffus, and panfus : Item affo mifcui I have
mixed miftus, vel or mixtus ; alo to breed up, altus and alitus ; Poto to drink
makes potatus & and potus ; lavo to wa/h, lautus and lotus. A tundo from
[tundo] to knock down -tufus is made ; retundo to blunt [makes] both -tufus and
-tunfus. Pinfo to bake effert makes triplex three Participles piftus,
pinfufque, & pinfitus, piftus, and pinfus, and pinfitus. Civi, the
perfe&? tenfe à cieo ofcieo to provoke makes the participle citus [with the
i. -- Vult tendo tenfus, tentus , vult flectere pando - Panfus Panfus
paffus 5 pinfo vult piftus dare pinfus Pinfitus ; & fevi fatus,
& ferui dare fertus. Compofitum à fto-ftaturus
meliufque-ftiturus. * Conftaturus Lucan. Mart.
Obftaturus Quint. _ Tundo in compofitis -tufus ; -tunfufque
retundo Congeminat ; plico & explicitus facit, éx-que-plicatus.
Verba in-uo &-vo-ütus tendunt ; ruo fed breve-ütus dat. A cieo
pariter manat citus , à cio citus. - Cello ab -ui celfus , fed ab-i vult
mittere -culfus. At Oxford, nobody was interested in
the explication. That’s too explicit. It was, being English, all about the
‘innuendo,’ the ‘understatement,’ the implication. The first Oxonian was C. K.
Grant, with his ‘pragmatic implication.’ Then came Nowell-Smith with his
‘contextual implication.’ Urmson was there with his ‘implied’ claims. And
Strawson was saying that ‘the king of France is not bald’ implies that thereis
a king of France. So, it was enough, Grice thought! We have to analyse what we
imply by imply, or at least what _I_ do. He thought publishing was always
vulgar. But when he was invited for one of those popularisations, when he was
invited to contribute to a symposium on a topic of his choice – he chose “The
causal theory of perception” and dedicates an ‘extensum excursus’ on
‘implication.’ The conclusion is simple: “The pillar box seems red” implies.
And implies a LOT. So much so that neo-Wittgensteinians were saying that what
Grice implies is part of what Grice is committed in terms of ‘satisfactoriness’
of what he is expressing. Not so! What Grice implies is, surely, that the
pillar box may not be red. But surely he can cancel that EXPLICITLY “The pillar
box seems red and is red.” So, what he implies is not part of what he
explicitly commits in terms of value satisfactoriness. In terms of value
satisfactoriness, Grice distinguishes between the subperceptual (“The pillar
box seems red”) and the perceptual proper (“Grice perceives that the pillar box
is red”). The causal theory merely states that “Grice perceives that the pillar
box is red” (a perceptum for the subperceptum, “the pillar box seems red”) if
and only if, first, the pillar box is red;
second, the subperceptum: the pillar box seems red; and third and last, the
fact that the pillar box is red CAUSES the pillar box seeming red. None of that
is explicit, but none of it is implicit. It is merely a philosophical reductive
analysis which has cleared away an unnecessary implication out of the picture.
The philosopher, involved in conceptual analysis, has freed from the ‘pragmatic
implication’ and can provide, for his clearly stated ‘analysans,’ three
different prongs which together constitute the necessary and sufficient
conditions – the analysandum. And his problem is resolved. Grice’s cavalier
attitude towards the explicit is obvious in the way he treats “Wilson is a
great man,” versus “the prime minister is a great man” “I don’t care if I’m not
sure if I want to say that an emissor of (i) and an emissor of (ii) have put
forward, in an explicit fashion, the same proposition. His account of
‘disambiguation’ is meant even more jocularly. He knows that in the New World,
they spell ‘vice’ as ‘vyse’ – So Wilson
being in the grip of a vyse is possibly the same thing put forward as the prime
minister being caught in the grip of either a carpenter’s tool or a sort of
something like a sin – if not both. (Etymologically, ‘vice’ and ‘vice’ are
cognate, since they are ‘violent’ things – cf. violence. While ‘implicare’
developed into vulgar Engish as ‘employ,’ “it’s funny explicature did not
develop into ‘exploy.’”A logical construction is an explication. A reductive
analysis is an explication. Cf. Grice on Reductionism as a bete noire,
sometimes misquoted as Reductivism. Grice used both ‘explanation’ and
‘explication’, so one has to be careful. When he said that he looked for a
theory that would explain conversation or the implicaturum, he did not mean explication.
What is the difference, etymologically, between
explicate and explain? Well, explain is from ‘explanare,’ which gives
‘explanatum.’Trop., of speech, to make plain or clear, to explain
(class.:“syn.: explico, expono, interpretor): qualis differentia sit honesti et
decori, facilius intelligi quam explanari potest,” Cic.Off. 1, 27, 94; cf.
Quint. 5, 10, 4: “rem latentem explicare definiendo, obscuram explanare
interpretando, etc.,” Cic. Brut. 42, 152: “explanare apertiusque dicere
aliquid,” id. Fin. 2, 19, 60: “docere et explanare,” id. Off. 1, 28, 101:
“aliquid conjecturā,” id. de Or. 2, 69, 280: “rem,” id. Or. 24, 80: “quem
amicum tuum ais fuisse istum, explana mihi,” Ter. Ph. 2, 3, 33: “de cujus
hominis moribus pauca prius explananda sunt, quam initium narrandi faciam,”
Sall. C. 4, 5.—Pass.impers.: “juxta quod flumen, aut ubi fuerit, non satis
explanatur,” Plin. 6, 23, 26, § 97.—2. To utter distinctly: “et ille juravit,
expressit, explanavitque verba, quibus, etc.,” Plin. Pan. 64, 3.Hence, explānātus
, a, um, P. a. (acc. to II.), plain, distinct (rare): “claritas in voce, in
lingua etiam explanata vocum impressio,” i. e. an articulate pronunciation,
Cic. Ac. 1, 5, 19: parum explanatis vocibus sermo praeruptus, Sen. de Ira, 1,
1, 4. Adv. ex-plānāte , plainly, clearly, distinctly: “scriptum,” Gell. 16, 8,
3.—Comp.: “ut definire rem cum explanatius, tum etiam uberius (opp. presse et
anguste),” Cic. Or. 33, 117.Cr. Occam. M. O. R. the necessity is explanatory
necessity. Senses or conventional implicaturata (not reachable by ‘argument’)
and Strawson do not explain. G. A. Paul does not explain. Unlike Austin, who
was in love with a taxonomy, Grice loved an explanation. “Ἀρχὴν δὲ τῶν πάντων
ὕδωρ ὑπεστήσατο, καὶ τὸν κόσμον ἔμψυχον καὶ δαιμόνων πλήρη. “Arkhen de ton
panton hudor hupestesato.” Thales’s doctrine is that water is the universal
primary substance, and that the world is animate and full of divinities. “Ἀλλὰ
Θαλῆς μὲν ὁ τῆς τοιαύτης ἀρχηγὸς φιλοσοφίας ὕδωρ φησὶν εἶναι (διὸ καὶ τὴν γῆν
ἐφ᾽ ὕδατος ἀπεφήνατο εἶναι), λαβὼν ἴσως τὴν ὑπόληψιν ταύτην ἐκ τοῦ πάντων ὁρᾶν
τὴν τροφὴν ὑγρὰν οὖσαν καὶ αὐτὸ τὸ θερμὸν ἐκ τούτου γιγνόμενον καὶ τούτῳ ζῶν
(τὸ δ᾽ ἐξ οὗ γίγνεται, τοῦτ᾽ ἐστὶν ἀρχὴ πάντων) – διά τε δὴ τοῦτο τὴν ὑπόληψιν
λαβὼν ταύτην καὶ διὰ τὸ πάντων τὰ σπέρματα τὴν φύσιν ὑγρὰν ἔχειν, τὸ δ᾽ ὕδωρ
ἀρχὴν τῆς φύσεως εἶναι τοῖς ὑγροῖς. εἰσὶ δέ τινες οἳ καὶ τοὺς παμπαλαίους καὶ
πολὺ πρὸ τῆς νῦν γενέσεως καὶ πρώτους θεολογήσαντας οὕτως οἴονται περὶ τῆς
φύσεως ὑπολαβεῖν‧
Ὠκεανόν τε γὰρ καὶ Τηθὺν ἐποίησαν τῆς γενέσεως πατέρας [Hom. Ξ 201], καὶ τὸν
ὅρκον τῶν θεῶν ὕδωρ, τὴν καλουμένην ὑπ᾽ αὐτῶν Στύγα τῶν ποιητῶν‧ τιμιώτατον μὲν γὰρ τὸ πρεσβύτατον, ὅρκος δὲ τὸ τιμιώτατόν
ἐστιν. εἰ μὲν οὖν [984a] ἀρχαία τις αὕτη καὶ παλαιὰ τετύχηκεν οὖσα περὶ τῆς
φύσεως ἡ δόξα, τάχ᾽ ἂν ἄδηλον εἴη, Θαλῆς μέντοι λέγεται οὕτως ἀποφήνασθαι περὶ
τῆς πρώτης αἰτίας. (Ἵππωνα γὰρ οὐκ ἄν τις ἀξιώσειε θεῖναι μετὰ τούτων διὰ τὴν
εὐτέλειαν αὐτοῦ τῆς διανοίας)‧
Ἀναξιμένης δὲ ἀέρα καὶ Διογένης πρότερον ὕδατος καὶ μάλιστ᾽ ἀρχὴν τιθέασι τῶν
ἁπλῶν σωμάτων.” De caelo: “Οἱ δ᾽ ἐφ᾽ ὕδατος κεῖσθαι [sc. τὴν γὴν]. τοῦτον γὰρ
ἀρχαιότατον παρειλήφαμεν τὸν λόγον, ὅν φασιν εἰπεῖν Θαλῆν τὸν Μιλήσιον, ὡς διὰ
τὸ πλωτὴν εἶναι μένουσαν ὥσπερ ξύλον ἤ τι τοιοῦτον ἕτερον (καὶ γὰρ τούτων ἐπ᾽
ἀέρος μὲν οὐθὲν πέφυκε μένειν, ἀλλ᾽ ἐφ᾽ ὕδατος), ὥσπερ οὐ τὸν αὐτὸν λόγον ὄντα
περὶ τῆς γῆς καὶ τοῦ ὕδατος τοῦ ὀχοῦντος τὴν γῆν‧ οὐδὲ γὰρ τὸ ὕδωρ πέφυκε μένειν μετέωρον, ἀλλ᾽ ἐπί τινός
[294b] ἐστιν. ἔτι δ᾽ ὥσπερ ἀὴρ ὕδατος κουφότερον, καὶ γῆς ὕδωρ‧ ὥστε πῶς οἷόν τε τὸ κουφότερον κατωτέρω κεῖσθαι τοῦ
βαρυτέρου τὴν φύσιν; ἔτι δ᾽ εἴπερ ὅλη πέφυκε μένειν ἐφ᾽ ὕδατος, δῆλον ὅτι καὶ
τῶν μορίων ἕκαστον [αὐτῆς]‧
νῦν δ᾽ οὐ φαίνεται τοῦτο γιγνόμενον, ἀλλὰ τὸ τυχὸν μόριον φέρεται εἰς βυθόν,
καὶ θᾶττον τὸ μεῖζον. The problem of the nature of matter, and its
transformation into the myriad things of which the universe is made, engaged
the natural philosophers, commencing with Thales. For his hypothesis to be
credible, it was essential that he could explain how all things could come into
being from water, and return ultimately to the originating material. It is
inherent in Thaless hypotheses that water had the potentiality to change to the
myriad things of which the universe is made, the botanical, physiological,
meteorological and geological states. In Timaeus, 49B-C, Plato had Timaeus
relate a cyclic process. The passage commences with that which we now call
“water” and describes a theory which was possibly that of Thales. Thales would
have recognized evaporation, and have been familiar with traditional views,
such as the nutritive capacity of mist and ancient theories about spontaneous
generation, phenomena which he may have observed, just as Aristotle believed
he, himself had, and about which Diodorus Siculus, Epicurus (ap. Censorinus,
D.N. IV.9), Lucretius (De Rerum Natura) and Ovid (Met. I.416-437) wrote. When
Aristotle reported Thales’s pronouncement that the primary principle is water,
he made a precise statement: Thales says that it [the nature of things] is
water, but he became tentative when he proposed reasons which might have
justified Thaless decision. Thales’s supposition may have arisen from
observation. It is Aristotle’s opinion that Thales may have observed, that the
nurture of all creatures is moist, and that warmth itself is generated from moisture
and lives by it; and that from which all things come to be is their first
principle. Then, Aristotles tone changed towards greater confidence. He
declared: Besides this, another reason for the supposition would be that the
semina of all things have a moist nature. In continuing the criticism of
Thales, Aristotle wrote: That from which all things come to be is their first
principle (Metaph. 983 b25). Simple
metallurgy had been practised long before Thales presented his hypotheses, so
Thales knew that heat could return metals to a liquid state. Water exhibits
sensible changes more obviously than any of the other so-called elements, and
can readily be observed in the three states of liquid, vapour and ice. The
understanding that water could generate into earth is basic to Thaless watery
thesis. At Miletus it could readily be observed that water had the capacity to
thicken into earth. Miletus stood on the Gulf of Lade through which the
Maeander river emptied its waters. Within living memory, older Milesians had
witnessed the island of Lade increasing in size within the Gulf, and the river
banks encroaching into the river to such an extent that at Priene, across the
gulf from Miletus the warehouses had to be rebuilt closer to the waters edge.
The ruins of the once prosperous city-port of Miletus are now ten kilometres
distant from the coast and the Island of Lade now forms part of a rich
agricultural plain. There would have been opportunity to observe other areas
where earth generated from water, for example, the deltas of the Halys, the
Ister, about which Hesiod wrote (Theogony, 341), now called the Danube, the
Tigris-Euphrates, and almost certainly the Nile. This coming-into-being of land
would have provided substantiation of Thaless doctrine. To Thales water held
the potentialities for the nourishment and generation of the entire cosmos.
Aëtius attributed to Thales the concept that even the very fire of the sun and
the stars, and indeed the cosmos itself is nourished by evaporation of the
waters (Aëtius, Placita). It is not
known how Thales explained his watery thesis, but Aristotle believed that the
reasons he proposed were probably the persuasive factors in Thaless
considerations. Thales gave no role to the Olympian gods. Belief in generation
of earth from water was not proven to be wrong until A.D. 1769 following
experiments of Antoine Lavoisier, and spontaneous generation was not disproved
until the nineteenth century as a result of the work of Louis Pasteur.The first
philosophical explanation of the world was speculative not practical. has its
intelligibility in being identified with one of its parts (the world is water).
First philosophical explanation for Universe human is rational and the world in
independent; He said the arché is water; Monist: He believed reality is
one Thales of Miletus, first
philosophical explanation of the origin and nature of justice (and Why after all, did a Thales is Water.” Without the millions of species
that make up the biosphere, and the billions of interactions between them that
go on day by day,.Oddly, Grice had spent some time on x-questions in the Kant
lectures. And why is an x-question. A philosophical explanation of
conversation. A philosophical explanation of implicaturum. Description vs.
explanation. Grice quotes from Fisher, Never contradict. Never explain.
Taxonomy, is worse than explanation, always. Grice is exploring the
taxonomy-description vs. explanation dichotomy. He would often criticise
ordinary-language philosopher Austin for spending too much valuable time on
linguistic botany, without an aim in his head. Instead, his inclination, a
dissenting one, is to look for the big picture of it all, and disregard a
piece-meal analysis. Conversation is a good example. While Austin would
Subjectsify Language (Linguistic Nature), Grice rather places rationality
squarely on the behaviour displayed by utterers as they make conversational
moves that their addressees will judge as rational along specific
lines. Observation of the principle of conversational helpfulness is
rational (reasonable) along the following lines: anyone who cares about the two
goals which are central to conversation, viz. giving and receiving information,
and influencing and being influenced by others, is expected to have an interest
in taking part in a conversation which will only be profitable (if not
possible) under the assumption that it is conducted along the lines of the
principle of conversational helpfulness. Grice is not interested in
conversation per se, but as a basis for a theory that explains the mistakes
ordinary-language philosophers are making. The case of What is known to be the
case is not believed to be the case. EXPLICATUM -- “to understand” – to explain
-- Dilthey, W. philosopher and historian whose main project was to establish the
conditions of historical knowledge, much as Kant’s Critique of Pure Reason had
for our knowledge of nature. He studied theology, history, and philosophy at
Heidelberg and Berlin and in 2 accepted the chair earlier held by Hegel at the of Berlin. Dilthey’s first attempt at a
critique of historical reason is found in the Introduction to the Human
Sciences 3, the last in the Formation of the Historical World in the Human
Sciences 0. He is also a recognized contributor to hermeneutics, literary
criticism, and worldview theory. His Life of Schleiermacher and essays on the
Renaissance, Enlightenment, and Hegel are model works of Geistesgeschichte, in
which philosophical ideas are analyzed in relation to their social and cultural
milieu. Dilthey holds that life is the ultimate nexus of reality behind which
we cannot go. Life is viewed, not primarily in biological terms as in Nietzsche
and Bergson, but as the historical totality of human experience. The basic
categories whereby we reflect on life provide the background for the
epistemological categories of the sciences. According to Dilthey, Aristotle’s
category of acting and suffering is rooted in prescientific experience, which
is then explicated as the category of efficacy or influence Wirkung in the
human sciences and as the category of cause Ursache in the natural sciences.
Our understanding of influence in the human sciences is less removed from the
full reality of life than are the causal explanations arrived at in the natural
sciences. To this extent the human sciences can claim a priority over the
natural sciences. Whereas we have direct access to the real elements of the
historical world psychophysical human beings, the elements of the natural world
are merely hypothetical entities such as atoms. The natural sciences deal with
outer experiences, while the human sciences are based on inner experience.
Inner experience is reflexive and implicitly self-aware, but need not be
introspective or explicitly self-conscious. In fact, we often have inner
experiences of the same objects that outer experience is about. An outer
experience of an object focuses on its physical properties; an inner experience
of it on our felt responses to it. A lived experience Erlebnis of it includes
both. The distinction between the natural and the human sciences is also
related to the methodological difference between explanation and understanding.
The natural sciences seek causal explanations of nature connecting the discrete representations of outer
experience through hypothetical generalizations. The human sciences aim at an
understanding Verstehen that articulates the typical structures of life given
in lived experience. Finding lived experience to be inherently connected and
meaningful, Dilthey opposed traditional atomistic and associationist
psychologies and developed a descriptive psychology that Husserl recognized as
anticipating phenomenological psychology. In Ideas 4 Dilthey argued that
descriptive psychology could provide a neutral foundation for the other human
sciences, but in his later hermeneutical writings, which influenced Heidegger
and Hans-Georg Gadamer, he rejected the possibility of a foundational
discipline or method. In the Formation, he asserted that all the human sciences
are interpretive and mutually dependent. Hermeneutically conceived,
understanding is a process of interpreting the “objectifications of life,” the
external expressions of human experience and activity. The understanding of
others is mediated by these common objectifications and not immediately available
through empathy Einfühlung. Moreover, to fully understand myself I must
interpret the expressions of my life just as I interpret the expressions of
others. Whereas the natural sciences aim at ever broader generalizations, the
human sciences place equal weight on understanding individuality and
universality. Dilthey regarded individuals as points of intersection of the
social and cultural systems in which they participate. Any psychological
contribution to understanding human life must be integrated into this more
public framework. Although universal laws of history are rejected, particular
human sciences can establish uniformities limited to specific social and
cultural systems. In a set of sketches 1 supplementing the Formation, Dilthey
further developed the categories of life in relation to the human sciences.
After analyzing formal categories such as the partwhole relation shared by all
the sciences, he distinguished the real categories of the human sciences from
those of the natural sciences. The most important human science categories are
value, purpose, and meaning, but they by no means exhaust the concepts needed
to reflect on the ultimate sense of our existence. Such reflection receives its
fullest expression in a worldview Weltanschauung, such as the worldviews
developed in religion, art, and philosophy. A worldview constitutes an overall
perspective on life that sums up what we know about the world, how we evaluate
it emotionally, and how we respond to it volitionally. Since Dilthey distinguished
three exclusive and recurrent types of worldview naturalism e.g., Democritus,
Hume, the idealism of freedom e.g., Socrates, Kant, and objective idealism
e.g., Parmenides, Hegel he is often
regarded as a relativist. But Dilthey thought that both the natural and the
human sciences could in their separate ways attain objective truth through a
proper sense of method. Metaphysical formulations of worldviews are relative
only because they attempt an impossible synthesis of all truth. Explicatum --
explanation, an act of making something intelligible or understandable, as when
we explain an event by showing why or how it occurred. Just about anything can
be the object of explanation: a concept, a rule, the meaning of a word, the
point of a chess move, the structure of a novel. However, there are two sorts
of things whose explanation has been intensively discussed in philosophy:
events and human actions. Individual events, say the collapse of a bridge, are
usually explained by specifying their cause: the bridge collapsed because of
the pressure of the flood water and its weakened structure. This is an example
of causal explanation. There usually are indefinitely many causal factors
responsible for the occurrence of an event, and the choice of a particular
factor as “the cause” appears to depend primarily on contextual considerations.
Thus, one explanation of an automobile accident may cite the icy road
condition; another the inexperienced driver; and still another the defective
brakes. Context may determine which of these and other possible explanations is
the appropriate one. These explanations of why an event occurred are sometimes
contrasted with explanations of how an event occurred. A “how” explanation of
an event consists in an informative description of the process that has led to
the occurrence of the event, and such descriptions are likely to involve
descriptions of causal processes. The covering law model is an influential
attempt to represent the general form of such explanations: an explanation of
an event consists in “subsuming,” or “covering,” it under a law. When the
covering law is deterministic, the explanation is thought to take the form of a
deductive argument: a statement the
explanandum describing the event to be
explained is logically derived from the explanans the law together with statements of
antecedent conditions. Thus, we might explain why a given rod expanded by
offering this argument: ‘All metals expand when heated; this rod is metallic
and it was heated; therefore, it expanded’. Such an explanation is called a
deductive-nomological explanation. On the other hand, probabilistic or
statistical laws are thought to yield statistical explanations of individual
events. Thus, the explanation of the contraction of a contagious disease on the
basis of exposure to a patient with the disease may take the form of a
statistical explanation. Details of the statistical model have been a matter of
much controversy. It is sometimes claimed that although explanations, whether
in ordinary life or in the sciences, seldom conform fully to the covering law
model, the model nevertheless represents an ideal that all explanations must
strive to attain. The covering law model, though influential, is not
universally accepted. Human actions are often explained by being
“rationalized’ i.e., by citing the
agent’s beliefs and desires and other “intentional” mental states such as
emotions, hopes, and expectations that constitute a reason for doing what was
done. You opened the window because you wanted some fresh air and believed that
by opening the window you could secure this result. It has been a controversial
issue whether such rationalizing explanations are causal; i.e., whether they
invoke beliefs and desires as a cause of the action. Another issue is whether
existential polarity explanation 298
298 these “rationalizing” explanations must conform to the covering law
model, and if so, what laws might underwrite such explanations. Refs.:
One good source is the “Prejudices and predilections.” Also the first set of ‘Logic
and conversation.” There is also an essay on the ‘that’ versus the ‘why.’ The
H. P. Grice Papers, BANC.
EX-PORTATVM -- Importatum/exportatum
distinction, the: exportatum – exportation: in classical logic, the principle that
A 8 B / C is logically equivalent to A / B / C. 2 The principle A 8 B P C P A P
B P C, which relevance logicians hold to be fallacious when ‘P’ is read as
‘entails’. 3 In discussions of propositional attitude verbs, the principle that
from ‘a Vs that b is an f’ one may infer ‘a Vs f-hood of b’, where V has its
relational transparent sense. For example, exportation in sense 3 takes one
from ‘Ralph believes that Ortcutt is a spy’ to ‘Ralph believes spyhood of
Ortcutt’, wherein ‘Ortcutt’ can now be replaced by a bound variable to yield
‘Dx Ralph believes spyhood of x’.
EX-POSITVM
-- impositum/expositum distinction, the: expositum: Grice: “My
preferred term for what Strawson calls the exponible.’ In dialectica, an
exponible proposition is that which needs to be expounded, i.e., elaborated or
explicated in order to make clear their true ‘form,’ as opposed to its mere
‘matter.’ ‘Giorgione is so called because of his size.’ ‘Giorgione is so called
because of his size’ has a misleading ‘matter’ (implicating at least two
forms). It may suggestin a simple predication. In fact, it means, ‘Giorgione is
called ‘Giorgione’ because of his size’. Grice’s examples: “An English pillar
box is called ‘red’ because it is red,” “Grice is called ‘Grice’ because he is
Grice.” “Grice is called ‘Grice’ because his Anglo-Norman ancestors had ‘grey’
in their coat of arms.” “Grice is called ‘Grice’ because his ancestor kept
grice, i. e. pigs.” Another example by Grice: ‘Every man except Strawson is
running’, expounded as ‘Strawson is not running and every man other than
Strawson is running (for Prime Minister)’; and ‘Only Strawson says something
true’, uttered by Grice. Grice claims ‘Only Strawson says something true’
should be expounded (or explicated, or explciited, or exposed, or provided
‘what is expositum, or the expositum provided: not only as ‘Strawson says
something true and no one other than Strawson says something true’, but needs
an implicated third clause, ‘Grice says something false’ for surely Grice is
being self-referentially ironic. If only Strawson says something true – that
proposition can only be uttered by Strawson. Grice borrowed it from Descartes:
“Only Descarets says something ture.” This last example brings out an important
aspect of exponible propositions, viz., their use in a sophisma. Sophismatic
treatises are a common genre at Oxford in which this or that semantic issue is
approached dialectically (what Grice calls “the Oxonian dialectic”) by its
application in solving a puzzle case. Another important ingredient of an
exponible proposition is its containing a particular term, sometimes called the
exponible term (terminus exponibilis in Occam). Attention on such a term is
focused in the study of the implicaturum of a syncategorematic expression, Note
that such an exponible term could only be expounded in context, not by an
explicit definition. A syncategorematic term that generates an exponible
proposition is one such as: ‘twice’, ‘except’, ‘begins’ and ‘ceases [to eat
iron, or ‘beat your wife,’ to use Grice’s example in “Causal Theory of
Perception”]’, and ‘insofar as’ e.g. ‘Strawson insofar as he is rational is
risible’. H. P. Grice, “Implicaturum and
explicaturum”
EX-PRESSVM -- impressum-expressum distinction, the: expressum: At
one time, Oxford was all about the Croceans! It all changed! The oppositum is
the impressum, or sense-datum. In a functionalist model, you have perceptual
INPUT and behavioural OUTPUT, the expressum. In between, the black box of the
soul. Darwin, Eckman. Drawing a skull
meaning there is danger. cf. impressum. Inside out. Expression of Impressions.
As an empiricist, Grice was into ‘impress.’ But it’s always good to have a
correlatum. Grice liked an abbreviation, especially because he loved
subscripts. So, he starts to analyse the ‘ordinary-language’ philosohper’s
mistake by using a few symbols: there’s the phrase, or utterance, and there’s
the expression, for which Grice uses ‘e’ for a ‘token,’ and ‘E’ for a type. So,
suppose we are considering Hart’s use of ‘carefully.’ ‘Carefully’ would be the
‘expression,’ occurring within an utterance. Surely, since Grice uses
‘expression’ in that way, he also uses to say what Hart is doing, Hart is
expressing. Grice notes that ‘expressing’ may be too strong. Hart is expressing
the belief THAT if you utter an utterance containing the ‘expression’
‘carefully,’ there is an implicaturum to the effect that the agent referred to
is taking RATIONAL steps towards something. IRRATIONAL behaviour does not count
as ‘careful’ behaviour. Grice uses the same abbreviations in discussing philosophy
as the ‘conceptual analysis’ of this or that expression. It is all different
with Ogden, Collingwood, and Croce, that Collingwood loved! "Ideas, we may say generally, are
symbols, as serving to express some actual moment or phase of experience and
guiding towards fuller actualization of what is, or seems to be, involved in
its existence or MEANING . That no idea is ever wholly adequate MEANS that the
suggestiveness of experience is inexhaustible" Forsyth, English
Philosophy, 1910, . Thus the significance of sound, the meaning of an utterance
is here identical with the active response to surroundings and with the natural
expression of emotions According to Husserl, the function of expression is only
directly and immediately adapted to what is usually described as the meaning
(Bedeutung) or the sense (Sinn) of the speech or parts of speech. Only because
the meaning associated with a wordsowid expresses something, is that word-sound
called 'expres- sion' (Ideen, p. 256 f). "Between the ,nearnng and the
what is meant, or what it expresses, there exists an essential relation,
because the meaning is the expression of the meant through its own content
(Gehalt) What is meant (dieses Bedeutete) lies in the 'object' of the thought
or speech. We must therefore distinguish these three-Word, Meaning, Object
"1 Geyser, Gp cit p z8 PDF compression, OCR, web optimization using a
watermarked evaluation copy of CVISION PDFCompresso These complexities are
mentioned here to show how vague are most of the terms which are commonly
thought satisfactory in this topic. Such a word as 'understand' is, unless
specially treated, far too vague to serve except provisionally or at levels of
discourse where a real understanding of the matter (in the reference sense) is
not possible. The multiple functions of speech will be classified and discussed
in the following chapter. There it will be seen that the expression of the
speaker's intention is one of the five regular language functions. Grice hated
Austin’s joke, the utteratum, “I use ‘utterance’ only as equivalent to
'utteratum;' for 'utteratio' I use ‘the issue of an utterance,’” so he needed
something for ‘what is said’ in general, not just linguistic, ‘what is
expressed,’ what is explicitly conveyed,’ ex-prĭmo , pressi, pressum, 3, v. a.
premo. express (mostly poet. and in postAug. prose; “freq. in the elder Pliny):
(faber) et ungues exprimet et molles imitabitur aere capillos,” Hor. A. P. 33;
cf.: “alicujus furorem ... verecundiae ruborem,” Plin. 34, 14, 40, § 140:
“expressa in cera ex anulo imago,” Plaut. Ps. 1, 1, 54: “imaginem hominis gypso
e facie ipsa,” Plin. 35, 12, 44, § 153; cf.: “effigiem de signis,” id. ib.:
“optime Herculem Delphis et Alexandrum, etc.,” id. 34, 8, 19, § 66 et saep.:
“vestis stricta et singulos artus exprimens,” exhibiting, showing, Tac. G. 17:
“pulcher aspectu sit athleta, cujus lacertos exercitatio expressit,” has well
developed, made muscular, Quint. 8, 3, 10.
EX-SISTERE
-- The insistens/existens distinction, the: exsistentia: Grice: “A rather
complex Ciceronian construction!” – Grice: “The correct spelling, at Clifton,
was ‘ex-sistentia.’” -- ex-sisto or existo , stĭti,
stĭtum, 3, v. n. ( I.act. August. Civ. D. 14, 13), to step out or forth, to
come forth, emerge, appear (very freq. and class.). I. Prop. A. In gen.: “e
latebris,” Liv. 25, 21, 3: “ab inferis,” Cic. Verr. 2, 1, 37, § 94; Liv. 39,
37, 3: “anguem ab ara exstitisse,” Cic. Div. 2, 80 fin.; cf.: vocem ab aede
Junonis ex arce exstitisse (shortly before: voces ex occulto missae; and:
“exaudita vox est a luco Vestae),” id. ib. 1, 45, 101: “est bos cervi figura,
cujus a media fronte inter aures unum cornu exsistit excelsius,” Caes. B. G. 6,
26, 1: “submersus equus voraginibus non exstitit,” Cic. Div. 1, 33, 73; cf.
Cic. Verr. 2, 4, 48, § 107: “nympha gurgite medio,” Ov. M. 5, 413: “hoc vero
occultum, intestinum ac domesticum malum, non modo non exsistit, verum, etc.,”
does not come to light, Cic. Verr. 2, 1, 15, § 39.— B. In partic., with the
accessory notion of originating, to spring, proceed, arise, become: “vermes de
stercore,” Lucr. 2, 871: “quae a bruma sata sunt, quadragesimo die vix
exsistunt,” Varr. R. R. 1, 34, 1: “ut si qui dentes et pubertatem natura dicat
exsistere, ipsum autem hominem, cui ea exsistant, non constare natura, non
intelligat, etc.,” Cic. N. D. 2, 33 fin.: “ex hac nimia licentia ait ille, ut
ex stirpe quadam, exsistere et quasi nasci tyrannum,” id. Rep. 1, 44; id. Off.
2, 23, 80; cf.: “ex luxuria exsistat avaritia necesse est,” id. Rosc. Am. 27, 75;
“ut exsistat ex rege dominus, ex optimatibus factio, ex populo turba et
confusio,” id. Rep. 1, 45: “ut plerumque in calamitate ex amicis inimici
exsistunt,” Caes. B. C. 3, 104, 1; “for which: videtisne igitur, ut de rege
dominus exstiterit? etc.,” Cic. Rep. 2, 26: “ex quo exsistit id civitatis
genus,” id. ib. 3, 14: “hujus ex uberrimis sermonibus exstiterunt doctissimi
viri,” id. Brut. 8, 31; cf. id. Or. 3, 12: “ex qua (disserendi ratione) summa
utilitas exsistit,” id. Tusc. 5, 25, 72: “sermo admirantium, unde hoc
philosophandi nobis subito studium exstitisset,” id. N. D. 1, 3, 6: “exsistit
hoc loco quaestio subdifficilis,” id. Lael. 19, 67: “magna inter eos exsistit
controversia,” Caes. B. G. 5, 28, 2: “poëtam bonum neminem sine inflammatione
animorum exsistere posse,” Cic. de Or. 2, 46 fin.: exsistit illud, ut, etc., it
ensues, follows, that, etc., id. Fin. 5, 23, 67; cf.: “ex quo exsistet, ut de
nihilo quippiam fiat,” id. Fat. 9, 18. II. Transf., to be visible or manifest
in any manner, to exist, to be: “ut in corporibus magnae dissimilitudines sunt,
sic in animis exsistunt majores etiam varietates,” Cic. Off. 1, 30, 107: “idque
in maximis ingeniis exstitit maxime et apparet facillime,” id. Tusc. 1, 15, 33:
“si exstitisset in rege fides,” id. Rab. Post. 1, 1: “cujus magnae exstiterunt
res bellicae,” id. Rep. 2, 17: “illa pars animi, in qua irarum exsistit ardor,”
id. Div. 1, 29, 61: “si quando aliquod officium exstitit amici in periculis
adeundis,” id. Lael. 7, 24 et saep.: “neque ullum ingenium tantum exstitisse
dicebat, ut, etc.,” Cic. Rep. 2, 1; cf.: “talem vero exsistere eloquentiam,
qualis fuit in Crasso, etc.,” id. de Or. 2, 2, 6; “nisi Ilias illa
exstitisset,” id. Arch. 10, 24: “cujus ego dignitatis ab adolescentia fautor,
in praetura autem et in consulatu adjutor etiam exstitissem,” id. Fam. 1, 9,
11; cf.: “his de causis ego huic causae patronus exstiti,” id. Rosc. Am. 2, 5:
“timeo, ne in eum exsistam crudelior,” id. Att. 10, 11, 3: “sic insulsi
exstiterunt, ut, etc.,” id. de Or. 2, 54, 217.Grice learned to use \/x
for the existential quantifier, since “it shows the analogy with ‘or’ and
avoids you fall into any ontological trap, of existential generalization, a
rule of inference admissible in classical quantification theory. It allows one
to infer an existentially quantified statement DxA from any instance A a/x of
it. Intuitively, it allows one to infer ‘There exists a liar’ from ‘Epimenides
is a liar’. It is equivalent to universal instantiation the rule that allows one to infer any
instance A a/x of a universally quantified statement ExA from ExA. Intuitively,
it allows one to infer ‘My car is valuable’ from ‘Everything is valuable’. Both
rules can also have equivalent formulations as axioms; then they are called
specification ExA / A a/x and particularization Aa/x / DxA. All of these
equivalent principles are denied by free logic, which only admits weakened
versions of them. In the case of existential generalization, the weakened
version is: infer DxA from Aa/x & E!a. Intuitively: infer ‘There exists a
liar’ from ‘Epimenides is a liar and Epimenides exists’. existential import, a commitment to the
existence of something implied by a sentence, statement, or proposition. For
example, in Aristotelian logic though not in modern quantification theory, any
sentence of the form ‘All F’s are G’s’ implies ‘There is an F that is a G’ and
is thus said to have as existential import a commitment to the existence of an
F that is a G. According to Russell’s theory of descriptions, sentences
containing definite descriptions can likewise have existential import since
‘The F is a G’ implies ‘There is an F’. The presence of singular terms is also
often claimed to give rise to existential commitment. Underlying this notion of
existential import is the idea long
stressed by W. V. Quine that ontological
commitment is measured by existential sentences statements, propositions of the
form Dv f. existential instantiation, a
rule of inference admissible in classical quantification theory. It allows one
to infer a statement A from an existentially quantified statement DxB if A can
be inferred from an instance Ba/x of DxB, provided that a does not occur in
either A or B or any other premise of the argument if there are any.
Intuitively, it allows one to infer a contradiction C from ‘There exists a
highest prime’ if C can be inferred from ‘a is a highest prime’ and a does not
occur in C. Free logic allows for a stronger form of this rule: with the same
provisions as above, A can be inferred from DxB if it can be inferred from Ba/x
& E!a. Intuitively, it is enough to infer ‘There is a highest natural
number’ from ‘a is a highest prime and a exists’. existentialism, a philosophical and literary
movement that came to prominence in Europe, particularly in France, immediately
after World War II, and that focused on the uniqueness of each human individual
as distinguished from abstract universal human qualities. Historians differ as
to antecedents. Some see an existentialist precursor in Pascal, whose
aphoristically expressed Catholic fideism questioned the power of rationalist
thought and preferred the God of Scripture to the abstract “God of the
philosophers.” Many agree that Kierkegaard, whose fundamentally similar but
Protestant fideism was based on a profound unwillingness to situate either God
or any individual’s relationship with God within a systematic philosophy, as
Hegel had done, should be exact similarity existentialism 296 296 considered the first modern
existentialist, though he too lived long before the term emerged. Others find a
proto-existentialist in Nietzsche, because of the aphoristic and
anti-systematic nature of his writings, and on the literary side, in
Dostoevsky. A number of twentiethcentury novelists, such as Franz Kafka, have
been labeled existentialists. A strong existentialist strain is to be found in
certain other theist philosophers who have written since Kierkegaard, such as
Lequier, Berdyaev, Marcel, Jaspers, and Buber, but Marcel later decided to
reject the label ‘existentialist’, which he had previously employed. This
reflects its increasing identification with the atheistic existentialism of
Sartre, whose successes, as in the novel Nausea, and the philosophical work
Being and Nothingness, did most to popularize the word. A mass-audience
lecture, “Existentialism Is a Humanism,” which Sartre to his later regret
allowed to be published, provided the occasion for Heidegger, whose early
thought had greatly influenced Sartre’s evolution, to take his distance from
Sartre’s existentialism, in particular for its self-conscious concentration on
human reality over Being. Heidegger’s Letter on Humanism, written in reply to
a admirer, signals an important turn in
his thinking. Nevertheless, many historians continue to classify Heidegger as
an existentialist quite reasonably,
given his early emphasis on existential categories and ideas such as anxiety in
the presence of death, our sense of being “thrown” into existence, and our
temptation to choose anonymity over authenticity in our conduct. This
illustrates the difficulty of fixing the term ‘existentialism’. Other thinkers of the time, all acquaintances of
Sartre’s, who are often classified as existentialists, are Camus, Simone de
Beauvoir, and, though with less reason, Merleau-Ponty. Camus’s novels, such as
The Stranger and The Plague, are cited along with Nausea as epitomizing the
uniqueness of the existentialist antihero who acts out of authenticity, i.e.,
in freedom from any conventional expectations about what so-called human nature
a concept rejected by Sartre supposedly requires in a given situation, and with
a sense of personal responsibility and absolute lucidity that precludes the
“bad faith” or lying to oneself that characterizes most conventional human
behavior. Good scholarship prescribes caution, however, about superimposing too
many Sartrean categories on Camus. In fact the latter, in his brief
philosophical essays, notably The Myth of Sisyphus, distinguishes
existentialist writers and philosophers, such as Kierkegaard, from absurdist
thinkers and heroes, whom he regards more highly, and of whom the mythical
Sisyphus condemned eternally by the gods to roll a huge boulder up a hill
before being forced, just before reaching the summit, to start anew is the
epitome. Camus focuses on the concept of the absurd, which Kierkegaard had used
to characterize the object of his religious faith an incarnate God. But for
Camus existential absurdity lies in the fact, as he sees it, that there is
always at best an imperfect fit between human reasoning and its intended objects,
hence an impossibility of achieving certitude. Kierkegaard’s leap of faith is,
for Camus, one more pseudo-solution to this hard, absurdist reality. Almost
alone among those named besides Sartre who himself concentrated more on social
and political thought and became indebted to Marxism in his later years, Simone
de Beauvoir 886 unqualifiedly accepted the existentialist label. In The Ethics
of Ambiguity, she attempted, using categories familiar in Sartre, to produce an
existentialist ethics based on the recognition of radical human freedom as
“projected” toward an open future, the rejection of inauthenticity, and a
condemnation of the “spirit of seriousness” akin to the “spirit of gravity”
criticized by Nietzsche whereby individuals identify themselves wholly with
certain fixed qualities, values, tenets, or prejudices. Her feminist
masterpiece, The Second Sex, relies heavily on the distinction, part
existentialist and part Hegelian in inspiration, between a life of immanence,
or passive acceptance of the role into which one has been socialized, and one
of transcendence, actively and freely testing one’s possibilities with a view
to redefining one’s future. Historically, women have been consigned to the
sphere of immanence, says de Beauvoir, but in fact a woman in the traditional
sense is not something that one is made, without appeal, but rather something
that one becomes. The Sartrean ontology of Being and Nothingness, according to
which there are two fundamental asymmetrical “regions of being,” being-in-itself
and being-for-itself, the latter having no definable essence and hence, as
“nothing” in itself, serving as the ground for freedom, creativity, and action,
serves well as a theoretical framework for an existentialist approach to human
existence. Being and Nothingness also names a third ontological region,
being-for-others, but that may be disregarded here. However, it would be a
mistake to treat even Sartre’s existentialist insights, much less those of
others, as dependent on this ontology, to which he himself made little direct
existentialism existentialism 297 297
reference in his later works. Rather, it is the implications of the common
central claim that we human beings exist without justification hence “absurdly”
in a world into which we are “thrown,” condemned to assume full responsibility
for our free actions and for the very values according to which we act, that
make existentialism a continuing philosophical challenge, particularly to
ethicists who believe right choices to be dictated by our alleged human essence
or nature.
EX-TENSVM
-- extensum -- extensionalism: one of the twelve labours of H. P. Grice
-- a family of ontologies and semantic theories restricted to existent
entities. Extensionalist ontology denies that the domain of any true theory
needs to include non-existents, such as fictional, imaginary, and impossible
objects like Pegasus the winged horse or round squares. Extensionalist
semantics reduces meaning and truth to set-theoretical relations between terms
in a language and the existent objects, standardly spatiotemporal and abstract
entities, that belong to the term’s extension. The extension of a name is the
particular existent denoted by the name; the extension of a predicate is the
set of existent objects that have the property represented by the predicate.
The sentence ‘All whales are mammals’ is true in extensionalist semantics
provided there are no whales that are not mammals, no existent objects in the
extension of the predicate ‘whale’ that are not also in the extension of
‘mammal’. Linguistic contexts are extensional if: i they make reference only to
existent objects; ii they support substitution of codesignative terms referring
to the same thing, or of logically equivalent propositions, salva veritate
without loss of truthvalue; and iii it is logically valid to existentially
quantify conclude that There exists an object such that . . . etc. objects
referred to within the context. Contexts that do not meet these requirements
are intensional, non-extensional, or referentially opaque. The implications of
extensionalism, associated with the work of Frege, Russell, Quine, and
mainstream analytic philosophy, are to limit its explanations of mind and
meaning to existent objects and material-mechanical properties and relations describable
in an exclusively extensional idiom. Extensionalist semantics must try to
analyze away apparent references to nonexistent objects, or, as in Russell’s
extensionalist theory of definite descriptions, to classify all such
predications as false. Extensionalist ontology in the philosophy of mind must
eliminate or reduce propositional attitudes or de dicto mental states,
expressed in an intensional idiom, such as ‘believes that ————’, ‘fears that
————’, and the like, usually in favor of extensional characterizations of
neurophysiological states. Whether extensionalist philosophy can satisfy these
explanatory obligations, as the thesis of extensionality maintains, is
controversial.
F
F: SUBJECT
INDEX
F:
NAME INDEX – ITALIANO
FERRARI
FICINO
FIDANZA
FIORE
FLORIDI
F:
NAME INDEX – ENGLISHMEN:
FLEW
farquharsonism – Grice enjoyed reading Cook Wilson, and was grateful to A
S L Farquharson for making that possible.
ferguson: a. philosopher. His
main theme was the rise and fall of virtue in individuals and societies. In his
most important work, An Essay on the History of Civil Society Ferguson argues
that human happiness of which virtue is a constituent is found in pursuing
social goods rather than private ends. Ferguson thought that ignoring social
goods not only prevented social progress but led to moral corruption and
political despotism. To support this he used classical texts and travelers’
writings to reconstruct the history of society from “rude nations” through
barbarism to civilization. This allowed him to express his concern for the
danger of corruption inherent in the increasing selfinterest manifested in the
incipient commercial civilization of his day. He attempted to systematize his
moral philosophy in The Principles of Moral and Social Science 1792. J.W.A.
