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F: SUBJECT
INDEX
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NAME INDEX – ITALIANO
FERRARI
FICINO
FIDANZA
FIORE
FLORIDI
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NAME INDEX – ENGLISHMEN:
FLEW
farquharsonism – Grice enjoyed reading Cook Wilson, and was grateful to A
S L Farquharson for making that possible.
ferguson: a. philosopher. His
main theme was the rise and fall of virtue in individuals and societies. In his
most important work, An Essay on the History of Civil Society Ferguson argues
that human happiness of which virtue is a constituent is found in pursuing
social goods rather than private ends. Ferguson thought that ignoring social
goods not only prevented social progress but led to moral corruption and
political despotism. To support this he used classical texts and travelers’
writings to reconstruct the history of society from “rude nations” through
barbarism to civilization. This allowed him to express his concern for the
danger of corruption inherent in the increasing selfinterest manifested in the
incipient commercial civilization of his day. He attempted to systematize his
moral philosophy in The Principles of Moral and Social Science 1792. J.W.A.
Fermat’s last theorem.
ferrari: essential Italian philosopher. Giuseppe
Ferrari (Milano, 7 marzo 1811 – Roma, 2 luglio 1876[1]) è stato un filosofo,
storico e politico italiano. Federalista, repubblicano, di posizioni
democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano
per sei legislature dal 1860 al 1876, e senatore del Regno dal 15 maggio al 2
luglio 1876. Nato a Milano da una famiglia borghese - il padre era medico
- dopo la morte dei suoi genitori, avvenuta quando era ancora giovane, poté
godere di una piccola rendita grazie alla quale visse senza particolari
problemi economici. Ferrari fece i suoi studî nel ginnasio S. Alessandro,
fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo e si laureò in utroque iure a Pavia
nel 1831. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio
della gioventù milanese che si riuniva attorno a Gian Domenico Romagnosi.
Gli anni in Francia Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutriva per la
cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che nell'aprile
1838 lo portò a Parigi. Ferrari trascorse in Francia i successivi 21 anni. Il
27 agosto del 1840 sostenne l'esame di dottorato in filosofia alla Sorbona, con
la presentazione di due tesi intitolate De religiosis Campanellae
opinionibus[2] e De l'Erreur, nella prima delle quali presentava positivamente
il pensiero religioso di Tommaso Campanella, mentre nella seconda giungeva ad
una conclusione scettica a proposito dei giudizî. Essi infatti non consentono
di giungere alla verità assoluta in quanto essa è indissolubilmente intrecciata
all'errore, così che si può dire che la verità sia un errore relativo e
l'errore una verità relativa. Dal 1838 al 1847 collaborò regolarmente alla
«Revue des Deux Mondes». Introdotto nei circoli intellettuali della
capitale francese da lettere di presentazione di Amedeo Peyron e Lorenzo
Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Pierre-Simon Ballanche,
Ferrari frequentò Victor Cousin, Augustin Thierry, Claude Fauriel, Jules
Michelet e Edgar Quinet, come pure gli intellettuali e gli emigrati italiani
che si riunivano nel salotto della principessa di Belgiojoso. Nel 1840 fu
docente di filosofia al Liceo di Rochefort-sur-mer, e nel novembre di
quell'anno richiese un permesso di residenza permanente in Francia, poi nel
1841 fu nominato professore supplente all'Università di Strasburgo dove,
attaccato dalla Chiesa e dal partito cattolico per le affermazioni irreligiose
e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la
sua presentazione favorevole della Riforma luterana nel dicembre del 1841, fu
anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso
dall'insegnamento nel 1842 e, benché avesse ottenuto la nazionalità francese e
nel 1843 il titolo di "professore aggregato" di filosofia, che lo abilitava
ad insegnare all'università, non fu più reintegrato nell'insegnamento
universitario francese, poiché la raccomandazione di Edgar Quinet per una sua
nomina a professore supplente al Collège de France nel 1847, benché accettata
dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione.
L'allontanamento dalla cattedra di Strasburgo fu all'origine del suo lungo
rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso Ferrari" dalla
stampa, s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia che
durò sino alla morte di Proudhon, nel 1865. A partire dal 1847 Ferrari fu tra
gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Victor Schoelcher e
Félicité de Lamennais. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano
contro il governo austriaco nel marzo del 1848 fu accanto a Carlo Cattaneo ma,
deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un
altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Victor Cousin) di ottenere
una cattedra all'Università di Strasburgo. Da gennaio a giugno del 1849 insegnò
la filosofia al Liceo di Bourges. Il 2 dicembre 1851 avvenne il colpo di
Stato che mise fine alla Seconda Repubblica francese e portò al trono Napoleone
III; Ferrari, ricercato come repubblicano, si rifugiò à Bruxelles per sfuggire
alla polizia. Il ritorno in Italia Pur conservando il suo appartamento a
Parigi, Ferrari ritornò definitivamente a Milano a metà dicembre del 1859, per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino nel 1859 (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni del
27 gennaio-3 febbraio del 1861 (eletto in secondo scrutinio nello stesso
collegio di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Confermato per quindici
anni, Ferrari sedette ala Camera dei deputati sui banchi della Sinistra
ininterrottamente per sei legislature, fino al 1876 (XII Legislatura). Nel 1870
(XI Legislatura) fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne
fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere
riassunto nella formula: " irreligione[3] e legge agraria", cioè
lotta contro la Chiesa e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei
latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. La Chiesa e
i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda, erano per lui i nemici naturali
dell'uguaglianza, non teorica ma concreta e reale. Per quel che concerne
la forma del nuovo stato italiano, Ferrari domandava una costituzione federale
di tipo svizzero o statunitense, con un esercito, delle finanze e delle leggi
federali comuni, ma anche con la più ampia decentralizzazione amministrativa
possibile. Nell'agosto del 1861, dopo essersi recato sul posto, scrisse
una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni[4].
Nel giugno del 1862, contro la sua volontà, Ferrari fu nominato dal re
Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimandò
immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che
glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata
nella Gazzetta ufficiale. Nominato professore di filosofia della storia
all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, benché non ci fosse a quel tempo
nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun
beneficio, Ferrari rinunciò allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. In Parlamento, Ferrari prese posizione in sede di
discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione
di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele[5], a più
riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e
dell'autonomia delle regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante
il Ferrari riconoscesse nell'articolo "La révolution et les réformes en
Italie" del 1848 che: (FR) «L'unité italienne n'existe que dans les
régions de la littérature et de la poésie; dans ces régions, on ne trouve pas
de peuples, on ne peut pas recruter d'armées, on ne peut organiser aucun
gouvernement.» (IT) «L'unità italiana non esiste che nelle regioni della
letteratura e della poesia; in queste regioni non si trovano popoli, non si
possono reclutare eserciti, non si può organizzare nessun governo.»