Fermat’s last theorem.
ferrari: essential Italian philosopher. Giuseppe
Ferrari (Milano, 7 marzo 1811 – Roma, 2 luglio 1876[1]) è stato un filosofo,
storico e politico italiano. Federalista, repubblicano, di posizioni
democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano
per sei legislature dal 1860 al 1876, e senatore del Regno dal 15 maggio al 2
luglio 1876. Nato a Milano da una famiglia borghese - il padre era medico
- dopo la morte dei suoi genitori, avvenuta quando era ancora giovane, poté
godere di una piccola rendita grazie alla quale visse senza particolari
problemi economici. Ferrari fece i suoi studî nel ginnasio S. Alessandro,
fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo e si laureò in utroque iure a Pavia
nel 1831. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio della
gioventù milanese che si riuniva attorno a Gian Domenico Romagnosi. Gli
anni in Francia Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutriva per la
cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che nell'aprile
1838 lo portò a Parigi. Ferrari trascorse in Francia i successivi 21 anni. Il
27 agosto del 1840 sostenne l'esame di dottorato in filosofia alla Sorbona, con
la presentazione di due tesi intitolate De religiosis Campanellae
opinionibus[2] e De l'Erreur, nella prima delle quali presentava positivamente
il pensiero religioso di Tommaso Campanella, mentre nella seconda giungeva ad
una conclusione scettica a proposito dei giudizî. Essi infatti non consentono
di giungere alla verità assoluta in quanto essa è indissolubilmente intrecciata
all'errore, così che si può dire che la verità sia un errore relativo e
l'errore una verità relativa. Dal 1838 al 1847 collaborò regolarmente alla
«Revue des Deux Mondes». Introdotto nei circoli intellettuali della
capitale francese da lettere di presentazione di Amedeo Peyron e Lorenzo
Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Pierre-Simon Ballanche,
Ferrari frequentò Victor Cousin, Augustin Thierry, Claude Fauriel, Jules
Michelet e Edgar Quinet, come pure gli intellettuali e gli emigrati italiani che
si riunivano nel salotto della principessa di Belgiojoso. Nel 1840 fu docente
di filosofia al Liceo di Rochefort-sur-mer, e nel novembre di quell'anno
richiese un permesso di residenza permanente in Francia, poi nel 1841 fu
nominato professore supplente all'Università di Strasburgo dove, attaccato
dalla Chiesa e dal partito cattolico per le affermazioni irreligiose e
scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la sua
presentazione favorevole della Riforma luterana nel dicembre del 1841, fu anche
accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso dall'insegnamento
nel 1842 e, benché avesse ottenuto la nazionalità francese e nel 1843 il titolo
di "professore aggregato" di filosofia, che lo abilitava ad insegnare
all'università, non fu più reintegrato nell'insegnamento universitario
francese, poiché la raccomandazione di Edgar Quinet per una sua nomina a
professore supplente al Collège de France nel 1847, benché accettata dalla
Facoltà, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione. L'allontanamento
dalla cattedra di Strasburgo fu all'origine del suo lungo rapporto con Proudhon
che, avendo appreso il "caso Ferrari" dalla stampa, s'interessò a lui
e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia che durò sino alla morte di
Proudhon, nel 1865. A partire dal 1847 Ferrari fu tra gli avversari
repubblicani della monarchia orleanista, con Victor Schoelcher e Félicité de
Lamennais. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il
governo austriaco nel marzo del 1848 fu accanto a Carlo Cattaneo ma, deluso dai
risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro
tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Victor Cousin) di ottenere una
cattedra all'Università di Strasburgo. Da gennaio a giugno del 1849 insegnò la
filosofia al Liceo di Bourges. Il 2 dicembre 1851 avvenne il colpo di
Stato che mise fine alla Seconda Repubblica francese e portò al trono Napoleone
III; Ferrari, ricercato come repubblicano, si rifugiò à Bruxelles per sfuggire
alla polizia. Il ritorno in Italia Pur conservando il suo appartamento a
Parigi, Ferrari ritornò definitivamente a Milano a metà dicembre del 1859, per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino nel 1859 (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni del
27 gennaio-3 febbraio del 1861 (eletto in secondo scrutinio nello stesso
collegio di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Confermato per quindici
anni, Ferrari sedette ala Camera dei deputati sui banchi della Sinistra
ininterrottamente per sei legislature, fino al 1876 (XII Legislatura). Nel 1870
(XI Legislatura) fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne
fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere
riassunto nella formula: " irreligione[3] e legge agraria", cioè
lotta contro la Chiesa e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei
latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. La Chiesa e
i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda, erano per lui i nemici naturali
dell'uguaglianza, non teorica ma concreta e reale. Per quel che concerne
la forma del nuovo stato italiano, Ferrari domandava una costituzione federale
di tipo svizzero o statunitense, con un esercito, delle finanze e delle leggi
federali comuni, ma anche con la più ampia decentralizzazione amministrativa
possibile. Nell'agosto del 1861, dopo essersi recato sul posto, scrisse
una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni[4].
Nel giugno del 1862, contro la sua volontà, Ferrari fu nominato dal re
Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimandò
immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che
glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata
nella Gazzetta ufficiale. Nominato professore di filosofia della storia
all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, benché non ci fosse a quel
tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun
beneficio, Ferrari rinunciò allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. In Parlamento, Ferrari prese posizione in sede di
discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione
di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele[5], a più
riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e
dell'autonomia delle regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante
il Ferrari riconoscesse nell'articolo "La révolution et les réformes en
Italie" del 1848 che: (FR) «L'unité italienne n'existe que dans les
régions de la littérature et de la poésie; dans ces régions, on ne trouve pas
de peuples, on ne peut pas recruter d'armées, on ne peut organiser aucun
gouvernement.» (IT) «L'unità italiana non esiste che nelle regioni della
letteratura e della poesia; in queste regioni non si trovano popoli, non si
possono reclutare eserciti, non si può organizzare nessun governo.»
(Joseph Ferrari, La révolution et les réformes en Italie, Parigi, 1848, p. 10.)
esprimeva ugualmente, nello stesso testo, l'auspicio che l'Unità Italiana si
potesse prima o poi realizzare:[6] (FR) «L'Italie doit tout demander à la
liberté: elle n'a ni lois, ni mœurs politiques , elle ne s'appartient pas; elle
n'est ni une, ni confédérée; elle n'avancera qu'en demandant d'abord des
chartes, puis la confédération, ensuite la guerre, enfin l'unité, si la fatalité
le permet.» (IT) «L’Italia tutto deve domandare alla libertà: essa non ha
leggi, né costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né
una né confederata; essa non progredirà se non col cominciare a chiedere
costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la
fatalità lo permette» (Joseph Ferrari, La révolution et les réformes en
Italie, Parigi, 1848) L'8 Ottobre 1860 nel Parlamento di Torino sconfessò
queste sue parole scritte 12 anni prima dicendo : Io non muto d'avviso: sono
stato avversario dell'unità italiana, la credo tragica nell'azione sua,
destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché
necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle
religioni.[7] Si è pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia (1860), contro il trattato di commercio con la Francia
(1863) e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (1867) (lui, "francese al peggiorativo", come
amava definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di
Garibaldi per i fatti d'Aspromonte (1862), in favore della Polonia (1863) e
dello spostamento della capitale da Torino a Firenze (1864), prese parte attiva
ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul
brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. Il 15 maggio del
1876 fu fatto senatore. Morì improvvisamente nella notte tra il 1º e il 2
luglio del 1876. Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni
gruppo politico e ad ogni consorteria, Ferrari non ebbe seguito e, come disse
il politico Francesco Crispi intervenendo alla Camera il 3 agosto 1862:
«Ferrari, tutti lo sanno, è una delle illustrazioni del parlamento, ma non
esprime se non che le sue idee individuali» La sua azione parlamentare è
stata così caratterizzata e riassunta:[8] «Ferrari sedeva sui banchi
della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli
errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita preminenza
di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio
ecclesiastico, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi
dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con
l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con
loro.» Discorsi parlamentari Dal 1860 al 1875: 1860, 27 maggio,
Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. 1860, 8 e 11 ottobre,
Contro le annessioni incondizionate. 1861, 26 marzo, Sulla interpellanza del
deputato Audinot intorno alla questione romana. 1861, 4 aprile, Interpellanza
relativa alle condizioni delle province meridionali. 1861, 16 e 17 aprile, Il
battesimo del Regno. 1861, 26 e 30 giugno, Contro il prestito di 500 milioni.
1861, 2 dicembre, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. 1862, 15 marzo, La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. 1862,
26 marzo, Sull'esercizio provvisorio (bilancio 1862). 1862, 3 agosto,
Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte). 1862, 29 e 30 novembre,
Interpellanza sugli affari di Roma. 1863, 27 marzo, Sulla questione della
Polonia. 1863, 25 e 7 novembre, Contro il trattato di commercio con la Francia.
1864, 6 maggio, Intorno al bilancio dell'Interno. 1864, 2, 4 e 5 luglio, Sulla
situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. 1864, 10
novembre, Il trasporto della capitale. 1865, 17 gennaio, sul giuramento
politico. 1865, 23 gennaio, sulle giornate di Torino. 1867, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. 1867, 10 e 24 aprile, Contro la
convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex
Stati pontifici. 1867, 21 giugno, 1, 4 e 13 luglio, Contro le trattative con
Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. 1867, 7 e 30 luglio, Sulla
violazione del diritto del non intervento. 1867, 11 e 19 dicembre,
Interpellanza su Mentana. 1868, 7 marzo, Inchiesta sul corso forzoso. 1868, 15
marzo, Per la guardia nazionale. 1868, 14 e 16 marzo, Legge sul macinato. 1868,
27 e 29 aprile, Sulla sospensione dei professori all'Università di Bologna.
1868, 4 agosto, Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. 1868, 25 novembre, 6, 7
e 9 dicembre, Sull'assassinio di Monti e Tognetti. 1869, 13, 21, 22 e 25
gennaio, Sui disordini per la legge sul macinato. 1869, 31 maggio, 1, 2, 4 e 5
giugno, Inchiesta sulla Regia. 1870, 11 aprile, Sul bilancio dell'Interno.
1870, 12 aprile, Sul consiglio Superiore d'Istruzione. 1870, 19 agosto, I fatti
di Francia. 1870, 21 dicembre, Contro la convalidazione del decreto di
accettazione del plebiscito di Roma. 1872, 19 aprile, Interpellanza per la
pubblicazione del Libro verde. 1872, 14 maggio, Contro la politica estera.
1872, 25 e 27 maggio, Sulla nomina dei vescovi. 1872, 21 novembre,
Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo. 1872, 28
novembre, Sulla politica estera. 1873, 18 marzo, Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. 1873, 12 e 25 maggio, La soppressione
degli ordini religiosi in Roma. 1875, 25 gennaio, Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera
universitaria Dal 1841 al 1876: 1841, autunno, Professore supplente di
storia all'Università di Strasburgo. 1862, 9 febbraio, Professore onorario
dell'Università di Napoli. 1862, 28 marzo, Professore di Filosofia della storia
all'Accademia scientifico-letteraria di Milano 1864, Professore ordinario di
Filosofia all'Università di Torino. 1865, 28 giugno, Professore ordinario di
Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e di
perfezionamento di Firenze. Cariche e titoli Dal 1836 al 1876: 1836,
Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. 1861, 21 febbraio, Membro
corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. 1862, 20
maggio, Membro ordinario della Società reale di Napoli. 1864, 18 gennaio, Membro
effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. 1864, 6
novembre, Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica
istruzione. 1865, 6 dicembre - dicembre 1866, Membro ordinario del Consiglio
superiore della pubblica istruzione. 1870, Socio corrispondente della
Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. 1876, 19 marzo,
Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere
dell'Ordine al Merito Civile di Savoia - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al
Merito Civile di Savoia — 30 aprile 1876 Ufficiale dell'Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro — giugno 1862
Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia —
1862 Il socialismo di Ferrari Come tutti i teorici socialisti italiani del
primo Ottocento, Ferrari è fortemente influenzato dalle teorie francesi, e in
particolare dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce
come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla
rivoluzione francese. Ferrari riconosce come unico fondamento della
proprietà il lavoro: propone quindi un socialismo che, non strettamente in
opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto
di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la nascente borghesia,
Ferrari si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in
Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese.
Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale: contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una
federazione di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità
delle singole regioni. Questo progetto doveva essere attuato attraverso
un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della
maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Giuseppe Mazzini), i
quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, egli credeva -
abbastanza pragmaticamente - che fosse necessario l'intervento di uno stato
estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati
italiani. L'opinione pubblica doveva essere preparata alla rivoluzione
(che doveva avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori)
da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista (la
questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale). Il futuro
stato federale sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante
assemblee regionali. Insieme a Guglielmo Pepe elaborò il termine
neoguelfismo, per sottolineare il carattere reazionario di restaurare la
presenza attiva della Chiesa nella vita politica dello Stato; Ferrari era
critico verso la formula liberale Libera Chiesa in libero Stato, e affermava la
necessità di una superiorità dello Stato rispetto alla Chiesa, corrispondente
alla superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Chiesa che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Note ^ "Consta dai
registri della Parrocchia di S. Satiro , che Giuseppe Michele Giovanni Francesco
dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque il 7 di marzo 1811.",
"Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi Ferri, : G.
Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, a cura di O. Campa, Milano, 1913, p. 145,
nota 1. ^ Giuseppe Ferrari, Sulle opinioni religiose di Campanella, Milano,
FrancoAngeli, 2009 ^ "La fede in Dio è l'errore più primitivo, più
naturale del genere umano [...]. La religione è la pratica della servitù [...]
Il cristianesimo presenta tutti i vizi della rivelazione soprannaturale [...] l'autorità
cristiana conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo [...] il cristiano è
morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e
la Chiesa.", Giuseppe Ferrari, Filosofia della rivoluzione, in: Scritti
politici di Giuseppe Ferrari, a cura di Silvia Rota Ghibaudi, Torino, UTET,
1973, p. 807-831. ^ Camera dei Deputati, Atti del Parlamento Italiano -
sessione del 1861, vol. III discussioni della Camera dei Deputati, Torino,
Eredi Botta, 1862. ^ Atti del parlamento italiano (1861) ^ (FR) Giuseppe
Ferrari, La révolution et les réformes en Italie, Amyot, 1º gennaio 1848. URL
consultato il 13 maggio 2017. ^
https://storia.camera.it/regno/lavori/leg07/sed063.pdf. ^ P. Schinetti, Le più
belle pagine di Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. Giuseppe
Ferrari, Milano, Garzanti, 1944, p. 261. Opere La mente di G. D. Romagnosi,
1835 (ried. 1913, 1924) La mente di Vico, 1837 (FR) Vico et l'Italie, 1839 (FR)
De l'Erreur, 1840 (FR) Idées sur la politique de Platon et d'Aristote, 1842
(FR) Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, 1843
(FR) La philosophie catholique en Italie, 1844 (FR) La révolution et les
révolutionnaires en Italie, 1844-1845 (FR) Des idées et de l'école de Fourier
depuis 1830, 1845 (FR) La révolution et les réformes en Italie, 1848 (FR)
Machiavel juge des révolutions de notre temps, 1849 (trad. it 1921) (FR) Les
philosophes salariés, 1849 (ried. 1980) La Federazione repubblicana, 1851
Filosofia della rivoluzione (vol. 1), 1851 (ried. 1873, 1922, 1928, 1942)
Filosofia della rivoluzione (vol. 2), 1851 L'Italia dopo il colpo di Stato del
2 dicembre 1851, 1852 Opuscoli politici e letterari ora per la prima volta
tradotti, 1852 La mente di Giambattista Vico, 1854 (FR) Histoire des révolutions
d'Italie, ou, Guelfes et Gibelins, 1856-1858 (ried. 2012) (FR) Histoire de la
raison d'Etat, 1860 (ried. 2011) (FR) L'annexion des deux Siciles, 1860 Corso
sugli scrittori politici italiani, 1862 (ried. 1929 con pref. di Adriano
Olivetti) Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri, 1863 Il governo
a Firenze, 1865 (FR) La Chine et l'Europe, 1867 La mente di Pietro Giannone,
1868 Lettere chinesi sull'Italia, 1869 Storia delle Rivoluzioni d'Italia, 1872
(ried. 1921) Teoria dei periodi politici, 1874 L'aritmetica nella storia, 1875
Proudhon, 1875, (ried. a cura di Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza,
2015 ISBN 9788898926541) La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia (dal 1796
al 1844), 1900 (ried. 1952) Il genio di Vico, 1916 (ried. 1928) I partiti
politici italiani (dal 1789 al 1848), 1921 Le più belle pagine di Giuseppe
Ferrari, 1927 (ried. 1941) Opere di Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo e
Giuseppe Ferrari, a cura di Ernesto Sestan, 1957 Scritti politici, a cura di
Silvia Rota Ghibaudi, 1973 I filosofi salariati, a cura di L. La Puma, 1988
(trad. dal francese) Scritti di filosofia e di politica, a cura di M.
Martirano, 2006 Il genio di Vico, 2009 Sulle opinioni religiose di Campanella,
2009 Epistolario Franco Della Peruta, "Contributo all'epistolario di
Giuseppe Ferrari", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione
italiana, Milano, 1958. Franco Della Peruta (ed.),"Contributo
all'epistolario di Giuseppe Ferrari", Rivista storica del socialismo,
1960, 3, p. 181-211. Franco Della Peruta (ed.),"Lettere di Giuseppe
Ferrari a Pierre-Joseph Proudhon (1854-1861)", Annali dell'Istituto
Giangiacomo Feltrinelli, 1961, 4, p. 260-290. Clara M. Lovett
(ed.),"Giuseppe Ferrari e la Questione Meridionale - con lettere inedite",
Rassegna storica del Risorgimento, 1974, 61, p. 74-88. Clara M. Lovett (ed.),
"Milano e la Convenzione di Settembre - dalla corrispondenza inedita di
Giuseppe Ferrari", Nuova rivista storica, 1975, 59, p. 186-190. Clara M.
Lovett (ed.), "Il 1848 in Lombardia dalla corrispondenza inedita di
Giuseppe Ferrari", Nuova rivista storica, 1975, 59, p. 470-480. Clara M.
Lovett (ed.),"Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere
inedite di Jean Gustave Wallon a Giuseppe Ferrari", Rassegna storica del Risorgimento,
1976, 63, p. 441-448. Antonio Monti, Giuseppe Ferrari e la politica interna
della Destra. Con un carteggio inedito, Milano, 1925. Bibliografia Fonte
biografica L'unica biografia e principale fonte per la vita di Ferrari è il
libro di (EN) Clara M. Lovett, Giuseppe Ferrari and the Italian
Revolution, Chapel Hill, 1979 (ristampa 2011). Altro A. Agnelli, "Giuseppe
Ferrari e la filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, a
cura di Robertino Ghiringhelli e F. Invernici, 1982. Chiara Ambrosoli [et alii],
"Giuseppe Ferrari e la vita sociale e politica nel collegio di
Gavirate-Luino", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a
cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, 1992, p. 285-368.
Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle opere
di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura
di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, 1992, p. 225-240.
Paolo Bagnoli, "Giuseppe Ferrari e Giuseppe Montanelli", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il
nuovo stato italiano, Milano, 1992, p. 241-260. Bruno Barillari, "Giuseppe
Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, 1963, 18, p. 4.
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capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e Ferrari",
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de l'enseignement, 1926, 56, p. 334-355. Luigi Polo Friz, "Giuseppe
Ferrari e Lodovico Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del
Risorgimento Italiano", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
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Giuseppe Ferrari", Il Ponte, 1967, 33, p. 750-756. Silvia Rota Ghibaudi,
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politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura
di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, 1992, p. 45-74. Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il
nuovo stato italiano, Milano, 1992. Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari:
esiti socialisti dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi,
e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, 1992, p. 261-272. M. Schiattone, Alle origini del federalismo
italiano, Giuseppe Ferrari, 1996. Nicola Tranfaglia, "Giuseppe Ferrari e
la storia d'Italia", Belfagor, 1970, 25, p. 1-32. (FR) Patrice Vermeren,
"Joseph Ferrari et les droits de la liberté", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, 1992, p. 193-208. Luigi Zanzi, "Giuseppe
Ferrari:un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano,
1992, p. 167-192. Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico
di Giuseppe Ferrari", BAUM, Venezia, 1986. Voci correlate Gian Domenico
Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli
Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo Altri
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Vinatier, Giuseppe Ferrari: la Chine et l'Europe (1867)[collegamento
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secoloNati nel 1811Morti nel 1876Nati il 7 marzoMorti il 2 luglioNati a
MilanoMorti a RomaFilosofi ateiCavalieri dell'Ordine civile di SavoiaUfficiali
dell'Ordine dei Santi Maurizio e LazzaroUfficiali dell'Ordine della Corona
d'ItaliaPersonalità del RisorgimentoSenatori della XII legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati dell'VIII
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della IX legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della X legislatura del Regno d'ItaliaDeputati dell'XI
legislatura del Regno d'ItaliaSepolti nel Cimitero Monumentale di
MilanoFederalisti[altre]. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
ficino: one of the most
important Italian philosophers, neoplatonic philosopher who played a leading
role in the cultural life of Florence. Ordained a priest in 1473, he hoped to
draw people to Christ by means of Platonism. It was through Ficino’s
translation and commentaries that the works of Plato first became accessible to
the Latin-speaking West, but the impact of Plato’s work was considerably
affected by Ficino’s other interests. He accepted Neoplatonic interpretations
of Plato, including those of Plotinus, whom he tr.; and he saw Plato as the
heir of Hermes Trismegistus, a mythical Egyptian sage and supposed author of
the hermetic corpus, which he tr. early in his career. He embraced the notion
of a prisca theologia, an ancient wisdom that encapsulated philosophic and
religious truth, was handed on to Plato, and was later validated by the
Christian revelation. The most popular of his original works was Three Books on
Life 1489, which contains the fullest Renaissance exposition of a theory of
magic, based mainly on Neoplatonic sources. He postulated a living cosmos in
which the World-Soul is linked to the world-body by spirit. This relationship
is mirrored in man, whose spirit or astral body links his body and soul, and
the resulting correspondence between microcosm and macrocosm allows both man’s
control of natural objects through magic and his ascent to knowledge of God.
Other popular works were his commentary on Plato’s Symposium 1469, which
presents a theory of Platonic love; and his Platonic Theology 1474, in which he
argues for the immortality of the soul. Marsilio
Ficino (Figline Valdarno, 19 ottobre 1433 – Careggi, 1º ottobre 1499) è stato
un filosofo, umanista e astrologo italiano[1]. Nato dal medico personale
di Cosimo il Vecchio, Diotifeci d'Agnolo, e da Alessandra di Nanoccio,[2]
studia a Firenze sotto Luca de Bernardi e Comando Comandi e apprende le prime
nozioni di greco da Francesco da Castiglione,[3] mentre sarebbe da smentire la
notizia riportata nella Vita Ficini di Giovanni Corsi, scritta del 1506, che
sia stato allievo del Platina.[4] Il suo primo maestro di filosofia è il
folignate Niccolò Tignosi, medico aristotelico autore di un De anima e di un De
ideis.[5] Conseguenza di questi insegnamenti è la sua Summa philosophiae, un
gruppo di scritti in latino dedicati a Michele Mercati intorno al 1454 in cui
il Ficino tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones.[6]
Nella dedica all'amico scrive di volerlo introdurre «a quegli studi che devono
impegnare la nostra età, secondo la regola del nostro Platone». Studia
Epicuro e Lucrezio, scrivendo intorno al 1457 i Commentariola in Lucretium, che
distruggerà nel 1492,[7] il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De
virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di
questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche,
epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione
mnemonica e senza pretese sistematiche.[7] Nel 1456 scrive vari libri di
Institutionum ad platonicam disciplinam, perduti, tratti da fonti latine e per
questo motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta
fonte greca.[6] Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto
l'arcivescovo fiorentino Antonino Pierozzi, preoccupato di possibili deviazioni
del Ficino verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare sia medicina a
Bologna sia l'opera di Tommaso d'Aquino.[8] Ma la permanenza a Bologna dal 1457
al 1458, testimoniata da Zanobi Acciaiuoli, non è documentata e resta certo
l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica e neo-platonica.[3] Intorno
al 1460 traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco
attribuito a Senocrate.[9] Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la
Teogonìa di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e
una villa a Careggi, che diverrà nel 1459 sede della nuova Accademia Platonica,
fondata dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare le
opere di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione.[10] Qui
inizia la traduzione, nell'aprile del 1463, dei Libri ermetici (Corpus
hermeticum), portati in Italia dalla Macedonia da Leonardo da Pistoia; la sua
opera di traduzione avrà un notevole influsso nel pensiero rinascimentale
europeo.[11] Il Ficino vede in quella sapienza antica la presenza di una
rivelazione, di una pia philosophia che si è attuata nel Cristianesimo ma della
quale l'umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a
Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto «per primo disputò con grandissima
sapienza della maestà divina, della gerarchia degli spiriti» (daemonum ordine),
«della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo: lo seguì,
secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro
divino Platone».[12] Esiste dunque, secondo Ficino, una concorde e antica
tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che
nasce con Ermete e culmina con Platone.[13] La «pia filosofia», antitetica alle
correnti di pensiero atee e materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli
inganni dei sensi e della fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce
la verità, l'ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui,
grazie all'illuminazione divina, affinché l'uomo, tornato fra i suoi simili,
possa renderli partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino
numine revelata).[14] La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già
tradotto in volgare nel 1463 da Tommaso Benci, viene stampata nel 1471; nel
1463 inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, conclusa forse nel
1468, e vi aggiunge nel tempo i suoi commenti: intorno al 1474 quelli al
Filebo, al Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano), nel 1484 al Timeo,
e nel 1494 al Parmenide.[15] Dal 1469 al 1474 stende l'opera più
importante, i diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate
animarum, dedicata a Lorenzo de' Medici. Dopo aver preso i voti sacerdotali il
18 dicembre 1473, compone la Religione cristiana, in italiano, di cui darà poi
la versione latina nella De christiana religione. Dal 1475 al 1476 scrive la
Disputatio contra iudicium astrologorum e nel 1481 viene dato alle stampe il
suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia del
1478.[16] Busto di Marsilio Ficino ad opera di Andrea Ferrucci
(1522) in Santa Maria del Fiore, Firenze Nel 1484 inizia la traduzione delle
Enneadi di Plotino e dal 1488 al 1493 traduce le opere di Giamblico, Proclo,
Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Michele Psello, la Mistica teologia e
i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora di Atene:[15]
con questo ampio corpus platonico il Ficino persegue la sua teorizzazione della
continuità della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi
attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, Avicebron,
Al-Farabi, Avicenna, Duns Scoto, Bessarione e il Cusano.[14] I tre libri
del De vita, usciti nel 1489, gli procurano accuse di magia dalle quali si
difende con un'Apologia;[17] nel 1495 pubblica dodici libri di Epistulae che
comprendono anche opuscoli scritti dal 1476 al 1491, come il De furore divino,
la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae
sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica
comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de
voluptate quattuor.[16] Lascia incompiuto un Commento a San Paolo per la
morte sopraggiunta a sessantasei anni, nel 1499. È sepolto nel duomo di Santa
Maria del Fiore, dove un monumento lo celebra come il maggior filosofo
fiorentino.[16] È noto come Aristotele concepisca l'essere umano
come sinolo, unità ordinata e indissolubile di materia e forma, di corpo e
anima, cosicché il suo principale commentatore dell'antichità Alessandro di
Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalità dell'anima
contemporanea a quella del corpo.[18] Al contrario, Platone aveva già distinto
le due sostanze, concedendo all'anima una vita separata e indipendente dal
destino del corpo. A questa concezione aderisce Ficino, che in polemica
contro Aristotele esalta la dottrina platonica, al punto da interpretarla come
una forma di religiosità propedeutica alla fede cristiana.[19] La sua Theologia
platonica o De immortalitate animarum si apre dunque con un (LA) «Soluamus obsecro
caelestes animi caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum
terrenarum ut alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius
peruolemus, ubi statim nostri generis excellentiam feliciter
contemplabimur.» (IT) «Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi
della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali
platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati
l'eccellenza del genere nostro.» (Ficino, Theologia Platonica, I, 1)
Delle divine lettere del gran Marsilio Ficino, frontespizio di una edizione del
1563 Per comprendere la sostanza dell'anima è necessario comprendere la
struttura dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici:[20] Dio;
gli angeli; le anime; le qualità; la materia. Al grado inferiore sta la
materia, concepita, seguendo Averroè, come pura quantità: «la materia non ha di
per sé nessuna forza che possa produrre le forme», diversamente da chi, come
Avicebron, la concepisce come «sostanza produttrice di forme, fonte piuttosto
che soggetto delle forme». È la qualità il principio formale che dà
sostanza alle realtà corporee, grazie a «una sostanza incorporea che penetra
attraverso i corpi, della quale sono strumento le qualità corporee»: questa sostanza
incorporea nell'uomo si eleva al rango di anima «che genera la vita e il senso
della vita anche dal fango non vivente».[21] Al di sopra delle anime sono
gli angeli: «Sopra quelli intelletti che alli corpi s'accostano, cioè l'anime
ragionevoli, non è dubbio che sono assai menti, dal commercio dei corpi al
tutto divise»;[22] e se l'intelletto dell'anima «è mobile e parte interrotto e
dubbio»,[23] l'intelletto angelico è «stabile tutto, continuo e
certissimo».[23] Al di sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità
assoluta, fonte di ogni verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta: «Dove un
continuo atto e una continua vita dura, quivi è un immenso lume d'una
assolutissima intelligenza»[24] che è luce per gli uomini perché si riflette in
tutte le cose. Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova
in tutte le cose e tutte le cose si veggono in lui... Iddio è principio, perché
da lui ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è
vita e intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti
intendono».[25] Dio e materia rappresentano i due estremi della natura, e
la funzione dell'anima, che è considerata, diversamente da Aristotele e da
Tommaso, realtà in sé e non solamente forma del corpo, è quella di incarnarsi
per riunire lo spirito e la corporeità: Amore sacro e amor profano
(Tiziano): eros come mediatore dei contrari «[L'anima] … è tale da cogliere le
cose superiori senza trascurare le inferiori... per istinto naturale, sale in
alto e scende in basso. E quando sale, non lascia ciò che sta in basso e quando
scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo,
scivolerebbe verso l'altro e non sarebbe più la copula del mondo.»
(Ficino, Theologia Platonica, 1474[26]) La "copula mundi" è l'anima
razionale che «ha sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della
natura» (obtinet naturae mediam regionem) «e tutto connette in unità». La sua
opera unificatrice è resa possibile dall'amore, inteso come movimento circolare
attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bontà infinita,
per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui.
L'amore di cui parla Ficino è l'eros di Platone, che per l'antico filosofo
greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo sensibile e quello
intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso cristiano perché, a
differenza di quello platonico, l'amore per lui non è solo attributo dell'uomo
ma anche di Dio.[27] Lo stesso Platone viene interpretato in una chiave
di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene Ficino non faccia
distinzione tra platonismo e neoplatonismo.[28] Per lui esiste una sola
filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verità eterne, le Idee, che
in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia.[14]
Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro
dell'astrologia e della magia, a cui Ficino rivolge notevoli interessi in virtù
dell'unione vitale del mondo da essi presupposta,[29] filosofia e religione si
fondono così in una visione d'insieme di reciproca complementarità,
sottolineata anche nell'accostamento di termini come «pia philosophia», o
«teologia platonica». Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'Uno è
principalmente la Bellezza.[30] Nel pensiero di Marsilio Ficino, Gesù
Cristo è considerato un maestro spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il
bene dell'umanità:[31] «Cos'altro era Cristo se non una specie di manuale
di etica, cioè di filosofia divina, il quale visse come un inviato dal cielo,
essendo lui stesso una divina Idea di virtù, manifestata agli occhi degli
uomini.» (De Christiana religione, cap. 4) Elevando il cristianesimo a
religione suprema,[31] Ficino asserì che l'Incarnazione del Cristo era avvenuta
anche perché Dio si potesse riunire «a tutti gli aspetti della
creazione».[32] Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del
panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante
richiesta delle sue opere,[33] dopo la fine del Rinascimento Ficino venne
tradotto e commentato sempre meno, fino ad essere accusato,
immeritatamente,[31] di un ritorno al paganesimo. In Italia, dove è
riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo cinquecentesco,[34] e in particolare
su Giordano Bruno,[35] sarà Giambattista Vico a raccogliere nel Settecento
l'eredità neoplatonica di Ficino, di cui lesse l'opera di traduzione,
rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui,
rinchiudendosi nelle angustie mentali di Cartesio.[36] Sottoposto ad
attacchi nel corso del Novecento che giudicarono «retorici» e «privi di valore»
i suoi scritti,[37] Ficino è stato rivalutato dallo psicanalista scrittore
James Hillman, che lo definì uno «psicologo del profondo» e «precursore della
psicologia junghiana», per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni
affermazione proveniente dai campi più disparati, sia della scienza che della
teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene
vista cioè come «mediazione e compendio» dell'universo.[38] La conoscenza
dell'anima è infatti per Hillman la «quintessenza del neoplatonismo italiano»,
in cui giacciono sepolte le «fantasie mistiche» di questo «strano uomo che
suonava inni orfici sul liuto, che studiava la magia e componeva canti
astrologici, quest'uomo gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore,
malinconico traduttore di Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici,
autore lui stesso di alcuni tra gli scritti più diffusi e influenti (Commento
al Simposio) e scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo
tempo».[39] La centralità attribuita da Ficino all'anima, per la quale,
ancora ragazzo, Cosimo de' Medici lo considerava «prescelto alla cura delle
anime» come suo padre medico lo era dei corpi,[40] convinse anche Erwin
Panofsky che egli «ebbe un impatto paragonabile per estensione ed intensità
solo a quello prodotto oggi dalla psicoanalisi».[41] Notevole è ad
esempio l'intuizione di Ficino del potere psicosomatico nella cura delle
malattie, e in quello che la medicina moderna considera un effetto
placebo: «Io sono del parere che l'intenzione dell'immaginazione abbia il
suo peso su immagini e medicine, non tanto al momento della preparazione,
quanto in quello dell'applicazione: ad esempio, se un tale, a quel che si dice,
porta indosso un'immagine fatta nei modi debiti, o certamente, se facendo uso
analogo di una medicina, desidera intensamente soccorso da quella e crede senza
ombra di dubbio e spera con incrollabile fermezza, da questo atteggiamento
deriva certo il massimo di incremento all'aiuto che essa può dare.»
(Ficino, De vita[42]) Opere Frontespizio di una edizione del 1560 del De
triplici vita. De Voluptate (1457-8) De Amore o Commentarium in Convivium
Platonis (1469) De religione Christiana et fidei pietate (1475–6) Theologia
Platonica de immortalitate animarum (1482) Compendium in Timaeum (1484) De
triplici vita (1489) De lumine (1492) In Epistolas Pauli commentaria (Venezia
1491; Firenze 1497) El libro dell'amore De vita Teologia platonica (1474) Sopra
lo amore ovvero Convito di Platone La religione cristiana Epistolarum
familiarum, liber I. Note ^ Rosanna Zerilli, Marsilio Ficino: alla lente
dell'astrologia, Edizioni Capone, 2010. ^ Ove non diversamente riportato, le
notizie sulla vita e la dottrina di Ficino sono tratte da: Eugenio Garin,
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Pratici e di Perfezionamento in Firenze, 1902. ^ Eugenio Garin, Ermetismo del
Rinascimento, pag. 72, Ed. Riuniti, 1988. ^ «Primus de maiestate Dei, daemonum
ordine, animarum mutationibus sapientissime disputavit. Primus igitur
theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas antiquae theologiae
partes obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo successit in theologia
Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri praeceptor». ^
James D. Heiser, Prisci Theologi and the Hermetic Reformation in the Fifteenth
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occidentale, pag. 167, Lulu.com, 2013. L'immenso lavoro di traduzione
compiuto da Marsilio Ficino è stato documentato in particolare da Paul Oskar
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platonici Opuscula inedita et dispersa, 2 voll., Firenze, Leo S. Olschki, 1937.
Cfr. anche: P. O: Kristeller, The First Printed Edition of Plato's Works and
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Honor of Edward Rosen", a cura di Erna Hilfstein, Pawel Czartoryski, e
Frank D. Grande, pp. 25–35, Wroclaw, 1978; Marsilio Ficino as a Beginning
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via sovrapponendo a partire dall'età ellenistica, ma che erano sempre state
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“Commentaries on Plato,” Tatti -- Luigi Speranza,
"Grice e Ficino," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
fictum: in the widest
usage, whatever contrasts with what is a matter of fact. As applied to works of
fiction, however, this is not the appropriate contrast. For a work of fiction,
such as a historical novel, might turn out to be true regarding its historical
subject, without ceasing to be fiction. The correct contrast of fiction is to
non-fiction. If a work of fiction might turn out to be true, how is ‘fiction’
best defined? According to some philosophers, such as Searle, the writer of
nonfiction performs illocutionary speech acts, such as asserting that
such-and-such occurred, whereas the writer of fiction characteristically only
pretends to perform these illocutionary acts. Others hold that the core idea to
which appeal should be made is that of making-believe or imagining certain
states of affairs. Kendall Walton Mimesis as Make-Believe, 0, for instance,
holds that a work of fiction is to be construed in terms of a prop whose
function is to serve in games of make-believe. Both kinds of theory allow for
the possibility that a work of fiction might turn out to be true.
fidanza: essential Italian
philosopher, b. Bagnorea, Tuscany, he was educated at Paris, earning a master’s
degree in arts and a doctorate in theology. He joined the Franciscans about
1243, while still a student, and was elected minister general of the order in
1257. Made cardinal bishop of Albano by Pope Gregory X in 1274, Bonaventure helped
organize the Second Ecumenical Council of Lyons, during the course of which he
died, in July 1274. He was canonized in 1482 and named a doctor of the church
in 1587. Bonaventure wrote and preached extensively on the relation between
philosophy and theology, the role of reason in spiritual and religious life,
and the extent to which knowledge in God is obtainable by the “wayfarer.” His
basic position is nicely expressed in De reductione artium ad theologiam “On
the Reduction of the Arts to Theology”: “the manifold wisdom of God, which is
clearly revealed in sacred scripture, lies hidden in all knowledge and in all
nature.” He adds, “all divisions of knowledge are handmaids of theology.” But
he is critical of those theologians who wish to sever the connection between
faith and reason. As he argues in another famous work, Itinerarium mentis ad
deum “The Mind’s Journey unto God,” 1259, “since, relative to our life on
earth, the world is itself a ladder for ascending to God, we find here certain
traces, certain images” of the divine hand, in which God himself is mirrored.
Although Bonaventure’s own philosophical outlook is Augustinian, he was also
influenced by Aristotle, whose newly available works he both read and
appreciated. Thus, while upholdBonaventure, Saint Bonaventure, Saint 94 94 ing the Aristotelian ideas that knowledge
of the external world is based on the senses and that the mind comes into
existence as a tabula rasa, he also contends that divine illumination is
necessary to explain both the acquisition of universal concepts from sense
images, and the certainty of intellectual judgment. His own illuminationist
epistemology seeks a middle ground between, on the one hand, those who maintain
that the eternal light is the sole reason for human knowing, providing the
human intellect with its archetypal and intelligible objects, and, on the
other, those holding that the eternal light merely influences human knowing,
helping guide it toward truth. He holds that our intellect has certain
knowledge when stable; eternal archetypes are “contuited by us [a nobis
contuita],” together with intelligible species produced by its own fallible
powers. In metaphysics, Bonaventure defends exemplarism, the doctrine that all
creation is patterned after exemplar causes or ideas in the mind of God. Like
Aquinas, but unlike Duns Scotus, he argues that it is through such ideas that
God knows all creatures. He also adopts the emanationist principle that
creation proceeds from God’s goodness, which is self-diffusive, but differs
from other emanationists, such as al-Farabi, Avicenna, and Averroes, in arguing
that divine emanation is neither necessary nor indirect i.e., accomplished by
secondary agents or intelligences. Indeed, he sees the views of these Islamic
philosophers as typical of the errors bound to follow once Aristotelian
rationalism is taken to its extreme. He is also well known for his
anti-Aristotelian argument that the eternity of the world something even Aquinas following Maimonides
concedes as a theoretical possibility is
demonstrably false. Bonaventure also subscribes to several other doctrines
characteristic of medieval Augustinianism: universal hylomorphism, the thesis,
defended by Ibn Gabirol and Avicenna among others, that everything other than
God is composed of matter and form; the plurality of forms, the view that
subjects and predicates in the category of substance are ordered in terms of
their metaphysical priority; and the ontological view of truth, according to
which truth is a kind of rightness perceived by the mind. In a similar vein,
Bonaventure argues that knowledge ultimately consists in perceiving truth
directly, without argument or demonstration. Bonaventure also wrote several
classic works in the tradition of mystical theology. His bestknown and most
popular mystical work is the aforementioned Itinerarium, written in 1259 on a
pilgrimage to La Verna, during which he beheld the six-winged seraph that had
also appeared to Francis of Assisi when Francis received the stigmata.
Bonaventure outlines a seven-stage spiritual journey, in which our mind moves
from first considering God’s traces in the perfections of irrational creatures,
to a final state of peaceful repose, in which our affections are “transferred
and transformed into God.” Central to his writings on spiritual life is the
theme of the “three ways”: the purgative way, inspired by conscience, which
expels sin; the illuminative way, inspired by the intellect, which imitates
Christ; and the unitive way, inspired by wisdom, which unites us to God through
love. Bonaventure’s writings most immediately influenced the work of other
medieval Augustinians, such as Matthew of Aquasparta and John Peckham, and
later, followers of Duns Scotus. But his modern reputation rests on his
profound contributions to philosophical theology, Franciscan spirituality, and
mystical thought, in all three of which he remains an authoritative source.Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio, 1217/1221 circa –
Lione, 15 luglio 1274) è stato un cardinale, filosofo e teologo italiano.
Denominato Doctor Seraphicus, insegnò alla Sorbona di Parigi e fu amico di san
Tommaso d'Aquino. Vescovo e cardinale, dopo la morte venne canonizzato da
papa Sisto IV nel 1482 e proclamato Dottore della Chiesa da papa Sisto V nel
1588. È considerato uno tra i più importanti biografi di san Francesco
d'Assisi. Infatti alla sua biografia — la Legenda Maior — si ispirò Giotto per
il ciclo delle storie sul Santo nella basilica di Assisi. Per diciassette
anni — dal 1257 — fu ministro generale dell'Ordine francescano, del quale è
ritenuto uno dei padri: quasi un secondo fondatore. Sotto la sua guida furono
pubblicate le Costituzioni narbonesi, su cui si basarono tutte le successive
costituzioni dell'Ordine. La visione filosofica di Bonaventura partiva
dal presupposto che ogni conoscenza derivi dai sensi: l'anima conosce Dio e se
stessa senza l'aiuto dei sensi esterni. Risolse il problema del rapporto tra
ragione e fede in chiave platonico-agostiniana. È venerato come santo
dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua memoria obbligatoria il 15 luglio o
il giorno precedente nella forma straordinaria. La data in cui Bonaventura
venne alla luce non è certa e viene collocata tra il 1217 e il 1221. Nacque a
Civita di Bagnoregio, in Tuscia, oggi provincia di Viterbo. Era figlio di
Giovanni di Fidanza, medico, e di Rita (o Ritella).[1] Iniziò i suoi studi
giovanili nel convento di San Francesco "vecchio", situato a metà
strada tra Bagnoregio e Civita[2]. Nel 1235 si recò a Parigi a studiare nella
facoltà delle Arti e successivamente, nel 1243, nella facoltà di teologia.
Probabilmente in quello stesso anno entrò tra i Frati Minori (Minoriti). I suoi
studi di teologia terminarono nel 1253, quando divenne magister (cioè
"maestro") di teologia e ottiene la licentia docendi (la
"licenza d'insegnare"). Tra il 1262 e il 1264 Bonaventura fu
priore del convento di San Francesco ad Orvieto che fece ristrutturare. I
francescani erano di casa ad Orvieto. I Mendicanti di Francesco dovevano essere
in città almeno fin dal 1216 (ben prima dell'approvazione della Regola) nel
luogo stesso dove sarà edificato il complesso attuale di San Francesco, chiesa
e convento; presumibilmente sul preesistente sito della citata S. Maria in
Pulzella chiesa “detta Nunziata” nel quartiere di Serancia: dove sorgerà il
quartier generale dei Monaldeschi. Quello dei Frati Minori fu il primo
Ordine ad insediarsi ufficialmente in Orvieto nel 1228 o 1229 presso S. Pietro
in Vetera: dove è il sito del santuario federale Fanum Voltumnae di Velsna,
Volsinii Etruriae capita (Tito Livio), Orvieto etrusca. Francesco era morto il
3 ottobre 1226. La Regola era stata approvata da Onorio III nell'ottobre 1223.
Tracce del passaggio di Francesco nel territorio orvietano restano a La
Scarzuola, dove è raffigurato il suo ritratto più antico; a Pantanelli, dove
dimorò e predicò ai pesci sul Tevere; ad Alviano e Lugnano, dove predicò agli
uccelli. Insegnamento San Bonaventura, francescano, venti giorni dopo
l'indizione della festa del Corpus Domini predicò il Sermo de sanctissimo
corpore Christi alla presenza di papa Urbano IV e del concistoro generale.
Bonaventura, con Tommaso d'Aquino, è stato tra i protagonisti di quell'evento
rilevante nella storia religiosa ma anche nella storia della cultura: veniva
istituita, infatti, una nuova festa per la Chiesa latina, incentrata sul
mistero dell'eucaristia. Bonaventura e Tommaso, i dottori
"seraphicus" ed "angelicus", furono due protagonisti del
pensiero filosofico e teologico del tempo: erano stati entrambi cattedratici
presso lo Studium orvietano, l'antica università della città. Nel 1250 il papa
aveva autorizzato il cancelliere dell'Università a conferire la licenza di
insegnamento a religiosi degli ordini mendicanti, sebbene ciò contrastasse con
il diritto di cooptare i nuovi maestri rivendicato dalla corporazione
universitaria. Nel 1253, di fatti, scoppiò uno sciopero al quale tuttavia i
membri degli ordini mendicanti non si associarono. La corporazione
universitaria richiese loro un giuramento di obbedienza agli statuti, ma essi rifiutarono
e pertanto vennero esclusi dall'insegnamento. Questa esclusione colpì
anche Bonaventura, che fu maestro reggente fra il 1253 e il 1257. Nel 1254 i
maestri secolari denunciarono a papa Innocenzo IV il libro del francescano
Gerardo di Borgo San Donnino, Introduzione al Vangelo eterno. In questo testo
fra' Gerardo, rifacendosi al pensiero di Gioacchino da Fiore, annunciava
l'avvento di una «nuova età dello Spirito Santo» e di una «Chiesa cattolica
puramente spirituale fondata sulla povertà», profezia che si doveva realizzare
attorno al 1260. In conseguenza di questo il Papa — poco prima di morire —
annullò i privilegi concessi agli ordini mendicanti. Il nuovo pontefice
papa Alessandro IV condannò il libro di Gerardo con una bolla nel 1255, prendendo
tuttavia posizione a favore degli ordini mendicanti e senza più porre limiti al
numero delle cattedre che essi potevano ricoprire. I secolari rifiutarono
queste decisioni, venendo così scomunicati, anche per il boicottaggio da loro
operato ai danni dei corsi tenuti dai frati degli ordini mendicanti. Tutto
questo nonostante che i primi avessero l'appoggio del clero e dei vescovi,
mentre il re di Francia Luigi IX si trovava a sostenere le posizioni dei
mendicanti. Nel 1257 Bonaventura venne riconosciuto magister. Nello stesso
anno fu eletto Ministro generale dell'Ordine francescano, rinunciando così alla
cattedra. A partire da questa data, preso dagli impegni del nuovo servizio,
accantonò gli studi e compì vari viaggi per l'Europa. Il suo obiettivo principale
fu quello di conservare l'unità dei Frati Minori, prendendo posizione sia
contro la corrente spirituale (influenzata dalle idee di Gioacchino da Fiore e
incline ad accentuare la povertà del francescanesimo primitivo), sia contro le
tendenze mondane insorte in seno all'Ordine. Favorevole a coinvolgere l'Ordine
francescano nel ministero pastorale e nella struttura organizzativa della
Chiesa, nel Capitolo generale di Narbona del 1260 contribuì a definire le
regole che dovevano guidare la vita dei suoi membri: le Costituzioni, dette
appunto Narbonensi. A lui, in questo Capitolo, venne affidato l'incarico di
redigere una nuova biografia di san Francesco d'Assisi che, intitolata Legenda
Maior, diventerà la biografia ufficiale nell'Ordine. Incipit del
Legenda maior Infatti il Capitolo generale successivo, del 1263 (Pisa), approvò
l'opera composta dal Ministro generale; mentre il Capitolo del 1266, riunito a
Parigi, giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla
Legenda Maior, probabilmente per proporre all'Ordine una immagine univoca del
proprio fondatore, in un momento in cui le diverse interpretazioni fomentavano
contrapposizioni e conducevano verso la divisione.[3] In modo analogo a
Tommaso d'Aquino che rifiutò ripetutamente la proposta di essere nominato
Arcivescovo di Napoli, nel 1265 fu nominato arcivescovo di York dal neoeletto
papa Clemente IV (mai beatificato), incarico che, dopo numerose richieste al
Sommo Pontefice, gli fu consentito di lasciare l'anno seguente[4]. Ultimi
anni Negli ultimi anni della sua vita Bonaventura intervenne nelle lotte contro
l'aristotelismo e nella rinata polemica fra maestri secolari e mendicanti. A
Parigi, tra il 1267 e il 1269, tenne una serie di conferenze sulla necessità di
subordinare e finalizzare la filosofia alla teologia. Nel 1270 lasciò Parigi
per farvi però ritorno nel 1273, quando tenne altre conferenze nelle quali
attaccava quelli che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo.
Peraltro, negli anni tra il 1269 ed il 1271, fu spesso a Viterbo ove si
svolgeva il famoso, lunghissimo conclave, per tenere numerosi sermoni volti ad
accelerare ed indirizzare la scelta dei cardinali; alla fine fu eletto papa
Gregorio X, cioè quel Tedaldo Visconti di cui Bonaventura era amico da molti
anni[5] Fu proprio papa Gregorio X a crearlo cardinale vescovo con titolo
di Albano nel concistoro del 3 giugno 1273, mentre Bonaventura soggiornava nel
convento del Bosco ai Frati presso Firenze; l'anno successivo partecipò al
Concilio di Lione (in cui favorì un riavvicinamento fra la Chiesa latina e
quella greca), nel corso del quale morì, forse a causa di un avvelenamento,
stando almeno a quanto affermò in seguito il suo segretario, Pellegrino da
Bologna.[senza fonte] Pierre de Tarentaise, futuro papa Innocenzo V, ne
celebrò le esequie e Bonaventura venne inumato nella chiesa francescana di
Lione. Intorno all'anno 1450 la salma venne traslata in una nuova chiesa,
dedicata a San Francesco d'Assisi; la tomba venne aperta e la sua lingua venne
trovata in perfetto stato di conservazione: questo fatto ne facilitò la
canonizzazione, che avvenne ad opera del papa francescano Sisto IV il 14 aprile
1482, e la nomina a dottore della Chiesa, compiuta il 14 marzo1588 da un altro
francescano, papa Sisto V. Le reliquie: il «santo braccio» Il 14 marzo
1490, a seguito della ricognizione del corpo del santo a Lione, venne estratta
una parte del braccio destro del santo e composta in un reliquiario d'argento
che l'anno seguente fu portato a Bagnoregio. Oggi il «santo braccio» è la più
grande delle reliquie rimaste di san Bonaventura dopo la profanazione del suo
sepolcro e la dispersione dei suoi resti compiuta dagli Ugonotti nel 1562. Si
trova custodito a Bagnoregio nella concattedrale di San Nicola. Da esso, nel
corso degli anni, sono state ricavate alcune reliquie minori. Frontespizio
delle Meditationes Bonaventura è considerato uno dei pensatori maggiori della
tradizione francescana, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e
propria scuola di pensiero, sia dal punto di vista teologico che da quello
filosofico. Difese e ripropose la tradizione patristica, in particolare il
pensiero e l'impostazione di sant'Agostino. Egli combatté apertamente
l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali per il suo
pensiero. Inoltre valorizzò alcune tesi della filosofia arabo-ebraica, in
particolare quelle di Avicenna e di Avicebron, ispirate al neoplatonismo. Nelle
sue opere ricorre continuamente l'idea del primato della sapienza, come
alternativa ad una razionalità filosofica isolata dalle altre facoltà
dell'uomo. Egli sostiene, infatti, che: «(...) la scienza filosofica è
una via verso altre scienze. Chi si ferma resta immerso nelle tenebre.»
Secondo Bonaventura è il Cristo la via a tutte le scienze, sia per la filosofia
che per la teologia. Il progetto di Bonaventura è una riduzione (reductio
artium) non nel senso di un depotenziamento delle arti liberali, bensì della
loro unificazione sotto la luce della verità rivelata, la sola che possa
orientarle verso l'obiettivo perfetto a cui tende imperfettamente ogni
conoscenza, il vero in sé che è Dio. La distinzione delle nove arti in tre
categorie, naturali (fisica, matematica, meccanica), razionali (logica,
retorica, grammatica) e morali (politica, monastica, economica) riflette la
distinzione di res, signa ed actiones la cui verticalità non è altro che
cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l'unione mistica. La
parzialità delle arti è per Bonaventura non altro che il rifrangersi della luce
con la quale Dio illumina il mondo: prima del peccato originale Adamo sapeva
leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata
anche perdita di questa capacità. Per aiutare l'uomo nel recupero della
contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae,
conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che
altrimenti smarrirebbe se stessa nell'autoreferenzialità. Attraverso
l'illuminazione della rivelazione, l'intelletto agente è capace di comprendere
il riflesso divino delle verità terrene inviate dall'intelletto passivo, quali
pallidi riflessi delle verità eterne che Dio perfettamente pensa mediante il
Verbo. Ciò rappresenta l'accesso al terzo libro, Liber Vitae, leggibile solo
per sintesi collaborativa tra fede e ragione: la perfetta verità, assoluta ed
eterna in Dio, non è un dato acquisito, ma una forza la cui dinamica si attua
storicamente nella reggenza delle verità con le quali Dio mantiene l'ordine del
creato. Lo svelamento di quest'ordine è la lettura del terzo libro che per
segni di dignità sempre maggior avvicina l'uomo alla fonte di ogni
verità. La primitas divina o "primalità di Dio" è il sostegno a
tutto l'impianto teologico di Bonaventura. Nella sua prima opera, il Breviloquium,
egli definisce i caratteri della teologia affermando che, poiché il suo oggetto
è Dio, essa ha il compito di dimostrare che la verità della sacra scrittura è
da Dio, su Dio, secondo Dio ed ha come fine Dio. L'unita del suo oggetto
determina come unitaria ed ordinata la teologia perché la sua struttura
corrisponde ai caratteri del suo oggetto. Nella sua opera più famosa,
l'Itinerarium mentis in Deum ("L'itinerario della mente verso Dio"),
Bonaventura spiega che il criterio di valore e la misura della verità si acquisiscono
dalla fede, e non dalla ragione (come sostenevano gli averroisti). Da ciò
fa conseguire che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana di Dio, e
può farlo, come diceva sant'Agostino, solo riportando l'uomo alla propria
dimensione interiore (cioè l'anima), e, attraverso questa, ricondurlo infine a
Dio. Secondo Bonaventura, dunque, il «viaggio» spirituale verso Dio è frutto di
una illuminazione divina, che proviene dalla «ragione suprema» di Dio stesso.
Per giungere a Dio, quindi, l'uomo deve passare attraverso tre gradi, che,
tuttavia, devono essere preceduti dall'intensa ed umile preghiera,
poiché: «(...) nessuno può giungere alla beatitudine se non trascende sé
stesso, non con il corpo, ma con lo spirito. Ma non possiamo elevarci da noi se
non attraverso una virtù superiore. Qualunque siano le disposizioni interiori,
queste non hanno alcun potere senza l'aiuto della Grazia divina. Ma questa è
concessa solo a coloro che la chiedono (...) con fervida preghiera. È la
preghiera il principio e la sorgente della nostra elevazione. (...) Così
pregando, siamo illuminati nel conoscere i gradi dell'ascesa a Dio.» La
"scala" dei 3 gradi dell'ascesa a Dio è simili alla "scala"
dei 4 gradi dell'amore di Bernardo di Chiaravalle, anche se non uguale; tali
gradi sono: 1) Il grado esteriore: «(...) è necessario che prima
consideriamo gli oggetti corporei, temporali e fuori di noi, nei quali è l'orma
di Dio, e questo significa incamminarsi per la via di Dio.» 2) Il grado
interiore: «È necessario poi rientrare in noi stessi, perché la nostra mente è
immagine di Dio, immortale, spirituale e dentro di noi, il che ci conduce nella
verità di Dio.» 3) Il grado eterno: «Infine, occorre elevarci a ciò che è
eterno, spiritualissimo e sopra di noi, aprendoci al primo principio, e questo
dona gioia nella conoscenza di Dio e omaggio alla Sua maestà.» Inoltre,
afferma Bonaventura, in corrispondenza a tali gradi l'anima ha anche tre
diverse direzioni: «(...) L'una si riferisce alle cose esteriori, e si chiama
animalità o sensibilità; l'altra ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a
sé; la terza ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di sé.
Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché l'ami con
tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l'anima (...).» (San
Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum) Dunque, per Bonaventura,
l'unica conoscenza possibile è quella contemplativa, cioè la via
dell'illuminazione, che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette
persino di accostarsi a Dio misticamente. L'illuminazione guida anche l'azione
umana, in quanto solo essa determina la sinderesi, cioè la disposizione pratica
al bene. Bonaventura elaborò una teologia trinitaria di derivazione
agostiniana, in quanto volle evidenziare l'unità del Dio-Trino, come forza, che
unisce le tre persone. Ma tale unità è conciliabile con la pluralità delle
persone: unità e trinità sono sempre insieme. I dati presenti nella Scrittura
presentano all'uomo la verità rivelata: in Dio vi sono tre persone. Due sono le
fasi dell'auto-rivelazione di Dio: la prima nella creazione, la seconda in
Cristo. Il mondo, per Bonaventura, è come un libro da cui traspare la Trinità
che l'ha creato. Noi possiamo ritrovare la Trinità extra nos (cioè "fuori
di noi"), intra nos ("in noi") e super nos ("sopra di
noi"). Infatti, la Trinità si rivela in 3 modi: come vestigia (o
impronta) di Dio, che si manifesta in ogni essere, animato o inanimato che sia;
come immagine di Dio, che si trova solo nelle creature dotate d'intelletto, in
cui risplendono memoria, intelligenza e volontà; come similitudine di Dio, che
è qualità propria delle creature giuste e sante, toccate dalla Grazia e animate
da fede, speranza e carità; quindi, quest'ultima è ciò che ci rende "figli
di Dio". La Creazione dunque è ordinata secondo una scala gerarchica
trinitaria e la natura non ha sua consistenza, ma si rivela come segno visibile
del principio divino che l'ha creata; solo in questo, quindi, trova il suo
significato. Bonaventura trae questo principio anche da un passo evangelico, in
cui i discepoli di Gesù dissero: ««Benedetto colui che viene, il re, nel
nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» Alcuni
farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli.» Ma
egli rispose: «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre.»»
(Lc, 19,38-40) Le creature, dunque, sono impronte, immagini, similitudini di
Dio, e persino le pietre "gridano" tale loro legame col divino.
Opere Breviloquium (Breviloquio) Collationes de decem praeceptis (Raccolte su
dieci precetti) Collationes de septem donis Spiritus Sanctis (Raccolte sui
sette doni dello Spirito Santo) Collationes in Hexaemeron (Raccolte nei Sei
Giorni della Creazione) Commentaria in quattuor libros sententiarum Magistri
Petri Lombardi (Commentari in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro
Lombardo) De mysterio Trinitatis (Il mistero della Trinità; questione
disputata) De perfectione vitae ad sorores (La perfezione della vita alle
sorelle) De reductione artium ad theologiam (La riduzione della arti alla
teologia) De Regno Dei descripto in parabolis evangelicis (Il Regno di Dio
descritto nelle parabole evangeliche) De scientia Christi et mysterio
Trinitatis (La conoscenza di Cristo ed il mistero della Trinità) De sex alis
Seraphin (Le sei ali dei Serafini) De triplici via (La triplice via)
Itinerarium mentis in Deum (Itinerario della mente verso Dio) Legenda majior
Sancti Francisci (La leggenda maggiore di San Francesco) Legenda minor Sancti
Francisci (La leggenda minore di San Francesco) Lignum vitae (L'Albero della
vita) Officium de passione Domini (L'Ufficio della passione del Signore)
Quaestiones de perfectione evangelica (Questioni sopra la perfezione
evangelica) Soliloquium (Soliloquio) Summa theologiae (Complesso di teologia)
Vitis mystica (La vite mistica) Note ^ Eletto Ramacci, S. Bonaventura e il
Santo Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, 1991. ^ Oggi del convento
restano solo i ruderi. ^ Grado Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e
dell'Ordine dei Minori, in Maria Pia Alberzoni, et al., Francesco d'Assisi e il
primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, 1997. pp. 28-30. ^ G.
Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di
persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, 1904, p. 284. URL consultato il 4
novembre 2018 (archiviato il 4 novembre 2018)., con l'approvazione del card.
Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino ^ Cesare Pinzi,Storia della Città di
Viterbo,Tip.Camera dei Deputati, Roma, 1887-89,lib.VII. Il Pinzi parla
dettagliatamente degli interventi di Bonaventura a Viterbo in occasione del
Conclave e dell'amicizia con Gregorio X. Bibliografia Testi Bonaventura da
Bagnorea (presunto), Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson,
circa 1478. Bonaventura da Bagnorea, Legenda maior, Milano, Ulrich
Scinzenzeler, 1495. Bonaventura da Bagnorea, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe
; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea, Expositiones
in Testamentum novum, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde,
Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea,
Opuscula, vol. 1, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, vol. 2, Lyon, Borde, Philippe ; Borde,
Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros
sententiarum, vol. 1, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, vol. 2,
Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Studi Bettoni
E., S. Bonaventura da Bagnoregio, Vita e Pensiero, Milano 1973. Bougerol J.G.,
Introduzione a S. Bonaventura, trad. it. di A. Calufetti, L.I.E.F., Vicenza
1988. Corvino F., Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Città
Nuova, Roma 2006. Cuttini E., Ritorno a Dio. Filosofia, teologia, etica della
“mens” nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, Rubbettino, Soveria Mannelli,
2002. Di Maio A., Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al
pensiero e al lessico di Bonaventura da Bagnoregio, Aracne, Roma 2008. Barbara
Faes, Bonaventura da Bagnoregio, Biblioteca Francescana, Milano 2017. Mathieu
V., La Trinità creatrice secondo san Bonaventura, Biblioteca francescana,
Milano 1994. Moretti Costanzi T., San Bonaventura, Armando, Roma 2003. Ramacci
Eletto, S. Bonaventura e il Santo Braccio, Associazione Organum, Bagnoregio,
1991. Todisco O., Le creature e le parole in sant'Agostino e san Bonaventura,
Anicia, Roma 1994. Vanni Rovighi S., San Bonaventura, Vita e Pensiero, Milano
1974. Raoul Manselli, BONAVENTURA da Bagnoregio, santo, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1969. URL consultato il 19 dicembre 2017. Modifica su Wikidata Emiliano
Ramacci, Un Inno per S. Bonaventura (1560), Associazione Organum, Bagnoregio,
2017. Emiliano Ramacci, S. Bonaventura da Bagnoregio - Miracoli, Associazione
Organum, Bagnoregio, 2020. Voci correlate Dottore della Chiesa Filosofia
scolastica. Il Quadragesimale de Contemptu Mundi Pontificia Facoltà Teologica
San Bonaventura Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una
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Bagnoregio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata (DE)
Bonaventura da Bagnoregio, su ALCUIN, Università di Ratisbona. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Bonaventura da Bagnoregio / Bonaventura da Bagnoregio
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Bagnoregio (altra versione) / Bonaventura da Bagnoregio (altra versione), su
Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di
Bonaventura da Bagnoregio, su LibriVox. Modifica su Wikidata (EN) Bonaventura
da Bagnoregio, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Bonaventura da Bagnoregio, su Santi, beati e testimoni,
santiebeati.it. Modifica su Wikidata (EN) Tim Noone e R. E. Houser, Saint
Bonaventure, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. Biografia di San Francesco
d'Assisi (PDF), su assisiofm.it. scritta da San Bonaventura da Bagnoregio
Itinerario della mente in Dio (PDF), su lamelagrana.net. (LA) Itinerarium
mentis in Deum, su thelatinlibrary.com. (FR) Oeuvres spirituelles, su
abbaye-saint-benoit.ch. URL consultato il 26 aprile 2007 (archiviato dall'url
originale il 30 aprile 2007). (LA) S. Bonaventura: Opera Omnia Peltiero Edente,
su documentacatholicaomnia.eu. (LA) San Bonaventura online, su
dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di
Quaracchi (EN) Salvador Miranda, BONAVENTURA, O.F.M., su fiu.edu – The
Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University.
PredecessoreMinistro generale dell'Ordine dei Frati
MinoriSuccessoreFrancescocoa.png Giovanni da Parma2 febbraio 1257 - 15 luglio
1274Girolamo Masci d'Ascoli PredecessoreCardinale vescovo di AlbanoSuccessoreCardinalCoA
PioM.svg Raoul Grosparmi3 giugno 1273 - 15 luglio 1274Bentivegna de'
Bentivegni, O.F.M.V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M
Francescanesimo Controllo di autoritàVIAF (EN) 89657091 · ISNI (EN) 0000 0001
1774 1110 · SBN IT\ICCU\CFIV\029314 · LCCN (EN) n79043613 · GND (DE) 118513176
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Identities (EN) lccn-n79043613 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo
Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo
Categorie: Cardinali italiani del XIII secoloFilosofi italiani del XIII
secoloTeologi italianiMorti nel 1274Morti il 15 luglioNati a BagnoregioMorti a
LioneBonaventura da BagnoregioSanti canonizzati da Sisto IVCardinali nominati
da Gregorio XDottori della Chiesa cattolicaFrancescani
italianiInnatistiNeoplatoniciPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso)Santi per nomeSanti italiani del XIII secoloSanti
minoritiScolasticiCardinali francescani del XIII secoloVescovi e cardinali
vescovi di AlbanoVescovi e arcivescovi cattolici di YorkFilosofi
cattoliciScrittori medievali in lingua latinaVescovi francescani[altre].
Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Fidanza,"
per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
figura: figure-ground, the discrimination of an object or
figure from the context or background against which it is set. Even when a
connected region is grouped together properly, as in the famous figure that can
be seen either as a pair of faces or as a vase, it is possible to interpret the
region alternately as figure and as ground. This fact was originally elaborated
in 1 by Edgar Rubin 6 1. Figureground effects and the existence of other
ambiguous figures such as the Necker cube and the duck-rabbit challenged the
prevailing assumption, Vitters thought, in classical theories of
perception maintained, e.g., by H. P.
Grice and J. S. Mill and H. von Helmholtz
that complex perceptions could be understood in terms of primitive
sensations constituting them. The underdetermination of perception by the
visual stimulus, noted by Berkeley in his Essay of 1709, takes account of the
fact that the retinal image is impoverished with respect to threedimensional
information. Identical stimulation at the retina can result from radically
different distal sources. Within Gestalt psychology, the Gestalt, or pattern,
was recognized to be underdetermined by constituent parts available in proximal
stimuli. M. Wertheimer 03 observed in 2 that apparent motion could be induced
by viewing a series of still pictures in rapid succession. He concluded that
perception of the whole, as involving movement, was fundamentally different
from the perception of the static images of which it is composed. W. Köhler An
example of visual reversal from Edgar Rubin: the object depicted can be seen
alternately as a vase or as a pair of faces. The reversal occurs whether there
is a black ground and white figure or white figure and black ground. figure
figure ground 310 310 77 observed that there was no figure
ground articulation in the retinal image, and concluded that inherently ambiguous
stimuli required some autonomous selective principles of perceptual organization.
As subsequently developed by Gestalt psychologists, form is taken as the
primitive unit of perception. In philosophical treatments, figureground effects
are used to enforce the conclusion that interpretation is central to
perception, and that perceptions are no more than hypotheses based on sensory
data. Refs.: Grice, “You can’t see a knife as a knife,” “The Causal Theory of
Perception,” Vitters on ‘seeing-as’”. figura -- schema (Latin ‘figura,’ as in Grice,
‘figure of speech’), also schema plural: schemata, a metalinguistic frame or
template used to specify an infinite set of sentences, its instances, by finite
means, often taken with a side condition on how its blanks or placeholders are
to be filled. The sentence ‘Either Abe argues or it is not the case that Abe
argues’ is an instance of the excluded middle scheme for English: ‘Either . . .
or it is not the case that . . .’, where the two blanks are to be filled with
one and the same well-formed declarative English sentence. Since first-order
number theory cannot be finitely axiomatized, the mathematical induction scheme
is used to effectively specify an infinite set of axioms: ‘If zero is such that
. . . and the successor of every number such that . . . is also such that . . .
, then every number is such that . . .’, where the four blanks are to be filled
with one and the same arithmetic open sentence, such as ‘it precedes its own
successor’ or ‘it is finite’. Among the best-known is Tarski’s scheme T: ‘. . .
is a true sentence if and only if . . .’, where the second blank is filled with
a sentence and the first blank by a name of the sentence. And then there’s the figura quadrata: square of opposition – figura
quadrata – Grice: “It is clear that the apparatus of Modernism does not give a
faithful account of the character of semantic phenomena. One such less than
faithful account, indeed, deviant account, appears in the treatment of the
square of opposition.” cited by Grice in “Retrospective epilogue.” Since
tutoring Strawson on this for Strawson’s ‘logic paper,’ Grice kept an interest,
if only to witness Strwson’s playing with the square – and ‘uselessly trying to
circle it’ -- a graphic representation of various logical relations among
categorical propositions. Relations among modal and even among hypothetical
propositions have also been represented on the square. Two propositions are
said to be each other’s 1 contradictories if exactly one of them must be true and
exactly one false; 2 contraries if they could not both be true although they
could both be false; and 3 subcontraries if at least one of them must be true
although both of them may be true. There is a relation of 4 subalternation of
one proposition, called subaltern, to another called superaltern, if the truth
of the latter implies the truth of the former, but not conversely. Applying
these definitions to the four types of categorical propositions, we find that
SaP and SoP are contradictories, and so are SeP and SiP. SaP and SeP are
contraries. SiP and SoP are subcontraries. SiP is subaltern to SaP, and SoP is
subaltern to SeP. These relations can be represented graphically in a square of
opposition: The four relations on the traditional square are expressed in the
following theses: Contradictories: SaP S -SoP, SeP S -SiP Contraries: -SaP
& SeP or SaP P -SeP Subcontraries: SiP 7 SoP Subalterns: SaP P SiP, SeP P
SoP For these relations to hold, an underlying existential assumption must be
satisfied: the terms serving as subjects of propositions must be satisfied, not
empty e.g., ‘man’ is satisfied and ‘elf’ empty. Only the contradictory
opposition remains without that assumption. Modern interpretations of
categorical propositions exclude the existential assumption; thus, only the
contradictory opposition remains in the square.
Refs.: H. P. Grice, “Apuleius on the square of opposition,” H. P. Grice,
“Boethius and the square of opposition.”
filmer: r. English
political writer who produced, most importantly, the posthumous Patriarcha It
is remembered because Locke attacked it in the first of his Two Treatises of
Government 1690. Filmer argued that God gave complete authority over the world
to Adam, and that from him it descended to his eldest son when he became the
head of the family. Thereafter only fathers directly descended from Adam could
properly be rulers. Just as Adam’s rule was not derived from the consent of his
family, so the king’s inherited authority is not dependent on popular consent.
He rightly makes laws and imposes taxes at his own good pleasure, though like a
good father he has the welfare of his subjects in view. Filmer’s
patriarchalism, intended to bolster the absolute power of the king, is the
classic English statement of the doctrine.
find
play
– where Grice’s implicaturum finds play Strawson Wiggins p. 523
finis: H. P. Grice, "Cum finis est licitus, etiam media
sunt licita" -- "Der Zweck und die Mittel.” Grice: “means-end
rationality is a must” -- finitum -- telos, ancient Grecian term meaning ‘end’
or ‘purpose’. Telos is a key concept not only in Grecian ethics but also in
Grecian science. The purpose of a human being is a good life, and human
activities are evaluated according to whether they lead to or manifest this
telos. Plants, animals, and even inanimate objects were also thought to have a
telos through which their activities and relations could be understood and
evaluated. Though a telos could be something that transcends human activities
and sensible things, as Plato thought, it need not be anything apart from
nature. Aristotle, e.g., identified the telos of a sensible thing with its
immanent form. It follows that the purpose of the thing is simply to be what it
is and that, in general, a thing pursues its purpose when it endeavors to
preserve itself. Aristotle’s view shows that ‘purpose in nature’ need not mean
a higher purpose beyond nature. Yet, his immanent purpose does not exclude
“higher” purposes, and Aristotelian teleology was pressed into service by
medieval thinkers as a framework for understanding God’s agency through nature.
Thinkers in the modern period argued against the prominent role accorded to
telos by ancient telepathy telos 906
906 and medieval thinkers, and they replaced it with analyses in terms
of mechanism and law. teleology, the philosophical doctrine that all of nature,
or at least intentional agents, are goaldirected or functionally organized.
Plato first suggested that the organization of the natural world can be
understood by comparing it to the behavior of an intentional agent external teleology. For example, human beings
can anticipate the future and behave in ways calculated to realize their
telekinesis teleology 905 905
intentions. Aristotle invested nature itself with goals internal teleology. Each kind has its own
final cause, and entities are so constructed that they tend to realize this
goal. Heavenly bodies travel as nearly as they are able in perfect circles
because that is their nature, while horses give rise to other horses because
that is their nature. Natural theologians combined these two teleological
perspectives to explain all phenomena by reference to the intentions of a
beneficent, omniscient, all-powerful God. God so constructed the world that
each entity is invested with the tendency to fulfill its own God-given nature.
Darwin explained the teleological character of the living world
non-teleologically. The evolutionary process is not itself teleological, but it
gives rise to functionally organized systems and intentional agents.
Present-day philosophers acknowledge intentional behavior and functional
organization but attempt to explain both without reference to a supernatural
agent or internal natures of the more metaphysical sort. Instead, they define
‘function’ cybernetically, in terms of persistence toward a goal state under
varying conditions, or etiologically, in terms of the contribution that a
structure or action makes to the realization of a goal state. These definitions
confront a battery of counterexamples designed to show that the condition
mentioned is either not necessary, not sufficient, or both; e.g., missing goal
objects, too many goals, or functional equivalents. The trend has been to
decrease the scope of teleological explanations from all of nature, to the
organization of those entities that arise through natural selection, to their
final refuge in the behavior of human beings. Behaviorists have attempted to
eliminate this last vestige of teleology. Just as natural selection makes the
attribution of goals for biological species redundant, the selection of
behavior in terms of its consequences is designed to make any reference to
intentions on the part of human beings unnecessary. Kant, in
fact, for reasons not unlike these, sought to show the validity of a different
but fairly closely related Technical Imperative by just such a method. The form
which he selects is one which, in my terms, would be represented by "It is
fully acceptable, given let it be that B, that let it be that A" or
"It is necessary, given let it be that B, that let it be that A".
Applying this to the one fully stated technical imperative given in
Grundlegung, we get "It is necessary, given let it be that one bisect a
line on an unerring principle, that let it be that I draw from its extremities
two intersecting arcs". Call this statement, (α). Though he does not express
himself very clearly, I am certain that his claim is that this imperative is
validated in virtue of the fact that it is, analytically, a consequence of an
indicative statement which is true and, in the present context, unproblematic,
namely, the statement vouched for by geometry, that if one bisects a line on an
unerring principle, then one does so only as a result of having drawn from its
extremities two intersecting arcs. Call this statement, (β). His argument seems
to be expressible as follows. (1) It is analytic that he who wills the end (so
far as reason decides his conduct), wills the indispensable means thereto. (2)
So it is analytic that (so far as one is rational) if one wills that A, and
judges that if A, then A as a result of B, then one wills that B. end p.93 (3)
So it is analytic that (so far as one is rational) if one judges that if A,
then A as a result of B, then if one wills that A then one wills that B. (4) So
it is analytic that, if it is true that if A, then A as a result of B, then if
let it be that A, then it must be that let it be that B. From which, by
substitution, we derive (5): it is analytic that if β then α. Now it seems to
me to be meritorious, on Kant's part, first that he saw a need to justify
hypothetical imperatives of this sort, which it is only too easy to take for
granted, and second that he invoked the principle that "he who wills the
end, wills the means"; intuitively, this invocation seems right.
Unfortunately, however, the step from (3) to (4) seems open to dispute on two
different counts. (1) It looks as if an unwarranted 'must' has appeared in the
consequent of the conditional which is claimed, in (4), as analytic; the most
that, to all appearances, could be claimed as being true of the antecedent is
that 'if let it be that A then let it be that B'. (2) (Perhaps more serious.)
It is by no means clear by what right the psychological verbs 'judge' and
'will', which appear in (3), are omitted in (4); how does an (alleged) analytic
connection between (i) judging that if A, A as a result of B and (ii) its being
the case that if one wills that A then one wills that B yield an analytic
connection between (i) it's being the case that if A, A as a result of B and
(ii) the 'proposition' that if let it be that A then let it be that B? Can the
presence in (3) of the phrase "in so far as one is rational"
legitimize this step? I do not know what remedy to propose for the first of
these two difficulties; but I will attempt a reconstruction of Kant's line of
argument which might provide relief from the second. It might, indeed, even be an expansion of Kant's actual thinking; but
whether or not this is so, I am a very long way from being confident in its
adequacy. (1) Let us suppose it to be a fundamental psychological law that,
ceteris paribus, for any creature x (of a sufficiently developed kind), no
matter what A and B are, if x wills A and judges that if A, A only as a result
of B, then x wills B. This I take to be a proper representation of "he who
wills the end, wills the indispensable means"; and in calling it a
fundamental law I mean that it is the end p.94 law, or one of the laws, from
which 'willing' and 'judging' derive their sense as names of concepts which
explain behaviour. So, I assume, to reject it would be to deprive these words
of their sense. If x is a rational creature, since in this case his attitudes
of acceptance are at least to some degree under his control (volitive or
judicative assent can be withheld or refused), this law will hold for him only
if the following is true: (2) x wills (it is x's will) that (for any A, B) if x
wills that A and judges that if A, A only as a result of B, then x is to will
that B. In so far as x proceeds rationally, x should will as specified in (2)
only if x judges that if it is satisfactory to will that A and also
satisfactory to judge that if A, A only as a result of B, then it is
satisfactory to will that B; otherwise, in willing as specified in (2), he will
be willing to run the risk of passing from satisfactory attitudes to
unsatisfactory ones. So, given that x wills as specified in (2): (3) x should
(qua rational) judge that (for any A, B) if it is satisfactory to will that A
and also satisfactory to judge that if A, A only as a result of B, then it is
satisfactory to will that B. Since the satisfactoriness of attitudes of
acceptance resolves itself into the satisfactoriness (in the sense
distinguished in the previous chapter) of the contents of those attitudes
(marked by the appropriate mode-markers), if x judges as specified in (3) then:
(4) x should (qua rational) judge that (for any A, B) if it is satisfactory
that ! A and also satisfactory that if it is the case that A, A only as a
result of B, then it is satisfactory that ! B. And, if x judges as in (4), then
(because (A & B → C) yields A → (B → C)): (5) x should judge that (for any
A, B) if it is satisfactory that if A, A only because B, then it is
satisfactory that, if let it be that A, then let it be that B. But if x judges
that satisfactoriness is, for any A, B, transmitted in this particular way,
then: (6) x should judge that (for any A, B) if A, A only because B, yields if
let it be that A, then let it be that B. end p.95 But if any rational being
should (qua rational) judge that (for any A, B) the first 'propositional' form
yields the second, then the first propositional form does yield the second; so:
(7) (For any A, B) if A, A only because B yields if let it be that A, then let
it be that B. (A special apology for the particularly violent disregard of 'use
and mention'; my usual reason is offered.) Fig. 4 summarizes the steps of the
argument. I. Kant's Steps α = It is necessary, given let it be that one bisect
a line on an unerring principle, that let it be that I draw from its
extremities two intersecting arcs. β = If one bisects a line on an unerring
principle, then one does so only as a result of having drawn from its
extremities two intersecting arcs. (1) It is analytic that (so far as he is
rational) he who wills the end wills the means. (2) It is analytic that (so far
as one is rational) if one wills that A, and judges that if A, then A only as a
result of B, then one wills that B. (3) It is analytic that (so far as one is
rational) if one judges that if A, A as a result of B, then if one wills that A
one wills that B. (4) It is analytic that if, if A, then A as a result of B,
then, if let it be that A, then it must be that let it be that B. (5) It is
analytic that if β, then α. Grice goes on to provide some Reconstruction Steps (1) Fundamental law that
(ceteris paribus) for any creature x (for any A, B), if x wills A and judges
that if A, then A as a result of B; then x wills B. (2) x wills that (for any
A, B) if x wills A and judges that if A, A as a result of B, then x is to will
that B. (3) x should (qua rational) judge that (for any A, B) if it is
satisfactory to will that A and also satisfactory to judge that if A, A only as
a result of B, then it is satisfactory to will that B. (4) x should (qua
rational) judge that (for any A, B) if it is satisfactory that ! A and also
satisfactory that if ⊢A, then ⊢A only as a result of B, then it is satisfactory that ! B.
(5) x should (q.r.) judge that (for any A, B) if it is satisfactory that if ⊢A, ⊢A only because B, then it is
satisfactory that, if let it be that A, then let it be that B. (6) x should
(q.r.) judge that (for any A, B) if A, A only because B, yields if let it be
that A, then let it be that B. (7) (For any A, B) if A, A only because B yields
if let it be that A, then let it be that B. Fig. 4. Validation of Technical
Acceptabilities end p.96 Prudential Acceptability It will be convenient to
initiate the discussion of this topic by again referring to Kant. Kant thought
that there is a special sub-class of Hypothetical Imperatives (which he called
"counsels of prudence") which were like his class of Technical
Imperatives, except in that the end specified in a full statement of the
imperative is the special end of Happiness (one's happiness). To translate into
my terminology, this seems to amount to the thesis that there is a special
subclass of, for example, singular practical acceptability conditionals which
exemplifies the structure "it is acceptable, given that let a (an
individual) be happy, that let a be (do) G"; an additional indicative
sub-antecedent ("that it is the case that a is F") might be sometimes
needed, and could be added without difficulty. There would, presumably, be a
corresponding special subclass of acceptability generalizations. The main
characteristics which Kant would attribute to such prudential acceptability
conditionals would, I think, be the following. (1) The foundation for such
conditionals is exactly the same as that for technical imperatives; they would
be treated as being, in principle, analytically consequences of indicative
statements to the effect that so-and-so is a (the) means to such-and-such. The
relation between my doing philosophy now and my being happy would be a causal
relation not significantly different from the relation between my taking an
aspirin and my being relieved of my headache. (2) However, though the relation
would be the same, the question whether in fact my doing philosophy now will
promote my happiness is insoluble; to solve it, I should have to be omniscient,
since I should have to determine that my doing philosophy now would lead to
"a maximum of welfare in my present and all future circumstances".
(3) The special end (happiness) of specific prudential acceptability
conditionals is one which we know that, as a matter of "natural
necessity", every human being has; so, unlike technical imperatives, their
applicability to himself cannot be disclaimed by any human being. end p.97 (4)
Before we bring in the demands of morality (which will prescribe concern for
our own happiness as a derivative duty), the only positive evaluation of a
desire for one's happiness is an alethic evaluation; one ought to, or must,
desire one's own happiness only in the sense that, whoever one may be, it is
acceptable that it is the case that one desire one's own happiness; the 'ought'
or 'must' is non-practical. (This position seems to me akin to a Humean appeal
to 'natural dispositions', in place of justification.) I would wish to disagree
with Kant in two, or possibly three, ways.(1) Kant, I think, did not devote a
great deal of thought to the nature of happiness, no doubt because he regarded
it as being of little importance to the philosophical foundations of morality.
So it is not clear whether he regarded happiness as a distinct end from the
variety of ends which one might pursue with a view to happiness, rather than as
a complex end which includes (in some sense of 'include') some of such ends. If
he did regard it as a distinct end, then I think he was wrong. (2) I think he
was certainly wrong in thinking of something's being conducive to happiness as being
on all fours with, say, something's being conducive to the relief of a
headache; as, perhaps, a matter (in both cases) of causal relationship. (3) I
would like to think him wrong in thinking that (morality apart) there is no
practical interpretation of 'ought' in which one ought to pursue (desire, aim
at) one's own happiness. We have, then, three not unconnected questions which
demand some attention. (A) What is the nature of happiness? (B) In what sense
(if any) (and why) should I desire, or aim at, my own happiness? (C) What is
the nature of the connection between things which are conducive to happiness
and happiness? (What, specifically, is implied by 'conducive'?) Though it is
fiendishly difficult, I shall take up question (C) first. I trust that I will
be forgiven if I do not present a full and coherent answer. Let us take a brief
look at Aristotle. Aristotle was, I think, more sophisticated in this area. end
p.98 (1) Though it is by no means beyond dispute, I am disposed to think that
he did regard Happiness (eudaemonia) as a complex end 'containing' (in some
sense) the ends which are constitutive of happiness; to use the jargon of
recent commentators, I suspect he regarded it as an 'inclusive' and not a
'dominant' end. (2) He certainly thought that one should (practical 'should')
aim at one's own happiness. (3) (The matter directly relevant to my present
purpose.) I strongly suspect that he did not think that the relationship
between, say, my doing philosophy and my happiness was a straightforward causal
relationship. The passage which I have in mind is Nicomachean Ethics VI. 12,
13, where he distinguishes between wisdom ("practical wisdom") and
cleverness (or, one might say, resourcefulness). He there makes the following
statements: (a) that wisdom is not the same as cleverness, though like it, (b)
that wisdom does not exist without cleverness, (c) that wisdom is always
laudable (to be wise one must be virtuous), but cleverness is not always
laudable, for example, in rogues, (d) that the relation between wisdom and
cleverness is analogous to the relation between 'natural' virtue and virtue
proper (he says this in the same place as he says (a)). Faced with these not
exactly voluminous remarks, some commentators have been led (not I think
without reluctance) to interpret Aristotle as holding that the only difference
between wisdom and cleverness is that the former does, and the latter does not,
require the presence of virtue; to be wise is simply to be clever in good
causes. Apart from the fact that additional difficulties are generated thereby,
with respect to the interpretation of Nicomachean Ethics VI, to attribute this
view to Aristotle does not seem to indicate a very high respect for his wisdom,
particularly as the text does not seem to demand such an interpretation.
Following an idea once given me, long ago, by Austin, I would prefer to think
of Aristotle as distinguishing between the characteristic manifestation of
wisdom, namely, the ability to determine what one should do (what should be
done), and the characteristic manifestation of cleverness, which is the ability
to determine how to do what it is that should be done. On this interpretation
cleverness would plainly be in a certain sense subordinate to wisdom, since
opportunity for cleverness (and associated qualities) will only end p.99 arise
after there has been some determination of what it is that is to be done. It
may also be helpful (suggestive) to think of wisdom as being (or being
assimilable to) administrative ability, with cleverness being comparable with
executive ability. I would also like to connect cleverness, initially, with the
ability to recognize (devise) technical acceptabilities (though its scope might
be larger than this), while wisdom is shown primarily in other directions. On such
assumptions, expansion of the still obscureAristotelian distinction is plainly
a way of pursuing question (C), or questions closely related to it; for we will
be asking what other kinds of acceptabilities (beyond 'technical'
acceptabilities) we need in order to engage (or engage effectively) in
practical reasoning. I fear my contribution here will be sketchy and not very
systematic. We might start by exploring a little further the 'administrative/
executive' distinction, a distinction which, I must admit, is extremely hazy
and also not at all hard and fast (lines might be drawn, in different cases, in
quite different places). A boss tells his secretary that he will be travelling
on business to suchand-such places, next week, and asks her to arrange travel
and accommodation for him. I suspect that there is nothing peculiar about that.
But suppose, instead of giving her those instructions, he had said to her that
he wanted to travel on business somewhere or other, next week, and asked her to
arrange destinations, matters to be negotiated, firms to negotiate with, and
brief him about what to say to those whom he would visit. That would be a
little more unusual, and the secretary might reply angrily, "I am paid to
be your secretary, not to run your business for you, let alone run you."
What (philosophically) differentiates the two cases? Let us call a desire or
intention D which a man has at t "terminal for him at t" if there is
no desire or intention which he has at t, which is more specific than D; if,
for example, a man wanted at t a car, but it was also true of him that he
wanted a Mercedes, then his desire for a car would not be terminal. Now I think
we can (roughly) distinguish (at least) three ways in which a terminal desire
may be non-specific. (1) D may be finitely non-specific; for example, a man may
want a large, fierce dog (to guard his house) and not care at all what kind of
large, fierce dog he acquired; any kind will do (at least within end p.100 some
normal range). Furthermore, he does not envisage his attitude, that any kind
will do, being changed when action-time comes; he will of course get some
particular kind of dog, but what kind will simply depend on such things as
availability. (2) D may be indeterminately non-specific: that is to say the desirer
may recognize, and intend, that before he acts the desire or intention D should
be made more specific than it is; he has decided, say, that he wants a large,
fierce dog, but has not yet decided what kind he wants. It seems to me that an
indeterminately non-specific desire or intention differs from a finitely
non-specific desire in a way which is relevant to the application of the
concept of 'meanstaking'. If the man with the finitely non-specific desire for
a large, fierce dog decides on a mastiff, that would be (or at least could be)
a case of choosing a mastiff as a means to having a large, fierce dog, but not
something of which getting a large, fierce dog would be an effect. But, if the
man with the indeterminate desire for a large, fierce dog decides that he wants
a mastiff (as a further determination of that indeterminate desire), that is
not a case of meanspicking at all. (3) There is a further kind of
non-specificity which I mention only with a view to completeness: a desire D
may be vaguely, or indefinitely, non-specific; a man may have decided that he
wants a large, fierce dog, but it may not be very well defined what could count
as a large, fierce dog; a mastiff would count, and a Pekinese would not, but
what about a red setter? In such cases the desire or intention needs to be
interpreted, but not to be further specified. With regard to the first two
kinds of non-specificity, there are some remarks to be made. (1) We do not
usually (if we are sensible) make our desires more determinate than the
occasion demands; if getting a dog is not a present prospect, a man who decides
exactly what kind of dog he would like is engaging in fantasy. (2) The final
stage of determination may be left to the occasion of action; if I want to buy
some fancy curtains, I may leave the full determination of the kind until I see
them in the store. (3) Circumstances may change the status of a desire; a man
may have a finitely non-specific desire for a dog until he talks to end p.101
his wife, who changes things for him (making his desire indeterminately
non-specific). (4) Indeterminately non-specific desires may of course be
founded (and well founded) on reasons, and so may be not merely desires one
does have but also desires which one should have.We may now return to the boss
and his secretary. It seems to me that what the 'normally' behaved boss does
(assuming that he has a very new and inexperienced secretary) is to reach a
finitely non-specific desire or intention (or a set of such), communicate these
to his secretary, and leave to her the implementation of this (these)
intention(s); he presumes that nothing which she will do, and no problem which
she will encounter, will disturb his intention (for, within reasonable limits,
he does not care what she does), even though her execution of her tasks may
well involve considerable skill and diplomacy (deinotes). If she is more
senior, then he may well not himself reach a finitely, but only an
indeterminately, non-specific intention, leaving it to her to complete the
determination and trusting her to do so more or less as he would himself. If
she reaches a position in which she is empowered to make determinate his
intentions not as she thinks he would think best, but as she thinks best, then
I would say that she has ceased to be a secretary and has become an
administrative assistant. This might be a convenient place to refer briefly to
a distinction which is of some importance in practical thinking which is not
just a matter of finding a means, of one sort or another, to an already fixed
goal, and which is fairly closely related to the process of determination which
I have been describing. This is the distinction between non-propositional ends,
like power, wealth, skill at chess, gardening; and propositional or objective
ends, like to get the Dean to agree with my proposal, or that my uncle should
go to jail for his peculations of the family money. Non-propositional ends are
in my view universals, the kind of items to be named by mass-terms or abstract
nouns. I should like to regard their non-propositional appearance as genuine; I
would like them to be not only things which we can be said to pursue, but also
things which we can be said to care about; and I would not want to reduce
'caring about' to 'caring that', though of course there is an intimate end
p.102 connection between these kinds of caring. I would like to make the
following points. (1) Non-propositional ends enter into the most primitive
kinds of psychological explanation; the behaviour of lower animals is to be
explained in terms of their wanting food, not of their wanting (say) to eat an
apple. (2) Non-propositional ends are characteristically variable in degree,
and the degrees are valuationally ordered; for one who wants wealth, a greater
degree of wealth is (normally) preferable to a lesser degree. (3) They are the
type, I think, to which ultimate ends which are constitutive of happiness
belong; and not without reason, since their non-propositional, and often
non-temporal, character renders them fit members of an enduring system which is
designed to guide conduct in particular cases. (4) The process of determination
applies to them, indeed, starts with them; desire for power is (say) rendered
more determinate as desire for political power; and objectives (to get the position
of Prime Minister) may be reached by determination applied to non-propositional
ends. (5) Though it is clear to me that the distinction exists, and that a
number of particular items can be placed on one side or another of the barrier,
there is a host of uncertain examples, and the distinction is not easy to
apply. Let us now look at things from her (the secretary's) angle. First, many
(indeed most) of the things she does, though perhaps cases of means-finding,
will not be cases of finding means of the kind which philosophers usually focus
on, namely, causal means. She gets him an air-ticket, which enables, but does
not cause, him to travel to Kalamazoo, Michigan; she arranges by telephone for
him to stay at the Hotel Goosepimple; his being booked in there is not an
effect but an intended outcome of her conversation on the telephone; and his
being booked in at that hotel is not a cause of his being booked at a hotel,
but a way in which that situation or circumstance is realized. Second, if
during her operations she discovers that there is an epidemic of yellow fever
at Kalamazoo, she does not (unless she wishes to be fired) go blindly ahead and
book him in; she consults him, because something has now happened end p.103
which will (if he knows of it) disturb his finitely non-specific intention;
indeed may confront the boss with a plurality of conflicting (or apparently
conflicting) ends or desiderata; a situation which is next in line for
consideration. Before turning to it, however, I think I should remark that the
kind of featureswhich have shown up in this interpersonal transaction are also
characteristic of solitary deliberation, when the deliberator executes his own
decisions. We are now, we suppose, at a stage at which the secretary has come
back to the boss to announce that if she executes the task given her
(implements the decision about what to do which he has reached), there is
such-and-such a snag; that is, the decision can be implemented only at the cost
of a consequence which will (or which she suspects may) dispromote some further
end which he wants to promote, or promote some "counter-end" which he
wants to dispromote. (1) We may remark that this kind of problem is not
something which only arises after a finitely non-specific intention has been
formed; exactly parallel problems are frequently, though not invariably,
encountered on the way towards a finitely non-specific intention or desire.