(Joseph Ferrari, La révolution et les réformes en Italie, Parigi, 1848, p. 10.)
esprimeva ugualmente, nello stesso testo, l'auspicio che l'Unità Italiana si
potesse prima o poi realizzare:[6] (FR) «L'Italie doit tout demander à la liberté:
elle n'a ni lois, ni mœurs politiques , elle ne s'appartient pas; elle n'est ni
une, ni confédérée; elle n'avancera qu'en demandant d'abord des chartes, puis
la confédération, ensuite la guerre, enfin l'unité, si la fatalité le
permet.» (IT) «L’Italia tutto deve domandare alla libertà: essa non ha
leggi, né costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né
una né confederata; essa non progredirà se non col cominciare a chiedere
costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la
fatalità lo permette» (Joseph Ferrari, La révolution et les réformes en
Italie, Parigi, 1848) L'8 Ottobre 1860 nel Parlamento di Torino sconfessò
queste sue parole scritte 12 anni prima dicendo : Io non muto d'avviso: sono
stato avversario dell'unità italiana, la credo tragica nell'azione sua,
destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché
necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle
religioni.[7] Si è pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia (1860), contro il trattato di commercio con la Francia
(1863) e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (1867) (lui, "francese al peggiorativo", come
amava definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di
Garibaldi per i fatti d'Aspromonte (1862), in favore della Polonia (1863) e
dello spostamento della capitale da Torino a Firenze (1864), prese parte attiva
ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul
brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. Il 15 maggio del
1876 fu fatto senatore. Morì improvvisamente nella notte tra il 1º e il 2
luglio del 1876. Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni
gruppo politico e ad ogni consorteria, Ferrari non ebbe seguito e, come disse
il politico Francesco Crispi intervenendo alla Camera il 3 agosto 1862:
«Ferrari, tutti lo sanno, è una delle illustrazioni del parlamento, ma non
esprime se non che le sue idee individuali» La sua azione parlamentare è
stata così caratterizzata e riassunta:[8] «Ferrari sedeva sui banchi
della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli
errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita
preminenza di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio
ecclesiastico, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi
dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con
l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con
loro.» Discorsi parlamentari Dal 1860 al 1875: 1860, 27 maggio,
Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. 1860, 8 e 11 ottobre,
Contro le annessioni incondizionate. 1861, 26 marzo, Sulla interpellanza del
deputato Audinot intorno alla questione romana. 1861, 4 aprile, Interpellanza
relativa alle condizioni delle province meridionali. 1861, 16 e 17 aprile, Il
battesimo del Regno. 1861, 26 e 30 giugno, Contro il prestito di 500 milioni.
1861, 2 dicembre, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. 1862, 15 marzo, La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. 1862,
26 marzo, Sull'esercizio provvisorio (bilancio 1862). 1862, 3 agosto,
Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte). 1862, 29 e 30 novembre,
Interpellanza sugli affari di Roma. 1863, 27 marzo, Sulla questione della
Polonia. 1863, 25 e 7 novembre, Contro il trattato di commercio con la Francia.
1864, 6 maggio, Intorno al bilancio dell'Interno. 1864, 2, 4 e 5 luglio, Sulla
situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. 1864, 10
novembre, Il trasporto della capitale. 1865, 17 gennaio, sul giuramento
politico. 1865, 23 gennaio, sulle giornate di Torino. 1867, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. 1867, 10 e 24 aprile, Contro la
convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex
Stati pontifici. 1867, 21 giugno, 1, 4 e 13 luglio, Contro le trattative con
Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. 1867, 7 e 30 luglio, Sulla
violazione del diritto del non intervento. 1867, 11 e 19 dicembre,
Interpellanza su Mentana. 1868, 7 marzo, Inchiesta sul corso forzoso. 1868, 15
marzo, Per la guardia nazionale. 1868, 14 e 16 marzo, Legge sul macinato. 1868,
27 e 29 aprile, Sulla sospensione dei professori all'Università di Bologna.
1868, 4 agosto, Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. 1868, 25 novembre, 6, 7
e 9 dicembre, Sull'assassinio di Monti e Tognetti. 1869, 13, 21, 22 e 25
gennaio, Sui disordini per la legge sul macinato. 1869, 31 maggio, 1, 2, 4 e 5
giugno, Inchiesta sulla Regia. 1870, 11 aprile, Sul bilancio dell'Interno.
1870, 12 aprile, Sul consiglio Superiore d'Istruzione. 1870, 19 agosto, I fatti
di Francia. 1870, 21 dicembre, Contro la convalidazione del decreto di
accettazione del plebiscito di Roma. 1872, 19 aprile, Interpellanza per la
pubblicazione del Libro verde. 1872, 14 maggio, Contro la politica estera.
1872, 25 e 27 maggio, Sulla nomina dei vescovi. 1872, 21 novembre,
Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo. 1872, 28
novembre, Sulla politica estera. 1873, 18 marzo, Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. 1873, 12 e 25 maggio, La soppressione
degli ordini religiosi in Roma. 1875, 25 gennaio, Gli arresti di Villa
Ruffi.Carriera universitaria Dal 1841 al 1876: 1841, autunno, Professore
supplente di storia all'Università di Strasburgo. 1862, 9 febbraio, Professore
onorario dell'Università di Napoli. 1862, 28 marzo, Professore di Filosofia della
storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano 1864, Professore
ordinario di Filosofia all'Università di Torino. 1865, 28 giugno, Professore
ordinario di Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e
di perfezionamento di Firenze. Cariche e titoli Dal 1836 al 1876: 1836,
Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. 1861, 21 febbraio, Membro
corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. 1862, 20
maggio, Membro ordinario della Società reale di Napoli. 1864, 18 gennaio,
Membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. 1864, 6
novembre, Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica
istruzione. 1865, 6 dicembre - dicembre 1866, Membro ordinario del Consiglio
superiore della pubblica istruzione. 1870, Socio corrispondente della
Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. 1876, 19 marzo,
Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere
dell'Ordine al Merito Civile di Savoia - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al
Merito Civile di Savoia — 30 aprile 1876 Ufficiale dell'Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro — giugno 1862
Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia —
1862 Il socialismo di Ferrari Come tutti i teorici socialisti italiani del
primo Ottocento, Ferrari è fortemente influenzato dalle teorie francesi, e in
particolare dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce
come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla
rivoluzione francese. Ferrari riconosce come unico fondamento della
proprietà il lavoro: propone quindi un socialismo che, non strettamente in
opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto
di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la nascente borghesia,
Ferrari si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in
Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese.
Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale: contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una
federazione di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità
delle singole regioni. Questo progetto doveva essere attuato attraverso
un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della
maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Giuseppe Mazzini), i
quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, egli credeva -
abbastanza pragmaticamente - che fosse necessario l'intervento di uno stato
estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati
italiani. L'opinione pubblica doveva essere preparata alla rivoluzione
(che doveva avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori)
da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista (la
questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale). Il futuro
stato federale sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante
assemblee regionali. Insieme a Guglielmo Pepe elaborò il termine
neoguelfismo, per sottolineare il carattere reazionario di restaurare la presenza
attiva della Chiesa nella vita politica dello Stato; Ferrari era critico verso
la formula liberale Libera Chiesa in libero Stato, e affermava la necessità di
una superiorità dello Stato rispetto alla Chiesa, corrispondente alla
superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Chiesa che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Note ^ "Consta dai
registri della Parrocchia di S. Satiro , che Giuseppe Michele Giovanni
Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque il 7 di marzo
1811.", "Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi
Ferri, : G. Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, a cura di O. Campa, Milano,
1913, p. 145, nota 1. ^ Giuseppe Ferrari, Sulle opinioni religiose di
Campanella, Milano, FrancoAngeli, 2009 ^ "La fede in Dio è l'errore più
primitivo, più naturale del genere umano [...]. La religione è la pratica della
servitù [...] Il cristianesimo presenta tutti i vizi della rivelazione soprannaturale
[...] l'autorità cristiana conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo [...]
il cristiano è morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato
gli apostoli e la Chiesa.", Giuseppe Ferrari, Filosofia della rivoluzione,
in: Scritti politici di Giuseppe Ferrari, a cura di Silvia Rota Ghibaudi,
Torino, UTET, 1973, p. 807-831. ^ Camera dei Deputati, Atti del Parlamento
Italiano - sessione del 1861, vol. III discussioni della Camera dei Deputati,
Torino, Eredi Botta, 1862. ^ Atti del parlamento italiano (1861) ^ (FR)
Giuseppe Ferrari, La révolution et les réformes en Italie, Amyot, 1º gennaio
1848. URL consultato il 13 maggio 2017. ^
https://storia.camera.it/regno/lavori/leg07/sed063.pdf. ^ P. Schinetti, Le più
belle pagine di Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. Giuseppe
Ferrari, Milano, Garzanti, 1944, p. 261. Opere La mente di G. D. Romagnosi,
1835 (ried. 1913, 1924) La mente di Vico, 1837 (FR) Vico et l'Italie, 1839 (FR)
De l'Erreur, 1840 (FR) Idées sur la politique de Platon et d'Aristote, 1842
(FR) Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, 1843
(FR) La philosophie catholique en Italie, 1844 (FR) La révolution et les
révolutionnaires en Italie, 1844-1845 (FR) Des idées et de l'école de Fourier depuis
1830, 1845 (FR) La révolution et les réformes en Italie, 1848 (FR) Machiavel
juge des révolutions de notre temps, 1849 (trad. it 1921) (FR) Les philosophes
salariés, 1849 (ried. 1980) La Federazione repubblicana, 1851 Filosofia della
rivoluzione (vol. 1), 1851 (ried. 1873, 1922, 1928, 1942) Filosofia della
rivoluzione (vol. 2), 1851 L'Italia dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851,
1852 Opuscoli politici e letterari ora per la prima volta tradotti, 1852 La
mente di Giambattista Vico, 1854 (FR) Histoire des révolutions d'Italie, ou,
Guelfes et Gibelins, 1856-1858 (ried. 2012) (FR) Histoire de la raison d'Etat,
1860 (ried. 2011) (FR) L'annexion des deux Siciles, 1860 Corso sugli scrittori
politici italiani, 1862 (ried. 1929 con pref. di Adriano Olivetti) Corso sugli
scrittori politici italiani e stranieri, 1863 Il governo a Firenze, 1865 (FR)
La Chine et l'Europe, 1867 La mente di Pietro Giannone, 1868 Lettere chinesi
sull'Italia, 1869 Storia delle Rivoluzioni d'Italia, 1872 (ried. 1921) Teoria
dei periodi politici, 1874 L'aritmetica nella storia, 1875 Proudhon, 1875,
(ried. a cura di Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza, 2015 ISBN
9788898926541) La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia (dal 1796 al 1844),
1900 (ried. 1952) Il genio di Vico, 1916 (ried. 1928) I partiti politici
italiani (dal 1789 al 1848), 1921 Le più belle pagine di Giuseppe Ferrari, 1927
(ried. 1941) Opere di Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo e Giuseppe
Ferrari, a cura di Ernesto Sestan, 1957 Scritti politici, a cura di Silvia Rota
Ghibaudi, 1973 I filosofi salariati, a cura di L. La Puma, 1988 (trad. dal
francese) Scritti di filosofia e di politica, a cura di M. Martirano, 2006 Il
genio di Vico, 2009 Sulle opinioni religiose di Campanella, 2009 Epistolario
Franco Della Peruta, "Contributo all'epistolario di Giuseppe
Ferrari", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione
italiana, Milano, 1958. Franco Della Peruta (ed.),"Contributo
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1960, 3, p. 181-211. Franco Della Peruta (ed.),"Lettere di Giuseppe
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Clara M. Lovett (ed.), "Il 1848 in Lombardia dalla corrispondenza inedita
di Giuseppe Ferrari", Nuova rivista storica, 1975, 59, p. 470-480. Clara
M. Lovett (ed.),"Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana.
Lettere inedite di Jean Gustave Wallon a Giuseppe Ferrari", Rassegna
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1992, p. 285-368. Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di
Capolago delle opere di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano,
1992, p. 225-240. Paolo Bagnoli, "Giuseppe Ferrari e Giuseppe Montanelli",
in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe
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Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli
Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo Altri
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radicalsocialista italiano, dal sito del Movimento RadicalSocialista (FR) Jean
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italiani del XIX secoloStorici italiani del XIX secoloPolitici italiani del XIX
secoloNati nel 1811Morti nel 1876Nati il 7 marzoMorti il 2 luglioNati a
MilanoMorti a RomaFilosofi ateiCavalieri dell'Ordine civile di SavoiaUfficiali
dell'Ordine dei Santi Maurizio e LazzaroUfficiali dell'Ordine della Corona
d'ItaliaPersonalità del RisorgimentoSenatori della XII legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati dell'VIII
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della IX legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della X legislatura del Regno d'ItaliaDeputati dell'XI
legislatura del Regno d'ItaliaSepolti nel Cimitero Monumentale di
MilanoFederalisti[altre]. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
ficino: one of the most
important Italian philosophers, neoplatonic philosopher who played a leading
role in the cultural life of Florence. Ordained a priest in 1473, he hoped to
draw people to Christ by means of Platonism. It was through Ficino’s
translation and commentaries that the works of Plato first became accessible to
the Latin-speaking West, but the impact of Plato’s work was considerably
affected by Ficino’s other interests. He accepted Neoplatonic interpretations
of Plato, including those of Plotinus, whom he tr.; and he saw Plato as the
heir of Hermes Trismegistus, a mythical Egyptian sage and supposed author of
the hermetic corpus, which he tr. early in his career. He embraced the notion
of a prisca theologia, an ancient wisdom that encapsulated philosophic and
religious truth, was handed on to Plato, and was later validated by the
Christian revelation. The most popular of his original works was Three Books on
Life 1489, which contains the fullest Renaissance exposition of a theory of
magic, based mainly on Neoplatonic sources. He postulated a living cosmos in
which the World-Soul is linked to the world-body by spirit. This relationship
is mirrored in man, whose spirit or astral body links his body and soul, and
the resulting correspondence between microcosm and macrocosm allows both man’s
control of natural objects through magic and his ascent to knowledge of God.
Other popular works were his commentary on Plato’s Symposium 1469, which
presents a theory of Platonic love; and his Platonic Theology 1474, in which he
argues for the immortality of the soul. Marsilio
Ficino (Figline Valdarno, 19 ottobre 1433 – Careggi, 1º ottobre 1499) è stato
un filosofo, umanista e astrologo italiano[1]. Nato dal medico personale
di Cosimo il Vecchio, Diotifeci d'Agnolo, e da Alessandra di Nanoccio,[2]
studia a Firenze sotto Luca de Bernardi e Comando Comandi e apprende le prime
nozioni di greco da Francesco da Castiglione,[3] mentre sarebbe da smentire la
notizia riportata nella Vita Ficini di Giovanni Corsi, scritta del 1506, che
sia stato allievo del Platina.[4] Il suo primo maestro di filosofia è il
folignate Niccolò Tignosi, medico aristotelico autore di un De anima e di un De
ideis.[5] Conseguenza di questi insegnamenti è la sua Summa philosophiae, un
gruppo di scritti in latino dedicati a Michele Mercati intorno al 1454 in cui
il Ficino tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones.[6]
Nella dedica all'amico scrive di volerlo introdurre «a quegli studi che devono
impegnare la nostra età, secondo la regola del nostro Platone». Studia
Epicuro e Lucrezio, scrivendo intorno al 1457 i Commentariola in Lucretium, che
distruggerà nel 1492,[7] il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De
virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di
questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche,
epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione
mnemonica e senza pretese sistematiche.[7] Nel 1456 scrive vari libri di
Institutionum ad platonicam disciplinam, perduti, tratti da fonti latine e per questo
motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte
greca.[6] Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto l'arcivescovo
fiorentino Antonino Pierozzi, preoccupato di possibili deviazioni del Ficino
verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare sia medicina a Bologna sia
l'opera di Tommaso d'Aquino.[8] Ma la permanenza a Bologna dal 1457 al 1458,
testimoniata da Zanobi Acciaiuoli, non è documentata e resta certo
l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica e neo-platonica.[3] Intorno
al 1460 traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco
attribuito a Senocrate.[9] Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la
Teogonìa di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e
una villa a Careggi, che diverrà nel 1459 sede della nuova Accademia Platonica,
fondata dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare le
opere di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione.[10] Qui
inizia la traduzione, nell'aprile del 1463, dei Libri ermetici (Corpus
hermeticum), portati in Italia dalla Macedonia da Leonardo da Pistoia; la sua
opera di traduzione avrà un notevole influsso nel pensiero rinascimentale
europeo.[11] Il Ficino vede in quella sapienza antica la presenza di una
rivelazione, di una pia philosophia che si è attuata nel Cristianesimo ma della
quale l'umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a
Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto «per primo disputò con grandissima
sapienza della maestà divina, della gerarchia degli spiriti» (daemonum ordine),
«della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo: lo seguì,
secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro
divino Platone».[12] Esiste dunque, secondo Ficino, una concorde e antica
tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che
nasce con Ermete e culmina con Platone.[13] La «pia filosofia», antitetica alle
correnti di pensiero atee e materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli
inganni dei sensi e della fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce
la verità, l'ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui,
grazie all'illuminazione divina, affinché l'uomo, tornato fra i suoi simili,
possa renderli partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino
numine revelata).[14] La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già
tradotto in volgare nel 1463 da Tommaso Benci, viene stampata nel 1471; nel 1463
inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, conclusa forse nel 1468, e
vi aggiunge nel tempo i suoi commenti: intorno al 1474 quelli al Filebo, al
Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano), nel 1484 al Timeo, e nel 1494
al Parmenide.[15] Dal 1469 al 1474 stende l'opera più importante, i
diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate animarum, dedicata a
Lorenzo de' Medici. Dopo aver preso i voti sacerdotali il 18 dicembre 1473,
compone la Religione cristiana, in italiano, di cui darà poi la versione latina
nella De christiana religione. Dal 1475 al 1476 scrive la Disputatio contra
iudicium astrologorum e nel 1481 viene dato alle stampe il suo Consiglio contro
la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia del 1478.[16] Busto
di Marsilio Ficino ad opera di Andrea Ferrucci (1522) in Santa Maria del Fiore,
Firenze Nel 1484 inizia la traduzione delle Enneadi di Plotino e dal 1488 al
1493 traduce le opere di Giamblico, Proclo, Prisciano, Porfirio, Sinesio,
Teofrasto, Michele Psello, la Mistica teologia e i Nomi divini dello
Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora di Atene:[15] con questo ampio
corpus platonico il Ficino persegue la sua teorizzazione della continuità della
tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi attraverso Dionigi
Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, Avicebron, Al-Farabi,
Avicenna, Duns Scoto, Bessarione e il Cusano.[14] I tre libri del De
vita, usciti nel 1489, gli procurano accuse di magia dalle quali si difende con
un'Apologia;[17] nel 1495 pubblica dodici libri di Epistulae che comprendono
anche opuscoli scritti dal 1476 al 1491, come il De furore divino, la Laus
philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae sapientiae, il De
vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica comparatio Solis ad Deum,
la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de voluptate quattuor.[16]
Lascia incompiuto un Commento a San Paolo per la morte sopraggiunta a
sessantasei anni, nel 1499. È sepolto nel duomo di Santa Maria del Fiore, dove
un monumento lo celebra come il maggior filosofo fiorentino.[16] È
noto come Aristotele concepisca l'essere umano come sinolo, unità ordinata e
indissolubile di materia e forma, di corpo e anima, cosicché il suo principale
commentatore dell'antichità Alessandro di Afrodisia poteva ben dedurne
esplicitamente la mortalità dell'anima contemporanea a quella del corpo.[18] Al
contrario, Platone aveva già distinto le due sostanze, concedendo all'anima una
vita separata e indipendente dal destino del corpo. A questa concezione
aderisce Ficino, che in polemica contro Aristotele esalta la dottrina
platonica, al punto da interpretarla come una forma di religiosità propedeutica
alla fede cristiana.[19] La sua Theologia platonica o De immortalitate animarum
si apre dunque con un (LA) «Soluamus obsecro caelestes animi caelestis patriae
cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum terrenarum ut alis sublati
Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius peruolemus, ubi statim
nostri generis excellentiam feliciter contemplabimur.» (IT) «Liberiamoci
in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle
cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede
celeste dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro.» (Ficino,
Theologia Platonica, I, 1) Delle divine lettere del gran Marsilio Ficino,
frontespizio di una edizione del 1563 Per comprendere la sostanza dell'anima è
necessario comprendere la struttura dell'universo, composto da cinque livelli
gerarchici:[20] Dio; gli angeli; le anime; le qualità; la materia. Al
grado inferiore sta la materia, concepita, seguendo Averroè, come pura
quantità: «la materia non ha di per sé nessuna forza che possa produrre le
forme», diversamente da chi, come Avicebron, la concepisce come «sostanza
produttrice di forme, fonte piuttosto che soggetto delle forme». È la
qualità il principio formale che dà sostanza alle realtà corporee, grazie a
«una sostanza incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale sono
strumento le qualità corporee»: questa sostanza incorporea nell'uomo si eleva
al rango di anima «che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non
vivente».[21] Al di sopra delle anime sono gli angeli: «Sopra quelli
intelletti che alli corpi s'accostano, cioè l'anime ragionevoli, non è dubbio
che sono assai menti, dal commercio dei corpi al tutto divise»;[22] e se