This prompts a further comment on Aristotle's remark that, though wisdom is not
identical with cleverness, wisdom does not exist without cleverness. This
dictum covers two distinct truths; first, that if a man were good at deciding
what to do, but terrible at executing it (he makes a hash of working out train
times, he is tactless with customs officials, he irritates hotel clerks into
non-cooperation), one might hesitate to confer upon him the title 'wise'; at
least a modicum of cleverness is required. Second, and more interestingly,
cleverness is liable to be manifested at all stages of deliberation; every time
a snag arises in connection with a tentative determination of one's will,
provided that the snag is not blatantly obvious, some degree of cleverness is
manifested in seeing that, if one does such-and-such (as one contemplates
doing), then there will be the undesirable result that so-and-so. (2) The boss
may now have to determine how 'deep' the snag is, how radically his plan will
have to be altered to surmount it. To lay things out a bit, the boss might (in
some sense of 'might'), in his deliberation, have formed successively a series
of indeterminately non-specific intentions (I i , I ii , I iii , . . . I n ),
where each end p.104 member is a more specific determination of its
predecessor, and I n represents the final decision which he imparted to the secretary.
He now (the idea is) goes back to this sequence to find the most general (least
specific) member which is such that if he has that intention, then he is
saddled with the unwanted consequences. He then knows where modification is
required. Of course, in practice he may very well not have constructed such a
convenient sequence; if he has not, then he has partially to construct one on
receipt of the bad news from the secretary, to construct one (that is) which is
just sufficiently well filled in to enable him to be confident that a
particular element in it is the most generic intention of those he has, which
generates the undesirable consequence. Having now decided which desire or
intention to remove, how does he decide what to put in its place? How, in
effect, does he 'compound' his surviving end or ends with the new desideratum,
the attainment of the end (or the avoidance of the counter-end) which has been
brought to light by the snag? Now I have to confess that in connection with
this kind of problem, I used to entertain a certain kind of picture. Let us
label (for simplicity) initially just two ends E1 and E2, with degrees of
"objective desirability" d 1 and d 2 . For any action a 1 which might
realize E1, or E2, there will be a certain probability p 1 that it will realize
E1, a certain probability p 2 that it will realize E2, and a probability p 12
(a function of p 1 and p 2 ) that it will realize both. If E1 and E2 are
inconsistent (again, for simplicity, let us suppose they are) p 12 will be
zero. We can now, in principle, characterize the desirability of the action a 1
, relative to each end (E1 and E2), and to each combination of ends (here just
E1 and E2), as a function of the desirability of the end and the probability
that the action a 1 will realize that end, or combination of ends. If we
envisage a range of possible actions, which includes a 1 together with other
actions, we can imagine that each such action has a certain degree of
desirability relative to each end (E1 and (or) E2) and to their combination. If
we suppose that, for each possible action, these desirabilities can be
compounded (perhaps added), then we can suppose that one particular possible
action scored higher (in actiondesirability relative to these ends) than any
alternative possible action; and that this is the action which wins out; that
is, is the action which is, or at least should, end p.105 be performed. (The
computation would in fact be more complex than I have described, once account
is taken of the fact that the ends involved are often not definite
(determinate) states of affairs(like becoming President), but are variable in
respect of the degree to which they might be realized (if one's end is to make
a profit from a deal, that profit might be of a varying magnitude); so one
would have to consider not merely the likelihood of a particular action's
realizing the end of making a profit, but also the likelihood of its realizing
that end to this or that degree; and this would considerably complicate the
computational problem.) No doubt most readers are far too sensible ever to have
entertained any picture even remotely resembling the "Crazy-Bayesy"
one I have just described. I was not, of course, so foolish as to suppose that
such a picture represents the manner in which anybody actually decides what to
do, though I did (at one point) consider the possibility that it might mirror,
or reflect, a process actually taking place in the physiological underpinnings
of psychological states (desires and beliefs), a process in the 'animal
spirits', so to speak. I rather thought that it might represent an ideal, a
procedure which is certainly unrealized in fact, and quite possibly one which
is in principle unrealizable in fact, but still something to which the
procedures we actually use might be thought of as approximations, something for
which they are substitutes; with the additional thought that the closer the
approximation the better the procedure. The inspirational source of such
pictures as this seems to me to be the very pervasive conception of a
mechanical model for the operations of the soul; desires are like forces to
which we are subject; and their influence on us, in combination, is like the
vectoring of forces. I am not at all sure that I regard this as a good model;
the strength of its appeal may depend considerably on the fact that some model
is needed, and that, if this one is not chosen, it is not clear what
alternative model is available. If we are not to make use of any variant of my
one-time picture, how are we to give a general representation of the treatment
of conflicting or competing ends? It seems to me that, for example, the
accountant with the injured wife in Boise might, in the first instance, try to
keep everything, to fulfil all relevant ends; he might think of telephoning
Redwood City to see if his firm could postpone for a week the preparation of
their accounts. If this is end p.106 ineffective, then he would operate on some
system of priorities. Looking after his wife plainly takes precedence over
attention to his firm's accounting, and over visiting his mother. But having
settled on measures which provide adequately for his wife's needs, he then
makes whatever adjustments he can to provide for the ends which have lost the
day. What he does not do, as a rule, is to compromise; even with regard to his
previous decision involving the conflict between the claims of his firm and his
mother, substantially he adopted a plan which would satisfy the claims of the
firm, incorporating therein a weekend with mother as a way of doing what he
could for her, having given priority to the claims of the firm. Such systems of
priorities seem to me to have, among their significant features, the following.
(1) They may be quite complex, and involve sub-systems of priorities within a single
main level of priority. It may be that, for me, family concerns have priority
over business concerns; and also that, within the area of family concerns,
matters affecting my children have priority over matters concerning Aunt
Jemima, whs been living with us all these years. (2) There is a distinction
between a standing, relatively long-term system of priorities, and its
application to particular occasions, with what might be thought of as
divergences between the two. Even though my relations with my children have, in
general, priority over my relations with Aunt Jemima, on a particular occasion
I may accord priority to spending time with Aunt Jemima to get her out of one
of her tantrums over taking my son to the zoo to see the hippopotami. It seems to
me that a further important feature of practical thinking, which plays its part
in simplifying the handling of problems with which such thinking is concerned,
is what I might call its 'revisionist' character (in a non-practical sense of
that term). Our desires, and ascriptions of desirability, may be relative in
more than one way. They may be 'desire-relative' in that my desiring A, or my
regarding A as desirable, may be dependent on my desiring, or regarding as
desirable, B; the desire for, or the desirability of, A may be parasitic on a
desire for, or the desirability of, B. This is the familiar case of A's being
desired, or desirable for the sake of B. But desires and desirabilities may be
relative in another slightly less banal way, which end p.107 (initially) one
might think of as 'fact-relativity'. They may be relative to some actual or
supposed prevailing situation; and, relative to such prevailing situations,
things may be desired or thought desirablewhich would not normally be so
regarded. A man who has been sentenced to be hanged, drawn, and quartered may
be relieved and even delighted when he hears that the sentence has been changed
to beheading; and a man whose wealth runs into hundreds of millions may be
considerably upset if he loses a million or so on a particular transaction.
Indeed, sometimes, one is led to suspect that the richer one is, the more one
is liable to mind such decrements; witness the story, no doubt apocryphal, that
Paul Getty had pay-telephones installed in his house for the use of his guests.
The phenomenon of 'fact-relativity' seems to reach at least to some extent into
the area of moral desirabilities. It can be used, I think, to provide a natural
way of disposing of the Good Samaritan paradox; and if one recalls the parable
of the Prodigal Son, one may reflect that what incensed the for so long
blameless son was that there should be all that junketing about a fact-relative
desirability manifested by his errant brother; why should one get a party for
that? It perhaps fits in very well with these reflections that our practical
thinking, or a great part of it, should be revisionist or incremental in
character; that what very frequently happens is that we find something in the
prevailing situation (or the situation anticipated as prevailing) which could
do with improvement or remove a blemish. We do not, normally, set to work to
construct a minor Utopia. It is notable that aversions play a particularly
important role in incremental deliberations; and it is perhaps just that (up to
a point) the removal of objects of aversion should take precedence over the
installation of objects of desire. If I have to do without something which I
desire, the desired object is not (unless the desire is extreme) constantly
present in imagination to remind me that I am doing without it; but if I have
to do or have something which I dislike, the object of aversion is present in
reality, and so difficult to escape. This revisionist kind of thinking seems to
me to extend from the loftiest problems (how to plan my life, which becomes how
to improve on the pattern which prevails) to the smallest (how to arrange the
furniture); and it extends also, at the next move so to speak, to the projected
improvements which I entertain in thought; I seek to improve on them; a master
chess-player, end p.108 it is said, sees at once what would be a good move for
him to make; all his thought is devoted to trying to find a better one. When
one looks at the matter a little more closely, one sees that 'fact-relative'
desirability is really desirability relative to an anticipated, expected, or
feared temporal extension of the actual state of affairs which prevails (an
extension which is not necessarily identical with what prevails, but which will
come about unless something is done about it). And looked at a little more
closely still, such desires or desirabilities are seen to be essentially
comparative; what we try for is thought of as better than the anticipated state
which prompts us to try for it. This raises the large and difficult question,
how far is desirability of its nature comparative? Is it just that the pundits
have not yet given us a non-comparative concept of desirability, or is there
something in the nature of desire, or in the use we want to make of the concept
of desirability, which is a good reason why we cannot have, or should not have,
a noncomparative concept? Or, perhaps, we do have one, which operates only in
limited regions? Certainly we do not have to think in narrowly incremental
ways, as is attested by those who seek to comfort us (or discomfort us) by
getting us to count our blessings (or the reverse); by, for example, pointing
out that being beheaded is not really so hot, or that, if you have 200 million
left after a bad deal, you are not doing so badly. Are such comforters
abandoning comparative desirability, or are they merely shifting the term of
comparison? Do we find non-comparative desirability (perhaps among other
regions) in moral regions? If we say that a man is honest, we are likely to
mean that he is at least not less honest than the average; but we do not expect
a man, who wants or tries to be honest, just to want or try to be averagely
honest. Nor do we expect him to aspire to supreme or perfect honesty (that
might be a trifle presumptuous). We do expect, perhaps, that he try to be as
honest as he can, which may mean that we don't expect him to form aspirations
with regard to a lifetime record of any sort for honesty, but we do expect him
to try on each occasion, or limited bunch of occasions, to be impeccably honest
on those occasions, even though we know (and he knows) that on some occasions
at some times there will or may be lapses. If something like this
interpretation be correct, it may correspond to a general feature of universals
(non-propositional ends) of which one cannot have end p.109 too much, a type of
which certain moral universals are specimens; desirabilities in the case of
such universals are, perhaps, not comparative. But these are unworked-out
speculations.To summarize briefly this rambling, hopefully somewhat diagnostic,
and certainly unsystematic discussion. I have suggested, in a preliminary
enquiry into practical acceptability which is other than technical
acceptability: (1) that practical thinking, which is not just means-end
thinking, includes the determination or sharpening of antecedently
indeterminate desires and intentions; (2) that means-end thinking is involved
in the process of such determination; (3) that a certain sort of computational
model may not be suitable; (4) that systems of priorities, both general and
tailored to occasions, are central; (5) that much, though not perhaps all, of
practical thinking is revisionist and comparative in character. I turn now to a
brief consideration of questions (A) and (B) which I distinguished earlier, and
left on one side. These questions are: (A) What is the nature of happiness? (B)
In what sense, and why, should I desire or aim at my own happiness? I shall
take them together. First, question (B) seems to me to divide, on closer
examination, into three further questions. (1) Is there justification for the
supposition that one should, other things being equal, voluntarily continue
one's existence, rather than end it? (2) (Given that the answer to (1) is
'yes'.) Is there justification for the idea that one should desire or seek to
be happy? (3) (Given that the answer to (2) is 'yes'.) Is there a way of
justifying (evaluating favourably) the acceptance of some particular set of
ends (as distinct from all other such sets) as constitutive of happiness (or of
my happiness)? end p.110 The second and third questions, particularly the
third, are closely related to, and likely to be dependent on, the account of
happiness provided in answer to question (A); indeed, such an account might wholly
or partly provide an answer to question (3), since "happiness" might
turn out to be a valueparadigmatic term, the meaning of which dictates that to
be happy is to have a combination of ends which (the combination) is valuable
with respect to some particular purpose or point of view. I shall say nothing
about the first two questions; one or both of these would, I suspect, require a
careful treatment of the idea of Final Causes, which so far I have not even
mentioned. I will discuss the third question and question (A) in the next
chapter. end p.111 5 Some Reflections About Ends and Happiness I The topic
which I have chosen is one which eminently deserves a thorough, systematic, and
fully theoretical treatment; such an approach would involve, I suspect, a careful
analysis of the often subtly different kinds of state which may be denoted by
the word 'want', together with a comprehensive examination of the role which
different sorts of wanting play in the psychological equipment of rational (and
non-rational) creatures. While I hope to touch on matters of this sort, I do
not feel myself to be quite in a position to attempt an analysis of this kind,
which would in any case be a very lengthy undertaking. So, to give direction to
my discussion, and to keep it within tolerable limits, I shall relate it to
some questions arising out of Aristotle's handling of this topic in the
Nicomachean Ethics; such a procedure on my part may have the additional
advantage of emphasizing the idea, in which I believe, that the proper habitat
for such great works of the past as the Nicomachean Ethics is not the museums
but the marketplaces of philosophy. My initial Aristotelian question concerns
two conditions which Aristotle supposes to have to be satisfied by whatever is
to be recognized as being the good for man. At the beginning of Nicomachean
Ethics I. 4, Aristotle notes that there is general agreement that the good for
man is to be identified with eudaemonia (which may or may not be well rendered
as 'happiness'), and that this in turn is to be identified with living well and
with doing well; but remarks that there is large-scale disagreement with
respect to any further and more informative specification of eudaemonia. In I.
7 he seeksend p.112 to confirm the identification of the good for man with
eudaemonia by specifying two features, maximal finality (unqualified finality)
and self-sufficiency, which, supposedly, both are required of anything which is
to qualify as the good for man, and are also satisfied by eudaemonia. 'Maximal finality'
is defined as follows: "Now we call that which is in itself worthy of
pursuit more final than that which is worthy of pursuit for the sake of
something else, and that which is never desirable for the sake of something
else more final than the things which are desirable both in themselves and for
the sake of that other thing, and therefore we call final without qualification
that which is always desirable in itself and never for the sake of something
else." Eudaemonia seems (intuitively) to satisfy this condition; such
things as honour, pleasure, reason, and virtue (the most popular candidates for
identification with the good for man and with eudaemonia) are chosen indeed for
themselves (they would be worthy of choice even if nothing resulted from them);
but they are also chosen for the sake of eudaemonia, since "we judge that
by means of them we shall be happy". Eudaemonia, however, is never chosen
for the sake of anything other than itself. After some preliminaries, the
relevant sense of 'self-sufficiency' is defined thus: "The selfsufficient
we now define as that which when isolated makes life desirable and lacking in
nothing." Eudaemonia, again, appears to satisfy this condition too; and
Aristotle adds the possibly important comment that eudaemonia is thought to be
"the most desirable of all things, without being counted as one good thing
among others". This remark might be taken to suggest that, in Aristotle's
view, it is not merely true that the possession of eudaemonia cannot be improved
upon by the addition of any other good, but it is true because eudaemonia is a
special kind of good, one which it would be inappropriate to rank alongside
other goods. This passage in Nicomachean Ethics raises in my mindseveral
queries: (1) It is, I suspect, normally assumed by commentators that Aristotle
thinks of eudaemonia as being the only item which satisfies the condition of
maximal finality. This uniqueness claim is not, however, explicitly made in the
passage (nor, so far as I can recollect, elsewhere); nor is it clear to me that
if it were made it end p.113 would be correct. Might it not be that, for
example, lazing in the sun is desired, and is desirable, for its own sake, and
yet is not something which is also desirable for the sake of something else, not
even for the sake of happiness? If it should turn out that there is a
distinction, within the class of things desirable for their own sake
(I-desirables), between those which are also desirable for the sake of
eudaemonia (H-desirables) and those which are not, then the further question
arises whether there is any common feature which distinguishes items which are
(directly) H-desirable, and, if so, what it is. This question will reappear
later. (2) Aristotle claims that honour, reason, pleasure, and virtue are all
both I-desirable and Hdesirable. But, at this stage in the Nicomachean Ethics,
these are uneliminated candidates for identification with eudaemonia; and,
indeed, Aristotle himself later identifies, at least in a sort of way, a
special version of one of them (metaphysical contemplation) with eudaemonia.
Suppose that it were to be established that one of these candidates (say,
honour) is successful. Would not Aristotle then be committed to holding that
honour is both desirable for its own sake, and also desirable for the sake of
something other than honour, namely, eudaemonia, that is, honour? It is not
clear, moreover, that this prima facie inconsistency can be eliminated by an
appeal to the non-extensionality of the context "——is desirable". For
while the argument-pattern 'α is desirable for the sake of β, β is identical
with γ; so, α is desirable for the sake of γ' may be invalid, it is by no means
clear that the argument-pattern 'α is desirable for the sake of β, necessarily
β is identical with γ; so, α is desirable for the sake of γ' is invalid. And,
if it were true that eudaemonia is to be identified with honour, this would
presumably be a non-contingent truth. (3) Suppose the following: (a) playing
golf and playing tennis are each I-desirables, (b) each is conducive to
physical fitness, which is itself I-desirable, (c) that a daily round of golf
and a daily couple of hours of tennis are each sufficient for peak physical
fitness, and (if you like, for simplicity), (d) that there is no third route to
physical fitness. Now, X and Y accept all these suppositions; X plays golf
daily, and Y plays both golf and tennis daily. It seems difficult to deny,
first, that it is quite conceivable that allof the sporting activities of these
gentlemen are undertaken both for their own sake and also for the sake of
physical fitness, and, second, that (pro end p.114 tanto) the life of Y is more
desirable than the life of X, since Y has the value of playing tennis while X
does not. The fact that in Y's life physical fitness is overdetermined does not
seem to be a ground for denying that he pursues both golf and tennis for the
sake of physical fitness; if we wished to deny this, it looks as if we could,
in certain circumstances, be faced with the unanswerable question, "If he
doesn't pursue each for the sake of physical fitness, then which one does he
pursue for physical fitness?" Let us now consider how close an analogy to
this example we can construct if we search for one which replaces references to
physical fitness by references to eudaemonia. We might suppose that X and Y
have it in common that they have distinguished academic lives, satisfying
family situations, and are healthy and prosperous; that they value, and rightly
value, these aspects of their existences for their own sakes and also regard
them as contributing to their eudaemonia. Each regards himself as a thoroughly
happy man. But Y, unlike X, also composes poetry, an activity which he cares
about and which he also thinks of as something which contributes to his
eudaemonia; the time which Y devotes to poetic endeavour is spent by X
pottering about the house doing nothing in particular. We now raise the
question whether or not Y's life is more desirable than X's, on the grounds
that it contains an I-desirable element, poetic composition, which X's life
does not contain, and that there is no counterbalancing element present in X's
life but absent in Y's. One conceivable answer would be that Y's life is indeed
more desirable than X's, since it contains an additional value, but that this
fact is consistent with their being equal in respect of eudaemonia, in line
with the supposition that each regards himself as thoroughly happy. If we give
this answer we, in effect, reject the Aristotelian idea that eudaemonia is, in the
appropriate sense, self-sufficient. There seems to me, however, to be good
reason not to give this answer. Commentators have disagreed about the precise
interpretation of the word "eudaemonia", but none, so far as I know,
has suggested what I think of as much the most plausible conjecture; namely,
that "eudaemonia" is to be understood as the name for that state or
condition which one's good daemon would (if he could) ensure for one; and my
good daemon is a being motivated, with respect to me, solely by concern for my
well-being or happiness. end p.115 To change the idiom, "eudaemonia"
is the general characterization of what a full-time and unhampered fairy
godmother would secure for you. The identifications regarded by Aristotle as
unexcitingly correct, of eudaemonia with doing well and with living well, now
begin to look like necessary truths. If this interpretation of
"eudaemonia" is correct (as I shall brazenly assume) then it would be
quite impossible for Y's life to be more desirable than X's, though X and Y are
equal in respect of eudaemonia; for this would amount to Y's being better off
than X, though both are equally well-off. Various other possible answers
remain. It might be held that not only is Y's life more desirable than X's, but
Y is more eudaemon (better off) than X. This idea preserves the proposed
conceptual connection between eudaemonia and being well-off, and relies on the
not wholly implausible principle that the addition of a value to a life
enhances the value of that life (whatever, perhaps, the liver may think). One
might think of such a principle, when more fully stated, as laying down or
implying that any increase in the combined value of the H-desirable elements
realized in a particular life is reflected, in a constant proportion, in an
increase in the degree of happiness or well-being exemplified by that life; or,
more cautiously, that the increase in happiness is not determined by a constant
proportion, but rather in some manner analogous to the phenomenon of
diminishing marginal utility. I am inclined to see the argument of this chapter
as leading towards a discreet erosion of the idea that the degree of a
particular person's happiness is the value of a function the arguments of which
are measures of the particular Hdesirables realized in that person's life, no
matter what function is suggested; but at the present moment it will be
sufficient to cast doubt on the acceptability of any of the crudest versions of
this idea. To revert to the case of X and Y: it seems to me that when we speak
of the desirability of X's life or of Y's life, the desirability of which we
are speaking is the desirability of that life from the point of view of the
person whose life it is; and that it is therefore counterintuitive to suppose
that, for example, X who thinks of himself as "perfectly happy" and
so not to be made either better off or more happy (though perhaps more
accomplished) by an injection of poetry composition, should be making a
misassessment of what his stateof well-being would be if the composition of
poetry were added to his occupation. Furthermore, if the pursuit end p.116 of
happiness is to be the proper end, or even a proper end, of living, to suppose
that the added realization of a further H-desirable to a life automatically
increases the happiness or well-being of the possessor of that life will
involve a commitment to an ethical position which I, for one, find somewhat
unattractive; one would be committed to advocating too unbridled an eudaemonic
expansionism. A more attractive position would be to suppose that we should
invoke, with respect to the example under consideration, an analogue not of
diminishing marginal utility, but of what might be called vanishing marginal
utility; to suppose, that is, that X and Y are, or at least may be, equally
well-off and equally happy even though Y's life contains an H-desirable element
which is lacking in X's life; that at a certain point, so to speak, the bucket
of happiness is filled, and no further inpouring of realized Hdesirables has
any effect on its contents. This position would be analogous to the view I
adopted earlier with respect to the possible overdetermination of physical
fitness. Even should this position be correct, it must be recognized that the
really interesting work still remains to be done; that would consist in the
characterization of the conditions which determine whether the realization of a
particular set of Hdesirables is sufficient to fill the bucket. The main
result, then, of the discussion has been to raise two matters for exploration;
first, the possibility of a distinction between items which are merely
I-desirable and items which are not only Idesirable but also H-desirable; and,
second, the possibility that the degree of happiness exemplified by a life may
be overdetermined by the set of H-desirables realized in that life, together
with the need to characterize the conditions which govern such
overdetermination. (4) Let us move in a different direction. I have already
remarked that, with respect to the desirability-status of happiness and of the
means thereto, Aristotle subscribed to two theses, with which I have no quarrel
(or, at least, shall voice no quarrel). (A) That some things are both
I-desirable and H-desirable (are both ends in themselves and also means to happiness).
(B) That happiness, while desirable in itself, is not desirable for the sake of
any further end. end p.117 I have suggested the possibility that a further
thesis might be true (though I have not claimed that it is true), namely: (C)
That some things are I-desirable without being H-desirable (and, one might add,
perhaps without being desirable for the sake of any further end, in which case
happiness will not be the only item which is not desirable for the sake of any
further end). But there are two further as yet unmentioned theses which I am
inclined to regard as being not only true, but also important: first, (D) Any
item which is directly H-desirable must be I-desirable. And second, (E)
Happiness is attainable only via the realization of items which are I-desirable
(and also of course H-desirable). Thesis (D) would allow that an item could be
indirectly H-desirable without being I-desirable; engaging in morning press-ups
could be such an item, but only if it were desirable for the sake of (let us say)
playing cricket well, which would plainly be itself an item which was both
I-desirable and Hdesirable. A thesis related to (D), namely, (D′). (An item can
be directly conducive to the happiness of an individual x only if it is
regarded by x as being I-desirable) seems to me very likely to be true; the
question whether not only (D′) but (D) are true would depend on whether a man
who misconceives (if that be possible) certain items as being I-desirable could
properly be said to achieve happiness through the realization of those items.
To take an extreme case, could a wicked man who pervertedly regards cheating
others in an ingenious way as being I-desirable, and who delights in so doing,
properly be said to be (pro tanto) achieving happiness? I think Aristotle would
answer negatively, and I am rather inclined to side with him; but I recognize
that there is much to debate. A consequence of thesis (D), if true, would be
that there cannot be a happiness-pill (a pill the taking of which leads
directly tohappiness); there could be (and maybe there is) a pill which leads
directly to "feeling good" or to euphoria; but these states would
have to be distinguishable from happiness. Thesis (E) would imply that
happiness is essentially a dependent state; happiness cannot just happen; its
realization is conditional end p.118 upon the realization of one or more items
which give rise to it. Happiness should be thought of adverbially; to be happy
is, for some x, to x happily or with happiness. And reflection on the interchangeability
or near-interchangeability of the ideas of happiness and of well-being would
suggest that the adverbial in question is an evaluation adverbial. The
importance, for present purposes, of the two latest theses is to my mind that
questions are now engendered about the idea that items which are chosen (or
desirable) for the sake of happiness can be thought of as items which are
chosen (or desirable) as means to happiness, at least if the means-end relation
is conceived as it seems very frequently to be conceived in contemporary
philosophy; if, that is, x is a means to y just in case the doing or producing
of x designedly causes (generates, has as an effect) the occurrence of y. For,
if items the realization of which give rise to happiness were items which could
be, in the above sense, means to happiness, (a) it should be conceptually
possible for happiness to arise otherwise than as a consequence of the
occurrence of any such items, and (b) it seems too difficult to suppose that so
non-scientific a condition as the possession of intrinsic desirability should
be a necessary condition of an item's giving rise to happiness. In other words,
theses (D) and (E) seem to preclude the idea that what directly gives rise to
happiness can be, in the currently favoured sense, a means to happiness. The
issue which I have just raised is closely related to a scholarly issue which
has recently divided Aristotelian commentators; battles have raged over the
question whether Aristotle conceived of eudaemonia as a 'dominant' or as an
'inclusive' end. The terminology derives, I believe, from W. F. R. Hardie; but
I cite a definition of the question which is given by Ackrill in a recent
paper: "By 'an inclusive end' might be meant any end combining or
including two or more values or activities or goods . . . By 'a dominant end'
might be meant a monolithic end, an end consisting of just one valued activity
or good."1 One's initial reaction to this formulation may fall short of
overwhelming enlightenment, among other things, perhaps, because the verb
'include' appears within end p.119 the characterization of an inclusive end. I
suspect, however, that this deficiency could be properly remedied only by a
logicometaphysical enquiry into the nature of the 'inclusion relation' (or,
rather, the family of inclusion relations), which would go far beyond the
limits of my present undertaking. But, to be less ambitious, let us, initially
and provisionally, think of an inclusive end as being a set of ends. If
happiness is in this sense an inclusive end, then we can account for some of
the features displayed in the previous section. Happiness will be dependent on
the realization of subordinate ends, provided that the set of ends constituting
happiness may not be the empty set (a reasonable, if optimistic, assumption).
Since the "happiness set" has as its elements I-desirables, what is
desirable directly for the sake of happiness must be I-desirable. And if it
should turn out to be the case, contrary perhaps to the direction of my
argument in the last section, that the happiness set includes all I-desirables,
then we should have difficulty in finding any end for the sake of which
happiness would be desirable. So far so good, perhaps; but so far may not
really be very far at all. Some reservation about the treatment of eudaemonia
as an inclusive end is hinted at by Ackrill: It is not necessary to claim that
Aristotle has made quite clear how there may be 'components' in the best life
or how they may be interrelated. The very idea of constructing a compound end
out of two or more independent ends may arouse suspicion. Is the compound to be
thought of as a mere aggregate or as an organized system? If the former, the
move to eudaemonia seems trivial—nor is it obvious that goods can be just added
together. If the latter, if there is supposed to be a unifying plan, what is
it?2 From these very pertinent questions, Ackrill detaches himself, on the
grounds that his primary concern is with the exposition and not with the
justification of Aristotle's thought. But we cannot avail ourselves of this
rain check, and so the difficulties which Ackrill touches on must receive
further exposure.Let us suppose a next-to-impossible world W, in which there
are just three I-desirables, which are also H-desirables, A, B, and C. If you
like, you may think of these as being identical, respectively, with honour,
wealth, and virtue. If, in general, happiness is end p.120 to be an inclusive
end, happiness-in-W will have as its components A, B, and C, and no others. Now
one might be tempted to suppose that, since it is difficult or impossible to
deny that to achieve happiness-in-W it is necessary and also sufficient to
realize A, to realize B, and to realize C, anyone who wanted to realize A,
wanted to realize B, and wanted to realize C would ipso facto be someone who
wanted to achieve happiness-in-W. But there seems to me to be a good case for
regarding such an inference as invalid. To want to achieve happiness-in-W might
be equivalent to wanting to realize A and to realize B and to realize C, or
indeed to wanting A and B and C; but there are relatively familiar reasons for
allowing that, with respect to a considerable range of psychological verbs
(represented by 'ψ'), one cannot derive from a statement of the form 'x ψ's
(that) A and x ψ's (that) B' a statement of the form 'x ψ's (that) A and B'.
For instance, it seems to me a plausible thesis that there are circumstances in
which we should want to say of someone that he believed that p and that he
believed that q, without being willing to allow that he believed that both p
and q. The most obvious cases for the application of the distinction would
perhaps be cases in which p and q are inconsistent; we can perhaps imagine
someone of whom we should wish to say that he believed that he was a grotesquely
incompetent creature, and that he also believed that he was a world-beater,
without wishing to say of him that he believed that he was both grotesquely
incompetent and a world-beater. Inconsistent beliefs are not, or are not
necessarily, beliefs in inconsistencies. Whatever reasons there may be for
allowing that a man may believe that p and believe that q without believing
that p and q would, I suspect, be mirrored in reasons for allowing that a man
may want A and want B without wanting both A and B; if I want a holiday in
Rome, and also want some headache pills, it does not seem to me that ipso facto
I want a holiday in Rome and some headache pills. Moreover, even if we were to
sanction the disputed inference, it would not, I think, be correct to make the
further supposition that a man who wants A and B (simply as a consequence of
wanting A and wanting B) would, or even could, want A (or want B) for the sake
of, or with a view to, realizing A and B. So even if, in world W, a man could
be said to want A and B and C, on the strength of wanting each one of them,
some further condition would end p.121 have to be fulfilled before we could say
of him that he wanted each of them for the sake of realizing A and B and C,
that is, for the sake of achieving happiness-in-W. In an attempt to do justice
to the idea that happiness should be treated as being an 'inclusive' end, let
me put forward a modest proposal; not, perhaps, the only possible proposal, but
one which may seem reasonably intuitive. Let us categorize, for present
purposes, the I-desirables in world W as 'universals'. I propose that to want,
severally, each of these I-desirables should be regarded as equivalent to
wanting the set whose members are just those I-desirables, with the
understanding that a set of universals is not itself a universal. So to want A,
want B, and want C is equivalent to wanting the set whose members are A, B, and
C ('the happinessin-W set'). To want happiness-in-W requires satisfaction of
the stronger condition of wanting A and B and C, which in turn is equivalent to
wanting something which is a universal, namely, a compound universal in which
are included just those universals which are elements of the happiness-inW set.
I shall not attempt to present a necessary and sufficient condition for the
fulfilment of the stronger rather than merely of the weaker condition; but I
shall suggest an important sufficient condition for this state of affairs. The
condition is the following: for x to want the conjunction of the members of a set,
rather than merely for him to want, severally, each member of the set, it is
sufficient that his wanting, severally, each member of the set should be
explained by (have as one of its explanations) the fact that there is an 'open'
feature F which is believed by x to be exemplified by the set, and the
realization of which is desired by x. By an open feature I mean a feature the
specification of which does not require the complete enumeration of the items
which exemplify it. To illustrate, a certain Oxford don at one time desired to
secure for himself the teaching, in his subject, at the colleges of Somerville,
St Hugh's, St Hilda's, Lady Margaret Hall, and St Anne's. (He failed, by two
colleges.) This compound desire was based on the fact that the named colleges
constituted the totality of women's colleges in Oxford, and he desired the
realization of the open feature consisting in his teaching, in his subject, at
all the women's colleges in Oxford. This sufficient condition is important in that it
is, I think, fulfilled with respect to all compound desires which are rational,
as distinct from end p.122 arbitrary or crazy. There can be, of course,
genuinely compound desires which are non-rational, and I shall not attempt to
specify the condition which distinguishes them; but perhaps I do not need to,
since I think we may take it as a postulate that, if a desire for happiness is
a compound desire, it is a rational compound desire. The proposal which I have
made does, I think, conform to acceptable general principles for metaphysical
construction. For it provides for the addition to an initially given category
of items ('universals') of a special sub-category ('compound universals') which
are counterparts of certain items which are not universals but rather sets of
universals. It involves, so to speak, the conversion of certain non-universals
into 'new' universals, and it seems reasonable to suppose that the purpose of
this conversion is to bring these non-universals, in a simple and relatively
elegant way, within the scope of laws which apply to universals. It must be
understood that by 'laws' I am referring to theoretical generalities which
belong to any of a variety of kinds of theory, including psychological,
practical, and moral theories; so among such laws will be laws of various kinds
relating to desires for ends and for means to ends. If happiness is an
inclusive end, and if, for it to be an inclusive end the desire for which is
rational, there must be an open feature which is exemplified by the set of components
of happiness, our next task is plainly to attempt to identify this feature. To
further this venture I shall now examine, within the varieties of means-end
relation, what is to my mind a particularly suggestive kind of case. II At the
start of this section I shall offer a brief sketch of the varieties, or of some
of the varieties, of means-end relation; this is a matter which is interesting
in itself, which is largely neglected in contemporary philosophy, and which I
am inclined to regard as an important bit of background in the present enquiry.
I shall then consider a particular class of cases in our ordinary thinking
about means and ends, which might be called cases of 'end-fixing', and which
might provide an important modification to our consideration of the idea that
happiness is an inclusive end. end p.123 I shall introduce the term 'is
contributive to' as a general expression for what I have been calling
'means-end' relation, and I shall use the phrase 'is contributive in way w to'
to refer, in a general way, to this or that particular specific form of the
contributiveness relation. I shall, for convenience, assume that anyone who
thinks of some state of affairs or action as being contributive to the
realization of a certain universal would have in mind that specific form of
contributiveness which would be appropriate to the particular case. We may now
say, quite unstartlingly, that x wants to do A for the sake of B just in case x
wants to do A because (1) x regards his doing A as something which would be
contributive in way w to the realization of B, and (2) x wants B. That leaves
us the only interesting task, namely, that of giving the range of specific
relations one element in which will be picked out by the phrase 'contributive
in way w', once A and B are specified. The most obvious mode of
contributiveness, indeed one which has too often been attended to to the
exclusion of all others, is that of causal antecedence; x's contributing to y
here consists in x's being the (or a) causal origin of y. But even within this
mode there may be more complexity than meets the eye. The causal origin may be
an initiating cause, which triggers the effect in the way in which flipping a
switch sets off illumination in a light bulb; or it may be a sustaining cause,
the continuation of which is required in order to maintain the effect in being.
In either case, the effect may be either positive or negative; I may initiate a
period of non-talking in Jones by knocking him cold, or sustain one by keeping
my hand over his mouth. A further dimension, in respect of which examples of
each variety of causal contributiveness may vary, is that of conditionality.
Doing A may be desired as something which will, given the circumstances which
obtain, unconditionally originate the realization of B, or as something which
will do so provided that a certain possibility is fulfilled. A specially
important subclass of cases of conditional causal contributiveness is the class
of cases in which the relevant possibility consists in the desire or will of
some agent, either the means-taker or someone else, that B should be realized;
these arecases in which x wants to do A in order to enable, or to make it
possible for, himself (or someone else) to achieve the realization of B; as
when, for example, x puts a corkscrew in his pocket to enable him later, should
be wish to do so, to open a bottle of wine. end p.124 But, for present
purposes, the more interesting modes of contributiveness may well be those
other than that of causal contributiveness. These include the following types.
(1) Specificatory contributiveness. To do A would, in the prevailing
circumstances, be a specification of, or a way of, realizing B; it being
understood that, for this mode of contributiveness, B is not to be a causal
property, a property consisting in being such as to cause the realization of C,
where C is some further property. A host's seating someone at his right-hand
side at dinner may be a specification of treating him with respect; waving a
Union Jack might be a way of showing loyalty to the Crown. In these cases, the
particular action which exemplifies A is the same as the item which exemplifies
B. Two further modes involve relations of inclusion, of one or another of the
types to which such relations may belong. (2) To do A may contribute to the
realization of B by including an item which realizes B. I may want to take a
certain advertised cruise because it includes a visit to Naples. (3) To do A
may contribute to the realization of B by being included in an item which
realizes B. Here we may distinguish more than one kind of case. A and B may be
identical; I may, for example, be hospitable to someone today because I want to
be hospitable to him throughout his visit to my town. In such a case the
exemplification of B (hospitality) by the whole (my behaviour to him during the
week) will depend on a certain distribution of exemplifications of B among the
parts, such as my behaviour on particular days. We might call this kind of
dependence "componentdependence". In other cases A and B are
distinct, and in some of these (perhaps all) B cannot, if it is exemplified by
the whole, also be exemplified by any part. These further cases subdivide in
ways which are interesting but not germane to the present enquiry. We are now
in a position to handle, not quite as Aristotle did, a 'paradox' about
happiness raised by Aristotle, which involves Solon's dictum "Call no man
happy till he is dead". I give a simplified, but I hope not distorted,
version of the 'paradoxical' line of argument. If we start by suggesting that
happiness is the end for man, we shall have to modify this suggestion,
replacing "happiness" by "happiness in a complete life".
(Aristotle himself end p.125 applies the qualification "in a complete
life" not to happiness, but to what he gives as constituted of happiness,
namely, activity of soul in accordance with excellence). For, plainly, a life
which as a whole exemplifies happiness is preferable to one which does not. But
since lifelong happiness can only be exemplified by a whole life,
non-predictive knowledge that the end for man is realized with respect to a
particular person is attainable only at the end of the person's life, and so
not (except possibly at the time of his dying gasp) by the person himself. But
this is paradoxical, since the end for man should be such that non-predictive
knowledge of its realization is available to those who achieve its realization.
I suggest that we need to distinguish non-propositional, attributive ends, such
as happiness, and propositional ends or objectives, such as that my life, as a
whole, should be happy. Now it is not in fact clear that people do, or even
should, desire lifelong happiness; it may be quite in order not to think about
this as an objective. And, even if one should desire lifelong happiness, it is
not clear that one should aim at it, that one should desire, and do, things for
the sake of it. But let us waive these objections. The attainment of lifelong
happiness, an objective, consists in the realization, in a whole life, of the
attributive end happiness. This realization is component-dependent; it depends
on a certain distribution of realizations of that same end in episodes or
phases of that life. But these realizations are certainly nonpredictively
knowable by the person whose life it is. So, if we insist that to specify the
end for man is to specify an attributive end and not an objective, then the
'paradox' disappears. The special class of cases to which one might be tempted
to apply the term 'end-fixing' may be approached in the following way. For any
given mode of contributiveness, say causal contributiveness, the same final
position, that x wants (intends, does) A as contributive to the realization of
B, may be reached through more than one process of thought. In line with the
canonical Aristotelian model, x maydesire to realize B, then enquire what would
lead to B, decide that doing A would lead to B, and so come to want, and to do,
A. Alternatively, the possibility of doing A may come to his mind, he then
enquires what doing A would lead to, sees that it would lead to B, which he
wants, and so he comes to want, and perhaps do, A. I now ask whether there are
cases in which the following end p.126 conditions are met: (1) doing A is fixed
or decided, not merely entertained as a possibility, in advance of the
recognition of it as desirable with a view to B, and (2) that B is selected as
an end, or as an end to be pursued on this occasion, at least partly because it
is something which doing A will help to realize. A variety of candidates, not
necessarily good ones, come to mind. (1) A man who is wrecked on a desert
island decides to use his stay there to pursue what is a new end for him,
namely, the study of the local flora and fauna. Here doing A (spending time on
the island) is fixed but not chosen; and the specific performances, which some
might think were more properly regarded as means to the pursuit of this study,
are not fixed in advance of the adoption of the end. (2) A man wants (without
having a reason for so wanting) to move to a certain town; he is uncomfortable
with irrational desires (or at least with this irrational desire), and so comes
to want to make this move because the town has a specially salubrious climate.
Here, it seems, the movement of thought cannot be fully conscious; we might say
that the reason why he wants to move to a specially good climate is that such a
desire would justify the desire or intention, which he already has, to move to
the town in question; but one would baulk at describing this as being his
reason for wanting to move to a good climate. The example which interests me is
the following. A tyrant has become severely displeased with one of his
ministers, and to humiliate him assigns him to the task of organizing the
disposal of the palace garbage, making clear that only a high degree of
efficiency will save him from a more savage fate. The minister at first strives
for efficiency merely in order to escape disaster; but later, seeing that
thereby he can preserve his self-respect and frustrate the tyrant's plan to
humiliate him, he begins to take pride in the efficient discharge of his
duties, and so to be concerned about it for its own sake. Even so, when the
tyrant is overthrown and the minister is relieved of his menial duties, he leaves
them without regret in spite of having been intrinsically concerned about their
discharge. One might say of the minister that he efficiently discharged his
office for its own sake in order to frustrate the tyrant; and this is clearly
inadequately represented as his being interested in the efficient discharge of
his office both for its own sake and for the end p.127 sake of frustrating the
tyrant, since he hoped to achieve the latter goal by an intrinsic concern with
his office. It seems clear that higher-order desires are involved; the minister
wants, for its own sake, to discharge his office efficiently, and he wants to
want this because he wants, by so wanting, to frustrate the tyrant. Indeed,
wanting to do A for the sake of B can plausibly be represented as having two
interpretations. The first interpretation is invoked if we say that a man who
does A for the sake of B (1) does A because he wants to do A and (2) wants to
do A for the sake of B. Here wanting A for the sake of B involves thinking that
A will lead to B. But we can conceive of wanting A for the sake of B
(analogously with doing A for the sake of B) as something which is accounted
for by wanting to want A for the sake of B; if so, we have the second
interpretation, one which implies not thinking that A will help to realize B,
but rather thinking that wanting A will help to realize B. The impact of this
discussion, on the question of the kind of end which happiness should be taken
to be, will be that, if happiness is to be regarded as an inclusive end, the
components may be not the realizations of certain ends, but rather the desires
for those realizations. Wanting A for the sake of happiness should be given the
second mode of interpretation specified above, one which involves thinking that
wanting A is one of a set of items which collectively exhibit the open feature
associated with happiness. III My enquiry has, I hope, so far given some
grounds for the favourable consideration of three theses: (1) happiness is an
end for the sake of which certain I-desirables are desirable, but is to
beregarded as an inclusive rather than a dominant end; (2) for happiness to be
a rational inclusive end, the set of its components must exemplify some
particular open feature, yet to be determined; and (3) the components of
happiness may well be not universals or states of affairs the realization of
which is desired for its own sake, end p.128 but rather the desires for such
universals or states of affairs, in which case a desire for happiness will be a
higher-order desire, a desire to have, and satisfy, a set of desires which
exemplifies the relevant open feature. At this point, we might be faced with a
radical assault, which would run as follows. "Your whole line of enquiry
consists in assuming that, when some item is desired, or desirable, for the
sake of happiness, it is desired, or desirable, as a means to happiness, and in
then raising, as the crucial question, what kind of an end happiness is, or
what kind of means-end relation is involved. But the initial assumption is a
mistake. To say of an item that it is desired for the sake of happiness should
not be understood as implying that that item is desired as any kind of a means
to anything. It should be understood rather as claiming that the item is
desired (for its own sake) in a certain sort of way: 'for the sake of
happiness' should be treated as a unitary adverbial, better heard, perhaps, as
'happinesswise'. To desire something happiness-wise is to take the desire for
it seriously in a certain sort of way, in particular to take the desire
seriously as a guide for living, to have incorporated it in one's overall plan
or system for the conduct of life. If one looks at the matter this way, one can
see at once that it is conceivable that these should be I-desirables which are
not H-desirables; for the question whether something which is desirable is
intrinsically desirable, or whether its desirability derives from the
desirability of something else, is plainly a different question from the
question whether or not the desire for it is to be taken seriously in the
planning and direction of one's life, that is, whether the item is H-desirable.
One can, moreover, do justice to two further considerations which you have, so
far, been ignoring: first, that what goes to make up happiness is relative to
the individual whose happiness it is, a truth which is easily seen when it is
recognized that what x desires (or should desire) happiness-wise may be quite
different from what y so desires; and, second, that intuition is sympathetic to
the admittedly vague idea that the decision that certain items are constitutive
of one's happiness is not so much a matter of judgement or belief as a matter
of will. One's happiness consists in what one makes it consist in, an idea
which will be easily accommodated if 'for the sake of happiness' is understood
in the way which I propose." end p.129 There is much in this (spirited yet
thoughtful) oration towards which I am sympathetic and which I am prepared to
regard as important; in particular, the idea of linking H-desirability with
desires or concerns which enter into a system for the direction of one's life,
and the suggestion that the acceptance of a system of ends as constituting
happiness, or one's own happiness, is less a matter of belief or judgement than
of will. But, despite these attractive features, and despite its air of
simplifying iconoclasm, the position which is propounded can hardly be regarded
as tenable. When looked at more closely, it can be seen to be just another form
of subjectivism: what are ostensibly beliefs that particular items are
conducive to happiness are represented as being in fact psychological states or
attitudes, other than beliefs, with regard to these items; and it is vulnerable
to variants of stock objections to subjectivist manœuvres. That in common
speech and thought we have application for, and so need a philosophical account
of, not only the idea of desiring things for the sake of happiness but, also,
that of being happy (or well-off), is passed over; and should it turn out that
the position under consideration has no account to offer of the latter idea,
that would be not only paradoxical but also, quite likely, theoretically
disastrous. For it would seem to be the case that the construction or adoption
of a system of ends for the direction of life is something which can be done
well or badly, or better or less well; that being so, there will be a demand
for the specification of the criteria governing this area of evaluation; and it
will be difficult to avoid the idea that the conditions characteristic of a
good system of ends will be determined by the fact that the adoption of a
system conforming to those conditions will lead, or is likely to lead, or other
things being equal will lead, to the realization of happiness; to something,
that is, which the approach under consideration might well not be able to
accommodate. So it begins to look as if we may be back where we were before the
start of this latest discussion. But perhaps not quite; for, perhaps, something
can be done with the notion of a set or system of endswhich is suitable for the
direction of life. The leading idea would be of a system which is maximally
stable, one whose employment for the direction of life would be maximally
conducive end p.130 to its continued employment for that purpose, which would
be maximally self-perpetuating. To put the matter another way, a system of ends
would be stable to the extent to which, though not constitutionally immune from
modification, it could accommodate changes of circumstances or vicissitudes
which would impose modification upon other less stable systems. We might need
to supplement the idea of stability by the idea of flexibility; a system will
be flexible in so far as, should modifications be demanded, they are achievable
by easy adjustment and evolution; flounderings, crises, and revolutions will be
excluded or at a minimum. A succession of systems of ends within a person's
consciousness could then be regarded as stages in the development of a single
life-scheme, rather than as the replacement of one life-scheme by another. We
might find it desirable also to incorporate into the working-out of these ideas
a distinction, already foreshadowed, between happiness-in-general and
happiness-for-an-individual. We might hope that it would be possible to present
happiness-in-general as a system of possible ends which would be specified in
highly general terms (since the specification must be arrived at in abstraction
from the idiosyncrasies of particular persons and their circumstances), a
system which would be determined either by its stability relative to stock
vicissitudes in the human condition, or (as I suspect) in some other way; and
we might further hope that happiness for an individual might lie in the
possession, and operation for the guidance of life, of a system of ends which
(a) would be a specific and personalized derivative, determined by that
individual's character, abilities, and situations in the world, of the system
constitutive of happiness in general; and (b) the adoption of which would be
stable for that individual in his circumstances. The idea that happiness might
be fully, or at least partially, characterized in something like this kind of
way would receive some support if we could show reason to suppose that features
which could plausibly be regarded, or which indeed actually have been regarded,
as characteristic of happiness, or at least of a satisfactory system for the
guidance of life, are also features which are conducive to stability. Refs.: H.