l'intelletto dell'anima «è mobile e parte interrotto e dubbio»,[23]
l'intelletto angelico è «stabile tutto, continuo e certissimo».[23] Al di
sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità assoluta, fonte di ogni
verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta: «Dove un continuo atto e una
continua vita dura, quivi è un immenso lume d'una assolutissima
intelligenza»[24] che è luce per gli uomini perché si riflette in tutte le
cose. Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova in tutte
le cose e tutte le cose si veggono in lui... Iddio è principio, perché da lui
ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è vita e
intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti intendono».[25]
Dio e materia rappresentano i due estremi della natura, e la funzione
dell'anima, che è considerata, diversamente da Aristotele e da Tommaso, realtà
in sé e non solamente forma del corpo, è quella di incarnarsi per riunire lo
spirito e la corporeità: Amore sacro e amor profano (Tiziano): eros
come mediatore dei contrari «[L'anima] … è tale da cogliere le cose superiori
senza trascurare le inferiori... per istinto naturale, sale in alto e scende in
basso. E quando sale, non lascia ciò che sta in basso e quando scende, non
abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo, scivolerebbe
verso l'altro e non sarebbe più la copula del mondo.» (Ficino, Theologia
Platonica, 1474[26]) La "copula mundi" è l'anima razionale che «ha
sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della natura» (obtinet
naturae mediam regionem) «e tutto connette in unità». La sua opera unificatrice
è resa possibile dall'amore, inteso come movimento circolare attraverso il
quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bontà infinita, per poi
produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui. L'amore
di cui parla Ficino è l'eros di Platone, che per l'antico filosofo greco
svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo sensibile e quello
intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso cristiano perché, a
differenza di quello platonico, l'amore per lui non è solo attributo dell'uomo
ma anche di Dio.[27] Lo stesso Platone viene interpretato in una chiave
di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene Ficino non faccia
distinzione tra platonismo e neoplatonismo.[28] Per lui esiste una sola
filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verità eterne, le Idee, che
in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia.[14]
Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro
dell'astrologia e della magia, a cui Ficino rivolge notevoli interessi in virtù
dell'unione vitale del mondo da essi presupposta,[29] filosofia e religione si
fondono così in una visione d'insieme di reciproca complementarità,
sottolineata anche nell'accostamento di termini come «pia philosophia», o
«teologia platonica». Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'Uno è
principalmente la Bellezza.[30] Nel pensiero di Marsilio Ficino, Gesù
Cristo è considerato un maestro spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il
bene dell'umanità:[31] «Cos'altro era Cristo se non una specie di manuale
di etica, cioè di filosofia divina, il quale visse come un inviato dal cielo,
essendo lui stesso una divina Idea di virtù, manifestata agli occhi degli
uomini.» (De Christiana religione, cap. 4) Elevando il cristianesimo a
religione suprema,[31] Ficino asserì che l'Incarnazione del Cristo era avvenuta
anche perché Dio si potesse riunire «a tutti gli aspetti della
creazione».[32] Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del
panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante
richiesta delle sue opere,[33] dopo la fine del Rinascimento Ficino venne
tradotto e commentato sempre meno, fino ad essere accusato,
immeritatamente,[31] di un ritorno al paganesimo. In Italia, dove è
riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo cinquecentesco,[34] e in
particolare su Giordano Bruno,[35] sarà Giambattista Vico a raccogliere nel
Settecento l'eredità neoplatonica di Ficino, di cui lesse l'opera di
traduzione, rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse
allontanata da lui, rinchiudendosi nelle angustie mentali di
Cartesio.[36] Sottoposto ad attacchi nel corso del Novecento che
giudicarono «retorici» e «privi di valore» i suoi scritti,[37] Ficino è stato
rivalutato dallo psicanalista scrittore James Hillman, che lo definì uno
«psicologo del profondo» e «precursore della psicologia junghiana», per il suo
incitamento a leggere e interpretare ogni affermazione proveniente dai campi
più disparati, sia della scienza che della teologia, nell'ottica
dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene vista cioè come
«mediazione e compendio» dell'universo.[38] La conoscenza dell'anima è infatti
per Hillman la «quintessenza del neoplatonismo italiano», in cui giacciono
sepolte le «fantasie mistiche» di questo «strano uomo che suonava inni orfici
sul liuto, che studiava la magia e componeva canti astrologici, quest'uomo
gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore, malinconico traduttore di
Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici, autore lui stesso di
alcuni tra gli scritti più diffusi e influenti (Commento al Simposio) e
scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo tempo».[39] La
centralità attribuita da Ficino all'anima, per la quale, ancora ragazzo, Cosimo
de' Medici lo considerava «prescelto alla cura delle anime» come suo padre
medico lo era dei corpi,[40] convinse anche Erwin Panofsky che egli «ebbe un
impatto paragonabile per estensione ed intensità solo a quello prodotto oggi
dalla psicoanalisi».[41] Notevole è ad esempio l'intuizione di Ficino del
potere psicosomatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina
moderna considera un effetto placebo: «Io sono del parere che
l'intenzione dell'immaginazione abbia il suo peso su immagini e medicine, non
tanto al momento della preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad
esempio, se un tale, a quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei
modi debiti, o certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera
intensamente soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con
incrollabile fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di
incremento all'aiuto che essa può dare.» (Ficino, De vita[42])
Opere Frontespizio di una edizione del 1560 del De triplici vita. De
Voluptate (1457-8) De Amore o Commentarium in Convivium Platonis (1469) De
religione Christiana et fidei pietate (1475–6) Theologia Platonica de
immortalitate animarum (1482) Compendium in Timaeum (1484) De triplici vita
(1489) De lumine (1492) In Epistolas Pauli commentaria (Venezia 1491; Firenze
1497) El libro dell'amore De vita Teologia platonica (1474) Sopra lo amore
ovvero Convito di Platone La religione cristiana Epistolarum familiarum, liber
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XIX secolo per indicare le interpretazioni platoniche che si erano andate via
via sovrapponendo a partire dall'età ellenistica, ma che erano sempre state
identificate col pensiero stesso di Platone, ritenuto quasi un loro capostipite
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Platone, dei platonici e del "corpus" ermetico. Filosofia, teologia e
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“Commentaries on Plato,” Tatti -- Luigi
Speranza, "Grice e Ficino," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
fictum: in the widest
usage, whatever contrasts with what is a matter of fact. As applied to works of
fiction, however, this is not the appropriate contrast. For a work of fiction,
such as a historical novel, might turn out to be true regarding its historical
subject, without ceasing to be fiction. The correct contrast of fiction is to
non-fiction. If a work of fiction might turn out to be true, how is ‘fiction’
best defined? According to some philosophers, such as Searle, the writer of
nonfiction performs illocutionary speech acts, such as asserting that
such-and-such occurred, whereas the writer of fiction characteristically only
pretends to perform these illocutionary acts. Others hold that the core idea to
which appeal should be made is that of making-believe or imagining certain
states of affairs. Kendall Walton Mimesis as Make-Believe, 0, for instance,
holds that a work of fiction is to be construed in terms of a prop whose
function is to serve in games of make-believe. Both kinds of theory allow for
the possibility that a work of fiction might turn out to be true.
fidanza: essential Italian
philosopher, b. Bagnorea, Tuscany, he was educated at Paris, earning a master’s
degree in arts and a doctorate in theology. He joined the Franciscans about
1243, while still a student, and was elected minister general of the order in
1257. Made cardinal bishop of Albano by Pope Gregory X in 1274, Bonaventure
helped organize the Second Ecumenical Council of Lyons, during the course of
which he died, in July 1274. He was canonized in 1482 and named a doctor of the
church in 1587. Bonaventure wrote and preached extensively on the relation
between philosophy and theology, the role of reason in spiritual and religious
life, and the extent to which knowledge in God is obtainable by the “wayfarer.”
His basic position is nicely expressed in De reductione artium ad theologiam
“On the Reduction of the Arts to Theology”: “the manifold wisdom of God, which
is clearly revealed in sacred scripture, lies hidden in all knowledge and in
all nature.” He adds, “all divisions of knowledge are handmaids of theology.”
But he is critical of those theologians who wish to sever the connection
between faith and reason. As he argues in another famous work, Itinerarium
mentis ad deum “The Mind’s Journey unto God,” 1259, “since, relative to our
life on earth, the world is itself a ladder for ascending to God, we find here
certain traces, certain images” of the divine hand, in which God himself is
mirrored. Although Bonaventure’s own philosophical outlook is Augustinian, he
was also influenced by Aristotle, whose newly available works he both read and
appreciated. Thus, while upholdBonaventure, Saint Bonaventure, Saint 94 94 ing the Aristotelian ideas that knowledge
of the external world is based on the senses and that the mind comes into
existence as a tabula rasa, he also contends that divine illumination is necessary
to explain both the acquisition of universal concepts from sense images, and
the certainty of intellectual judgment. His own illuminationist epistemology
seeks a middle ground between, on the one hand, those who maintain that the
eternal light is the sole reason for human knowing, providing the human
intellect with its archetypal and intelligible objects, and, on the other,
those holding that the eternal light merely influences human knowing, helping
guide it toward truth. He holds that our intellect has certain knowledge when
stable; eternal archetypes are “contuited by us [a nobis contuita],” together
with intelligible species produced by its own fallible powers. In metaphysics,
Bonaventure defends exemplarism, the doctrine that all creation is patterned
after exemplar causes or ideas in the mind of God. Like Aquinas, but unlike
Duns Scotus, he argues that it is through such ideas that God knows all
creatures. He also adopts the emanationist principle that creation proceeds
from God’s goodness, which is self-diffusive, but differs from other
emanationists, such as al-Farabi, Avicenna, and Averroes, in arguing that
divine emanation is neither necessary nor indirect i.e., accomplished by
secondary agents or intelligences. Indeed, he sees the views of these Islamic
philosophers as typical of the errors bound to follow once Aristotelian
rationalism is taken to its extreme. He is also well known for his
anti-Aristotelian argument that the eternity of the world something even Aquinas following Maimonides
concedes as a theoretical possibility is
demonstrably false. Bonaventure also subscribes to several other doctrines
characteristic of medieval Augustinianism: universal hylomorphism, the thesis,
defended by Ibn Gabirol and Avicenna among others, that everything other than
God is composed of matter and form; the plurality of forms, the view that
subjects and predicates in the category of substance are ordered in terms of
their metaphysical priority; and the ontological view of truth, according to
which truth is a kind of rightness perceived by the mind. In a similar vein,
Bonaventure argues that knowledge ultimately consists in perceiving truth
directly, without argument or demonstration. Bonaventure also wrote several
classic works in the tradition of mystical theology. His bestknown and most
popular mystical work is the aforementioned Itinerarium, written in 1259 on a
pilgrimage to La Verna, during which he beheld the six-winged seraph that had
also appeared to Francis of Assisi when Francis received the stigmata.
Bonaventure outlines a seven-stage spiritual journey, in which our mind moves
from first considering God’s traces in the perfections of irrational creatures,
to a final state of peaceful repose, in which our affections are “transferred
and transformed into God.” Central to his writings on spiritual life is the
theme of the “three ways”: the purgative way, inspired by conscience, which
expels sin; the illuminative way, inspired by the intellect, which imitates
Christ; and the unitive way, inspired by wisdom, which unites us to God through
love. Bonaventure’s writings most immediately influenced the work of other
medieval Augustinians, such as Matthew of Aquasparta and John Peckham, and
later, followers of Duns Scotus. But his modern reputation rests on his
profound contributions to philosophical theology, Franciscan spirituality, and
mystical thought, in all three of which he remains an authoritative source.Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio, 1217/1221 circa –
Lione, 15 luglio 1274) è stato un cardinale, filosofo e teologo italiano.