P. Grice, “Means-end rationality.”
fiore: da Floris:
Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni
in Fiore (vide, Grice, “St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest
of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his
major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in
Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris illustrates the deep meaning of history as he
perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos
and threes. The two testaments represent history as divided in two phases
ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also
through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that
of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260;
the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders
like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this
final era of spirituality and interpreted Joachim’s prophecies as suggesting
the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his
views were condemned by the Lateran Council.
floridi: essential Italian philosopher. He
has explored aspects of Grice’s use of the expression ‘inform,’ ‘mis-inform,’
in terms of ‘factivity.’ Refs.: Luigi Speranza, "Informazione ed
implicatura: Grice e Floridi," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
fludd: r. English
physician and writer. Influenced by Paracelsus, hermetism, and the cabala,
Fludd defended a Neoplatonic worldview on the eve of its supersession by the
new mechanistic philosophy. He produced improvements in the manufacture of
steel and invented a thermometer, though he also used magnets to cure disease
and devised a salve to be applied to a weapon to cure the wound it had
inflicted. He held that science got its ideas from Scripture allegorically
interpreted, when they were of any value. His works combine theology with an
occult, Neoplatonic reading of the Bible, and contain numerous fine diagrams
illustrating the mutual sympathy of human beings, the natural world, and the
supernatural world, each reflecting the others in parallel harmonic structures.
In controversy with Kepler, Fludd claimed to uncover essential natural
processes rooted in natural sympathies and the operation of God’s light, rather
than merely describing the external movements of the heavens. Creation is the
extension of divine light into matter. Evil arises from a darkness in God, his
failure to will. Matter is uncreated, but this poses no problem for orthodoxy,
since matter is nothing, a mere possibility without the least actuality, not
something Filmer, Robert Fludd, Robert 311
311 coeternal with the Creator.
fondazione Giovanni
Gentile per gli studi filosofici. The foundation was founded [sic] after
Gentile was murdered. Gentile dedicated his life to philosophy. His interests
were broad: from Roman philosophy to idealism, through Leopardi’s poetics.
forcing: a method
introduced by Paul J. Cohen see his Set
Theory and the Continuum Hypothesis 6 to
prove independence results in Zermelo-Fraenkel set theory ZF. Cohen proved the
independence of the axiom of choice AC from ZF, and of the continuum hypothesis
CH from ZF ! AC. The consistency of AC with ZF and of CH with ZF ! AC had
previously been proved by Gödel by the method of constructible sets. A model of
ZF consists of layers, with the elements of a set at one layer always belonging
to lower layers. Starting with a model M, Cohen’s method produces an “outer
model” N with no more levels but with more sets at each level whereas Gödel’s
method produces an ‘inner model’ L: much of what will become true in N can be
“forced” from within M. The method is applicable only to hypotheses in the more
“abstract” branches of mathematics infinitary combinatorics, general topology,
measure theory, universal algebra, model theory, etc.; but there it is
ubiquitous. Applications include the proof by Robert M. Solovay of the
consistency of the measurability of all sets of all projective sets with ZF
with ZF ! AC; also the proof by Solovay and Donald A. Martin of the consistency
of Martin’s axiom MA plus the negation of the continuum hypothesis -CH with ZF
! AC. CH implies MA; and of known consequences of CH about half are implied by
MA, about half refutable by MA ! -CH. Numerous simplifications, extensions, and
variants e.g. Boolean-valued models of Cohen’s method have been introduced.
fordyce: d., philosopher
and educational theorist whose writings were influential in the eighteenth
century. His lectures formed the basis of his Elements of Moral Philosophy,
written originally for The Preceptor 1748, later tr. into G. and , and abridged
for the articles on moral philosophy in the first Encylopaedia Britannica 1771.
Fordyce combines the preacher’s appeal to the heart in the advocacy of virtue
with a moral “scientist’s” appraisal of human psychology. He claims to derive
our duties experimentally from a study of the prerequisites of human
happiness..
fondatum
-- Grice’s foundationalism: the view that knowledge and epistemic
knowledge-relevant justification have a two-tier structure: some instances of
knowledge and justification are non-inferential, or foundational; and all other
instances thereof are inferential, or non-foundational, in that they derive
ultimately from foundational knowledge or justification. This structural view
originates in Aristotle’s Posterior Analytics at least regarding knowledge,
receives an extreme formulation in Descartes’s Meditations, and flourishes,
with varying details, in the works of such twentieth-century philosophers as
Russell, C. I. Lewis, and Chisholm. Versions of foundationalism differ on two
main projects: a the precise explanation of the nature of non-inferential, or
foundational, knowledge and justification, and b the specific explanation of
how foundational knowledge and justification can be transmitted to
non-foundational beliefs. Foundationalism allows for differences on these
projects, since it is essentially a view about the structure of knowledge and
epistemic justification. The question whether knowledge has foundations is
essentially the question whether the sort of justification pertinent to
knowledge has a twotier structure. Some philosophers have construed the former
question as asking whether knowledge depends on beliefs that are certain in
some sense e.g., indubitable or infallible. This construal bears, however, on
only one species of foundationalism: radical foundationalism. Such
foundationalism, represented primarily by Descartes, requires that foundational
beliefs be certain and able to guarantee the certainty of the non-foundational
beliefs they support. Radical foundationalism is currently unpopular for two
main reasons. First, very few, if any, of our perceptual beliefs are certain i.e.,
indubitable; and, second, those of our beliefs that might be candidates for
certainty e.g., the belief that I am thinking lack sufficient substance to
guarantee the certainty of our rich, highly inferential knowledge of the
external world e.g., our knowledge of physics, chemistry, and biology.
Contemporary foundationalists typically endorse modest foundationalism, the
view that non-inferentially justified, foundational beliefs need not possess or
provide certainty and need not deductively support justified non-foundational
beliefs. Foundational beliefs or statements are often called basic beliefs or
statements, but the precise understanding of ‘basic’ here is controversial
among foundationalists. Foundationalists agree, however, in their general understanding
of non-inferentially justified, foundational beliefs as beliefs whose
justification does not derive from other beliefs, although they leave open
whether the causal basis of foundational beliefs includes other beliefs.
Epistemic justification comes in degrees, but for simplicity we can restrict
discussion to justification sufficient for satisfaction of the justification
condition for knowledge; we can also restrict discussion to what it takes for a
belief to have justification, omitting issues of what it takes to show that a
belief has it. Three prominent accounts of non-inferential justification are
available to modest foundationalists: a self-justification, b justification by
non-belief, non-propositional experiences, and c justification by a non-belief
reliable origin of a belief. Proponents of self-justification including, at one
time, Ducasse and Chisholm contend that foundational beliefs can justify
themselves, with no evidential support elsewhere. Proponents of foundational
justification by non-belief experiences shun literal self-justification; they
hold, following C. I. Lewis, that foundational perceptual beliefs can be
justified by non-belief sensory or perceptual experiences e.g., seeming to see
a dictionary that make true, are best explained by, or otherwise support, those
beliefs e.g., the belief that there is, or at least appears to be, a dictionary
here. Proponents of foundational justification by reliable origins find the
basis of non-inferential justification in belief-forming processes e.g.,
perception, memory, introspection that are truth-conducive, i.e., that tend to
produce true rather than false beliefs. This view thus appeals to the
reliability of a belief’s nonbelief origin, whereas the previous view appeals
to the particular sensory or perceptual experiences that correspond to e.g.,
make true or are best explained by a foundational belief. Despite disagreements
over the basis of foundational justification, modest foundationalists typically
agree that foundational justification is characterized by defeasibility, i.e.,
can be defeated, undermined, or overridden by a certain sort of expansion of
one’s evidence or justified beliefs. For instance, your belief that there is a
blue dictionary before you could lose its justification e.g., the justification
from your current perceptual experiences if you acquired new evidence that
there is a blue light shining on the dictionary before you. Foundational
justification, therefore, can vary over time if accompanied by relevant changes
in one’s perceptual evidence. It does not follow, however, that foundational
justification positively depends, i.e., is based, on grounds for denying that
there are defeaters. The relevant dependence can be regarded as negative in
that there need only be an absence of genuine defeaters. Critics of
foundationalism sometimes neglect that latter distinction regarding epistemic
dependence. The second big task for foundationalists is to explain how
justification transmits from foundational beliefs to inferentially justified,
non-foundational beliefs. Radical foundationalists insist, for such
transmission, on entailment relations that guarantee the truth or the certainty
of nonfoundational beliefs. Modest foundationalists are more flexible, allowing
for merely probabilistic inferential connections that transmit justification.
For instance, a modest foundationalist can appeal to explanatory inferential
connections, as when a foundational belief e.g., I seem to feel wet is best
explained for a person by a particular physical-object belief e.g., the belief
that the air conditioner overhead is leaking on me. Various other forms of
probabilistic inference are available to modest foundationalists; and nothing
in principle requires that they restrict foundational beliefs to what one “seems”
to sense or to perceive. The traditional motivation for foundationalism comes
largely from an eliminative regress argument, outlined originally regarding
knowledge in Aristotle’s Posterior Analytics. The argument, in shortest form,
is that foundationalism is a correct account of the structure of justification
since the alternative accounts all fail. Inferential justification is
justification wherein one belief, B1, is justified on the basis of another
belief, B2. How, if at all, is B2, the supporting belief, itself justified?
Obviously, Aristotle suggests, we cannot have a circle here, where B2 is
justified by B1; nor can we allow the chain of support to extend endlessly,
with no ultimate basis for justification. We cannot, moreover, allow B2 to remain
unjustified, foundationalism foundationalism 322 322 lest it lack what it takes to support
B1. If this is right, the structure of justification does not involve circles,
endless regresses, or unjustified starter-beliefs. That is, this structure is
evidently foundationalist. This is, in skeletal form, the regress argument for
foundationalism. Given appropriate flesh, and due attention to skepticism about
justification, this argument poses a serious challenge to non-foundationalist
accounts of the structure of epistemic justification, such as epistemic
coherentism. More significantly, foundationalism will then show forth as one of
the most compelling accounts of the structure of knowledge and justification.
This explains, at least in part, why foundationalism has been very prominent
historically and is still widely held in contemporary epistemology. fundamentum divisionis: a term in
Scholastic logic and ontology for the ‘grounds for a distinction’. Some
distinctions categorize separately existing things, such as men and beasts.
This is a real distinction, and the fundamentum divisionis exists in reality.
Some distinctions categorize things that cannot exist separately but can be
distinguished mentally, such as the difference between being a human being and having
a sense of humor, or the difference between a soul and one of its powers, say,
the power of thinking. A mental distinction is also called a formal
distinction. Duns Scotus is well known for the idea of formalis distinctio cum
fundamento ex parte rei a formal distinction with a foundation in the thing,
primarily in order to handle logical problems with functionalism, analytical
fundamentum divisionis 335 335 the
Christian concept of God. God is supposed to be absolutely simple; i.e., there
can be no multiplicity of composition in him. Yet, according to traditional
theology, many properties can be truly attributed to him. He is wise, good, and
powerful. In order to preserve the simplicity of God, Duns Scotus claimed that
the difference between wisdom, goodness, and power was only formal but still
had some foundation in God’s own being. Refs.: H. P. Grice, “The fundamentum
divisionis of all my divisions!”
ferrero:
Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.”
functum
-- Functionalism: -- Grice: “With
a capital ‘F,’ of course – one of my
twelve labours!” -- Grice’s functionalism: a response to the dualist challenge
-- dualism, the view that reality consists of two disparate parts. The crux of
dualism is an apparently unbridgeable gap between two incommensurable orders of
being that must be reconciled if our assumption that there is a comprehensible
universe is to be justified. Dualism is exhibited in the pre-Socratic division
between appearance and reality; Plato’s realm of being containing eternal Ideas
and realm of becoming containing changing things; the medieval division between
finite man and infinite God; Descartes’s substance dualism of thinking mind and
extended matter; Hume’s separation of fact from value; Kant’s division between
empirical phenomena and transcendental noumena; the epistemological
double-aspect theory of James and Russell, who postulate a neutral substance
that can be understood in separate ways either as mind or brain; and
Heidegger’s separation of being and time that inspired Sartre’s contrast of
being and nothingness. The doctrine of two truths, the sacred and the profane
or the religious and the secular, is a dualistic response to the conflict
between religion and science. Descartes’s dualism is taken to be the source of
the mindbody problem. If the mind is active unextended thinking and the body is
passive unthinking extension, how can these essentially unlike and
independently existing substances interact causally, and how can mental ideas
represent material things? How, in other words, can the mind know and influence
the body, and how can the body affect the mind? Descartes said mind and body
interact and that ideas represent material things without resembling them, but
dream argument dualism 244 244 could not
explain how, and concluded merely that God makes these things happen. Proposed
dualist solutions to the mindbody problem are Malebranche’s occasionalism mind
and body do not interact but God makes them appear to; Leibniz’s preestablished
harmony among noninteracting monads; and Spinoza’s property dualism of mutually
exclusive but parallel attributes expressing the one substance God. Recent
mindbody dualists are Popper and John C. Eccles. Monistic alternatives to
dualism include Hobbes’s view that the mental is merely the epiphenomena of the
material; Berkeley’s view that material things are collections of mental ideas;
and the contemporary materialist view of Smart, Armstrong, and Paul and
Patricia Churchland that the mind is the brain. A classic treatment of these
matters is Arthur O. Lovejoy’s The Revolt Against Dualism. Dualism is related
to binary thinking, i.e., to systems of thought that are two-valued, such as
logic in which theorems are valid or invalid, epistemology in which knowledge
claims are true or false, and ethics in which individuals are good or bad and
their actions are right or wrong. In The Quest for Certainty, Dewey finds that
all modern problems of philosophy derive from dualistic oppositions,
particularly between spirit and nature. Like Hegel, he proposes a synthesis of
oppositions seen as theses versus antitheses. Recent attacks on the view that
dualistic divisions can be explicitly described or maintained have been made by
Vitters, who offers instead a classification scheme based on overlapping family
resemblances; by Quine, who casts doubt on the division between analytic or
formal truths based on meanings and synthetic or empirical truths based on
facts; and by Derrida, who challenges our ability to distinguish between the
subjective and the objective. But despite the extremely difficult problems
posed by ontological dualism, and despite the cogency of many arguments against
dualistic thinking, Western philosophy continues to be predominantly dualistic,
as witnessed by the indispensable use of two-valued matrixes in logic and
ethics and by the intractable problem of rendering mental intentions in terms
of material mechanisms or vice versa. functional
dependence, a relationship between variable magnitudes especially physical
magnitudes and certain properties or processes. In modern physical science
there are two types of laws stating such relationships. 1 There are numerical
laws stating concomitant variation of certain quantities, where a variation in
any one is accompanied by variations in the others. An example is the law for
ideal gases: pV % aT, where p is the pressure of the gas, V its volume, T its
absolute temperature, and a a constant derived from the mass and the nature of
the gas. Such laws say nothing about the temporal order of the variations, and
tests of the laws can involve variation of any of the relevant magnitudes.
Concomitant variation, not causal sequence, is what is tested for. 2 Other
numerical laws state variations of physical magnitudes correlated with times. Galileo’s
law of free fall asserts that the change in the unit time of a freely falling
body in a vacuum in the direction of the earth is equal to gt, where g is a
constant and t is the time of the fall, and where the rate of time changes of g
is correlative with the temporal interval t. The law is true of any body in a
state of free fall and for any duration. Such laws are also called “dynamical”
because they refer to temporal processes usually explained by the postulation
of forces acting on the objects in question. functionalism, the view that
mental states are defined by their causes and effects. As a metaphysical thesis
about the nature of mental states, functionalism holds that what makes an inner
state mental is not an intrinsic property of the state, but rather its
relations to sensory stimulation input, to other inner states, and to behavior
output. For example, what makes an inner state a pain is its being a type of
state typically caused by pinpricks, sunburns, and so on, a type that causes
other mental states e.g., worry, and a type that causes behavior e.g., saying
“ouch”. Propositional attitudes also are identified with functional states: an
inner state is a desire for water partly in virtue of its causing a person to
pick up a glass and drink its contents when the person believes that the glass
contains water. The basic distinction needed for functionalism is that between
role in terms of which a type of mental state is defined and occupant the
particular thing that occupies a role. Functional states exhibit multiple
realizability: in different kinds of beings humans, computers, Martians, a
particular kind of causal role may have different occupants e.g., the causal role definitive of a belief
that p, say, may be occupied by a neural state in a human, but occupied perhaps
by a hydraulic state in a Martian. Functionalism, like behaviorism, thus
entails that mental states may be shared by physically dissimilar systems.
Although functionalism does not automatically rule out the existence of
immaterial souls, its motivation has been to provide a materialistic account of
mentality. The advent of the computer gave impetus to functionalism. First, the
distinction between software and hardware suggested the distinction between
role function and occupant structure. Second, since computers are automated,
they demonstrate how inner states can be causes of output in the absence of a
homunculus i.e., a “little person” intelligently directing output. Third, the
Turing machine provided a model for one of the earliest versions of
functionalism. A Turing machine is defined by a table that specifies
transitions from current state and input to next state or to output. According
to Turing machine functionalism, any being with pscychological states has a
unique best description, and each psychological state is identical to a machine
table state relative to that description. To be in mental state type M is to
instantiate or realize Turing machine T in state S. Turing machine
functionalism, developed largely by Putnam, has been criticized by Putnam, Ned
Block, and Fodor. To cite just one serious problem: two machine table
states and hence, according to Turing
machine functionalism, two psychological states
are distinct if they are followed by different states or by different
outputs. So, if a pinprick causes A to say “Ouch” and causes B to say “Oh,”
then, if Turing machine functionalism were true, A’s and B’s states of pain
would be different psychological states. But we do not individuate
psychological states so finely, nor should we: such fine-grained individuation
would be unsuitable for psychology. Moreover, if we assume that there is a path
from any state to any other state, Turing machine functionalism has the
unacceptable consequence that no two systems have any of their states in common
unless they have all their states in common. Perhaps the most prominent version
of functionalism is the causal theory of mind. Whereas Turing machine
functionalism is based on a technical computational or psychological theory,
the causal theory of mind relies on commonsense understanding: according to the
causal theory of mind, the concept of a mental state is the concept of a state
apt for bringing about certain kinds of behavior Armstrong. Mental state terms
are defined by the commonsense platitudes in which they appear David Lewis.
Philosophers can determine a priori what mental states are by conceptual
analysis or by definition. Then scientists determine what physical states
occupy the causal roles definitive of mental states. If it turned out that
there was no physical state that occupied the causal role of, say, pain i.e.,
was caused by pinpricks, etc., and caused worry, etc., it would follow, on the
causal theory, that pain does not exist. To be in mental state type M is to be
in a physical state N that occupies causal role R. A third version is
teleological or “homuncular” functionalism, associated with William G. Lycan
and early Dennett. According to homuncular functionalism, a human being is
analogous to a large corporation, made up of cooperating departments, each with
its own job to perform; these departments interpret stimuli and produce
behavioral responses. Each department at the highest subpersonal level is in
turn constituted by further units at a sub-subpersonal level and so on down
until the neurological level is reached. The roleoccupant distinction is thus
relativized to level: an occupant at one level is a role at the next level
down. On this view, to be in a mental state type M is to have a sub- . . .
subpersonal f-er that is in its characteristic state Sf. All versions of
functionalism face problems about the qualitative nature of mental states. The
difficulty is that functionalism individuates states in purely relational
terms, but the acrid odor of, say, a paper mill seems to have a non-relational,
qualitative character that functionalism misses altogether. If two people, on
seeing a ripe banana, are in states with the same causes and effects, then, by
functionalist definition, they are in the same mental state say, having a sensation of yellow. But it
seems possible that one has an “inverted spectrum” relative to the other, and
hence that their states are qualitatively different. Imagine that, on seeing
the banana, one of the two is in a state qualitatively indistinguishable from
the state that the other would be in on seeing a ripe tomato. Despite
widespread intuitions that such inverted spectra are possible, according to
functionalism, they are not. A related problem is that of “absent qualia.” The
population of China, or even the economy of Bolivia, could be functionally
equivalent to a human brain i.e., there
could be a function that mapped the relations between inputs, outputs, and
internal states of the population of China onto those of a human brain; yet the
population of China, no matter how its members interact with one another and
with other nations, intuitively does not have mental states. The status of
these arguments remains controversial.
futurum
contingens:
Grice knew that his obsession with action was an obsession with the uncertainty
of a contingent future, alla Aristotle. Futurum -- future contingents, singular
events or states of affairs that may come to pass, and also may not come to
pass, in the future. There are three traditional problems involving future
contingents: the question of universal validity of the principle of bivalence,
the question of free will and determinism, and the question of foreknowledge.
The debate about future contingents in modern philosophical logic was revived
by Lukasiewicz’s work on three-valued logic. He thought that in order to avoid
fatalistic consequences, we must admit that the principle of bivalence for any
proposition, p, either p is true or not-p is true does not hold good for
propositions about future contingents. Many authors have considered this view
confused. According to von Wright, e.g., when propositions are said to be true
or false and ‘is’ in ‘it is true that’ is tenseless or atemporal, the illusion
of determinism does not arise. It has its roots in a tacit oscillation between
a temporal and an atemporal reading of the phrase ‘it is true’. In a
temporalized reading, or in its tensed variants such as ‘it was/will be/is
already true’, one can substitute, for ‘true’, other words like ‘certain’,
‘fixed’, or ‘necessary’. Applying this diachronic necessity to atemporal
predications of truth yields the idea of logical determinism. In contemporary
discussions of tense and modality, future contingents are often treated with
the help of a model of time as a line that breaks up into branches as it moves
from left to right i.e., from past to future. Although the conception of truth
at a moment has been found philosophically problematic, the model of historical
modalities and branching time as such is much used in works on freedom and
determination. Aristotle’s On Interpretation IX contains a classic discussion
of future contingents with the famous example of tomorrow’s sea battle. Because
of various ambiguities in the text and in Aristotle’s modal conceptions in
general, the meaning of the passage is in dispute. In the Metaphysics VI.3 and
in the Niocmachean Ethics III.5, Aristotle tries to show that not all things
are predetermined. The Stoics represented a causally deterministic worldview;
an ancient example of logical determinism is Diodorus Cronus’s famous master
argument against contingency. Boethius thought that Aristotle’s view can be
formulated as follows: the principle of bivalence is universally valid, but
propositions about future contingents, unlike those about past and present
things, do not obey the stronger principle according to which each proposition
is either determinately true or determinately false. A proposition is
indeterminately true as long as the conditions that make it true are not yet
fixed. This was the standard Latin doctrine from Abelard to Aquinas. Similar
discussions occurred in Arabic commentaries on On Interpretation. In the
fourteenth century, many thinkers held that Aristotle abandoned bivalence for
future contingent propositions. This restriction was usually refuted, but it
found some adherents like Peter Aureoli. Duns Scotus and Ockham heavily
criticized the Boethian-Thomistic view that God can know future contingents
only because the flux of time is present to divine eternity. According to them,
God contingently foreknows free acts. Explaining this proved to be a very
cumbersome task. Luis de Molina 15351600 suggested that God knows what possible
creatures would do in any possible situation. This “middle knowledge” theory
about counterfactuals of freedom has remained a living theme in philosophy of
religion; analogous questions are treated in theories of subjunctive
reasoning. Then there’s the futurum indicativum: The Grecians
called it just ‘horistike klesis.’ The Romans transliterated as modus
definitivus, inclination anima affectations demonstrans.’ But they had other
terms, indicativus, finitus, finitivus, and pronuntiativus. f. H. P. Grice and
D. F. Pears, “Predicting and deciding.” The future is essentially involved in
“E communicates that p,” i. e. E, the emissor, intends that his addressee, in a
time later than t, will come to believe this or that. Grice is especially concerned with the future
for his analysis of the communicatum. “Close the door!” By uttering “Close the
door!,” U means that A is to close the door – in the future. So Grice spends
HOURS exploring how one can have justification to have an intention about a
future event. Grice is aware of the ‘shall.’ Grice uses ‘shall’ in the first
person to mean wha the calls ‘futurum indicativum.’ (He considers the case of
the ‘shall’ in the second and third persons in his analysis of mode). What are
the conditions for the use of “shall” in the first person. “I shall close the
door” may be predictable. It is in the indicative mode. “Thou shalt close the
door,” and “He shall close the door” are in the imperative mode, or rather they
correspond to the ‘futurum intentionale.’
Since Grice is an analytic
philosopher, he specifies the analysis in the third person (“U means that…”)
one has to be careful. For ‘futurum indicativum’ we have ‘shall’ in the first
person, and ‘will’ in the second and third persons. So for the first group, U
means that he will go. In the second group, U means that his addressee or a
third party shall go. Grice adopts a subscript variant, stick with ‘will,’ but
add the mode afterwards: so will-ind. will be ‘futurum indicativum,’ and
will-int. will be futurum intentionale. The OED has it as “shall,”
and defines as a Germanic preterite-present strong verb. In Old English,
it is “sceal,” and which the OED renders as “to owe (money,” 1425 Hoccleve Min.
Poems, The leeste ferthyng þat y men shal. To owe (allegiance); 1649 And by
that feyth I shal to god and yow; followed by an infinitive, without to. Except
for a few instances of shall will, shall may (mowe), "shall conne" in
the 15th c., the infinitive after shall is always either that of a principal
verb or of have or be; The present tense shall; in general statements of what
is right or becoming, = ought, superseded by the past subjunctive should; in
OE. the subjunctive present sometimes occurs in this use; 1460 Fortescue Abs.
and Lim. Mon. The king shall often times send his judges to punish rioters and
risers. 1562 Legh Armory; Whether are Roundells of all suche coloures, as ye
haue spoken of here before? or shall they be Namesd Roundelles of those
coloures? In OE. and occas. in Middle English used to express necessity of
various kinds. For the many shades of meaning in Old English see Bosworth and
Toller), = must, "must needs", "have to", "am
compelled to", etc.; in stating a necessary condition: = `will have to,
`must (if something else is to happen). 1596 Shaks. Merch. V. i. i. 116 You
shall seeke all day ere you finde them, & when you haue them they are
not worth the search. 1605 Shaks. Lear. He that parts vs, shall bring a Brand
from Heauen. c In hypothetical clause, accompanying the statement of a
necessary condition: = `is to. 1612 Bacon Ess., Greatn. Kingd., Neither must
they be too much broken of it, if they shall be preserued in vigor; ndicating
what is appointed or settled to take place = the mod. `is to, `am to, etc. 1600
Shaks. A.Y.L. What is he that shall buy his flocke and pasture? 1625 in Ellis
Orig. Lett. Ser. "Tomorrow His Majesty will be present to begin the Parliament which is thought
shall be removed to Oxford; in commands or instructions; n the second person,
“shall” is equivalent to an imperative. Chiefly in Biblical language, of divine
commandments, rendering the jussive future of the Hebrew and Vulgate. In Old
English the imperative mode is used in the ten commandments. 1382 Wyclif Exod.
Thow shalt not tak the Names of the Lord thi God in veyn. So Coverdale, etc. b)
In expositions: you shall understand, etc. (that). c) In the formula you shall
excuse (pardon) me. (now "must"). 1595 Shaks. John. Your Grace shall
pardon me, I will not backe. 1630 R. Johnsons Kingd. and Commw. 191 You shall
excuse me, for I eat no flesh on Fridayes; n the *third* person. 1744 in Atkyns
Chanc. Cases (1782) III. 166 The words shall and may in general acts of
parliament, or in private constitutions, are to be construed imperatively, they
must remove them; in the second and third persons, expressing the determination
by the Griceian utterer to bring about some action, event, or state of things
in the future, or (occasionally) to refrain from hindering what is otherwise
certain to take place, or is intended by another person; n the second person.
1891 J. S. Winter Lumley. If you would rather not stay then, you shall go down
to South Kensington Square then; in third person. 1591 Shaks. Two Gent. Verona
shall not hold thee. 1604 Shaks. Oth. If there be any cunning Crueltie, That
can torment him much, It shall be his. 1891 J. S. Winter Lumley xiv, `Oh, yes,
sir, she shall come back, said the nurse. `Ill take care of that. `I will come
back, said Vere; in special interrogative uses, a) in the *first* person, used
in questions to which the expected answer is a command, direction, or counsel,
or a resolve on the speakers own part. a) in questions introduced by an
interrogative pronoun (in oblique case), adverb, or adverbial phrase. 1600
Fairfax Tasso. What shall we doe? shall we be gouernd still, By this false
hand? 1865 Kingsley Herew. Where shall we stow the mare? b) in categorical
questions, often expressing indignant reprobation of a suggested course of
action, the implication (or implicaturum, or entailment) being that only a
negative (or, with negative question an affirmative) answer is conceivable.
1611 Shaks. Wint. T. Shall I draw the Curtaine? 1802 Wordsw. To the Cuckoo i, O
Cuckoo! shall I call thee Bird, Or but a wandering Voice? 1891 J. S. Winter
Lumley `Are you driving, or shall I call you a cab? `Oh, no; Im driving,
thanks. c) In *ironical* affirmative in exclamatory sentence, equivalent to the
above interrogative use, cf. Ger. soll. 1741 Richardson Pamela, A pretty thing
truly! Here I, a poor helpless Girl, raised from Poverty and Distress, shall
put on Lady-airs to a Gentlewoman born. d) to stand shall I, shall I (later
shill I, shall I: v. shilly-shally), to be at shall I, shall I (not): to be
vacillating, to shilly-shally. 1674 R. Godfrey Inj. and Ab. Physic Such
Medicines. that will not stand shall I? shall I? but will fall to work on the
Disease presently. b Similarly in the *third* person, where the Subjects
represents or includes the utterer, or when the utterer is placing himself at
anothers point of view. 1610 Shaks. Temp., Hast thou (which art but aire) a
touch, a feeling Of their afflictions, and shall not my selfe, One of their
kinde be kindlier moud then thou art? In the second and third person, where the
expected answer is a decision on the part of the utterer or of some person
OTHER than the Subjects. The question often serves as an impassioned
repudiation of a suggestion (or implicaturum) that something shall be
permitted. 1450 Merlin `What shal be his Names? `I will, quod she, `that it
haue Names after my fader. 1600 Shaks. A.Y.L.; What shall he haue that kild the
Deare? 1737 Alexander Pope, translating Horaces Epistle, And say, to which
shall our applause belong, this new court jargon, or the good old song? 1812
Crabbe Tales, Shall a wife complain? In indirect question. 1865 Kingsley Herew,
Let her say what shall be done with it; as a mere auxiliary, forming, with
present infinitive, the future, and (with perfect infinitive) the future
perfect tense. In Old English, the notion of the future tense is ordinarily
expressed by the present tense. To prevent ambiguity, wile (will) is not
unfrequently used as a future auxiliary, sometimes retaining no trace of its
initial usage, connected with the faculty of volition, and cognate indeed with
volition. On the other hand, sceal (shall), even when rendering a Latin future,
can hardly be said to have been ever a mere future tense-sign in Old English.
It always expressed something of its original notion of obligation or
necessity, so Hampshire is wrong in saying I shall climb Mt. Everest is
predictable. In Middle English, the present early ceases to be commonly
employed in futural usage, and the future is expressed by shall or
will, the former being much more common. The usage as to the choice
between the two auxiliaries, shall and will, has varied from time to time.
Since the middle of the seventeenth century, with Wallis, mere predictable
futurity is expressed in the *first* person by shall, in the second and third
by will, and vice versa. In oratio obliqua, usage allows either the retention
of the auxiliary actually used by the original utterer, or the substitution of
that which is appropriate to the point of view of the uttering reporting; in
Old English, ‘sceal,; while retaining its primary usage, serves as a tense-sign
in announcing a future event as fated or divinely decreed, cf. Those spots mean
measle. Hence shall has always been the auxiliary used, in all persons, for
prophetic or oracular announcements of the future, and for solemn assertions of
the certainty of a future event. 1577 in Allen Martyrdom Campion; The queene
neither ever was, nor is, nor ever shall be the head of the Church of England.
1601 Shaks. Jul. C. Now do I Prophesie. A Curse shall light vpon the limbes of
men. b In the first person, "shall" has, from the early ME. period,
been the normal auxiliary for expressing mere futurity, without any
adventitious notion. (a) Of events conceived as independent of the volition of
the utterer. To use will in these cases is now a mark of, not
public-school-educated Oxonian, but Scottish, Irish, provincial, or
extra-British idiom. 1595 in Cath. Rec. Soc. Publ. V. 357 My frend, yow and I
shall play no more at Tables now. 1605 Shaks. Macb. When shall we three meet
againe? 1613 Shaks. Hen. VIII, Then wee shall haue em, Talke vs to silence.
1852 Mrs. Stowe Uncle Toms C.; `But what if you dont hit? `I shall hit, said
George coolly; of voluntary action or its intended result. Here I shall or we
shall is always admissible except where the notion of a present, as
distinguished from a previous, decision or consent is to be expressed, in which
case ‘will’ shall be used. Further, I shall often expresses a determination
insisted on in spite of opposition. In the 16th c. and earlier, I shall often
occurs where I will would now be used. 1559 W. Cunningham Cosmogr. Glasse, This
now shall I alway kepe surely in memorye. 1601 Shaks. Alls Well; Informe him so
tis our will he should.-I shall my liege. 1885 Ruskin On Old Road, note:
Henceforward I shall continue to spell `Ryme without our wrongly added h. c In
the *second* person, shall as a mere future auxiliary appears never to have
been usual, but in categorical questions it is normal, e.g. Shall you miss your
train? I am afraid you will. d In the *third* person, superseded by will,
except when anothers statement or expectation respecting himself is reported in
the third person, e.g. He conveys that he shall not have time to write. Even in
this case will is still not uncommon, but in some contexts leads to serious
ambiguity. It might be therefore preferable, to some, to use ‘he shall’ as the
indirect rendering of ‘I shall.’ 1489 Caxton Sonnes of Aymon ii. 64 Yf your
fader come agayn from the courte, he shall wyll yelde you to the kynge
Charlemayne. 1799 J. Robertson Agric. Perth, The effect of the statute
labour has always been, now is, and
probably shall continue to be, less productive than it might. Down to the
eighteenth century, shall, the auxiliary appropriate to the first person, is
sometimes used when the utterer refers to himself in the third person. Cf. the
formula: `And your petitioner shall ever pray. 1798 Kemble Let. in Pearsons
Catal. Mr. Kemble presents his respectful compliments to the Proprietors of the
`Monthly Mirror, and shall have great pleasure at being at all able to aid
them; in negative, or virtually negative, and interrogative use, shall often =
will be able to. 1600 Shaks. Sonn. lxv: How with this rage shall beautie hold a
plea. g) Used after a hypothetical clause or an imperative sentence in a
statementsof a result to be expected from some action or occurrence. Now (exc.
in the *first* person) usually replaced by will. But shall survives in literary
use. 1851 Dasent Jest and Earnest, Visit Rome and you shall find him [the Pope]
mere carrion. h) In clause expressing the object of a promise, or of an
expectation accompanied by hope or fear, now only where shall is the ordinary
future auxiliary, but down to the nineteenth century shall is often preferred
to will in the second and third persons. 1628 in Ellis Orig. Lett. Ser., He is
confident that the blood of Christ shall wash away his sins. 1654 E. Nicholas
in N. Papers, I hope neither your Cosen Wat. Montagu nor Walsingham shall be permitted to
discourse with the D. of Gloucester; in impersonal phrases,
"it shall be well, needful", etc. (to do so and so). (now
"will"). j) shall be, added to a future date in clauses measuring
time. 1617 Sir T. Wentworth in Fortescue Papers. To which purpose my late Lord
Chancelour gave his direction about the 3. of Decembre shallbe-two-yeares; in
the idiomatic use of the future to denote what ordinarily or occasionally
occurs under specified conditions, shall was formerly the usual auxiliary. In
the *second* and *third* persons, this is now somewhat formal or rhetorical.
Ordinary language substitutes will or may. Often in antithetic statements
coupled by an adversative conjunction or by and with adversative force. a in
the first person. 1712 Steele Spect. In spite of all my Care, I shall every now
and then have a saucy Rascal ride by reconnoitring under my Windows. b) in the *second* person.
1852 Spencer Ess. After knowing him for years, you shall suddenly discover that
your friends nose is slightly awry. c) in the *third* person. 1793 W. Roberts Looker-On,
One man shall approve the same thing that another man shall condemn. 1870 M.
Arnold St. Paul and Prot. It may well happen that a man who lives and thrives
under a monarchy shall yet theoretically disapprove the principle of monarchy.
Usage No. 10: in hypothetical, relative, and temporal clauses denoting a future
contingency, the future auxiliary is shall for all persons alike. Where no
ambiguity results, however, the present tense is commonly used for the future,
and the perfect for the future-perfect. The use of shall, when not required for
clearness, is, Grice grants, apt to sound pedantic by non Oxonians. Formerly
sometimes used to express the sense of a present subjunctive. a) in
hypothetical clauses. (shall I = if I shall) 1680 New Hampsh. Prov. Papers, If
any Christian shall speak contempteously of the Holy Scriptures, such
person shall be punished. b) in relative
clauses, where the antecedent denotes an as yet undetermined person or thing:
1811 Southey Let., The minister who shall first become a believer in that
book will obtain a higher reputation
than ever statesman did before him. 1874 R. Congreve Ess. We extend our
sympathies to the unborn generations which shall follow us on this earth; in
temporal clauses: 1830 Laws of Cricket in Nyren Yng. Cricketers Tutor, If in
striking, or at any other time, while the ball shall be in play, both his feet
be over the popping-crease; in clauses expressing the purposed result of some
action, or the object of a desire, intention, command, or request, often
admitting of being replaced by may. In Old English, and occasionally as late as
the seventeenth century, the present subjunctive was used exactly as in Latin.
a) in final clause usually introduced by that. In this use modern idiom prefers
should (22 a): see quot. 1611 below, and the appended remarks. 1879 M. Pattison
Milton At the age of nine and twenty, Milton has already determined that this
lifework shall be an epic poem; in relative clause: 1599 Shaks. Hen. V, ii. iv.
40: As Gardeners doe with Ordure hide those Roots that shall first spring. The
choice between should and would follows the same as shall and will as future
auxiliaries, except that should must sometimes be avoided on account of
liability to be misinterpreted as = `ought to. In present usage, should occurs
mainly in the first person. In the other persons it follows the use of shall.
III Elliptical and quasi-elliptical uses. Usage No. 24: with ellipsis of verb
of motion: = `shall go; he use is common in OHG. and OS., and in later HG., LG.,
and Du. In the Scandinavian languages it is also common, and instances occur in
MSw.] 1596 Shaks. 1 Hen. IV, That with our small coniunction we should on. 1598
Shaks. Merry W. If the bottome were as deepe as hell, I shold down; n
questions, what shall = `what shall (it) profit, `what good shall (I) do. Usage
No. 26: with the sense `is due, `is proper, `is to be given or applied. Cf. G.
soll. Usage No. 27: a) with ellipsis of active infinitive to be supplied from
the context. 1892 Mrs. H. Ward David Grieve, `No, indeed, I havnt got all I
want, said Lucy `I never shall, neither; if I shall. Now dial. 1390 Gower Conf.
II. 96: Doun knelende on mi kne I take leve, and if I schal, I kisse hire. 1390
Gower Conf., II. 96: I wolde kisse hire eftsones if I scholde. 1871 Earle
Philol. Engl. Tongue 203: The familiar proposal to carry a basket, I will if I
shall, that is, I am willing if you will command me; I will if so required.
1886 W. Somerset Word-bk. Ill warn our Tomll do it vor ee, nif he shall-i.e. if
you wish. c) with generalized ellipsis in proverbial phrase: needs must that
needs shall = `he must whom fate compels. Usage No. 28: a) with ellipsis of do
(not occurring in the context). 1477 Norton Ord. Alch., O King that shall These
Workes! b) the place of the inf. is sometimes supplied by that or so placed at
the beginning of the sentence. The construction may be regarded as an ellipsis
of "do". It is distinct from the use (belonging to 27) in which so
has the sense of `thus, `likewise, or `also. In the latter there is usually
inversion, as so shall I. 1888 J. S. Winter Bootles Childr. iv: I should like
to see her now shes grown up. `So you shall. Usage No. 29: with ellipsis of be
or passive inf., or with so in place of this (where the preceding context has
is, was, etc.). 1615 J. Chamberlain in Crt. And Times Jas.; He is not yet
executed, nor I hear not when he shall. Surely he may not will that he be
executed.Then
there’s the futurum intentionale:
Grice: “I’m obsessed with the future – unless most Englishmen – hence my need
to coin the ‘implicaturum,’ a future form!” -- Surely intention has nothing to
do with predictable truth. If Smith promises Jones a job – he intends that
Jones get a job. Then the world explodes, so Jones does not get the job. Kant,
Austin, or Grice, don’t care. A philosopher is not a scientist. He is into
‘conceptual matters,’ about what is to have a good intention, not whether the
intention, in a future scenario, is realised or not. If they are interested in
‘tense,’ as Prior was as Grice was with his time-relative identity, it’s still
because in the PRESENT, the emissor emits a future-tense utterance. The future
figures more prominently than anything because in “Emissor communicates that p”
there is the FUTURE ESSENTIAL. The emissor intends that his addressee in a time
later than the present will do this or that. While Grice is always looking to
cross the credibility/desirability divide, there is a feature that is difficult
to cross in the bridge of asses. This is the shall vs. will. Grice is aware
that ‘will,’ in the FIRST person, is not a matter of prediction. When Grice
says “I will go to Harborne,” that’s not a prediction. He firmly contrasts it
with “I shall go to Harborne” which is a perfect prediction in the indicative
mode. “I will go to Harborne” is in the ‘futurum intentionale.’ Grice is also
aware that in the SECOND and THIRD persons, ‘will’ reports something that the
utterer must judge unpredictable. An utterance like “Thou wilt go to London”
and “He will go to London” is in the ‘futurum indicativus.’ This is one nuance
that Prichard forgets in the analysis of ‘willing’ that Grice eventually
adopts. Prichard uses ‘will’ derivatively, and followed by a ‘that’-clause.
Prichard quotes from the New-World, where the dialect is slightly different.
For William James had said, “I will that the distant table slides over the
floor toward me. And it does not.” Since James is using ‘will’ in the first
person, the utterance is indeed NOT in the indicative, but the ‘intentional’
mode. In the case of the ‘communicatum,’ things get complicated, since U
intends that A will believe that… In which case, U’s intention (and thus will)
is directed towards the ‘will’ of his addressee, too, even if it is merely to
adopt a ‘belief.’ So what would be the primary uses of the ‘will.’ In the first
person, “I will go to Harborne” is in the futurum intentionale. It is used to
report the utterer’s will. In the second and third person – “Thou will go to
Harborne” and “He will go to Harborne,” the utterer uses the futurum indicativum
and utters a statement which is predictable.
Since analytic philosophers specify the analysis in the third person (“U
means that…”) one has to be careful. For ‘futurum intentionale’ we have ‘will’
in the first person, and ‘shall’ in the second and third persons. So for the
first group, U means that he SHALL go. In the second group, U means that his
addressee or a third party WILL go. Grice adopts a subscript variant, stick
with ‘will,’ but add the mode afterwards: so will-ind. will be ‘futurum
indicativum,’ and will-int. will be futurum intentionale. Grice distinguishes
the ‘futurum imperativum.’ This may be seen as a sub-class of the ‘futurum
intentionale,’ as applied to the second and third persons, to avoid the idea
that one can issue a ‘self-command.’ Grice has a futurum imperativum, in Latin
ending in -tō(te), used to request someone to do something, or if something
else happens first. “Sī quid acciderit, scrībitō. If anything happens, write to
me' (Cicero). ‘Ubi nōs lāverimus, lavātō.’ 'When*we* have finished washing,
*you* get washed.’ (Terence). ‘Crūdam si edēs, in acētum intinguitō.’ ‘If you
eat cabbage raw, dip it in vinegar.’ (Cato). ‘Rīdētō multum quī tē, Sextille,
cinaedum dīxerit et digitum porrigitō medium.’ 'Laugh loudly at anyone who
calls you camp, Sextillus, and stick up your middle finger at him.'
(Martial). In Latin, some verbs have
only a futurum imperativum, e. g., scītō 'know', mementō 'remember'. In Latin,
there is also a third person imperative also ending in -tō, plural -ntō exists.
It is used in very formal contexts such as laws. ‘Iūsta imperia suntō, īsque
cīvēs pārentō.’ 'Orders must be just, and citizens must obey them' (Cicero).
Other ways of expressing a command or request are made with expressions such as
cūrā ut 'take care to...', fac ut 'see to it that...' or cavē nē 'be careful
that you don't...' Cūrā ut valeās. 'Make sure you keep well' (Cicero). Oddly,
in Roman, the futurum indicativum can be used for a polite commands. ‘Pīliae
salūtem dīcēs et Atticae.’ 'Will you
please give my regards to Pilia and Attica?' (Cicero. The OED has will, would.
It is traced to Old English willan, pres.t. wille, willaþ, pa. t. wolde. Grice
was especially interested to check Jamess and Prichards use of willing that,
Prichards shall will and the will/shall distinction; the present tense will;
transitive uses, with simple obj. or obj. clause; occas. intr. 1 trans. with
simple obj.: desire, wish for, have a mind to, `want (something); sometimes
implying also `intend, purpose. 1601 Shaks. (title) Twelfe Night, Or what you
will. 1654 Whitlock Zootomia 44 Will what befalleth, and befall what will. 1734
tr. Rollins Anc. Hist. V. 31 He that can do what ever he will is in great
danger of willing what he ought not. b intr. with well or ill, or trans. with
sbs. of similar meaning (e.g. good, health), usually with dat. of person: Wish
(or intend) well or ill (to some one), feel or cherish good-will or ill-will.
Obs. (cf. will v.2 1 b). See also well-willing; to will well that: to be
willing that. 1483 Caxton Gold. Leg. I wyl wel that thou say, and yf thou say
ony good, thou shalt be pesybly herde. Usage No. 2: trans. with obj. clause (with
vb. in pres. subj., or in periphrastic form with should), or acc. and inf.:
Desire, wish; sometimes implying also `intend, purpose (that something be done
or happen). 1548 Hutten Sum of Diuinitie K viij, God wylle all men to be saued;
enoting expression (usually authoritative) of a wish or intention: Determine,
decree, ordain, enjoin, give order (that something be done). 1528 Cromwell in
Merriman Life and Lett. (1902) I. 320 His grace then wille that thellection of
a new Dean shalbe emonges them of the colledge; spec. in a direction or
instruction in ones will or testament; hence, to direct by will (that something
be done). 1820 Giffords Compl. Engl. Lawyer. I do hereby will and direct that
my executrix..do excuse and release the said sum of 100l. to him; figurative usage. of an abstract thing (e.g.
reason, law): Demands, requires. 1597 Shaks. 2 Hen. IV, Our Battaile is more
full of Namess then yours Then Reason will, our hearts should be as good. Usage
No. 4 transf. (from 2). Intends to express, means; affirms, maintains. 1602
Dolman La Primaud. Fr. Acad. Hee will that this authority should be for a
principle of demonstration. 2 With dependent infinitive (normally without
"to"); desire to, wish to, have a mind to (do something); often also
implying intention. 1697 Ctess DAunoys Trav. I will not write to you often,
because I will always have a stock of News to tell you, which..is pretty long
in picking up. 1704 Locke Hum. Und. The
great Encomiasts of the Chineses, do all to a man agree and will convince us that
the Sect of the Literati are Atheists. 6 In relation to anothers desire or
requirement, or to an obligation of some kind: Am (is, are) disposed or willing
to, consent to; †in early use sometimes = deign or condescend to.With the (rare
and obs.) imper. use, as in quot. 1490, cf. b and the corresponding negative
use in 12 b. 1921 Times Lit. Suppl. 10 Feb. 88/3 Literature thrives where
people will read what they do not agree with, if it is good. b In 2nd person,
interrog., or in a dependent clause after beg or the like, expressing a request
(usually courteous; with emphasis, impatient). 1599 Shaks. Hen. V, ii. i. 47
Will you shogge off? 1605 1878 Hardy Ret. Native v. iii, O, O, O,..O, will you
have done! Usage No. 7 Expressing voluntary action, or conscious intention
directed to the doing of what is expressed by the principal verb (without
temporal reference as in 11, and without emphasis as in 10): = choose to
(choose v. B. 3 a). The proper word for this idea, which cannot be so precisely
expressed by any other. 1685 Baxter Paraphr., When God will tell us we shall
know. Usage No. 8 Expressing natural disposition to do something, and hence
habitual action: Has the habit, or `a way, of --ing; is addicted or accustomed
to --ing; habitually does; sometimes connoting `may be expected to (cf. 15).
1865 Ruskin Sesame, Men, by their nature, are prone to fight; they will fight
for any cause, or for none; expressing potentiality, capacity, or sufficiency:
Can, may, is able to, is capable of --ing; is (large) enough or sufficient
to.†it will not be: it cannot be done or brought to pass; it is all in vain.
So, †will it not be? 1833 N. Arnott Physics, The heart will beat after removal
from the body. Usage No. 10 As a strengthening of sense 7, expressing
determination, persistence, and the like (without temporal reference as in 11);
purposes to, is determined to. 1539 Bible (Great) Isa. lxvi. 6, I heare ye
voyce of the Lorde, that wyll rewarde, etc; recompence his enemyes;
emphatically. Is fully determined to; insists on or persists in --ing:
sometimes with mixture of sense 8. (In 1st pers. with implication of futurity,
as a strengthening of sense 11 a. Also fig. = must inevitably, is sure to. 1892
E. Reeves Homeward Bound viii. 239, I have spent 6,000 francs to come here..and
I will see it! c In phr. of ironical or critical force referring to anothers
assertion or opinion. Now arch. exc. in will have it; 1591 Shaks. 1 Hen. VI,
This is a Riddling Merchant for the nonce, He will be here, and yet he is not
here. 1728 Chambers Cycl., Honey, Some naturalists will have honey to be of a
different quality, according to the difference of the flowers..the bees suck it
from. Also, as auxiliary of the future tense with implication (entailment
rather than cancellable implicaturum) of intention, thus distinguished from
‘shall,’ v. B. 8, where see note); in 1st person: sometimes in slightly
stronger sense = intend to, mean to. 1600 Shaks. A.Y.L., To morrow will we be
married. 1607 Shaks. Cor., Ile run away Till I am bigger, but then Ile fight.
1777 Clara Reeve Champion of Virtue, Never fear it..I will speak to Joseph
about it. b In 2nd and 3rd pers., in questions or indirect statements. 1839
Lane Arab. Nts., I will cure thee
without giving thee to drink any potion When King Yoonán heard his words,
he..said.., How wilt thou do this? c will do (with omission of "I"):
an expression of willingness to carry out a request. Cf. wilco. colloq. 1967 L.
White Crimshaw Memorandum, `And find out where the bastard was `Will do, Jim
said. 13 In 1st pers., expressing immediate intention: "I will" = `I
am now going to, `I proceed at once to. 1885 Mrs. Alexander At Bay, Very well;
I will wish you good-evening. b In 1st pers. pl., expressing a proposal: we
will (†wule we) = `let us. 1798 Coleridge Nightingale 4 Come, we will rest on
this old mossy bridge!, c figurative, as in It will rain, (in 3rd pers.) of a
thing: Is ready to, is on the point of --ing. 1225 Ancr. R. A treou þet wule
uallen, me underset hit mid on oðer treou. 14 In 2nd and 3rd pers., as auxiliary
expressing mere futurity, forming (with pres. inf.) the future, and (with pf.
inf.) the future pf. tense: corresponding to "shall" in the 1st pers.
(see note s.v. shall v. B. 8). 1847 Tennyson Princess iii. 12 Rest, rest, on
mothers breast, Father will come to thee soon. b As auxiliary of future
substituted for the imper. in mild injunctions or requests. 1876 Ruskin St.
Marks Rest. That they should use their own balances, weights, and measures;
(not by any means false ones, you will please to observe). 15 As auxiliary of
future expressing a contingent event, or a result to be expected, in a supposed
case or under particular conditions (with the condition expressed by a
conditional, temporal, or imper. clause, or otherwise implied). 1861 M.
Pattison Ess. The lover of the
Elizabethan drama will readily recal many such allusions; b with pers.sSubjects
(usually 1st pers. sing.), expressing a voluntary act or choice in a supposed
case, or a conditional promise or undertaking: esp. in asseverations, e.g. I will
die sooner than, I’ll be hanged if, etc.). 1898 H. S. Merriman Rodens Corner.
But I will be hanged if I see what it all means, now; xpressing a determinate
or necessary consequence (without the notion of futurity). 1887 Fowler
Deductive Logic, From what has been said it will be seen that I do not agree
with Mr. Mill. Mod. If, in a syllogism, the middle term be not distributed in
either premiss, there will be no conclusion; ith the notion of futurity
obscured or lost: = will prove or turn out to, will be found on inquiry to; may
be supposed to, presumably does. Hence (chiefly Sc. and north. dial.) in
estimates of amount, or in uncertain or approximate statements, the future
becoming equivalent to a present with qualification: e.g. it will be = `I think
it is or `it is about; what will that be? = `what do you think that is? 1584
Hornby Priory in Craven Gloss. Where on 40 Acres there will be xiij.s. iv.d.
per acre yerely for rent. 1791 Grose Olio (1792) 106, I believe he will be an
Irishman. 1791 Grose Olio. C. How far is it to Dumfries? W. It will be twenty
miles. 1812 Brackenridge Views Louisiana, The agriculture of this territory
will be very similar to that of Kentucky. 1876 Whitby Gloss. sThis word we have
only once heard, and that will be twenty years ago. 16 Used where
"shall" is now the normal auxiliary, chiefly in expressing mere
futurity: since 17th c. almost exclusively in Scottish, Irish, provincial, or
extra-British use (see shall. 1602 Shaks. Ham. I will win for him if I can: if
not, Ile gaine nothing but my shame, and the odde hits. 1825 Scott in Lockhart
Ballantyne-humbug. I expect we will have some good singing. 1875 E. H. Dering
Sherborne. `Will I start, sir? asked the Irish groom. Usage No. 3 Elliptical
and quasi-elliptical uses; n absol. use, or with ellipsis of obj. clause as in
2: in meaning corresponding to senses 5-7.if you will is sometimes used
parenthetically to qualify a word or phrase: = `if you wish it to be so called,
`if you choose or prefer to call it so. 1696 Whiston The. Earth. Gravity
depends entirely on the constant and efficacious, and, if you will, the
supernatural and miraculous Influence of Almighty God. 1876 Ruskin St. Marks
Rest. Very savage! monstrous! if you will. b In parenthetic phr. if God will
(†also will God, rarely God will), God willing: if it be the will of God,
`D.V.In OE. Gode willi&asg.ende (will v.2) = L. Deo volente. 1716
Strype in Thoresbys Lett. Next week, God willing, I take my journey to my
Rectory in Sussex; fig. Demands, requires (absol. or ellipt. use of 3 c). 1511
Reg. Privy Seal Scot. That na seculare personis have intrometting with thaim
uther wais than law will; I will well: I assent, `I should think so indeed.
(Cf. F. je veux bien.) Usage No. 18: with ellipsis of a vb. of motion. 1885
Bridges Eros and Psyche Aug. I will to thee oer the stream afloat. Usage No.
19: with ellipsis of active inf. to be supplied from the context. 1836 Dickens
Sk. Boz, Steam Excurs., `Will you go on deck? `No, I will not. This was said
with a most determined air. 1853 Dickens Bleak Ho. lii, I cant believe it. Its
not that I dont or I wont. I cant! 1885 Mrs. Alexander Valeries Fate vi, `Do
you know that all the people in the house will think it very shocking of me to
walk with you?.. `The deuce they will!; With generalized ellipsis, esp. in
proverbial saying (now usually as in quot. 1562, with will for would). 1639 J.
Clarke Paroem. 237 He that may and will not, when he would he shall not. c With
so or that substituted for the omitted inf. phr.: now usually placed at the beginning
of the sentence. 1596 Shaks. Tam. Shr. Hor. I promist we would beare his charge
of wooing Gremio. And so we wil. d Idiomatically used in a qualifying phr. with
relative, equivalent to a phr. with indef. relative in -ever; often with a
thing as subj., becoming a mere synonym of may: e.g. shout as loud as you will
= `however loud you (choose to) shout; come what will = `whatever may come; be
that as it will = `however that may be. 1732 Pope Mor. Ess. The ruling Passion,
be it what it will, The ruling Passion conquers Reason still. 20 With ellipsis
of pass. inf. A. 1774 Goldsm. Surv. Exp. Philos. The airs force is compounded
of its swiftness and density, and as these are encreased, so will the force of
the wind; in const. where the ellipsis may be either of an obj. clause or of an
inf. a In a disjunctive qualifying clause or phr. usually parenthetic, as
whether he will or no, will he or not, (with pron. omitted) will or no, (with
or omitted) will he will he not, will he nill he (see VI. below and willy-nilly),
etc.In quot. 1592 vaguely = `one way or another, `in any case. For the
distinction between should and would, v. note s.v. shall; in a noun-clause
expressing the object of desire, advice, or request, usually with a person as
subj., implying voluntary action as the desired end: thus distinguished from
should, which may be used when the persons will is not in view. Also (almost
always after wish) with a thing as Subjects, in which case should can never be
substituted because it would suggest the idea of command or compulsion instead
of mere desire. Cf. shall; will; willest; willeth; wills; willed (wIld); also:
willian, willi, wyll, wille, wil, will, willode, will, wyllede, wylled, willyd,
ied, -it, -id, willed; wijld, wilde, wild, willid, -yd, wylled,willet, willed;
willd(e, wild., OE. willian wk. vb. = German “willen.” f. will sb.1, 1 trans.
to wish, desire; sometimes with implication of intention: = will. 1400 Lat. and
Eng. Prov. He þt a lytul me 3euyth to me wyllyth optat longe lyffe. 1548 Udall,
etc. Erasm. Par. Matt. v. 21-24 Who so euer hath gotten to hymselfe the
charitie of the gospell, whyche wylleth wel to them that wylleth yll. 1581 A.
Hall Iliad, By Mineruas helpe, who willes you all the ill she may. A. 1875
Tennyson Q. Mary i. iv, A great party in the state Wills me to wed her; To
assert, affirm: = will v.1 B. 4. 1614 Selden Titles Hon. None of this excludes
Vnction before, but only wils him the first annointed by the Pope. 2 a to
direct by ones will or testament (that something be done, or something to be
done); to dispose of by will; to bequeath or devise; to determine by the will;
to attempt to cause, aim at effecting by exercise of will; to set the mind with
conscious intention to the performance or occurrence of something; to choose or
decide to do something, or that something shall be done or happen. Const. with
simple obj., acc. and inf., simple inf. (now always with to), or obj. clause;
also absol. or intr. (with as or so). Nearly coinciding in meaning with will
v.1 7, but with more explicit reference to the mental process of volition. 1630
Prynne Anti-Armin. 119 He had onely a power, not to fall into sinne vnlesse he
willed it. 1667 Milton P.L. So absolute she seems..that what she wills to do or
say, Seems wisest. 1710 J. Clarke tr. Rohaults Nat. Philos. If I will to move
my Arm, it is presently moved. 1712 Berkeley Pass. Obed. He that willeth the
end, doth will the necessary means conducive to that end. 1837 Carlyle Fr. Rev.
All shall be as God wills. 1880 Meredith Tragic Com. So great, heroical,
giant-like, that what he wills must be. 1896 Housman Shropsh. Lad xxx, Others,
I am not the first, Have willed more mischief than they durst; intr. to
exercise the will; to perform the mental act of volition. 1594 Hooker Eccl.
Pol. To will, is to bend our soules to the hauing or doing of that which they
see to be good. 1830 Mackintosh Eth. Philos. Wks.. But what could induce such a
being to will or to act? 1867 A. P. Forbes Explan. Is this infinitely powerful
and intelligent Being free? wills He? loves He? c trans. To bring or get (into,
out of, etc.) by exercise of will. 1850 L. Hunt Table-t. (1882) 184 Victims of
opium have been known to be unable to will themselves out of the chair in which
they were sitting. d To control (another person), or induce (another) to do
something, by the mere exercise of ones will, as in hypnotism. 1882 Proc. Soc.
Psych. Research I. The one to be `willed would go to the other end of the
house, if desired, whilst we agreed upon the thing to be done. 1886 19th Cent. They
are what is called `willed to do certain things desired by the ladies or
gentlemen who have hold of them. 1897 A. Lang Dreams & Ghosts iii. 59 A
young lady, who believed that she could play the `willing game successfully
without touching the person `willed; to express or communicate ones will or
wish with regard to something, with various shades of meaning, cf. will, v.1
3., specifically: a to enjoin, order; to decree, ordain, a) with personal obj.,
usually with inf. or clause. 1481 Cov. Leet Bk. 496 We desire and also will you
that vnto oure seid seruaunt ye yeue your aid. 1547 Edw. VI in Rymer Foedera,
We Wyll and Commaunde yowe to Procede in the seid Matters. 1568 Grafton Chron.,
Their sute was smally regarded, and shortly after they were willed to silence.
1588 Lambarde Eiren. If a man do lie in awaite to rob me, and (drawing his
sword upon me) he willeth me to deliver my money. 1591 Shaks. 1 Hen. VI We doe
no otherwise then wee are willd. 1596 Nashe Saffron Walden P 4, Vp he was had
and.willed to deliuer vp his weapon. 1656 Hales Gold. Rem. The King in the
Gospel, that made a Feast, and..willed his servants to go out to the high-ways
side. 1799 Nelson in Nicolas Disp., Willing and requiring all Officers and men
to obey you; 1565 Cooper Thesaurus s.v. Classicum, By sounde of trumpet to will
scilence. 1612 Bacon Ess., Of Empire. It is common with Princes (saith Tacitus)
to will contradictories. 1697 Dryden Æneis i. 112 Tis yours, O Queen! to will
The Work, which Duty binds me to fulfil. 1877 Tennyson Harold vi. i, Get thou
into thy cloister as the king Willd it.; to pray, request, entreat; = desire v.
6. 1454 Paston Lett. Suppl. As for the questyon that ye wylled me to aske my
lord, I fond hym yet at no good leyser. 1564 Haward tr. Eutropius. The Romaines
sent ambassadoures to him, to wyll him to cease from battayle. 1581 A. Hall
Iliad, His errand done, as he was willde, he toke his flight from thence. 1631
[Mabbe] Celestina. Did I not will you I should not be wakened? 1690 Dryden
Amphitryon i. i, He has sent me to will and require you to make a swinging long
Night for him; fig. of a thing, to require, demand; also, to induce, persuade a
person to do something. 1445 in Anglia. Constaunce willeth also that thou doo
noughte with weyke corage. Cable and Baugh note that one important s. of
prescriptions that now form part of all our grammars -- that governing the use
of will and shall -- has its origin in this period. Previous to 1622 no grammar
recognized any distinction between will and shall. In 1653 Wallis in his
Grammatica Linguae Anglicanae states in Latin and for the benefit of Europeans
that Subjectsive intention is expressed by will in the first person, by shall
in the second and third, while simple factual indicative predictable futurity
is expressed by shall in the first person, by will in the second and third. It
is not until the second half of the eighteenth century that the use in
questions and subordinate clauses is explicitly defined. In 1755 Johnson, in
his Dictionary, states the rule for questions, and in 1765 William Ward, in his
Grammar, draws up for the first time the full set of prescriptions that
underlies, with individual variations, the rules found in later tracts. Wards
pronouncements are not followed generally by other grammarians until Lindley
Murray gives them greater currency in 1795. Since about 1825 they have often
been repeated in grammars, v. Fries, The periphrastic future with will and
shall. Will qua modal auxiliary never had an s. The absence of conjugation is a
very old common Germanic phenomenon. OE 3rd person present indicative of willan
(and of the preterite-present verbs) is not distinct from the 1st person
present indicative. That dates back at least to CGmc, or further if one looks
just as the forms and ignore tense and/or mood). Re: Prichard: "Prichard
wills that he go to London. This is Prichards example, admired by Grice
("but I expect not pleasing to Maucaulays ears"). The -s is
introduced to indicate a difference between the modal and main verb use (as in
Prichard and Grice) of will. In fact, will, qua modal, has never been used with
a to-infinitive. OE uses present-tense forms to refer to future events as well
as willan and sculan. willan would give a volitional nuance; sculan, an
obligational nuance. Its difficult to find an example of weorthan used to
express the future, but that doesnt mean it didnt happen. In insensitive
utterers, will has very little of volition about it, unless one follows Walliss
observation for for I will vs. I shall. Most probably use ll, or be going
to for the future.
fuzzy implicaturum. Grice loved ‘fuzzy,’ “if only because it’s one of the few
non-Graeco-Roman philosophical terms!” -- fuzzy set, a set in which membership is a
matter of degree. In classical set theory, for every set S and thing x, either
x is a member of S or x is not. In fuzzy set theory, things x can be members of
sets S to any degree between 0 and 1, inclusive. Degree 1 corresponds to ‘is a
member of’ and 0 corresponds to ‘is not’; the intermediate degrees are degrees
of vagueness or uncertainty. Example: Let S be the set of men who are bald at
age forty. L. A. Zadeh developed a logic of fuzzy sets as the basis for a logic
of vague predicates. A fuzzy set can be represented mathematically as a
function from a given universe into the interval [0, 1]. Zadeh tried to interpret Grice alla fuzzy in
“Pragmatics”
G
G: SUBJECT
INDEX
G: NAME INDEX: ITALIANO
GALILEO
G: NAME INDEX: ITALIANO
GALILEO
GALLUPPI
GENTILE
GENOVESI
GIUDICE
GRAMSCI
GREGORIO
G:
NAME INDEX: ENGLISHMEN (Oxonian tutors)
GARDINER
GRICE
galen: philosopher, he traveled
extensively in the Greco-Roman world before settling in Rome and becoming court
physician to Marcus Aurelius. His philosophical interests lay mainly in the
philosophy of science On the Therapeutic Method and nature On the Function of
Parts, and in logic Introduction to Logic, in which he develops a crude but
pioneering treatment of the logic of relations. Galen espoused an extreme form
of directed teleology in natural explanation, and sought to develop a
syncretist picture of cause and explanation drawing on Plato, Aristotle, the
Stoics, and preceding medical writers, notably Hippocrates, whose views he
attempted to harmonize with those of Plato On the Doctrines of Hippocrates and
Plato. He wrote on philosophical psychology On the Passions and Errors of the
Soul; his materialist account of mind Mental Characteristics Are Caused by
Bodily Conditions is notable for its caution in approaching issues such as the
actual nature of the substance of the soul and the age and structure of the
universe that he regarded as undecidable. In physiology, he adopted a version
of the four-humor theory, that health consists in an appropriate balance of
four basic bodily constituents blood, black bile, yellow bile, and phlegm, and
disease in a corresponding imbalance a view owed ultimately to Hippocrates. He
sided with the rationalist physicians against the empiricists, holding that it
was possible to elaborate and to support theories concerning the fundamentals
of the human body; but he stressed the importance of observation and
experiment, in particular in anatomy he discovered the function of the
recurrent laryngeal nerve by dissection and ligation. Via the Arabic tradition,
Galen became the most influential doctor of the ancient world; his influence
persisted, in spite of the discoveries of the seventeenth century, until the
end of the nineteenth century. He also wrote extensively on semantics, but
these texts are lost.
galileo
galilei:
Grice: “His father was, like mine, a musician.” -- philosopher. His Dialogue
concerning the Two Chief World Systems defends Copernicus by arguing against
the major tenets of the Aristotelian cosmology. On his view, one kind of motion
replaces the multiple distinct celestial and terrestrial motions of Aristotle;
mathematics is applicable to the real world; and explanation of natural events
appeals to efficient causes alone, not to hypothesized natural ends. Galileo
was called before the Inquisition, was made to recant his Copernican views, and
spent the last years of his life under house arrest. Discourse concerning Two
New Sciences 1638 created the modern science of mechanics: it proved the laws
of free fall, thus making it possible to study accelerated motions; asserted
the principle of the independence of forces; and proposed a theory of parabolic
ballistics. His work was developed by Huygens and Newton. Galileo’s scientific
and technological achievements were prodigious. He invented an air thermoscope,
a device for raising water, and a computer for calculating quantities in
geometry and ballistics. His discoveries in pure science included the
isochronism of the pendulum and the hydrostatic balance. His telescopic
observations led to the discovery of four of Jupiter’s satellites the Medicean
Stars, the moon’s mountains, sunspots, the moon’s libration, and the nature of
the Milky Way. In methodology Galileo accepted the ancient Grecian ideal of
demonstrative science, and employed the method of retroductive inference,
whereby the phenomena under investigation are attributed to remote causes. Much
of his work utilizes the hypothetico-deductive method. Refs: Luigi Speranza,
“Galileo, Grice e il saggiatore,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
galluppi: essential Italian philosopher. Pasquale
Galluppi (Tropea, 2 aprile 1770 – Napoli, 13 dicembre 1846) è stato un filosofo
italiano. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna Lucrezia Galluppi,
entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie
della città calabrese di Tropea. Dopo lo studio della lingua latina,
secondo il metodo di quel tempo in Tropea, nell'età di tredici anni apprese gli
elementi della filosofia e della matematica alla scuola di don Giuseppe Antonio
Ruffa. Trasferitosi in seguito con la famiglia in Sicilia, a Santa Lucia del
Mela, compì il corso elementare di filosofia e di matematica presso il
Seminario vescovile della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio
della teologia a Napoli, seguendo le lezioni di Francesco Conforti. Nel
1794 sposò Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei
femmine. Trascorreva le giornate di libertà nella residenza privata di
famiglia, cioè il castello, ora diventato un Complesso Monumentale di proprietà
del Comune di Drapia e sede di una biblioteca, un museo, un centro congressi e
un giardino storico in fase di restauro, sito sulla Strada Provinciale in
Carìa, frazione del comune di Drapia (VV). Nel 1807 pubblicò a Napoli
Sull'analisi e la sintesi; durante i moti del 1820 aderì alla causa liberale
sostenendo la riforma costituzionale dello Stato e protestando quindi contro
l'intervento repressivo degli Austriaci. Nel 1830 si riavvicinò alla monarchia
borbonica. Dal 1831 fu titolare della cattedra di logica e di metafisica
nell'Università di Napoli. Fu membro dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia
Pontaniana di Napoli, dell'Accademia degli Affatigati di Tropea, di quella del
Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone. Il suo merito
maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia lo studio e la conoscenza
della filosofia europea, soprattutto quella kantiana: le Lettere filosofiche
furono definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia
moderna. A Pasquale Galluppi sono dedicati il Convitto nazionale, il
Liceo Classico di Catanzaro e il Liceo Classico di Tropea. A Tropea, città
natale di Pasquale Galluppi è attivo il Centro studi Galluppiani, associazione
culturale dedita alla ripubblicazione dell'opera omnia del filosofo e che di
recente ha decretato l'ampliamento dei fini statutari, fino ad accogliere e
curare altre interessanti iniziative di un certo spessore culturale.
Periodicamente, il Centro organizza il Congresso degli Studi Galluppiani,
importante appuntamento di respiro nazionale, animato da studiosi e saggisti
provenienti da tutta Italia. L'attuale presidente è Luciano Meligrana.
Altre personalità di notevole importanza nella storia del Centro studi
Galluppiani sono stati Don Francesco Pugliese e Giuseppe Lo Cane, filosofo,
appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi. Una vera dedizione, la
sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore
infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere in
particolar modo ai giovani il pensiero del Galluppi, favorendo la pubblicazione
dell'opera inedita "La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo
ha visto anche quale curatore. Su Galluppi ha pubblicato numerosi saggi ed
articoli in quotidiani e riviste specializzate. Onorificenze Legion
Honneur Chevalier ribbon.svg Cavaliere del Real Ordine della Legion d'Onore
(insignito da Luigi Filippo Re dei Francesi) Cavaliere del Reale Ordine
di Francesco I (insignito da Ferdinando II Re delle Due Sicilie)
Bibliografia Opere Memoria apologetica, Napoli, pei torchi di Vincenzo
Mozzola-Vocola, 1795. Sull'analisi e la sintesi, Napoli, presso Giuseppe
Verriento, 1807. Ed. moderne a cura di E. Di Carlo, Firenze, Olschki, 1935; a
cura di A. Guzzo, Milano Marzorati, 1970. Saggio filosofico sulla critica della
conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più
importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia
trascendentale, 6 voll., Napoli, pei torchi di Domenico Sangiacomo, 1819 (voll.
I, II), Messina, presso Giuseppe Pappalardo, 1822 (vol. III), 1827 (vol. IV),
1829 (vol. V), 1832 (vol. VI). Elementi di filosofia, 6 tomi in 3 voll.,
Messina, Pappalardo, tt. I e II, 1820, tt. III-V, 1826, t. VI, 1827; t. I,
Messina, Pappalardo, 1830; tt. II-V, Napoli, 1832; 3 voll., Milano, Silvestri,
1832; 6 voll., Napoli, 1834-37. Lettere filosofiche sulle vicende della
filosofia, relativamente a' principii della conoscenza umana da Cartesio insino
a Kant inclusivamente, Messina, Pappalardo, 1827. Lezioni di logica e di
metafisica, 3 voll., Napoli, 1832-34; 5 voll.: Napoli, Tramater, 1837-41 (voll.
I-IV), Napoli, Barone, 1842 (vol. V); Milano, 1840; 2 voll., Firenze, tip.
della Speranza, 1841; 4 voll., Milano, Borroni e Scotti, 1845-46. Filosofia
della volontà, 4 voll., Napoli, Giachetti, 1832-34 (voll. I-II), Tramater,
1839-40 (voll. III-IV); Napoli, Tramater, 1838-42; 3 voll., Milano, Silvestri,
1846. Storia della filosofia, Napoli, 1842; Opera compresa in nove capitoli a
cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico Pessina autore del Quadro
storico dei sistemi filosofici, Milano, Dalla tipografia di Gio. Silvestri,
1847, pp. XL-431. Autobiografia [15 agosto 1822], in F. Pietropaolo, Scritti
inediti di Pasquale Galluppi, in "Rivista di filosofia scientifica",
1887, vol. VI, pp. 260–265; estratto, Milano, Dumolard, 1887, pp. 6–8; in C.
Toraldo Tranfo, Saggio sulla filosofia del Galluppi e le sue relazioni col
Kantismo, Napoli, Morano, 1902, pp. 29–32; in P. Galluppi, Lettere filosofiche,
a cura di G. Bonafede, Palermo, E.S.A., 1974, pp. 389–391. Antonio Di Chicco,
"Pasquale Galluppi", Edizioni Giuseppe Laterza, Bari luglio
2003. Epistolario Lettere private. Inedite e rare, a cura di Franco
Ottonello, Milano, Franco Angeli, 2006 ("Filosofia e scienza nell'età
moderna" Collana a cura della Sezione di Milano dell'Istituto per la
storia del pensiero filosofico e scientifico moderno). Altri progetti Collabora
a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su
Pasquale Galluppi Collegamenti esterni Mario Di Napoli, GALLUPPI, Pasquale, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 51, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1998. URL consultato il 1º novembre 2018. Simona Venezia, GALLUPPI,
Pasquale, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. URL consultato il 1º novembre 2018.
Pro Loco Tropea - Personaggi illustri di Tropea. Pasquale Galluppi filosofo,
sito web a cura di Giuseppe Tortora, Università degli Studi di Napoli (ultimo
aggiornamento: 28 maggio 2000). Google Books: opere di Galluppi in versione
digitale integrale. Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, su
books.google.it. Elementi di filosofia, su books.google.it. Lettere filosofiche
sulle vicende della filosofia, su books.google.it. Lezioni di logica e di
metafisica, su books.google.it. Filosofia della volontà, su books.google.it.
Controllo di autorità VIAF (EN) 71453163 · ISNI (EN) 0000 0000 8077 7434 · SBN
IT\ICCU\RAVV\043570 · LCCN (EN) n85082982 · GND (DE) 118716239 · BNF (FR)
cb12284027f (data) · BAV (EN) 495/12964 · CERL cnp00586186 · WorldCat
Identities (EN) lccn-n85082982 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale
Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XIX secoloNati nel 1770Morti nel
1846Nati il 2 aprileMorti il 13 dicembreNati a TropeaMorti a NapoliProfessori
dell'Università degli Studi di Napoli Federico II[altre]. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per Il Club Anglo-Italiano,The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
gambler’s
fallacy:
also called Monte Carlo fallacy, the fallacy of supposing, of a sequence of
independent events, that the probabilities of later outcomes must increase or
decrease to “compensate” for earlier outcomes. For example, since by
Bernoulli’s theorem in a long run of tosses of a fair coin it is very probable
that the coin will come up heads roughly half the time, one might think that a
coin that has not come up heads recently must be “due” to come up heads must have a probability greater than one-half
of doing so. But this is a misunderstanding of the law of large numbers, which
requires no such compensating tendencies of the coin. The probability of heads
remains one-half for each toss despite the preponderance, so far, of tails. In
the sufficiently long run what “compensates” for the presence of improbably
long subsequences in which, say, tails strongly predominate, is simply that
such subsequences occur rarely and therefore have only a slight effect on the
statistical character of the whole.
garin,
Italian philosopher, author of a very rich, “La cultura filosofica del
rinascimento italiano.” And “L’umanesimo italiano” – Grice was Lit. Hum. Oxon,
so he knew. Eugenio Garin (Rieti, 9 maggio 1909 –
Firenze, 29 dicembre 2004) è stato un filosofo, storico della filosofia
italiano. Allievo del filosofo Ludovico Limentani, è considerato uno dei
più autorevoli storici della filosofia e della cultura dell'Umanesimo e del
Rinascimento vissuti nel Novecento, tanto da essere stato paragonato a Jacob
Burckhardt da Delio Cantimori[1]. Dopo aver studiato presso il Liceo
classico statale Galileo, Garin inizia giovanissimo l'Università e si laurea a
soli 21 anni sotto la guida di Limentani. In questi anni pubblica vari studi
sull'Illuminismo inglese che confluiranno nel volume del 1942 sui moralisti
inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei
licei, cosa che continuò a fare fino al 1949, quando vinse la cattedra da
ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale c'era Augusto
Guzzo, una figura che costituirà un punto di riferimento per Garin quanto meno
fino ai primi anni del dopoguerra. In questi anni i suoi riferimenti culturali
non erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi
di matrice spiritualista e cattolica come Louis Lavelle e René Le Senne o, in
Italia, Enrico Castelli Gattinara di Zubiena, Michele Federico Sciacca e lo
stesso Guzzo. Nel 1944 Garin, iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1931,
pronunciò al Lyceum di Firenze una commemorazione per la morte del presidente
dell'Accademia d'Italia Giovanni Gentile, assassinato dai GAP [2]. Una
svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose non
vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci,
che hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla
concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia
italiana. Questo volume, fortemente sollecitato da Vito Laterza, vinse il
premio Viareggio per la saggistica[3] e fu favorevolmente accolto da vari
recensori. Tra questi spicca Roderigo di Castiglia, alias Palmiro Togliatti,
che lo recensì molto favorevolmente su Rinascita. Dopo l'intervento di
Togliatti, Garin assurse al ruolo di intellettuale civile e principale
interlocutore culturale del Partito Comunista. Questo ruolo fu sancito nel
gennaio del 1958 quando Garin aprì il convegno per i venti anni dalla morte di
Gramsci, convegno a cui partecipò lo stesso Togliatti. Storico della
filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiutava la
definizione di filosofo; è tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle
sue polemiche antispeculative e come influente teorico della storiografia
filosofica. Per molti anni è stato affermato docente nell'Università degli
Studi di Firenze, insieme a note figure intellettuali come Delio Cantimori e
Cesare Luporini. In seguito si trasferì a Pisa a causa dei perduranti disordini
della rivolta studentesca iniziata nel '68, di cui non condivideva le modalità
di lotta e che considerava espressione di astratto rivoluzionarismo.
Personalità estremamente stimolante, si è dedicato con passione alla formazione
dei suoi numerosi allievi; sotto la sua guida si sono formati egregi studiosi,
tra i quali si ricordano Giancarlo Garfagnini, ordinario di Filosofia Medievale
nell'ateneo fiorentino, Cesare Vasoli, Michele Ciliberto, ordinario alla
Normale di Pisa, Sergio Moravia, Paolo Rossi, Maurizio Torrini, Saverio Ricci,
Loris Sturlese, ordinario di Filosofia Medievale a Lecce. È stato per decenni
il principale consulente della casa editrice Laterza, sia per la filosofia
antica sia per la filosofia moderna, collaborando attivamente alle due collane
di classici della filosofia fondate da Benedetto Croce, e affidando ai tipi
della Laterza numerose sue opere fondamentali. I suoi interessi furono
essenzialmente rivolti al pensiero dell'umanesimo, del Rinascimento e alla
storia della cultura. La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo
rese consigliere prezioso anche per le giovani o giovanissime leve di
pensatori, italiani e non. La Casa editrice Laterza gli ha reso omaggio
commissionando e pubblicando un volume comprendente la bibliografia completa
delle sue opere. Nel 1970 l'Accademia dei Lincei gli ha conferito il
Premio Feltrinelli per le Scienze Filosofiche.[4] Opere principali
Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, 1937 Gli illuministi inglesi. I
Moralisti, 1942 Il Rinascimento italiano, 1941 L'Umanesimo italiano, 1952
Medioevo e Rinascimento, 1954 Cronache di filosofia italiana, 1955 L'educazione
in Europa 1400-1600, 1957 La filosofia come sapere storico, 1959 La cultura
filosofica del Rinascimento italiano, 1960 La cultura italiana tra Ottocento e
Novecento, 1962 Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, 1965 Storia
della filosofia italiana, 1966 (tre volumi) Dal Rinascimento all'Illuminismo,
1970 Intellettuali italiani del XX secolo, 1974 Rinascite e rivoluzioni, 1975
Lo zodiaco della vita, 1976 Tra due secoli, 1983 Vita e opere di Cartesio, 1984
Ermetismo del Rinascimento, 1988 Gli editori italiani tra Ottocento e
Novecento, 1991 La cultura del Rinascimento, 2000. Dopo il decesso,
avvenuto alla fine del 2004[5], per suo lascito testamentario le sue carte e la
sua biblioteca sono state depositate presso la Scuola Normale Superiore di
Pisa.[6] Note ^ «ciò non toglie che l'importanza della interpretazione
del Rinascimento che Garin ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue
edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo
(filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole,
confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori,
Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 312. ^ la Repubblica, 11 aprile
2014; Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi,
Milano 2014 ^ Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su
premioletterarioviareggiorepaci.it. URL consultato il 9 agosto 2019. ^ Premi
Feltrinelli 1950-2011, su lincei.it. URL consultato il 17 novembre 2019. ^
Eugenio Garin, The Times (London, England), Friday, March 04, 2005; pg. 76;
Issue 68326. ^ Scuola normale di Pisa. Fondi di personalità. Fondo Eugenio
Garin, su centroarchivistico.sns.it. Bibliografia Felicita Audisio e Alessandro
Savorelli (a cura di), Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro,
Firenze, Le Lettere, 2003. Marino Biondi, Dopo il diluvio. Eugenio Garin,
l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino,
Arezzo, Helicon, 2015, pp. 375–410. Olivia Catanorchi e Valentina Lepri (a cura
di), Eugenio Garin dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze,
6 - 8 marzo 2009), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011. Michele
Ciliberto, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, Roma - Bari, Laterza,
2011. Raffaele Liucci,Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani
Magazine", 17 febbraio 2015 Luciano Mecacci, Contributo alla bibliografia
degli scritti su Eugenio Garin, in: «Il Protagora», XXXVIII, luglio-dicembre
2011, sesta serie, n. 16, pp. 519–526. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina
e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano 2014 (pp. 269–295, 437-450: Le
commemorazioni di Eugenio Garin). Michele Maggi, "Il Gramsci di Eugenio
Garin", in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia
della realtà, Napoli, Bibliopolis, 2011. Stefania Zanardi, Umanesimo e
umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di Eugenio Garin, Milano,
FrancoAngeli, 2019. Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
citazioni di o su Eugenio Garin Collegamenti esterni Eugenio Garin, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Eugenio Garin / Eugenio Garin (altra versione), in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Eugenio Garin, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Eugenio Garin, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Eugenio
Garin, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Eugenio Garin -
Biblioteche dei Filosofi (SNS), su picus.unica.it. V · D · M Vincitori del
Premio Viareggio per la saggistica V · D · M Vincitori del Premio Feltrinelli
Controllo di autorità VIAF (EN) 24425 · ISNI (EN) 0000 0001 2117 1974 · SBN IT\ICCU\CFIV\008177
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(ES) XX943148 (data) · WorldCat Identities (EN) lccn-n79142651 Biografie
Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del
XX secoloStorici italiani del XX secoloNati nel 1909Morti nel 2004Nati il 9
maggioMorti il 29 dicembreNati a RietiMorti a FirenzeVincitori del Premio
FeltrinelliVincitori del Premio Viareggio per la saggisticaBibliofiliProfessori
della Scuola Normale SuperioreAccademici dei Lincei[altre]
gay: j. philosopher Grice read quite a
lot, who tried to reconcile divine command theory and utilitarianism. The son
of a minister, Gay was elected a fellow of Sidney Sussex , Cambridge, where he
taught Grecian philosophy. His essay, “Dissertation Concerning the Fundamental
Principle of Virtue or Morality” argues that obligation is founded on the will
of God, which, because people are destined to be happy, directs us to act to
promote the general happiness. Gay offers an associationist psychology
according to which we pursue objects that have come to be associated with
happiness e.g. money, regardless of whether they now make us happy, and argues,
contra Hutcheson, that our moral sense is conditioned rather than natural.
Gay’s blend of utilitarianism with associationist psychology gave David Hartley
the basis for his moral psychology, which later influenced Bentham in his
formulation of classical utilitarianism.
gedanke experiment – Grice: “Oddly, Turing’s Gedanke
experiment’ is about the meaning of ‘gedanke’!” -- used by Grice, first, in his
“Some remarks about the senses.” His Gedanke experiment involves a Martian who
comes and conquers the earth. He has four eyes in his face, with two of them he
x-s, with the other tow he y-s. Tthought experiment, a technique for testing a
hypothesis by imagining a situation and what would be said about it or more
rarely, happen in it. This technique is often used by philosophers to argue for
or against a hypothesis about the meaning or applicability of a concept. For
example, Locke imagined a switch of minds between a prince and a cobbler as a
way to argue that personal identity is based on continuity of memory, not
continuity of the body. To argue for the relativity of simultaneity, Einstein imagined
two observers one on a train, the other
beside it who observed lightning bolts.
And according to some scholars, Galileo only imagined the experiment of tying
two five-pound weights together with a fine string in order to argue that
heavier bodies do not fall faster. Thought experiments of this last type are
rare because they can be used only when one is thoroughly familiar with the
outcome of the imagined situation. J.A.K. Thrasymachus fl. 427 B.C., Grecian
Sophist from Bithynia who is known mainly as a character in Book I of Plato’s
Republic. He traveled and taught extensively throughout the Grecian world, and
was well known in Athens as a teacher and as the author of treatises on
rhetoric. Innovative in his style, he was credited with inventing the “middle
style” of rhetoric. The only surviving fragment of a speech by Thrasymachus was
written for delivery by an Athenian citizen in the assembly, at a time when
Athens was not faring well in the Peloponnesian War; it shows him concerned
with the efficiency of government, pleading with the Athenians to recognize
their common interests and give up their factionalism. Our only other source
for his views on political matters is Plato’s Republic, which most scholars
accept as presenting at least a half-truth about Thrasymachus. There,
Thrasymachus is represented as a foil to Socrates, claiming that justice is
only what benefits the stronger, i.e., the rulers. From the point of view of
those who are ruled, then, justice always serves the interest of someone else,
and rulers who seek their own advantage are unjust. Refs.: H. P. Grice, “Some
remarks about the senses,” in WoW – Coady, “The senses of the Martians.”
gentile: g. idealist
philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics
as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual
idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject
can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and
evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is
distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria
generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del
conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent
difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental
subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it
influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet
and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The
Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Giovanni
Gentile (Castelvetrano, 29 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944) è stato un
filosofo, pedagogista, politico e accademico italiano. Fu insieme a
Benedetto Croce uno dei maggiori esponenti del neoidealismo filosofico e
dell'idealismo italiano, nonché un importante protagonista della cultura
italiana nella prima metà del XX secolo, cofondatore dell'Istituto dell'Enciclopedia
Italiana e, da ministro, artefice, nel 1923, della riforma della pubblica
istruzione nota come Riforma Gentile.[1] La sua filosofia è detta
attualismo. Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito
alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la
seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un
omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli
brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché
un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi
Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista),
mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità
sull'indiscusso ruolo di patriarca. [...]» (Geno Pampaloni, Fedele alle
amicizie, 1984[2]) Gli studi e la carriera accademica Ottavo di dieci figli,
Gentile nasce nel 1875 a Castelvetrano, nel trapanese, da Giovanni Gentile
senior, farmacista, e Teresa Curti, figlia di un notaio. Frequenta il
ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per
quattro posti di interno della Scuola normale superiore di Pisa, dove si
iscrive alla facoltà di lettere e filosofia: qui ha come maestri, tra gli altri,
Alessandro D'Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al
positivismo e di idee liberali, Amedeo Crivellucci, professore di storia, e
Donato Jaja, professore di filosofia, hegeliano seguace di Spaventa, che
influirono molto sul suo pensiero filosofico da adulto. Dopo la laurea
nel 1897, con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della
tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, Gentile ottiene una cattedra in
filosofia presso il convitto nazionale Mario Pagano di Campobasso. Nel 1900 si
sposta al liceo Vittorio Emanuele di Napoli. Nel 1901 sposa Erminia Nudi,
conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Francesca (1902),
Federico (1904), i gemelli Gaetano e Giovanni junior (1906), Giuseppe (1908) e
Tonino (1910). Nel 1902 ottiene la libera docenza in filosofia teoretica
e l'anno successivo quella in pedagogia. Ottiene poi la cattedra universitaria
all'Università degli Studi di Palermo (1906-1914, storia della filosofia), dove
frequenta il circolo "Giuseppe Amato Pojero" e fonda nel 1907 con
Giuseppe Lombardo Radice la rivista Nuovi Doveri. Nel 1914 all'università di
Pisa (fino al 1919, filosofia teoretica) ed infine alla Sapienza di Roma (già
dal 1917 professore ordinario di Storia della filosofia, e nel 1926 professore
ordinario di Filosofia teoretica). Giovanni Gentile nel 1910 È
stato professore ordinario di Storia della filosofia all'Università di Palermo
(27 marzo 1910), professore ordinario di Filosofia teoretica all'Università di
Pisa (9 agosto 1914), professore ordinario di Storia della filosofia
all'Università di Roma (11 novembre 1917), professore ordinario di Filosofia
teoretica alla Università di Roma (1926), commissario della scuola normale
superiore di Pisa (1928-1932), direttore della Scuola Normale superiore di Pisa
(1932-1943) e vicepresidente dell'Università Bocconi di Milano
(1934-1944). Durante gli studi a Pisa incontra Benedetto Croce con cui
intratterrà un carteggio continuo dal 1896 al 1923: argomenti trattati dapprima
la storia e la letteratura, poi la filosofia. Uniti dall'idealismo (su cui
avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le
degenerazioni, a loro dire, dell'università italiana. Insieme fondano nel 1903
la rivista La Critica, per contribuire, in base alle loro idee, al rinnovamento
della cultura italiana: Croce si occupa di letteratura e di storia, Gentile,
invece, si dedica alla storia della filosofia. In quegli anni Gentile non ha
ancora sviluppato il proprio sistema filosofico. L'attualismo avrà
configurazione sistematica solo alle soglie della prima guerra mondiale. Sarà
inoltre dal 1915 che Gentile divenne membro del Consiglio superiore della
pubblica istruzione, fino al 1919. Il primo dopoguerra e l'adesione al
fascismo All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non
belligeranza, Gentile si schiera a favore della guerra come conclusione del
Risorgimento italiano. In quel tempo rivelò a sé stesso la passione politica
che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella
del professore che parla dalla cattedra, ma quella
dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico
attraverso i giornali quotidiani. Nell'immediato dopoguerra partecipa
attivamente al dibattito politico e culturale. Nel 1919 è, insieme a Luigi
Einaudi e Gioacchino Volpe, tra i firmatari del manifesto del Gruppo Nazionale
Liberale romano, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti
forma l'Alleanza Nazionale per le elezioni politiche, il cui programma politico
prevede la rivendicazione di uno «Stato forte», anche se provvisto di larghe
autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica,
i protezionismi, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a
tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno
interpretare i sentimenti più schietti e nobili».[3] Nel 1920 fonda il
Giornale critico della filosofia italiana. Sempre nel 1920 diviene consigliere
comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche
assessore supplente alla X Ripartizione, A.B.A., ovvero alle Antichità e alle
belle Arti, sempre del Municipio di Roma[4]. Nel 1922 diviene socio
dell'Accademia dei Lincei. Fino al 1922 Gentile non mostra particolare
interesse nei confronti del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in
merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore del liberalismo
risorgimentale nel quale si riconosceva: «Mi son dovuto persuadere che il
liberalismo, com'io l'intendo e come lo intendevano gli uomini della gloriosa
Destra che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella
legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica,
non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o meno
apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.» (Da una lettera del
31 maggio 1923 rivolta a Benito Mussolini, cit. in G. Gentile, La riforma della
scuola in Italia, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 94-95) Il 31 ottobre, all'insediamento
del regime viene nominato da Mussolini ministro della Pubblica Istruzione
(1922-1924, per dimissioni volontarie), attuando nel 1923 la riforma Gentile,
fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge
Casati di più di sessant'anni prima (1859). Il 5 novembre 1922 diviene senatore
del Regno[5]. Nel 1923 Gentile si iscrive al Partito Nazionale Fascista (PNF)
con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi
Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere
la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino
(poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello
Stato). Gentile resta fascista e nel 1925 pubblica il Manifesto degli
intellettuali fascisti, in cui vede il fascismo come un possibile motore della
rigenerazione morale e religiosa degli italiani e tenta di collegarlo
direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento
definitivo di Gentile da Benedetto Croce, che gli risponde con un
contromanifesto. Nel 1925 promuove la nascita dell'Istituto Nazionale di
Cultura Fascista, di cui è presidente fino al 1937. Per le numerose
cariche culturali e politiche, esercita durante tutto il ventennio fascista un
forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore amministrativo
e scolastico. È il direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana
dell'Istituto Treccani dal 1925 al 1938, e vicepresidente di tale istituto dal
1933 al 1938 dove accolse numerosi "collaboratori non fascisti" come
il socialista Rodolfo Mondolfo[6]. A Gentile si devono in gran parte il livello
culturale e l'ampiezza della visione dell'opera: invitò infatti «a collaborare
alla nuova impresa 3.266 studiosi, di diverso orientamento»[7], poiché
«nell'opera si doveva coinvolgere tutta la migliore cultura nazionale, compresi
molti studiosi ebrei o notoriamente antifascisti, che ebbero spesso da tale
lavoro il loro unico sostentamento».[7] Egli riesce in tal modo a mantenere una
sostanziale autonomia, nella redazione dell'enciclopedia, dalle interferenze
del regime fascista. Nel 1928 diventa regio commissario della Scuola
Normale Superiore di Pisa, e nel 1932 direttore. È coinvolto
nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al fascismo del 1931 che causerà
l'allontanamento di alcuni illustri accademici dall'Università italiana.