Denominato Doctor Seraphicus, insegnò alla Sorbona di Parigi e fu amico di san
Tommaso d'Aquino. Vescovo e cardinale, dopo la morte venne canonizzato da
papa Sisto IV nel 1482 e proclamato Dottore della Chiesa da papa Sisto V nel
1588. È considerato uno tra i più importanti biografi di san Francesco
d'Assisi. Infatti alla sua biografia — la Legenda Maior — si ispirò Giotto per
il ciclo delle storie sul Santo nella basilica di Assisi. Per diciassette
anni — dal 1257 — fu ministro generale dell'Ordine francescano, del quale è
ritenuto uno dei padri: quasi un secondo fondatore. Sotto la sua guida furono
pubblicate le Costituzioni narbonesi, su cui si basarono tutte le successive
costituzioni dell'Ordine. La visione filosofica di Bonaventura partiva
dal presupposto che ogni conoscenza derivi dai sensi: l'anima conosce Dio e se
stessa senza l'aiuto dei sensi esterni. Risolse il problema del rapporto tra
ragione e fede in chiave platonico-agostiniana. È venerato come santo
dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua memoria obbligatoria il 15 luglio o
il giorno precedente nella forma straordinaria. La data in cui Bonaventura
venne alla luce non è certa e viene collocata tra il 1217 e il 1221. Nacque a
Civita di Bagnoregio, in Tuscia, oggi provincia di Viterbo. Era figlio di
Giovanni di Fidanza, medico, e di Rita (o Ritella).[1] Iniziò i suoi studi
giovanili nel convento di San Francesco "vecchio", situato a metà
strada tra Bagnoregio e Civita[2]. Nel 1235 si recò a Parigi a studiare nella
facoltà delle Arti e successivamente, nel 1243, nella facoltà di teologia.
Probabilmente in quello stesso anno entrò tra i Frati Minori (Minoriti). I suoi
studi di teologia terminarono nel 1253, quando divenne magister (cioè
"maestro") di teologia e ottiene la licentia docendi (la
"licenza d'insegnare"). Tra il 1262 e il 1264 Bonaventura fu
priore del convento di San Francesco ad Orvieto che fece ristrutturare. I
francescani erano di casa ad Orvieto. I Mendicanti di Francesco dovevano essere
in città almeno fin dal 1216 (ben prima dell'approvazione della Regola) nel
luogo stesso dove sarà edificato il complesso attuale di San Francesco, chiesa
e convento; presumibilmente sul preesistente sito della citata S. Maria in
Pulzella chiesa “detta Nunziata” nel quartiere di Serancia: dove sorgerà il
quartier generale dei Monaldeschi. Quello dei Frati Minori fu il primo
Ordine ad insediarsi ufficialmente in Orvieto nel 1228 o 1229 presso S. Pietro
in Vetera: dove è il sito del santuario federale Fanum Voltumnae di Velsna,
Volsinii Etruriae capita (Tito Livio), Orvieto etrusca. Francesco era morto il
3 ottobre 1226. La Regola era stata approvata da Onorio III nell'ottobre 1223.
Tracce del passaggio di Francesco nel territorio orvietano restano a La
Scarzuola, dove è raffigurato il suo ritratto più antico; a Pantanelli, dove
dimorò e predicò ai pesci sul Tevere; ad Alviano e Lugnano, dove predicò agli
uccelli. Insegnamento San Bonaventura, francescano, venti giorni dopo
l'indizione della festa del Corpus Domini predicò il Sermo de sanctissimo
corpore Christi alla presenza di papa Urbano IV e del concistoro generale.
Bonaventura, con Tommaso d'Aquino, è stato tra i protagonisti di quell'evento
rilevante nella storia religiosa ma anche nella storia della cultura: veniva
istituita, infatti, una nuova festa per la Chiesa latina, incentrata sul
mistero dell'eucaristia. Bonaventura e Tommaso, i dottori
"seraphicus" ed "angelicus", furono due protagonisti del
pensiero filosofico e teologico del tempo: erano stati entrambi cattedratici
presso lo Studium orvietano, l'antica università della città. Nel 1250 il papa
aveva autorizzato il cancelliere dell'Università a conferire la licenza di
insegnamento a religiosi degli ordini mendicanti, sebbene ciò contrastasse con
il diritto di cooptare i nuovi maestri rivendicato dalla corporazione
universitaria. Nel 1253, di fatti, scoppiò uno sciopero al quale tuttavia i
membri degli ordini mendicanti non si associarono. La corporazione
universitaria richiese loro un giuramento di obbedienza agli statuti, ma essi
rifiutarono e pertanto vennero esclusi dall'insegnamento. Questa
esclusione colpì anche Bonaventura, che fu maestro reggente fra il 1253 e il
1257. Nel 1254 i maestri secolari denunciarono a papa Innocenzo IV il libro del
francescano Gerardo di Borgo San Donnino, Introduzione al Vangelo eterno. In
questo testo fra' Gerardo, rifacendosi al pensiero di Gioacchino da Fiore,
annunciava l'avvento di una «nuova età dello Spirito Santo» e di una «Chiesa
cattolica puramente spirituale fondata sulla povertà», profezia che si doveva
realizzare attorno al 1260. In conseguenza di questo il Papa — poco prima di
morire — annullò i privilegi concessi agli ordini mendicanti. Il nuovo
pontefice papa Alessandro IV condannò il libro di Gerardo con una bolla nel
1255, prendendo tuttavia posizione a favore degli ordini mendicanti e senza più
porre limiti al numero delle cattedre che essi potevano ricoprire. I secolari
rifiutarono queste decisioni, venendo così scomunicati, anche per il
boicottaggio da loro operato ai danni dei corsi tenuti dai frati degli ordini
mendicanti. Tutto questo nonostante che i primi avessero l'appoggio del clero e
dei vescovi, mentre il re di Francia Luigi IX si trovava a sostenere le
posizioni dei mendicanti. Nel 1257 Bonaventura venne riconosciuto
magister. Nello stesso anno fu eletto Ministro generale dell'Ordine
francescano, rinunciando così alla cattedra. A partire da questa data, preso
dagli impegni del nuovo servizio, accantonò gli studi e compì vari viaggi per
l'Europa. Il suo obiettivo principale fu quello di conservare l'unità dei
Frati Minori, prendendo posizione sia contro la corrente spirituale
(influenzata dalle idee di Gioacchino da Fiore e incline ad accentuare la
povertà del francescanesimo primitivo), sia contro le tendenze mondane insorte
in seno all'Ordine. Favorevole a coinvolgere l'Ordine francescano nel ministero
pastorale e nella struttura organizzativa della Chiesa, nel Capitolo generale
di Narbona del 1260 contribuì a definire le regole che dovevano guidare la vita
dei suoi membri: le Costituzioni, dette appunto Narbonensi. A lui, in questo
Capitolo, venne affidato l'incarico di redigere una nuova biografia di san
Francesco d'Assisi che, intitolata Legenda Maior, diventerà la biografia
ufficiale nell'Ordine. Incipit del Legenda maior Infatti il
Capitolo generale successivo, del 1263 (Pisa), approvò l'opera composta dal
Ministro generale; mentre il Capitolo del 1266, riunito a Parigi, giunse a
decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla Legenda Maior,
probabilmente per proporre all'Ordine una immagine univoca del proprio
fondatore, in un momento in cui le diverse interpretazioni fomentavano
contrapposizioni e conducevano verso la divisione.[3] In modo analogo a
Tommaso d'Aquino che rifiutò ripetutamente la proposta di essere nominato
Arcivescovo di Napoli, nel 1265 fu nominato arcivescovo di York dal neoeletto
papa Clemente IV (mai beatificato), incarico che, dopo numerose richieste al
Sommo Pontefice, gli fu consentito di lasciare l'anno seguente[4]. Ultimi
anni Negli ultimi anni della sua vita Bonaventura intervenne nelle lotte contro
l'aristotelismo e nella rinata polemica fra maestri secolari e mendicanti. A
Parigi, tra il 1267 e il 1269, tenne una serie di conferenze sulla necessità di
subordinare e finalizzare la filosofia alla teologia. Nel 1270 lasciò Parigi
per farvi però ritorno nel 1273, quando tenne altre conferenze nelle quali
attaccava quelli che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo.