Nel 1930 diventa vicepresidente dell'Università Bocconi. Nel 1932 diventa Socio
Nazionale della Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Lo stesso anno inaugura
l'Istituto Italiano di Studi Germanici, di cui diviene presidente nel 1934. Nel
1933 inaugura e diviene presidente dell'Istituto italiano per il Medio ed
Estremo Oriente. Nel 1934 inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fu direttore
della Nuova Antologia e accolse "collaboratori non fascisti" come il
socialista Rodolfo Mondolfo[6]. Nel 1937 diventa regio commissario, nel 1938
presidente del Centro nazionale di studi manzoniani e nel 1941 è presidente
della Domus Galilaeana a Pisa. Rapporti con la cultura cattolica Non
mancano comunque i dissensi col regime: in particolare il suo pensiero subisce
un duro colpo nel 1929, alla firma dei Patti Lateranensi tra Chiesa cattolica e
Stato Italiano: sebbene Gentile riconosca il cattolicesimo come forma storica
della spiritualità italiana, ritiene di non poter accettare uno Stato non
laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante; è
inoltre contrario all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole medie
e superiori, mentre riteneva giusto - avendolo inserito nella sua riforma -
quello nelle scuole elementari, in quanto lo riteneva una preparazione alla
filosofia adatta ai bambini. Nel 1934 il Sant'Uffizio mette all'indice le opere
di Gentile e di Croce, a causa del loro riconoscimento, nel solco
dell'idealismo, del cristianesimo cattolico come mera "forma dello
spirito", ma considerato inferiore alla filosofia, come Gentile spiega nel
discorso del 1943 La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche
al papato storico, ispirate da Dante, Gioberti e Manzoni.[8] Degna di nota
anche la sua difesa di Giordano Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo
dall'Inquisizione nel 1600, al quale dedica un saggio[9], impegnandosi anche
presso Mussolini perché la statua del pensatore nolano - eretta in Campo de'
Fiori nel 1889 e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrari - non fosse
rimossa, come richiesto da alcuni cattolici.[10] Nel 1936 comincia una
lunga polemica contro il nuovo ministro dell'Educazione Nazionale Cesare Maria
De Vecchi, che Gentile accusa di «inquinare la cultura nazionale».[11]
Gentile, personalmente, non condivise le leggi razziali del 1938, come si
evince da un carteggio con Benvenuto Donati durato per tutto il periodo tra il
1920 ed il 1943. Già il 21 dicembre 1933, nel corso della giornata inaugurale
dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente prese posizione contro
le teorie razziste che si stavano propagando nella Germania nazista[12]:
«Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre
e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo
programma di fare dell'urbe, l'orbe. La prima e la seconda volta, la Roma
antica e la Roma cristiana: volgendosi con accogliente simpatia e pronta e
conciliatrice intelligenza a ogni nazione a ogni forma di vivere civile, niente
ritenendo alieno da sé che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse
riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile» (Giovanni Gentile nel discorso inaugurale dell'Istituto
italiano per il Medio ed Estremo Oriente il 21 dicembre 1933[12]) Benché sia
stato indicato da taluni[13] come uno dei firmatari del Manifesto della razza,
si tratta di una diceria, in quanto Gentile non lo firmò mai, come dimostrato
dallo studioso Paolo Simoncelli.[14][15] Soprattutto dopo la
promulgazione delle leggi razziali in Italia, si susseguirono gli interventi di
Gentile a favore di colleghi ebrei come Mondolfo[16], Gino Arias[17] e Arnaldo
Momigliano[18]. Il Discorso agli Italiani "Il discorso agli
Italiani" del 24 giugno 1943 Gli ultimi interventi politici sono
rappresentati da due conferenze nel 1943. Nella prima, tenuta il 9 febbraio a
Firenze, dal titolo La mia religione, in cui dichiarò di essere cristiano e
cattolico, sebbene credente nello Stato laico. Nella seconda, molto più
importante, tenuta il 24 giugno su proposta di Carlo Scorza[19], nuovo
segretario nazionale del PNF al Campidoglio a Roma, dal titolo Discorso agli
Italiani, esortò all'unità nazionale, in un momento difficile della guerra.
Dopo questi interventi si ritirò a Troghi[20] (Fi), dove scrive la sua ultima
opera, uscita postuma, Genesi e struttura della società, nella quale recupera
l'antico interesse per la filosofia politica[21], e nel quale teorizzò
"l'Umanesimo del lavoro". Gentile considerò questa sua ultima
opera il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che all'amico
antifascista Mario Manlio Rossi, mostrandogli il manoscritto, scherzando disse:
"I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono. Il mio lavoro nella
vita è concluso"[22]. La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 non
preoccupò particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al
governo[23]. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri
che precedentemente erano stati suoi collaboratori come Domenico Bartolini e
Leonardo Severi lo confortava[24]. In particolare la vecchia amicizia con il
ministro Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina
e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo
precedente[24]. Il 4 agosto Severi rispose a Gentile lanciandogli un duro
e inatteso attacco[25]. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però
di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come
consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta[26]. Gentile
replicò al ministro e rassegnò le dimissioni da direttore della Scuola Normale
di Pisa, Gentile respinse in un primo tempo la proposta di Carlo Alberto
Biggini che nel frattempo era divenuto ministro, di entrare al Governo, dopo un
incontro avvenuto il 17 novembre 1943 con Benito Mussolini sul lago di Garda si
convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Nel novembre 1943 divenne
presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare la
vecchia Accademia dei Lincei che fu assorbita dall'Accademia. Così Gentile alla
figlia Teresa raccontò l'evento: «Venne qui tempo fa un amico ministro a
cercarmi, ed io dissi francamente i motivi personali e politici per cui
desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicurò che io potevo benissimo
restare in disparte: ma dovevo fare una visita al mio vecchio amico che
desiderava vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili
alla mia persona. Negare questa visita non era possibile. Feci comodamente il
viaggio con Fortunato. Ebbi il giorno 17 un colloquio di quasi due ore, che fu
commoventissimo. Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui
comincio a vedere qualche benefico aspetto. Credo di aver fatto molto bene al
paese. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il colloquio fu a
quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me
da un Direttore generale. Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e
demolizione di tutta la mia vita.» (Giovanni Gentile in una lettera
indirizzata alla figlia Teresa[27]) Sostenne la chiamata alle armi e la
coscrizione militare[senza fonte] dei giovani nell'esercito della RSI, auspicando
il ripristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di
Mussolini. Intanto il figlio Federico, capitano d'artiglieria del Regio
Esercito, dopo l'8 settembre era stato internato dai tedeschi in un campo di
prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe: era l'unico ufficiale
italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. Federico Gentile aveva
aderito alla RSI ma non aveva accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale
Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile.[28] Gentile, in un
discorso del 19 marzo 1944, elogiò pubblicamente per la prima volta Adolf
Hitler, definendolo il "Condottiero della grande Germania", e lodando
l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse; pochi giorni dopo il figlio venne
trasferito in un campo meno duro e infine gli fu permesso il ritorno.[29]
Assassinio da parte dei GAP L'ingresso nella Basilica di Santa Croce a
Firenze della salma del filosofo Giovanni Gentile 18 aprile 1944 Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Uccisione di Giovanni
Gentile. Il 30 marzo 1944, per il suo appoggio dichiarato alla leva per la
difesa della RSI, ricevette diverse missive contenenti minacce di morte[30]. In
una in particolare era riportato: "Tu come esponente del neofascismo sei
responsabile dell'assassinio dei cinque giovani al mattino del 22 marzo
1944". L'accusa era riferita alla fucilazione di cinque giovani renitenti
alla leva rastrellati dai militi della RSI il 14 marzo dello stesso anno
(fucilazione orchestrata dal maggiore Mario Carità, che detestava Gentile,
ricambiato; il filosofo aveva infatti minacciato di denunciare le eccessive
violenze del suo reparto allo stesso Mussolini).[31] Gentile non era
assolutamente collegato con tale evento. Il governo fascista repubblicano gli
offrì quindi una scorta armata[30] che però Gentile declinò: "Non sono
così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre
disponibile"[30]. Lapide nei pressi della tomba di Giovanni
Gentile, Basilica di Santa Croce Considerato in ambito resistenziale come uno
dei principali teorici e responsabili del regime fascista, "apologo della
repressione" e di "un regime ostaggio di un esercito occupante",
fu ucciso il 15 aprile 1944 sulla soglia della sua residenza di Firenze, la
Villa di Montalto al Salviatino, da un gruppo partigiano fiorentino aderente ai
GAP di ispirazione comunista. Il commando gappista, composto da Bruno
Fanciullacci, Elio Chianesi[32], Giuseppe Martini "Paolo", Antonio
Ignesti e la staffetta Liliana Benvenuti Mattei "Angela"[33] come
appoggio[34][35] e con Teresa Mattei e Bruno Sanguinetti nell'organizzazione
logistica[36][37], si appostò alle 13:30 circa nei pressi della villa al
Salviatino e, appena il filosofo giunse in auto, Fanciullacci e Martini gli si
avvicinarono tenendo sotto braccio dei libri per nascondere le armi e farsi
così credere studenti. Il filosofo abbassò il vetro per prestare ascolto, ma fu
subito raggiunto dai colpi della rivoltella di Fanciullacci. Fuggiti i gappisti
in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il
filosofo moribondo, ma Gentile, colpito direttamente al cuore e in pieno petto,
in breve spirò.[38] Fu un episodio che divise lo stesso fronte
antifascista e che ancora oggi è al centro di polemiche non sopite, venendo
infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del
Partito Comunista, che rivendicò l'esecuzione[39].[40] Il 18 aprile fu
sepolto, per iniziativa del ministro Carlo Alberto Biggini[41] e con decreto di
approvazione da parte di Mussolini stesso, nella basilica di Santa Croce a
Firenze, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato le
autorità della RSI - dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Mario Carità[42]
- promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni sui responsabili,
mentre venne disposto l'arresto di cinque docenti, indicati dal capo della
provincia Raffaele Manganiello come i mandanti morali dell'agguato[43]:
Ranuccio Bianchi Bandinelli (che aveva forse approvato l'uccisione), Renato
Biasutti, Francesco Calasso, Ernesto Codignola, Enrico Greppi; ma gli ultimi
due sfuggirono alla cattura[44]. Grazie al diretto intervento della famiglia
Gentile gli arrestati scamparono alla consueta rappresaglia che i fascisti
eseguivano in seguito alle azioni gappiste (meno di due settimane prima, il 3
aprile, a Torino erano stati fucilati cinque prigionieri per l'uccisione del
giornalista Ather Capelli), venendo rimessi in libertà.[45] In occasione
del decennale della morte, tra il 15 e il 17 aprile 1955, all'interno della
basilica fu inaugurato il primo di una serie di convegni di "studi
gentiliani". Di tanto in tanto si sono levate isolate voci contro la
presenza della tomba del "filosofo del fascismo" in Santa Croce, ma
senza seguito.[46] La filosofia di Gentile fu da lui denominata attualismo
o idealismo attuale, poiché in esso l'unica vera realtà è l'atto puro del
«pensiero che pensa», cioè l'autocoscienza, in cui si manifesta lo spirito che
comprende tutto l'esistente; in altre parole, solo quello che si realizza
tramite il pensiero rappresenta la realtà in cui il filosofo si
riconosce.[47] Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è
distinzione tra soggetto e oggetto. Gentile avversa pertanto ogni dualismo e
naturalismo rivendicando l'unità di natura e spirito (monismo), cioè di spirito
e materia, all'interno della coscienza pensante, assieme al primato
gnoseologico ed ontologico di questa. La coscienza è vista come sintesi di
soggetto e oggetto, sintesi di un atto in cui il primo (il soggetto) pone se
stesso e pone il secondo (autoconcetto): in ciò consiste l'autoctisi. Non hanno
quindi senso orientamenti solo spiritualisti o solo materialisti, come non ne
ha la divisione netta tra spirito e materia del platonismo, in quanto la realtà
è Una: qui è evidente l'influsso del panteismo rinascimentale e
dell'immanentismo, più che dell'hegelismo.[48] Di Hegel, a differenza di
Benedetto Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo
storicista), per cui tutta la realtà è storia e non atto, in senso
aristotelico, Gentile non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto
l'impianto idealistico relativo alla coscienza: la coscienza è considerata come
fondamento del reale. Anche secondo Gentile vi è un errore in Hegel nella
formulazione della dialettica, ma questo non consiste unicamente, come aveva
affermato Croce, nella sistemazione scolastica hegeliana di Logica, Filosofia
della natura e Filosofia dello Spirito. In proposito Croce aveva infatti
sostenuto, contro questa tripartizione hegeliana,che "tutto è
Spirito". Pur essendo condivisibile la critica crociana, non è
assolutamente sufficiente, in quanto Gentile sostiene ne La riforma della
dialettica hegeliana (1913) che Hegel avrebbe infatti confuso la dialettica del
pensare (che ha individuato correttamente) con la dialettica del pensato:
avrebbe pertanto lasciato forti residui della dialettica del pensato,cioè
quella del pensiero determinato e delle scienze.[48] Gentile inoltre non
accetta la crociana dialettica dei distinti, che Croce (in base al principio
che "non ogni negazione è opposizione") ha introdotto e posto accanto
alla hegeliana "dialettica degli opposti"; infatti il filosofo
siciliano la ritiene un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica hegeliana
medesima. Questa invece si esplica in un attualismo, in cui Gentile utilizza la
dialettica hegeliana degli opposti all'interno della teoria dell'atto del
pensiero come atto puro: questa dialettica si esplica quindi nel rapporto
dialettico tra logica del pensare e logica del pensato.[49]. Recuperando
Fichte (in particolare la Dottrina della scienza del 1794), il filosofo
siciliano afferma che lo spirito è fondante in quanto unità di coscienza ed
autocoscienza, pensiero in atto; l'atto del pensiero pensante, o «atto puro», è
il principio e la forma della realtà diveniente. Secondo Gentile la dialettica
dell'atto puro si attua nell'opposizione tra la soggettività rappresentata
dall'arte (tesi) e l'oggettività rappresentata dalla religione (antitesi), cui
fa da soluzione la filosofia (sintesi).[48] L'atto puro si fonda
sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero
pensato»: la prima è una logica filosofica e dialettica, la seconda una logica
formale ed erronea.[48] Gentile dedica la sua attenzione al tema della
soggettività dell'arte e al suo rapporto con la religione e la filosofia,
ovvero l'intera vita dello spirito; se da un lato l'arte è il prodotto di un
sentimento soggettivo, dall'altro essa è un atto sintetico, che coglie tutti i
momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del
discorso razionale.[48] Sviluppando fino in fondo l'hegelismo di
Bertrando Spaventa, l'attualismo gentiliano, per il quale ogni realtà esiste
solo nell'atto che la pensa, è stato interpretato come un idealismo soggettivo
(una forma di soggettivismo), sebbene il suo autore tendesse a respingere tale
definizione,[50] non essendo quell'atto preceduto né dal soggetto né tantomeno
dall'oggetto, bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in
cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo
infinito" è in realtà immanente all'esperienza, proprio perché creatore
dell'esperienza.[51] Gentile fu il primo e più importante ideologo del
fascismo, assieme a Mussolini stesso. La sua è una filosofia politica
fortemente attivista e attualista (cioè vuole trasporre l'attualismo nel campo
civile e sociale), che coniughi «prassi e pensiero», che sia insieme «azione a
cui è immanente una dottrina».[52] Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà,
in Gentile troviamo il primato del futuro, ma, allo stesso tempo, un recupero
della concezione romantica della Ragione intesa come Spirito universale che
tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente
strumentale.[53] Per Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la
vita» proprio del fascismo è di tipo «spiritualistico».[52] Il fascismo
non è la sola qualificazione politica che dà della propria filosofia, Gentile
infatti vuole essere anche liberale, nonostante sembri respingere quasi in toto
il liberalismo ottocentesco ne La dottrina del fascismo.[52] Difatti la sua
concezione politica riprende la concezione hegeliana dello Stato etico, per cui
libero non è l'individuo atomisticamente e materialisticamente inteso, ma
soltanto lo Stato nel suo processo storico.[54] L'individuo può essere
libero ed esplicare la sua moralità esclusivamente nelle forme istituzionali
dello Stato, come chiarisce nella voce «Fascismo» dell'Enciclopedia
italiana.[55] L'individuo può maturare la sua libertà individuale solo
all'interno dello Stato ("libertà nella legge"), con ciò a dire in un
contesto istituzionale organizzato. Un esempio di questa concezione lo si può
trovare nella Destra storica, la quale governò i primi anni dell'Unità d'Italia:
impostò un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla Sinistra storica
di Francesco Crispi) che riuscì a moderare l'individualità dei singoli, quella
che Gentile definisce come la spinta alla disgregazione; questo modello di
governo forte è giusto per Gentile, in quanto lo Stato deve essere Stato etico,
definito mazzinianamente come "educatore".[52] Se Gentile voglia uno
stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta, di certo nella sua
fase prettamente fascista egli fa riferimento allo "Stato totale",
l'organismo che accoglie tutto in sé.[55] Giovanni Gentile negli
ultimi anni Con il fascismo si può avere vero "liberalismo" in quanto
riporta ai valori primigeni del Risorgimento:[56] Gentile dimostra qui un forte
approccio storicistico, secondo il quale il fascismo trarrebbe la sua
legittimazione dalla storia, sarebbe appunto una fase storica, non un'ideologia
politica.[52] Il Risorgimento non fu solo un'operazione politica, ma un
"atto di fede":[56] il campione di suddetto atto di fede fu Mazzini:
anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei
principi materialistici.[57] Lo Stato giolittiano rappresentò invece,
secondo Gentile (concezione che lo divide radicalmente da Croce), un tradimento
dei valori risorgimentali: per rompere questo status quo degenerativo del
processo italiano fu necessario il ricorso all'illegalità e alla violenza del
fascismo movimento: una violenza rivoluzionaria, perché portatrice di un nuovo
assetto, ma anche statale, perché va a colmare le lacune che vigono nel sistema
statale.[58] Gentile insiste molto sulla novità del fascismo: è un modo nuovo
di concepire la nazione, ha una consapevolezza mistica di ciò che sta
compiendo.[58] Benito Mussolini viene perciò dipinto come un vero eroe
idealistico. La missione del fascismo, secondo Gentile, è quella di creare
l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi
imprese.[58] Questo nuovo tipo di uomo sarà antitetico al carattere che
Giolitti tentò di imprimere alla nazione e che connotava l'Italia come
scettica, mediocre e furbastra.[52] Egli, in quanto ideologo, sostiene
che il fascismo si dovesse istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso
l'istituzione del Gran Consiglio del Fascismo.[52] Il fascismo si deve inoltre
far assorbire dall'italianità (e non il contrario): il fine è che nella società
non vi siano più contraddizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e
cultura fascista.[58] Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta
anche in ambito lavorativo: attraverso l'istituzione della corporazione, la
quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la
collaborazione di classe; anche qua egli riprende le teorie mazziniane, oltre
che il distributismo.[52] Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni
saranno la democrazia organica e la socializzazione dell'economia, progettate
nella RSI) permetterà di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi
economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza
provocare fratture all'interno della società, ed evitando la lotta di classe,
grazie alla terza via fascista.[52] Negli ultimi anni di vita Gentile
sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente del fascismo, l'idea una
riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani, sia fascisti
che antifascisti: pur riconoscendosi nella RSI, invitò pubblicamente il “popolo
sano” ad ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad
evitare una “lotta fratricida"[59], di cui comunque non vedrà la
fine. Il gentilismo fu, assieme al fascismo di sinistra
"rivoluzionario" (Malaparte, Maccari, Bottai, Marinetti), al fascismo
clericale, alla mistica fascista (Giani, Arnaldo Mussolini) e al
neoghibellinismo paganeggiante (Julius Evola), una delle principali correnti
culturali del regime fascista. Per l'idealista Gentile, a differenza di
Croce, che riteneva il pensiero di Marx solo "passione politica",
causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è
una filosofia della storia derivata da Hegel. Nella Filosofia di Marx (1899)
Gentile afferma infatti che questa filosofia della storia (come concezione
materialistica della storia) è costruita da Marx sostituendo la Materia - la
struttura economica - allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta
la realtà, che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura),
come momento del suo sviluppo; secondo Marx invece, avendo scambiato il
relativo con l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la
materia, cioè il fatto economico) la funzione dell'Assoluto - che per Hegel si
sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori - rendendo così determinato
a priori l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della
storia marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana
"rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un
pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach (che
Gentile tradusse per primo in italiano) il "Moro" infatti critica il
materialismo volgare: questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e
il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo
Gentile, Marx,attribuisce alla prassi, considerata come attività sensibile
umana,la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo: il filosofo di
Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività
sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Il filosofo siciliano, fondatore
dell'attualismo, sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto
del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a
crearlo.[60] Teorie pedagogiche Primo piano di Giovanni Gentile
Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la
filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima,
negandone i nessi con la psicologia e con l'etica.[61] L'educazione deve
essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza
così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si
possono fissare le fasi o prescrivere il metodo: «il metodo è il maestro», il
quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo
compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica
sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è
alla base dell'educazione. Al maestro è richiesta una vasta cultura e
null'altro, il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa
che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e
ri-creazione.[61] Il dualismo scolaro-maestro deve risolversi in unità
attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la
cultura muove l'educatore verso l'educando e lo riassorbe nell'universalità
dell'atto spirituale. «Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro
dell'essere divino, dello spirito».[61] Il maestro incarna lo spirito
stesso, l'allievo deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi, facendo del tutto
propri i grandi contenuti presentati.[61] Questi concetti ispirano la
riforma scolastica del 1923 attuata da Gentile in veste di ministro della
Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi
desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma
scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro
fondamentale dello Stato (viene infatti istituito un esame di Stato che
sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati
in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.[61] Gentile
fu ministro della pubblica istruzione e nel 1923 mise in atto la sua riforma
scolastica, elaborata assieme a Giuseppe Lombardo Radice e definita da
Mussolini "la più fascista delle riforme", in sostituzione della vecchia
legge Casati.[62] Essa era fortemente meritocratica e censitaria; dal
punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola
secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo
piramidale, cioè pensata e dedicata «ai migliori» e rigidamente suddivisa a
livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo
professionale per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni
più meritevoli, o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono
istituite borse di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera
potessero proseguire gli studi.[63] Le scienze naturali e la matematica
furono messe in secondo piano, poiché secondo Gentile erano materie prive di
valore universale, che avevano la loro importanza solo a livello professionale.
Questa svalutazione, tuttavia, non avvenne nelle Università,[64] in quanto
luoghi delle formazioni specialistiche; difatti Giovanni Gentile, a differenza
di Croce che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche
sulla scienza[65], pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando
anch'egli le materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti,
improntati al dialogo, con matematici e fisici italiani (come Ettore Majorana,
collaboratore di Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via
Panisperna", che divenne anche amico del figlio Giovanni jr., coetaneo del
Majorana) e cercò di instaurare un confronto costruttivo con la cultura
scientifica.[62][66] L'obbligo scolastico fu innalzato a 14 anni e fu
istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che terminava la
scuola elementare aveva la possibilità di scegliere tra i licei classico e
scientifico oppure gli istituti tecnici. Solo i due licei permettevano l'accesso
all'università (il secondo solo alle facoltà scientifiche), in questo modo però
veniva mantenuta una profonda divisione tra classi sociali (questo vincolo fu
rimosso completamente solo nel 1969).[62] Per diminuire l'iscrizione al
sovraffollato Istituto magistrale, e per mantenere la separazione tra i sessi
nei licei dove prevaleva una maggioranza maschile, fece creare un apposito
liceo femminile,[67] favorendo l'accesso delle donne all'insegnamento, ritenuto
particolarmente adatto a loro[67], ma escludendole dall'insegnamento delle
materie di Storia, Filosofia ed Economia politica nei licei, nonché Materie
letterarie, Diritto ed Economia politica nelle scuole e negli istituti
tecnici[68][69]. Ciò andava incontro alla visione patriarcale di Mussolini che
intendeva spingere le donne a dedicarsi alla famiglia e ad avere più figli,
distogliendole dal lavoro e dallo studio[70]. Anche Gentile nel complesso
mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo ("il femminismo è
morto" dirà nel 1934[71]), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei
dovessero formare i "futuri capi" guerrieri, mentre le donne (sulla
scia di un'interpretazione lombrosiana) avevano una capacità di
"comprensione dello Spirito imperfetta"[72] e perciò dovevano dedicarsi
ad attività non politiche e non scientifiche, "terreno di battaglia
dell'uomo", studiando in una «scuola adatta ai bisogni intellettuali e
morali delle signorine», in cui erano privilegiate la danza, la musica e il
canto. Tuttavia non venne vietata alle donne la frequentazione
dell'università.[73] Il liceo femminile sarà soppresso già nel 1928, per
lo scarso successo ottenuto. Per Victoria De Grazia, la riforma della scuola
femminile esprimeva la contraddittoria visione della donna nel regime: «come
riproduttrici della razza le donne dovevano incarnare i ruoli tradizionali,
essere stoiche, silenziose, e sempre disponibili; come cittadine e patriote,
dovevano essere moderne, cioè combattive, presenti sulla scena pubblica e
pronte alla chiamata».[74] Fra gli scopi dichiarati della riforma vi era
anche la riduzione della popolazione scolastica delle scuole medie e
superiori: «L'esclusione di un certo numero di alunni dalla scuola
pubblica era stato il proposito ben chiaro della nostra riforma (...) Non si
deve trovare posto per tutti (...) La riforma tende proprio a questo: a ridurre
la popolazione scolastica[75].» (Giovanni Gentile) Ribadisce che non
esiste un metodo nell'insegnamento, ogni argomento è metodo a sé stesso, cioè
non è una nozione astratta da memorizzare ma atto di ricerca attiva e
creativa.[62] L'insegnante può adoperare delle indicazioni di metodo per
preparare le fasi che precedono l'insegnamento.[62] La riforma Gentile fu
sostituita dalla riforma Bottai del 1940, che però non entrerà mai
completamente a pieno regime a causa della guerra, e sarà definitivamente
archiviata dal 1962. Gran parte della suddivisione ideata da Gentile con la
riforma del 1924, tuttavia, come la scuola elementare, media e superiore
comprendente i licei, è rimasta formalmente in vigore fino a oggi nonostante
vari tentativi di modificarla, mentre venne eliminata la cosiddetta
"scuola di avviamento". Verrà però permesso, dopo il 1968, l'accesso
universitario da tutte le scuole superiori.[62] L'insegnamento della
religione cattolica La religione è insegnata obbligatoriamente a livello
primario, introdotta anche per le altre scuole con il Concordato, ma con parere
contrario di Gentile. Nella riforma è prevista però la richiesta di esonero,
per chi professi altre fedi.[76]. Gentile riteneva che tutti i cittadini
dovessero possedere una concezione religiosa e che la religione da insegnare
fosse la religione cattolica in quanto religione dominante in Italia.[62] Nel
triennio dell'istruzione classica veniva poi introdotta, in sostituzione, la
filosofia, adatta alle classi dominanti e alla futura classe dirigente, ma non
al popolo minuto. Gentile e la cultura successiva Emissione
filatelica dedicata dalla Repubblica Italiana a Gentile nel cinquantesimo
anniversario della morte (1994) Con l'uccisione di Gentile - il 15 aprile 1944
- e la fine del regime fascista che egli sino all'ultimo appoggiò, iniziò nei
suoi confronti non tanto una forma di ostracismo, quanto di rimozione,
attenuatasi però negli ultimi decenni grazie all'opera di studiosi spesso in
polemica tra loro. Secondo il filosofo cattolico Augusto Del Noce, uno dei suoi
principali rivalutatori[77], Gentile è un pensatore della secolarizzazione e
della risoluzione della trascendenza in prassi - in ciò accomunato a Marx -,
determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa
che ne fece Antonio Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine
Nuovo, Piero Gobetti nel 1921 scrive che Gentile «ha veramente formato la
nostra cultura filosofica».[78] Di tutt'altro avviso Gennaro Sasso[79],
secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi
politica di Gentile, la cui «passionale» adesione al fascismo «fu filosofica,
forse, a parole [...] ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere
studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa
«e il fascismo non c'è, né ci può essere, alcun nesso». Secondo Martin
Beckstein, invece, proprio la filosofia di Gentile rappresenta la
«fascistizzazione dell'attualismo» e pertanto una «deformazione
dell'idealismo»[80]. Al di là della sua appartenenza politica, lo storico Leo
Valiani attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore filosofico:
«Giovanni Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà al fascismo. Ma
fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino
Gramsci e Togliatti.» (Leo Valiani, articolo sul Corriere della Sera del
12/09/1975) Per approfondire gli studi sull'opera del filosofo sono nati negli
anni '80 l'Istituto di studi gentiliani di Roma, presieduto da Antonio Fede[81]
e la "Fondazione Giovanni Gentile", la cui sede, dal 1982, è presso
la Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma "La Sapienza", e
presieduta da Gennaro Sasso[82]. La filosofia gentiliana è stimata anche
dal filosofo laico Emanuele Severino,[83][84][85][86] che ravvisandovi una
condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera «uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale»,[87] mentre per
Nicola Abbagnano, «Gentile era certamente un romantico, forse l'ultima più
vigorosa figura del Romanticismo europeo».[88] Nel 1994 gli venne
dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le personalità di primo
piano del regime fascista ad avere questa celebrazione da parte della
Repubblica Italiana. In una lettera scritta nel 2000 a Chicco Testa e
resa nota dal Riformista, la giornalista e scrittrice fiorentina Oriana
Fallaci, nonostante si fosse sempre autodefinita una partigiana (fu staffetta
delle brigate Giustizia e Libertà) non risparmia critiche sull'assassinio di
Giovanni Gentile. Scrive infatti che «l'assassinio di Gentile fu una carognata
ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista». Che gli antifascisti furono
dei «cacasotto» perché «uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero
il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano
minato».[89] Onorificenze Cavaliere di gran croce insignito del gran
cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro — Roma, 2 giugno 1937 Cavaliere di gran croce insignito del
gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme
ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della
Corona d'Italia — 30 dicembre 1923 Cavaliere di II classe dell'Ordine
dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) — luglio
1940. Opere Di carattere filosofico o generale L'atto del pensare come
atto puro (1912) La riforma della dialettica hegeliana, Firenze, Sansoni,
(1913) La filosofia della guerra (1914) Teoria generale dello spirito come atto
puro, Firenze, Sansoni, (1916) I fondamenti della filosofia del diritto (1916)
Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922) Guerra e fede (1919,
raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (1920,
raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di religione (1920) Il
modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1921) Frammenti di storia
della filosofia (1926) La filosofia dell'arte (1931) Introduzione alla
filosofia (1933) Genesi e struttura della società (postumo 1946) L'attualismo a
cura di V. Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano 2014 Di
carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il
Lasca (1895) Rosmini e Gioberti (1898, tesi di laurea) La filosofia di Marx
(1899) Dal Genovesi al Galluppi (1903) Bernardino Telesio (1911) Studi vichiani
(1914) Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1917-1923) Il
tramonto della cultura siciliana (1918) Giordano Bruno e il pensiero del
Rinascimento (1920) Frammenti di estetica e letteratura (1921) La cultura
piemontese (1922) Gino Capponi e la cultura toscana del secolo XIX (1922) Studi
sul Rinascimento (1923) I profeti del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti
(1923) Bertrando Spaventa (1924) Manzoni e Leopardi (1928) Economia ed etica
(1934) Giovanni Gentile un filosofo scomodo (2019) Di carattere pedagogico
L'insegnamento della filosofia nei licei (1900) Scuola e filosofia (1908)
Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912) I problemi della
scolastica e il pensiero italiano (1913) Il problema scolastico del dopoguerra
(1919) La riforma dell'educazione, Bari, Laterza, (1920) Educazione e scuola
laica (1921) La nuova scuola media (1925) La riforma della scuola in Italia
(1932) Sul fascismo Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925) Che cos'è
il fascismo (1925) Fascismo e cultura (1928) Origini e dottrina del fascismo
(1929) La mia religione (1943, discorso tenuto a Firenze) Discorso agli
Italiani (1943, discorso tenuto a Roma). L’essenza del fascismo (1928-29, la prima
parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T., del 1928: la prima e la
seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma,
1929; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini e dottrina del
fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma, 1929; altro testo in
cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La filosofia del fascismo
(1941 o 1928, in Origini e dottrina del fascismo; si trova in Politica e
Cultura, cit., Vol II, pagg 165-181; oppure lo si può trovare le libro
intitolato L’Identità fascista op. cit. pp 217–232; un altro libro in cui si
trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano del mondo, Roma,
1941) Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze, 1925, Vallecchi).
Fascismo al governo della scuola (1924) Giovanni Gentile Scritti per il
Corriere 1927-1944. Note ^ Vi è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile
e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica in un ruolo
subordinato rispetto a quella filosofico letteraria ( 1911-2011: l'Italia della
scienza negata, in Il Sole 24 ORE. URL consultato il 9 giugno 2017.), altri
invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia
gentiliana nacquero numerosi enti scientifici ( Croce e Gentile amici della
scienza, in Corriere della Sera. URL consultato il 10 giugno 2017.). ^ Cit. di
Geno Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, a cura di
Marcello Staglieno, § III, pag. 26, Milano, Rizzoli, 1990. ^ Manifesto cit. in
Eugenio Di Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra
alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 71-72 ^ Cfr. Vito de Luca, Un
consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e
linguaggio politico (1920-1922), "Nuova Storia contemporanea", a.
XVIII, n. 6, 2014, pagg. 95-120. Dello stesso autore,cfr. "Giovanni
Gentile. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo,
dell'assessore e del ministro (1920-19249)", Chieti, Solfanelli, 2017, pp.
464. ^ Scheda senatore GENTILE Giovanni Paolo Simoncelli, p. 41.
Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua
biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, n. 8, ottobre 2005, p. 41 ^ Testo
qui ^ Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento,
ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult. cont. ^ Giordano
Bruno. III. LE VICENDE DELLA STATUA ^ «De Vecchi, Cesare Maria», Treccani
Paolo Simoncelli, p. 207. ^ La scelta di campo di Gentile Archiviato il 24
settembre 2015 in Internet Archive. ^ Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la
razza e le bufale, l'Opinione, 30 marzo 2013 ^ Paolo Mieli, Gentile criticò in
pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano ^ Paolo Simoncelli, p. 43.
^ Paolo Simoncelli, p. 40. ^ Paolo Simoncelli, p. 34. ^ Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo, p. 13. ^ "Giovanni Gentile" di Gabriele
Turi (p. 501), Google libri. ^ Giovanni Gentile in “Il Contributo italiano alla
storia del Pensiero – Filosofia” – Treccani ^ Francesco Perfetti, Assassinio di
un filosofo, p. 23. ^ Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, p.
24. Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, p. 25. ^ Luciano
Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, 1985,
pp. 49-64. ^ Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, p. 26. ^ Vittorio
Vettori, Giovanni Gentile, Editrice Italiana, Roma, marzo 1967, pp. 151-152 ^
Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni e – secondo la testimonianza
dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania, in La
Repubblica, 12 marzo 2005. ^ Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler
per salvare il figlio, in Corriere della Sera, 9 giugno 2005. Renzo
Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a
salvarsi", articolo su "Historia", febbraio 1974, N° 194, p.
135. ^ Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata nº
200, luglio 1974, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, p. 56: "Gentile,
sdegnato, ha minacciato di denunciarlo a Mussolini" ^ Elio Chianesi, su
anpi.it. URL consultato il 25 luglio 2010. ^ La Benvenuti non volle mai
raccontare i precisi particolari, dal suo punto di vista: «Questa è una cosa
che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è
come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me
l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un
intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù (2016). ^ Paolo Paoletti,
"Il Delitto Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, 2005, pp.
21-25 par. 1.6 " L'omicidio raccontato da Giuseppe Martini
"Paolo" uno dei due esecutori materiali"...Sicuramente
(Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se era il professore e subito dopo
gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini
posteriori..." ^ Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore
rosso ^ Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire,
in Corriere della Sera, 6 agosto 2004, p. 29. URL consultato il 12 marzo 2013
(archiviato dall'url originale il 7 dicembre 2013). ^ «Per fare in modo che i
gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li
accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre
usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un
terribile imbarazzo.» (Teresa Mattei) ^ Luciano Canfora, "Giovanni
Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana 1943-1945, a cura di
P. P. Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 1986, pp.
235-243 ^ Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire,
sul Corriere della Sera del 6 agosto 2004, p. 29: "L'omicidio di Gentile,
anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano,
con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito
d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi." ^ Maria Cristina Carratù,
E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La
Repubblica, 24 aprile 2016 ^ Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti
partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia",
febbraio 1974, N° 194, p. 136. ^ Ecco le carte che assolvono l'archeologo ^
Romano, p. 302. ^ Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" (pagina 522) ^
Così Gaetano Gentile ricordò nel 1954 il suo intervento presso la prefettura:
«Quella sera stessa [del 15 aprile], per desiderio di mia Madre, io mi recai
dal capo della Provincia e gli parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in
città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel
proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati
rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo
dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella
mattina la voce di mio Padre si era levata […] a deplorare la tragica inutilità
di un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una
crudele successione di attentati e rappresaglie. Era ovvio poi che,
indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti
simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio
Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine
questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante
atteggiamento». ^ Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa
Croce, su liberoquotidiano.it. URL consultato il 15 novembre 2017 (archiviato
dall'url originale il 16 novembre 2017). ^ «Attualismo», Enciclopedia Treccani
Diego Fusaro (a cura di), Giovanni Gentile ^ Sull'importanza della riforma
della dialettica idealista di matrice hegeliana in Gentile, si veda
quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia
Multimediale delle Scienza Filosofiche. ^ Bruno Minozzi, Saggio di una teoria
dell'essere come presenza pura, pag. 114, Il Mulino, 1960. ^ Gentile quindi
contestava a Fichte la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di
restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del
pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo
infinito"), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale
Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire
da sé» (Giovanni Gentile, Discorsi di religione, pp. 53-55, Firenze, Sansoni,
1935). Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La dottrina del fascismo. ^
Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, a cura di Marcello Staglieno, § III,
Nella Napoli nobilissima, pag. 37, Milano, Rizzoli, 1990. ^ Vito de Luca,
Giovanni Gentile e il liberalismo, su libertates.com, 26 giugno 2014
(archiviato dall'url originale il 13 settembre 2014). Benito Mussolini,
Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana. Augusto
Del Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni
Gentile, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", a. XLVII,
Terza serie, vol. XXII, n. 2, aprile-giugno 1968, pp. 163-215. ^ Giovanni
Belardelli, Il fascismo e Giuseppe Mazzini Giovanni Gentile, Manifesto
degli intellettuali fascisti ^ Giovanni Gentile, "Ricostruire" in
Corriere della Sera, 28 dicembre 1943 ^ Cfr. Libertà e liberalismo
("Conferenza tenuta all'Università fascista di Bologna la sera del 9 marzo
1925"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura a cura di H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1990 (Opere complete XLV). Il pensiero
pedagogico di Giovanni Gentile La riforma Gentile, su pbmstoria.it. URL
consultato il 2 novembre 2014 (archiviato dall'url originale il 14 febbraio
2015). ^ Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali,
1958-1974 (di 15 voll.), Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, OCLC
1588868. : «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza
nella limitazione delle iscrizioni? — [Gentile:] Questa limitazione non c'è
nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole
professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità
di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli
incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole
classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno
consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità
di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.
Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed
abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di
minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei
loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a
disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la
scuola umanistica.» ( R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola
(novembre '22-aprile '24): discorsi e interviste, a cura di Ferruccio E. Boffi,
1924, p. 331.) ^ Giuseppe Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola:
atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997, p. 261. ^
Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il neoidealismo di Croce e Gentile,
Homolaicus. ^ Il mistero di Ettore Majorana Eleonora Guglielman, Dalla
scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della
riforma Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro.
Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia" (a cura di
M. Guspini), Roma, Anicia, 2004, pp. 155-195. Una parte del lavoro è stata in
precedenza pubblicata, con alcune varianti, sulla rivista "Scuola e
Città" con il titolo Il liceo femminile 1923-1928 (a. LI, n. 10, ottobre
2000, pp. 417-431). ^ Manacorda 1997, p. 81. ^ D'Amico 2016, p. 342. ^ Katia
Romagnoli (a cura di), Donne, la Resistenza "taciuta". L'esclusione
delle donne nella società fascista ^ G. Gentile, La donna nella coscienza
moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, 1934,
pp. 1-28. ^ V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, pp. 210-211 ^ G.
Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale
Pubblica Lettura, 1977, p. 11 ^ V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, p.
204 ^ Giovanni Gentile, La riforma della scuola in Italia, Milano 1932, p. 281;
citata in: Manacorda 1997, p. 81. Le omissioni, qui tra parentesi tonde, sono
nel testo di Manacorda. ^ circolare n. 2 del 5 gennaio 1924 ^ Augusto del Noce,
Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia
contemporanea, Bologna, il Mulino, 1990. ^ Giovanni Bedeschi, Il ritorno del
maestro, sta in Il Sole 24 ore Domenica, 14 dicembre 2014. ^ Gennaro Sasso, Le
due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il Mulino, 1998. ^ Martin Beckstein,
Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation
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Humanistica I», 2008, pp. 119-136. ^ Filosofia: A Firenze Convegno Studi
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Università di Roma Archiviato il 10 novembre 2013 in Internet Archive. ^
Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla faziosità del '900 ^ Emanuele
Severino: Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto
Quotidiano ^ È Gentile il profeta della civiltà tecnica. ^ «I nemici di
Giovanni Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai ^ Emanuele
Severino, dalla quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti, 2014 ISBN
9788845277535. ^ Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, § III, Nella Napoli
nobilissima, pag. 33, Milano, Rizzoli, 1990. ^ "La partigiana Fallaci fa a
pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale. Bibliografia
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Gentile, la vita e il pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli
Studi filosofici, Firenze, Sansoni, 1957 Aldo Lo Schiavo, Introduzione a
Gentile, Bari, Laterza, 1974 Sergio Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al
potere, Milano, Bompiani, 1984 Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi
e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, 1985 Augusto del Noce, Giovanni Gentile.
Per una interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il
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liberale di Giovanni Gentile, da "Le storie, la storia", Milano,
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politico, Firenze, Le Lettere, 2004. Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una
biografia, Torino, UTET, 2006 Hervé A. Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in
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del fascismo in Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce 2008. Marcello Mustè,
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Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista,
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Intellettuali, dittatura, razzismo di Stato, Milano, Franco Angeli, 2008 Primo
Siena, Gentile. la critica alla democrazia, Volpe editore, 1966 Primo Siena,
Giovanni Gentile. Un italiano nelle intemperie, Solfanelli, 2014 Michele
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della nascita, 2005. Vittorio Vettori, Giovanni Gentile, Roma, Editrice
Italiana, 1967, (2 voll.). Marcello Veneziani (a cura di), Giovanni Gentile -
Pensare l'Italia, Le Lettere, Firenze, 2013 Voci correlate Attualismo
(filosofia) Fascismo Idealismo italiano Manifesto degli intellettuali fascisti
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dell'adesione al partito fascista (31 maggio 1923), su lovatti.eu.
PredecessoreMinistro della Pubblica Istruzione del Regno d'ItaliaSuccessoreFlag
of Italy (1861–1946).svg Antonino Anile30 ottobre 1922 - 1º luglio
1924Alessandro CasatiPredecessoreDirettore della Scuola Normale Superiore di
PisaSuccessoreSNS.jpg Luigi Bianchi1928 - 1936Giovanni D'AchiardiI Giovanni
D'Achiardi1937 - 1943Luigi RussoII PredecessorePresidente della Reale Accademia
d'ItaliaSuccessore Luigi Federzoni 19431944Giotto
Dainelli V · D · M Giovanni Gentile V · D · M Governo Mussolini (31 ottobre
1922 - 25 luglio 1943) V · D · M Liberalismo Controllo di autoritàVIAF (EN)
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Fascismo Portale Fascismo Filosofia Portale Filosofia Istruzione Portale
Istruzione Categorie: Filosofi italiani del XX secoloPedagogisti
italianiPolitici italiani del XX secoloNati nel 1875Morti nel 1944Nati il 29
maggioMorti il 15 aprileNati a CastelvetranoMorti a FirenzeGiovanni
GentileGoverno MussoliniDirettori della Scuola Normale SuperioreAccademici
italiani del XX secoloStudenti della Scuola Normale SuperioreProfessori
dell'Università degli Studi di PalermoProfessori dell'Università di
PisaProfessori della Sapienza - Università di RomaSepolti nella basilica di
Santa CroceFilosofi della politicaIdealistiPolitici del Partito Nazionale
FascistaPersonalità dell'Italia fascistaPersonalità della Repubblica Sociale
ItalianaMinistri della pubblica istruzione del Regno d'ItaliaAccademici
dell'Accademia d'ItaliaAnticomunisti italianiPolitici assassinatiAssassinati
con arma da fuocoSenatori della XXVI legislatura del Regno d'ItaliaCritici
letterari italiani del XX secoloScrittori italiani del XX secoloMembri
dell'Accademia delle Scienze di Torino[altre]. Refs.: Luigi Speranza,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Conversation and inter-subjectivity.
genus:
gender.
H. P. Grice calls Austin an artless sexist when referring to the trouser word.
We see how after Austin’s death, Grice more and more loses his reverential
attitude towards the ‘school master’ and shows Austin for what he is! Gender implicaturum
– Most languages have three genders: masculine, feminine, and neuter (or
epicene, or common). feminist epistemology, epistemology from a feminist
perspective. It investigates the relevance that the gender of the
inquirer/knower has to epistemic practices, including the theoretical practice
of epistemology. It is typified both by themes that are exclusively feminist in
that they could arise only from a critical attention to gender, and by themes
that are non-exclusively feminist in that they might arise from other
politicizing theoretical perspectives besides feminism. A central, exclusively
feminist theme is the relation between philosophical conceptions of reason and
cultural conceptions of masculinity. Here a historicist stance must be adopted,
so that philosophy is conceived as the product of historically and culturally
situated hence gendered authors. This stance brings certain patterns of
intellectual association into view
patterns, perhaps, of alignment between philosophical conceptions of
reason as contrasted with emotion or intuition, and cultural conceptions of
masculinity as contrasted with femininity. A central, non-exclusively feminist
theme might be called “social-ism” in epistemology. It has two main
tributaries: political philosophy, in the form of Marx’s historical
materialism; and philosophy of science, in the form of either Quinean
naturalism or Kuhnian historicism. The first has resulted in feminist
standpoint theory, which adapts and develops the Marxian idea that different
social groups have different epistemic standpoints, where the material
positioning of one of the groups is said to bestow an epistemic privilege. The
second has resulted in feminist work in philosophy of science which tries to
show that not only epistemic values but also non-epistemic e.g. gendered values
are of necessity sometimes an influence in the generation of scientific
theories. If this can be shown, then an important feminist project suggests
itself: to work out a rationale for regulating the influence of these values so
that science may be more self-transparent and more responsible. By attempting
to reveal the epistemological implications of the fact that knowers are
diversely situated in social relations of identity and power, feminist
epistemology represents a radicalizing innovation in the analytic tradition,
which has typically assumed an asocial conception of the epistemic subject, and
of the philosopher. -- feminist philosophy, a discussion of philosophical
concerns that refuses to identify the human experience with the male
experience. Writing from a variety of perspectives, feminist philosophers
challenge several areas of traditional philosophy on the grounds that they fail
1 to take seriously women’s interests, identities, and issues; and 2 to
recognize women’s ways of being, thinking, and doing as valuable as those of
men. Feminist philosophers fault traditional metaphysics for splitting the self
from the other and the mind from the body; for wondering whether “other minds”
exist and whether personal identity depends more on memories or on physical
characteristics. Because feminist philosophers reject all forms of ontological
dualism, they stress the ways in which individuals interpenetrate each other’s
psyches through empathy, and the ways in which the mind and body coconstitute
each other. Because Western culture has associated rationality with
“masculinity” and emotionality with “femininity,” traditional epistemologists
have often concluded that women are less human than men. For this reason,
feminist philosophers argue that reason and emotion are symbiotically related,
coequal sources of knowledge. Feminist philosophers also argue that Cartesian
knowledge, for all its certainty and clarity, is very limited. People want to
know more than that they exist; they want to know what other people are
thinking and feeling. Feminist philosophers also observe that traditional
philosophy of science is not as objective as it claims to be. Whereas
traditional philosophers of science often associate scientific success with scientists’
ability to control, rule, and otherwise dominate nature, feminist philosophers
of science associate scientific success with scientists’ ability to listen to
nature’s self-revelations. Since it willingly yields abstract theory to the
testimony of concrete fact, a science that listens to what nature says is
probably more objective than one that does not. Feminist philosophers also
criticize traditional ethics and traditional social and political philosophy.
Rules and principles have dominated traditional ethics. Whether agents seek to
maximize utility for the aggregate or do their duty for the sake of duty, they
measure their conduct against a set of universal, abstract, and impersonal
norms. Feminist philosophers often call this traditional view of ethics a
“justice” perspective, contrasting it with a “care” perspective that stresses
responsibilities and relationships rather than rights and rules, and that
attends more to a moral situation’s particular features than to its general
implications. Feminist social and political philosophy focus on the political
institutions and social practices that perpetuate women’s subordination. The
goals of feminist social and political philosophy are 1 to explain why women
are suppressed, repressed, and/or oppressed in ways that men are not; and 2 to
suggest morally desirable and politically feasible ways to give women the same
justice, freedom, and equality that men have. Liberal feminists believe that
because women have the same rights as men do, society must provide women with
the same educational and occupational opportunities that men have. Marxist
feminists believe that women cannot be men’s equals until women enter the work
force en masse and domestic work and child care are socialized. Radical
feminists believe that the fundamental causes of women’s oppression are sexual.
It is women’s reproductive role and/or their sexual role that causes their
subordination. Unless women set their own reproductive goals childlessness is a
legitimate alternative to motherhood and their own sexual agendas lesbianism,
autoeroticism, and celibacy are alternatives to heterosexuality, women will
remain less than free. Psychoanalytic feminists believe that women’s
subordination is the result of earlychildhood experiences that cause them to
overdevelop their abilities to relate to other people on the one hand and to
underdevelop their abilities to assert themselves as autonomous agents on the
other. Women’s greatest strength, a capacity for deep relationships, may also
be their greatest weakness: a tendency to be controlled by the needs and wants
of others. Finally, existentialist feminists claim that the ultimate cause of
women’s subordination is ontological. Women are the Other; men are the Self.
Until women define themselves in terms of themselves, they will continue to be
defined in terms of what they are not: men. Recently, socialist feminists have
attempted to weave these distinctive strands of feminist social and political
thought into a theoretical whole. They argue that women’s condition is
overdetermined by the structures of production, reproduction and sexuality, and
the socialization of children. Women’s status and function in all of these
structures must change if they are to achieve full liberation. Furthermore,
women’s psyches must also be transformed. Only then will women be liberated
from the kind of patriarchal thoughts that undermine their self-concept and
make them always the Other. Interestingly, the socialist feminist effort to
establish a specifically feminist standpoint that represents how women see the
world has not gone without challenge. Postmodern feminists regard this effort
as an instantiation of the kind of typically male thinking that tells only one
story about reality, truth, knowledge, ethics, and politics. For postmodern
feminists, such a story is neither feasible nor desirable. It is not feasible
because women’s experiences differ across class, racial, and cultural lines. It
is not desirable because the “One” and the “True” are philosophical myths that
traditional philosophy uses to silence the voices of the many. Feminist
philosophy must be many and not One because women are many and not One. The
more feminist thoughts, the better. By refusing to center, congeal, and cement
separate thoughts into a unified and inflexible truth, feminist philosophers
can avoid the pitfalls of traditional philosophy. As attractive as the
postmodern feminist approach to philosophy may be, some feminist philosophers
worry that an overemphasis on difference and a rejection of unity may lead to
intellectual as well as political disintegration. If feminist philosophy is to
be without any standpoint whatsoever, it becomes difficult to ground claims
about what is good for women in particufeminist philosophy feminist philosophy
306 306 lar and for human beings in
general. It is a major challenge to contemporary feminist philosophy,
therefore, to reconcile the pressures for diversity and difference with those
for integration and commonality. Then
there’s the genus generalissimum: “I
love a superlative: good, gooder and goodest, my favourites!” a genus that is
not a species of some higher genus; a broadest natural kind. One of the ten
Aristotelian categories, it is also called summum
genus. For Aristotle and many of his followers, the ten categories (twelve
in Kant, four in Grice) are *not* species of some higher all-inclusive
genus say, being. Otherwise, that alleged
over-arching all-inclusive genus would wholly include the differences, say,
between conversational quality, conversational quantity, conversational
relation, and conversational mode, and would be universally predicable of
conversational quality, conversational quantity, conversational relation, and
conversational mode. But no genus is predicable of its differences in this manner.
Few authors explained this reasoning clearly, but Grice did: “If I appeal to
four conversational categories, I know what I am doing. The principle of
conversational benevolence cannot float in the air: it needs four categories –
informativeness, trustworthiness, connectedness and perspicuity – to make it
applicable to our conversational realities. Grice points out that if the
difference ‘rational’ just meant ‘rational animal’, to define ‘man’ as
‘rational animal’ would be to define him as ‘rational animal animal’, which
would infringe the conversational maxims ‘be brief,’ and ‘do not be repetitive’
– “On toop, man is a rational animal animal is ill formed.” So too generally:
no genus can include its differences in this way. Thus there is no all-inclusive
genus. Grice’s four conversational categories are the most general conversational
genera.
get across – A more colloquial way for what Grice later will have as
‘soul-to-soul-transfer,’ used by Grice in Causal: Surely the truth or falsity
of Strawson having a beautiful handwriting has no bearing on the truth or
falsity of his being hopeless at philosophy (“provided that is what I intended
to get across,” implicating, ‘who cares,’ or ‘whatever’). His cavalier attitude
shows that Grice is never really concerned with the individuation of the
logical form of the implicaturum, just to note that whatever some philosopher
thought was part of the sense it ain’t! This is the Austinian in Grice. Austin
suggested that Grice analysed or consult with Holdcroft for all ‘forms of
indirect communication.’ Grice lists: mean, indicate, suggest, imply,
insinuate, hint – ‘get across’.
genovesi: essential
Italian philosopher – Antonio Genovesi (Castiglione del Genovesi, 1º novembre 1713 –
Napoli, 22 settembre 1769) è stato uno scrittore, filosofo, economista e
sacerdote italiano. Figlio di Salvatore Genovese, calzolaio e
piccolo imprenditore, e di Adriana Alfinito di San Mango, nacque a Castiglione,
Salerno (da distinguersi dalla omonima Castiglione di Ravello, situata sempre
nella stessa provincia) nel 1713. Il padre lo indirizzò in tenera età
verso gli studi. A quattordici anni fu affidato agli insegnamenti di Niccolò
Genovese, un congiunto, giovane medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in
filosofia peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. A
diciotto anni, nel corso degli studi teologici, Genovesi si innamorò di una
ragazza di Castiglione, Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione
del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino,
dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove
seguì gli insegnamenti teologici e filosofici del prete Giovanni Abbamonte,
appassionandosi al latino e al greco. Ricevette l'ordinazione a diacono
dopo aver superato l'esame di teologia dogmatica alla presenza dell'arcivescovo
di Salerno Fabrizio di Capua il 22 dicembre 1736, presso la Cattedrale di
Salerno. A ventiquattro anni fu nominato maestro di retorica presso il
seminario di Salerno dove incontrò il vice rettore, Antonio Doti, dal quale
ricevette insegnamenti di lingua francese e lezioni di perfezionamento nel
latino e nell'italiano. Nel 1738, a venticinque anni, venne ordinato sacerdote
e, dopo pochi mesi, si trasferì a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera
forense, che lasciò presto. Nel 1739 fondò una scuola privata di metafisica e
teologia. A Napoli fu in contatto con Giambattista Vico e nell'Università di
Napoli, nel 1741, ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione
teologiche contenute nella suo libro Elementa Metaphysicae pubblicato nel 1743,
furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento
dell'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, e dello stesso pontefice
Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lasciò
l'insegnamento della metafisica nell'università di Napoli, per passare, nel
1745, all'etica, cattedra che era stata tenuta in passato da Vico.
L'evoluzione dalla metafisica-teologia all'etica proseguì con il passaggio
all'economia, avvenuto nei primi anni cinquanta, quando si compì la
trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere
nella sua autobiografia. Divenne titolare della cattedra di 'commercio e
meccanica', istituita con fondi privati dal toscano Bartolomeo Intieri, la
prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non
consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti del XVIII
secolo in Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come
economista è stato quello più fecondo, tanto che Genovesi divenne un autore
fondamentale per la tradizione italiana e non solo (le sue Lezioni furono
tradotte in spagnolo, e parzialmente in francese). Morì a Napoli il 22
settembre 1769. La salma fu sepolta nella chiesa del monastero di Sant'Eramo
Nuovo (o Sant'Eusebio) a cura del suo amico Raimondo di Sangro, Principe di San
Severo. Tuttavia non ebbe un sepolcro individuabile, ma fu semplicemente
deposto nella cripta. In seguito a ristrutturazioni della chiesa nei primi anni
trenta del XX secolo, le ossa della cripta (e dunque anche quelle del Genovesi)
furono trasferite nella chiesa di Sant'Eframo Vecchio. Pensiero filosofico
Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al
costume della Controriforma: gli spunti di polemica antigesuitica e
anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia dello Stato
laico contro ogni interferenza della Chiesa, i primi elementi di una teoria
delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano
letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e
coraggiose. In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che
si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo
caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini della
vecchia civiltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, il pensiero
politico di Genovesi fu decisamente di tipo riformatore[1]: fu definito
"un anglofilo sotto spoglie francesi", nello scritto di Paola Zanardi
sull'influenza di David Hume nell'Illuminismo napoletano[2]. Nelle sue
opere filosofiche, Genovesi persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo,
cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della
filosofia cristiana. Antonio Genovesi recepì l'influenza del nuovo
panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti
il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo
stato di "oscurità" (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les
Lumières). Egli prese coscienza della decadenza culturale, materiale e
spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della
necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a
nuovi splendori[3]. «Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi
teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso
sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai
permanentemente di non pensare più a queste materie.[4]» Per tale motivo,
abbandonò l'etica e la filosofia e si dedicò allo studio dell'economia
affermando tra le altre cose, che essa doveva servire ai governi per alimentare
la ricchezza e la potenza delle nazioni[5], argomento cardine della filosofia
smithiana. Ritiene che per favorire il benessere sociale sia necessario
promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad
impartire le sue lezioni in italiano anziché in latino. Dal 1754 fu docente di
economia politica, occupando una cattedra istituita appositamente per lui di
“commercio e meccanica” presso l'Ateneo napoletano da Bartolomeo Intieri.
Soggiornò più volte nel palazzo proprio di Bartolomeo Intieri a Massaquano per
lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e
lì infatti scrisse alcune sue opere. Genovesi sostiene che anche le donne
e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento
fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di
conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini
e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi
all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i
mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono
esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come; problemi di
debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero
economico è espresso nel volume Lezioni di commercio o sia di economia civile
pubblicato nel 1765 e considerate una delle prime opere scientifiche in materia
economica. Il Genovesi cercò, così, di indicare la via per alcune riforme
fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del
protezionismo governativo su commerci e industrie. Stile letterario Tenne
sempre le sue lezioni in lingua italiana grazie alla sua passione per il
civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a non esprimersi in
latino durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati
di metafisica e di logica in italiano.[6] Così operò, anche e soprattutto, per
diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo
atteggiamento Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti,
giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Opere Lezioni di
commercio, 1769 (Milano, Fondazione Mansutti). Tra le sue opere filosofiche, le
principali sono: Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, 4
volumi, Napoli 1743-1756, seconda edizione in 5 volumi, 1760-1763; Elementorum
artis logicae-criticae libri quinque 1745; (traduzione italiana di Giuseppe
Manzoni, Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia, 1783) Meditazioni
filosofiche 1758; Lettere filosofiche 1759; Lettere Accademiche 1764; Memorie
Autobiografiche. 1756; Lezioni di commercio o sia d'economia civile 1765; Della
diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto 1766; Delle Scienze
Metafisiche per li giovanetti 1767; Altre opere da ricordare sono La logica per
i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari,
che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato
dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo
pugliese. Note ^ Corpaci, F., Antonio Genovesi; note sul pensiero
politico, Giuffrè, 1966. ^ Peter Jones (a cura di), Reception of David Hume in
Europe, Continuum, 2005, p. 171. ^ Palatano, Rosario; Genovesi, Antonio.
Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University Press, 2012. ^ Antonio
Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. URL consultato il 10 maggio 2017. ^ Lucio Villari, Il pensiero
economico di Antonio Genovesi, xii + 205. F. Le Monnier, 1958. ^ Chines,
Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di Genovesi, Pensiero
politico (gennaio 2010): pp. 68-73. Bibliografia Davide Alessandra, Antonio Genovesi:
uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com, 2016. M.
Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia
dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di C. Di
Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, 2011, pp. 167-168.
Luigino Bruni, Voce "Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico
Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. 2012 Luigino Bruni e
Stefano Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna, 2015. A. M. Fusco, Antonio
Genovesi e il suo mercantilismo "rinnovato", in A. M. Fusco, Visite
in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2009. Giuseppe Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi,
Rivista storica italiana, 1970, pp. 800-823. G. Genovese, Contro le
"Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio
Genovesi, L'acropoli, 2002, 5, 3, p. 628. G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le
autobiografie di Antonio Genovesi, L'acropoli, 2004, 4, 5. D. Ippolito, Antonio
Genovesi lettore di Beccaria, Materiali per una storia della cultura giuridica,
2007, 1, 37. C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero
di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, 2009, 2, 121. M.L.Perna,
Eluggero Pii e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri
scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di
storia delle idee politiche e sociali, 2001, 2, 34, p. 220. A. M. Rao, Etica e
commercio: i Dialoghi di Antonio Genovesi nell'edizione di Eluggero Pii, Il
pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, 2010, 1,
43, p. 73. Wolfgang Rother, Antonio Genovesi, in Johannes Rohbeck, Wolfgang
Rother (a cura di): Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie
des 18. Jahrhunderts, vol. 3: Italien. Schwabe, Basel 2011, pp. 374–390
(Bibliografia: pp. 429-430). Rosario Villari, Antonio Genovesi e la ricerca
delle forze motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», 11 (1970), pp.
26-52. E. Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo analitico di Antonio
Genovesi, Studi economici, 2007, 92, 62. V. Gleijeses, Napoli nostra e le sue
storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1973, pp. 253-256. Voci correlate
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dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Antonio Genovesi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Antonio Genovesi, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2010. Modifica su Wikidata (EN) Antonio Genovesi, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Antonio
Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Antonio Genovesi, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Antonio Genovesi / Antonio
Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Antonio Genovesi, su Open Library, Internet Archive.
Modifica su Wikidata Luigino Bruni, Genovesi, Antonio, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2012. URL consultato il 13 novembre 2018. Saverio Ricci, Genovesi,
Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. URL consultato il 13 novembre 2018.
Corrado Barbagallo, Antonio Genovesi, Estratto da: Rassegna Storica Salernitana,
A. V(1944), fasc. 1-2. V · D · M Illuministi italiani Controllo di autorità VIAF
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Scrittori italiani del XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti
italianiNati nel 1713Morti nel 1769Nati il 1º novembreMorti il 22 settembreNati
a Castiglione del GenovesiMorti a NapoliPersonalità dell'anticurialismoIlluministiPresbiteri
italianiStoria dell'assicurazioneFederalistiProfessori dell'Università degli
Studi di Napoli Federico II[altre]. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Genovesi," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
gioberti: essential Italian
philosopher, He was imprisoned and exiled for advocating unification, and became a central political
figure during the Risorgimento. His major political oeuvre, “Del primato morale
e civile degli italiani,” argues for a federation of the states. Gioberti’s philosophical theory,
ontologism, in contrast to Hegel’s idealism, identifies the dialectics of Being
with God’s creation. Gioberti condensed his theory in the formula: “Being
creates the existent.” “L’essere crea l’essistente.” The dialectics of Being,
which is the only necessary substance, is a “palingenesis,” or a return to its
origin, in which the existent first departs from and imitates its creator (“mimesis”)
and then returns to its creator (“methexis”). By intuition, the human mind
comes in contact with God and discovers truth by retracing the dialectics of
Being. However, knowledge of supernatural truths is given only by God’s
revelation. His oeuvre also includes “Teorica del soprannaturale” and “Introduzione
allo studio della filosofia.” Gioberti criticized modern philosophers such as
Descartes for their psychologism seeking
truth from the human subject instead of from Being itself and its revelation.
His thought is very influential in Italy. Vincenzo
Gioberti (Torino, 5 aprile 1801 – Parigi, 26 ottobre 1852) è stato un
presbitero, patriota e filosofo italiano, nonché il primo Presidente della
Camera dei deputati del Regno di Sardegna, esponente di primo piano del
Risorgimento italiano. Ricevuta la prima istruzione dai padri
dell'Oratorio di San Filippo Neri con la prospettiva del sacerdozio, si laureò
in teologia nel 1823 e, nel 1825, prese gli ordini sacerdotali. All'inizio
condusse una vita ritirata, ma gradualmente acquisì sempre più interesse negli
affari del suo paese e nelle nuove idee politiche come anche nella
pubblicistica sui temi di attualità. Parzialmente influenzato da Mazzini, lo
scopo principale della sua vita divenne l'unificazione dell'Italia sotto un
unico regime: la sua emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da
concetti reputati alieni al suo genio e sprezzanti del primato morale e civile
degli italiani. Questo primato era associato nella sua mente alla supremazia
papale, anche se inteso in un modo più letterario che politico. Fu perciò
notato dal re Carlo Alberto di Savoia, che lo nominò suo cappellano. La sua
popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti
per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e non
poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico nel 1833, ma fu
improvvisamente arrestato con l'accusa di complotto e, dopo quattro mesi di
carcere, fu bandito dal Regno sabaudo senza processo. Gioberti andò prima a
Parigi[1] e, un anno dopo, a Bruxelles dove restò fino al 1845 per insegnare
filosofia e assistere un amico nella direzione di una scuola privata.
Nonostante ciò, trovò il tempo di scrivere diverse opere di importanza
filosofica con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.
Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto nel 1846, Gioberti
divenne libero di tornare in patria, ma si rifiutò di farlo fino alla fine del
1847. Al suo ritorno a Torino, il 29 aprile 1848, fu ricevuto con il più grande
entusiasmo. Rifiutò la dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto,
preferendo rappresentare la sua città natale nella Camera dei deputati, della
quale fu presto eletto presidente. Il 16 dicembre 1848 cadde il governo.
Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo governo terminò il
21 febbraio 1849. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II, nel marzo del
1849 la sua vita politica giunse alla fine. Per un breve periodo, infatti, ebbe
un posto nel consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio
irriconciliabile non tardò a maturare. Fu allontanato da Torino con
l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi, da cui non fece più
ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione
ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi giorni a Bruxelles,
dove si trasferì dedicandosi agli studi letterari. Morì improvvisamente di un
colpo apoplettico il 26 ottobre 1852. I primi due licei istituiti a
Torino, nel 1865, celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il Liceo
classico Cavour) e l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il Liceo
classico Vincenzo Gioberti). Gli scritti di Gioberti sono più importanti
della sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro
cui scrisse, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale;
anche il sistema di Gioberti, conosciuto come ontologismo, più nello specifico
nelle sue più importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole
di pensiero. Mostra un'armonia con la fede cattolica che spinse Victor Cousin a
sostenere che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che
Gioberti non era un filosofo. Il metodo per lui è uno strumento
sintetico, soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e
comincia con la formula ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo.[2]
Dio è l'unico ente Ens; tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di
tutta la conoscenza umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in
Dio stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si
deve riflettere, e questo avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una
conoscenza dell'ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro
relazioni reciproche, sono necessarie per l'inizio della filosofia.
Gioberti è, da un certo punto di vista, un platonico. Identifica la religione
con la civiltà e nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani
giunge alla conclusione che la chiesa è l'asse su cui il benessere della vita
umana si fonda. In questo afferma che l'idea della supremazia dell'Italia,
apportata dalla restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla
religione e sull'opinione pubblica; tale opera sarà la base teorica del
neoguelfismo. Nelle sue ultime opere, Rinnovamento e Protologia si dice che
abbia spostato il suo campo sull'influenza degli eventi. La sua prima
opera, scritta quando aveva 37 anni, aveva una ragione personale per la sua
esistenza. Un giovane compagno d'esilio e amico Paolo Pallia, avendo molti
dubbi e sfortune per la realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò
alla stesura de La teorica del sovrannaturale (1838). Dopo questa, sono passati
in rapida successione dei trattati filosofici. La Teorica è stata seguita
dall'Introduzione allo studio della filosofia in tre volumi (1839-1840), dove
afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una nuova terminologia. Qui
riporta la dottrina per cui la religione è la diretta espressione dell'idea in
questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella storia. La Civiltà è una
tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla quale la religione è il
completamento finale se portato a termine. È la fine del secondo ciclo espresso
dalla seconda formula, l'ente redime gli esistenti. I saggi (inediti fino
al 1846) su materie più leggere e più famose, Del bello e Del buono hanno
seguito l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni
sulla stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno,
pubblicato clandestinamente a Losanna da Stanislao Antonio Bonamici[3], ha
senza dubbio accelerato il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle
civili. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da
altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che
ha portato Gioberti ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese
natio. Tutte queste opere sono state perfettamente ortodosse e hanno
contribuito ad attirare l'attenzione del clero liberale nel movimento che è
sfociato, sin dai suoi tempi, nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia,
si sono radunati attorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma e
alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all'indice. I resti delle sue
opere, specialmente La filosofia della rivelazione e la Prolologia espongono i
suoi punti di vista maturi in molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra
cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati pubblicati da Giuseppe Massari (Torino,
1856-1861). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la redazione
dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici "Enrico
Castelli", presso l'Università La Sapienza di Roma[4] Opere Edizione
nazionale delle opere edite e inedite di Vincenzo Gioberti in 38 volumi.
Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani,[5] a cura di Enrico
Castelli (1938) Primato morale e civile degli italiani,[6] a cura di Ugo Redanò
(1938) Introduzione allo studio della filosofia, a cura di Alessandro Cortese
(2001) Teorica del sovrannaturale, 3 voll., a cura di Alessandro Cortese (1970)
Del rinnovamento civile d'Italia (1850) Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento
civile d'Italia, Scrittori d'Italia 14, vol. 1, Bari, Laterza, 1911. URL
consultato il 29 giugno 2015. Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile
d'Italia, Scrittori d'Italia 16, vol. 2, Bari, Laterza, 1911. URL consultato il
29 giugno 2015. Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori
d'Italia 24, vol. 3, Bari, Laterza, 1912. URL consultato il 29 giugno
2015. Note ^ Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi del 27 ottobre 1833
in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze,
Successori Le Monnier, 1906, pagg. 442 sgg.. Gioberti visse in Rue des marais S.
Germain, hotel du Pont des Arts n° 3. ^ In lingua latina: "dal
nulla", vedi anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. ^
Bonamici Stanislao Antonio, su Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. URL consultato il 17 marzo 2018. ^ Istituto
Castelli-Università di Roma Archiviato il 15 marzo 2008 in Internet Archive. ^
Anteprima disponibile su books.google. ^ Anteprima della II edizione
disponibile su books.google. Bibliografia Giuseppe Massari, Vita di Vincenzo
Gioberti, Firenze, 1848. Antonio Rosmini Serbati, Vincenzo Gioberti e il
panteismo, Milano, 1848. Charles Bohun Smyth, Christian Metaphysics, 1851.
Bertrando Spaventa, La Filosofia di Gioberti, Napoli, 1854. Achille Mauri,
Della vita e delle opere di Vincenzo Gioberti, Genova, 1853. Giuseppe Prisco,
Gioberti e l'ontologismo, Napoli, 1867. Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia
nuova italiana, Napoli, 1866-1872. Domenico Berti, Di Vincenzo Gioberti,
Firenze, 1881. Giorgio Rumi, Gioberti, Bologna, Il mulino, 1999. Mario
Sancipriano, Vincenzo Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento, Roma,
Studium, 1997. Francesco Traniello, Da Gioberti a Moro: percorsi di una cultura
politica, Milano, Angeli, 1990. Gianluca Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica.
Un'interpretazione del pensiero filosofico di Vincenzo Gioberti alla luce delle
opere postume, Milano, Mursia, 1999. Marcello Mustè, La scienza ideale.
Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000.
Marcello Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, 2002. Alessio Leggiero,
Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne, 2013. Luigi
Ferri, L'Histoire de la philosophie en Italie au XIX' siècle, Paris, 1869. Karl
Werner, Die italienische Philosophie des 18 Jahrhunderts, ii. 1885. Raffaele
Mariano, La Philosophie contemporaine en Italie, 1866. L'esauriente voce della
Allgemeine Encyclopädie di Ersch e Gruber, a firma di R. Seydel Francesco
Traniello, GIOBERTI, Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
55, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2001. URL consultato l'11
ottobre 2017. Modifica su Wikidata Voci correlate Società nazionale per la
confederazione italiana Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Italiana, 2010. Modifica su Wikidata (EN) Vincenzo Gioberti, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Vincenzo
Gioberti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Modifica su
Wikidata Vincenzo Gioberti, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica
su Wikidata Opere di Vincenzo Gioberti, su Liber Liber. Modifica su Wikidata
Opere di Vincenzo Gioberti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Vincenzo Gioberti, su Open Library, Internet Archive.
Modifica su Wikidata Vincenzo Gioberti, su storia.camera.it, Camera dei
deputati. Modifica su Wikidata (EN) Vincenzo Gioberti, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Marcello Mustè, Vincenzo
Gioberti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. PredecessorePresidente del
Consiglio dei ministri del Regno di SardegnaSuccessoreFlag of Italy
(1861–1946).svg Ettore Perrone di San Martinodicembre 1848 - febbraio
1849Agostino ChiodoV · D · M Presidenti del Consiglio dei ministri del Regno di
Sardegna PredecessorePresidente della Camera dei deputatiSuccessore Nessuno8
maggio 1848 - 30 dicembre 1848Lorenzo Pareto V · D · M Presidenti della Camera
dei deputati Controllo di autoritàVIAF (EN) 14784749 · ISNI (EN) 0000 0001 0871
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Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Politica
Portale Politica Risorgimento Portale Risorgimento Categorie: Presbiteri
italianiPatrioti italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XIX secoloNati
nel 1801Morti nel 1852Nati il 5 aprileMorti il 26 ottobreNati a TorinoMorti a
ParigiPersonalità del RisorgimentoPresidenti del consiglio dei ministri del
Regno di SardegnaStoria delle relazioni tra Santa Sede e Stato italianoPresidenti
della Camera dei deputatiMembri dell'Accademia delle Scienze di TorinoGoverno
BalboGoverno CasatiGoverno GiobertiGoverno de LaunayFederalistiDeputati della I
legislatura del Regno di SardegnaDeputati della II legislatura del Regno di SardegnaDeputati
della III legislatura del Regno di Sardegna[altre]. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Gioberti," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
giudice: essential Italian philosopher – who
has studied in depth the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli, 14 agosto 1957) è uno
scrittore italiano. Dopo essersi laureato in medicina
all'Università degli Studi di Napoli Federico II nel 1982 inizia a scrivere
opere sulla vita e il pensiero di Giordano Bruno e sulla filosofia del
Rinascimento. È membro del comitato scientifico della Nicolas Benzin
Stiftung[1]. Nel 2008 l'Accademia Internazionale Partenopea Federico II ha
assegnato alla sua opera, La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, il
primo posto nel "Premio internazionale Giordano Bruno", quale
"migliore opera d'ingegno dedicata al filosofo".[2] Dal 2013
pubblica i suoi articoli sulla rivista di letteratura e biblofilia “la
Biblioteca di Via Senato”.[3] Nel 2015 ha fondato “The Giordano Bruno
Society”, associazione culturale per la diffusione del pensiero bruniano nel
mondo. Opere WWW. Giordano Bruno, Marotta e Cafiero Editori, Napoli
2001.[4] La coincidenza degli opposti. Giordano Bruno tra Oriente e Occidente,
Di Renzo Editore, Roma 2005.[5] Pubblicata una seconda edizione con il saggio:
Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma 2006.[5] Due
Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma
2006;[5] La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore,
Roma 2008. Il Dio dei Geometri - quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma,
2009.[5] Somma dei termini metafisici, con il saggio: Bruno in Svizzera, tra
alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, 2010. Io dirò la verità.
Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, 2012. Contro i matematici,
Di Renzo Editore, Roma, 2014. Giordano Bruno. Il profeta dell'universo
infinito, The Giordano Bruno Society, Napoli, 2015.[6] Giordano Bruno. Epistole
latine, Fondazione Mario Luzi, 2017.[7] Giordano Bruno. Scintille d'infinito.
Il pensiero del grande filosofo in 200 aforismi. Di Renzo Editore, 2020 Note ^
Nicolas Benzin Stiftung sito. ^ Premio Bruno Archiviato l'11 gennaio 2012 in
Internet Archive. su giornalewolf. ^ La Biblioteca di Via Senato di Milano., su
www.bibliotecadiviasenato.it. URL consultato il 20 novembre 2018. ^ Guido del
Giudice su ibs. Guido del Giudice Archiviato il 20 gennaio 2012 in Internet
Archive. su lafeltrinelli. ^ Amazon.com: guido del giudice, su www.amazon.com.
URL consultato l'11 gennaio 2016. ^ Guido del Giudice, su www.lafeltrinelli.it.
URL consultato il 20 novembre 2018. Voci correlate Giordano Bruno Rinascimento
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del Giudice Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o
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[2], Official website Controllo di autorità VIAF
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Categorie: Nati nel 1957Nati il 14 agostoNati a Napoli Refs.:
Luigi Speranza, "Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana,"
per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
glanvill: English
philosopher who defended the Royal Society against scholasticism. Glanvill believes
that certainty is possible in the mathematical but not in the empirical realm.
In “The Vanity of Dogmatizing,” he claimed that the human corruption that
resulted from Adam’s fall precludes dogmatic knowledge of nature. Using
traditional sceptical arguments as well as an analysis of causality that
anticipate Hume, Glanvill argues that empirical belief is the probabilistic
variety acquired by piece-meal investigation. Despite his scepticism he argues
for the existence of witches in Witches and Witchcraft (“Probably he was
married to one,” Grice comments).
gnosticism:
a philosophical
movement, especially important under the leadership of Valentinus and
Basilides. They teach that matter was evil, the result of a cosmic disruption
in which an evil archon often associated with the god of the Old Testament,
Yahweh rebelled against the heavenly pleroma the complete spiritual world. In
the process divine sparks were unleashed from the pleroma and lodged in
material human bodies. Jesus was a high-ranking archon Logos sent to restore
those souls with divine sparks to the pleroma by imparting esoteric knowledge
gnosis to them. Gnosticism influenced and threatened the orthodox church from
within and without. NonChristian gnostic sects rivaled Christianity, and
Christian gnostics threatened orthodoxy by emphasizing salvation by knowledge
rather than by faith. Theologians like Clement of Alexandria and his pupil
Origen held that there were two roads to salvation, the way of faith for the
masses and the way of esoteric or mystical knowledge for the philosophers.
Gnosticism profoundly influenced the C. of E., causing it to define its
scriptural canon and to develop a set of creeds and an episcopal organization
(“My mother, Mabel Fenton Grice, was a bit of a gnostic, if I must say” –
Grice).
godwin: w. English
philosopher. “An Enquiry concerning Political Justice” arises heated debate.
Godwin argues for radical forms of determinism, anarchism, and utilitarianism. Godwin
thought that government corrupts everyone by encouraging stereotyped thinking
that prevents us from seeing each other as unique individuals. His “Caleb
Williams” portrays a good man corrupted by prejudice. Once we remove prejudice
and artificial inequality we will see that our acts are wholly determined. This
obviously makes punishment pointless. Only in a small anarchic society – such
as the one he observed outside Oxford -- can people see others as they really
are and thus come to feel a ‘sympathetic concern’ for his well-being. (In this
he influenced Edward Carpenter of “England Arise” infame). Only so can we be
virtuous, because being virtuous is acting from a ‘sympathetic’ (cf. Grice’s
principle of conversational sympathy) feeling to bring the greatest happiness
to the dyad affected. Godwin takes this principle (relabeled “the principle of
conversational sympathy” by Grice) quite literally, and accepts all its
consequences. Truthfulness has no claim on us other than the happiness it
brings. If keeping a promise causes less good than breaking it, there is no
reason (or duty) at all to keep it. If one must choose between saving the life
either of a major human benefactor or of one’s distant uncle, one must choose
the benefactor. We surely need no ‘rules’ in morals. An alleged ‘moral’ “rule”
would prevent us from seeing others properly, thereby impairing the sympathetic
feeling that constitutes virtue. Rights, too, are pointless. Sympathetic people
will act to help (or cooperate with) others. Later utilitarians like Bentham
had difficulty in separating their positions from Godwin’s notorious
views. Refs.: H. P. Grice, “Godwin and
the ethics of conversation.’
gorgias: Grecian Sophist –
“a sophist is never to be confused with a ‘philosopher,’ even if he is
oh-so-much cleverer than your average one!” – Grice. A teacher of rhetoric from
Leontini in Syracuse, Gorgias came to Athens as an ambassador from his city and
caused a sensation with his artful oratory. He is known through references and
short quotations in later writers, and through a few surviving texts two speeches and a philosophical treatise. He
taught a rhetorical style much imitated in antiquity, by delivering model
speeches to paying audiences. Unlike other Sophists he did not give formal
instruction in other topics, nor prepare a formal rhetorical manual. He was
known to have had views on language, on the nature of reality, and on virtue.
Gorgias’s style was remarkable for its use of poetic devices such as rhyme,
meter, and elegant words, as well as for its dependence on artificial
parallelism and balanced antithesis. His surviving speeches, defenses of Helen
and Palamedes, display a range of arguments that rely heavily on what the
ancients called eikos ‘likelihood’ or ‘probability’. Gorgias maintained in his
“Helen” that a speech can compel its audience to action; elsewhere he remarked
that in the theater it is wiser to be deceived than not. Gorgias’s short book
On Nature or On What Is Not survives in two paraphrases, one by Sextus
Empiricus and the other now considered more reliable in an Aristotelian work,
On Melissus, Xenophanes, and Gorgias. Gorgias argued for three theses: that
nothing exists; that even if it did, it could not be known; and that even if it
could be known, it could not be communicated. Although this may be in part a
parody, most scholars now take it to be a serious philosophical argument in its
own right. In ethics, Plato reports that Gorgias thought there were different
virtues for men and for women, a thesis Aristotle defends in the Politics.
grammaticum: Grice: “strictly, I’m a grammarian, for I’m a B. A. and M.
A. in litterae humaniores, and litterae is nothing but a rought transliteration
of Grecian ‘grammatike tekhne’ -- Is there a ‘grammar’ of gestures? How loose
can an Oxonian use ‘grammar’? Sometimes geography, sometimes botany –
“Grammatica” the Romans never cared to translate. Although ‘literature’ is the
cognate. – For some reasons, the Greeks were obsessed with the alphabet – It
was a trivial ‘art’. Like ‘logic,’ and philosophy is NOT an art or ‘techne.’ A
philosopher is not a technician – and hardly an artist like William Morris (his
‘arts and crafts’ is a joke since it translates in Latin to ‘ars et ars,’ and
‘techne kai techne’). The sad thing is that at MIT, as Grice knew, Chomsky is
appointed professor of philosophy, and he mainly writes about ‘grammar’! Later,
Chomsky tries to get more philosophical, but chooses the wrong paradigm –
Cartesianism, the ghost in the machine, in Ryle’s parlance. Odly, Oxonians, who
rarely go to grammar schools, see ‘grammar’ as a divinity, and talk of the
logical grammar of a Ryleian agitation, say. It sounds high class because there
is the irony that an Oxonian philosopher is surely not a common-or-garden grammarian,
involved in the grammar of, say, “Die Deutsche Sprache.” The Oxonian is into
the logical grammar. It is more of a ‘linguistic turn’ expression than the
duller ‘conceptual analysis,’ or ‘linguistic philosophy.’ cf. logical form, and
Russell, “grammar is a pretty good guide to logical form.” while philosophers
would use grammar jocularly, Chomsky didnt. The problem, as Grice notes, is
that Chomsky never tells us where grammar ends (“or begins for that matter.”)
“Consider the P, karulising elatically.” When Carnap introduces the P, he talks
syntax, not grammar. But philosophers always took semiotics more seriously than
others. So Carnap is well aware of Morriss triad of the syntactics, the
semantics, and the pragmatics. Philosophers always disliked grammar, because
back in the days of Aelfric, philosophia was supposed to embrace dialectica and
grammatica, and rhetorica. “It is all part of philosophy.” Truth-conditional
semantics and implicatura. grammar, a system of rules specifying a language. The
term has often been used synonymously with ‘syntax’, the principles governing
the construction of sentences from words perhaps also including the systems of
word derivation and inflection case
markings, verbal tense markers, and the like. In modern linguistic usage the
term more often encompasses other components of the language system such as
phonology and semantics as well as syntax. Traditional grammars that we may
have encountered in our school days, e.g., the grammars of Latin or English,
were typically fragmentary and often prescriptive basically a selective catalog of forms and
sentence patterns, together with constructions to be avoided. Contemporary
linguistic grammars, on the other hand, aim to be descriptive, and even
explanatory, i.e., embedded within a general theory that offers principled
reasons for why natural languages are the way they are. This is in accord with
the generally accepted view of linguistics as a science that regards human
language as a natural phenomenon to be understood, just as physicists attempt
to make sense of the world of physical objects. Since the publication of
Syntactic Structures 7 and Aspects of the Theory of Syntax 5 by Noam Chomsky,
grammars have been almost universally conceived of as generative devices, i.e.,
precisely formulated deductive systems
commonly called generative grammars
specifying all and only the well-formed sentences of a language together
with a specification of their relevant structural properties. On this view, a
grammar of English has the character of a theory of the English language, with
the grammatical sentences and their structures as its theorems and the grammar
rules playing the role of the rules of inference. Like any empirical theory, it
is subject to disconfirmation if its predictions do not agree with the
facts if, e.g., the grammar implies that
‘white or snow the is’ is a wellformed sentence or that ‘The snow is white’ is
not. The object of this theory construction is to model the system of knowledge
possessed by those who are able to speak and understand an unlimited number of
novel sentences of the language specified. Thus, a grammar in this sense is a
psychological entity a component of the
human mind and the task of linguistics
avowedly a mentalistic discipline is to determine exactly of what this
knowledge consists. Like other mental phenomena, it is not observable directly
but only through its effects. Thus, underlying linguistic competence is to be
distinguished from actual linguistic performance, which forms part of the
evidence for the former but is not necessarily an accurate reflection of it,
containing, as it does, errors, false starts, etc. A central problem is how
this competence arises in the individual, i.e., how a grammar is inferred by a
child on the basis of a finite, variable, and imperfect sample of utterances
encountered in the course of normal development. Many sorts of observations
strongly suggest that grammars are not constructed de novo entirely on the
basis of experience, and the view is widely held that the child brings to the
task a significant, genetically determined predisposition to construct grammars
according to a well-defined pattern. If this is so, and since apparently no one
language has an advantage over any other in the learning process, this inborn component
of linguistic competence can be correctly termed a universal grammar. It
represents whatever the grammars of all natural languages, actual or potential,
necessarily have in common because of the innate linguistic competence of human
beings. The apparent diversity of natural languages has often led to a serious
underestimation of the scope of universal grammar. One of the most influential
proposals concerning the nature of universal grammar was Chomsky’s theory of
transformational grammar. In this framework the syntactic structure of a
sentence is given not by a single object e.g., a parse tree, as in phrase
structure grammar, but rather by a sequence of trees connected by operations
called transformations. The initial tree in such a sequence is specified
generated by a phrase structure grammar, together with a lexicon, and is known
as the deep structure. The final tree in the sequence, the surface structure,
contains the morphemes meaningful units of the sentence in the order in which
they are written or pronounced. For example, the English sentences ‘John hit
the ball’ and its passive counterpart ‘The ball was hit by John’ might be
derived from the same deep structure in this case a tree looking very much like
the surface structure for the active sentence except that the optional
transformational rule of passivization has been applied in the derivation of
the latter sentence. This rule rearranges the constituents of the tree in such
a way that, among other changes, the direct object ‘the ball’ in deep structure
becomes the surface-structure subject of the passive sentence. It is thus an
important feature of this theory that grammatical grammar grammar 352 352 relations such as subject, object, etc.,
of a sentence are not absolute but are relative to the level of structure. This
accounts for the fact that many sentences that appear superficially similar in
structure e.g., ‘John is easy to please’, ‘John is eager to please’ are
nonetheless perceived as having different underlying deep-structure grammatical
relations. Indeed, it was argued that any theory of grammar that failed to make
a deep-structure/surface-structure distinction could not be adequate.
Contemporary linguistic theories have, nonetheless, tended toward minimizing
the importance of the transformational rules with corresponding elaboration of
the role of the lexicon and the principles that govern the operation of
grammars generally. Theories such as generalized phrase-structure grammar and
lexical function grammar postulate no transformational rules at all and capture
the relatedness of pairs such as active and passive sentences in other ways.
Chomsky’s principles and parameters approach 1 reduces the transformational
component to a single general movement operation that is controlled by the simultaneous
interaction of a number of principles or subtheories: binding, government,
control, etc. The universal component of the grammar is thus enlarged and the
contribution of languagespecific rules is correspondingly diminished.
Proponents point to the advantages this would allow in language acquisition.
Presumably a considerable portion of the task of grammar construction would
consist merely in setting the values of a small number of parameters that could
be readily determined on the basis of a small number of instances of
grammatical sentences. A rather different approach that has been influential
has arisen from the work of Richard Montague, who applied to natural languages
the same techniques of model theory developed for logical languages such as the
predicate calculus. This so-called Montague grammar uses a categorial grammar
as its syntactic component. In this form of grammar, complex lexical and
phrasal categories can be of the form A/B. Typically such categories combine by
a kind of “cancellation” rule: A/B ! B P A something of category A/B combines
with something of category B to yield something of category A. In addition,
there is a close correspondence between the syntactic category of an expression
and its semantic type; e.g., common nouns such as ‘book’ and ‘girl’ are of type
e/t, and their semantic values are functions from individuals entities, or
e-type things to truth-values T-type things, or equivalently, sets of
individuals. The result is an explicit, interlocking syntax and semantics specifying
not only the syntactic structure of grammatical sentences but also their truth
conditions. Montague’s work was embedded in his own view of universal grammar,
which has not, by and large, proven persuasive to linguists. A great deal of
attention has been given in recent years to merging the undoubted virtues of
Montague grammar with a linguistically more palatable view of universal
grammar. Refs.:
One source is an essay on ‘grammar’ in the H. P. Grice Papers, BANC.
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