Peraltro, negli anni tra il 1269 ed il 1271, fu spesso a Viterbo ove si
svolgeva il famoso, lunghissimo conclave, per tenere numerosi sermoni volti ad
accelerare ed indirizzare la scelta dei cardinali; alla fine fu eletto papa
Gregorio X, cioè quel Tedaldo Visconti di cui Bonaventura era amico da molti
anni[5] Fu proprio papa Gregorio X a crearlo cardinale vescovo con titolo
di Albano nel concistoro del 3 giugno 1273, mentre Bonaventura soggiornava nel
convento del Bosco ai Frati presso Firenze; l'anno successivo partecipò al
Concilio di Lione (in cui favorì un riavvicinamento fra la Chiesa latina e
quella greca), nel corso del quale morì, forse a causa di un avvelenamento,
stando almeno a quanto affermò in seguito il suo segretario, Pellegrino da
Bologna.[senza fonte] Pierre de Tarentaise, futuro papa Innocenzo V, ne
celebrò le esequie e Bonaventura venne inumato nella chiesa francescana di
Lione. Intorno all'anno 1450 la salma venne traslata in una nuova chiesa,
dedicata a San Francesco d'Assisi; la tomba venne aperta e la sua lingua venne
trovata in perfetto stato di conservazione: questo fatto ne facilitò la
canonizzazione, che avvenne ad opera del papa francescano Sisto IV il 14 aprile
1482, e la nomina a dottore della Chiesa, compiuta il 14 marzo1588 da un altro
francescano, papa Sisto V. Le reliquie: il «santo braccio» Il 14 marzo
1490, a seguito della ricognizione del corpo del santo a Lione, venne estratta
una parte del braccio destro del santo e composta in un reliquiario d'argento
che l'anno seguente fu portato a Bagnoregio. Oggi il «santo braccio» è la più
grande delle reliquie rimaste di san Bonaventura dopo la profanazione del suo
sepolcro e la dispersione dei suoi resti compiuta dagli Ugonotti nel 1562. Si
trova custodito a Bagnoregio nella concattedrale di San Nicola. Da esso, nel
corso degli anni, sono state ricavate alcune reliquie minori. Frontespizio
delle Meditationes Bonaventura è considerato uno dei pensatori maggiori della
tradizione francescana, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e
propria scuola di pensiero, sia dal punto di vista teologico che da quello
filosofico. Difese e ripropose la tradizione patristica, in particolare il
pensiero e l'impostazione di sant'Agostino. Egli combatté apertamente
l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali per il suo
pensiero. Inoltre valorizzò alcune tesi della filosofia arabo-ebraica, in
particolare quelle di Avicenna e di Avicebron, ispirate al neoplatonismo. Nelle
sue opere ricorre continuamente l'idea del primato della sapienza, come alternativa
ad una razionalità filosofica isolata dalle altre facoltà dell'uomo. Egli
sostiene, infatti, che: «(...) la scienza filosofica è una via verso
altre scienze. Chi si ferma resta immerso nelle tenebre.» Secondo
Bonaventura è il Cristo la via a tutte le scienze, sia per la filosofia che per
la teologia. Il progetto di Bonaventura è una riduzione (reductio artium)
non nel senso di un depotenziamento delle arti liberali, bensì della loro
unificazione sotto la luce della verità rivelata, la sola che possa orientarle
verso l'obiettivo perfetto a cui tende imperfettamente ogni conoscenza, il vero
in sé che è Dio. La distinzione delle nove arti in tre categorie, naturali
(fisica, matematica, meccanica), razionali (logica, retorica, grammatica) e
morali (politica, monastica, economica) riflette la distinzione di res, signa
ed actiones la cui verticalità non è altro che cammino iniziatico per gradi di
perfezione verso l'unione mistica. La parzialità delle arti è per Bonaventura
non altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio illumina il mondo:
prima del peccato originale Adamo sapeva leggere indirettamente Dio nel Liber
Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa
capacità. Per aiutare l'uomo nel recupero della contemplazione della
somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza
supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti
smarrirebbe se stessa nell'autoreferenzialità. Attraverso l'illuminazione della
rivelazione, l'intelletto agente è capace di comprendere il riflesso divino
delle verità terrene inviate dall'intelletto passivo, quali pallidi riflessi
delle verità eterne che Dio perfettamente pensa mediante il Verbo. Ciò
rappresenta l'accesso al terzo libro, Liber Vitae, leggibile solo per sintesi
collaborativa tra fede e ragione: la perfetta verità, assoluta ed eterna in
Dio, non è un dato acquisito, ma una forza la cui dinamica si attua
storicamente nella reggenza delle verità con le quali Dio mantiene l'ordine del
creato. Lo svelamento di quest'ordine è la lettura del terzo libro che per
segni di dignità sempre maggior avvicina l'uomo alla fonte di ogni
verità. La primitas divina o "primalità di Dio" è il sostegno a
tutto l'impianto teologico di Bonaventura. Nella sua prima opera, il
Breviloquium, egli definisce i caratteri della teologia affermando che, poiché
il suo oggetto è Dio, essa ha il compito di dimostrare che la verità della
sacra scrittura è da Dio, su Dio, secondo Dio ed ha come fine Dio. L'unita del
suo oggetto determina come unitaria ed ordinata la teologia perché la sua
struttura corrisponde ai caratteri del suo oggetto. Nella sua opera più famosa,
l'Itinerarium mentis in Deum ("L'itinerario della mente verso Dio"),
Bonaventura spiega che il criterio di valore e la misura della verità si
acquisiscono dalla fede, e non dalla ragione (come sostenevano gli
averroisti). Da ciò fa conseguire che la filosofia serve a dare aiuto
alla ricerca umana di Dio, e può farlo, come diceva sant'Agostino, solo
riportando l'uomo alla propria dimensione interiore (cioè l'anima), e,
attraverso questa, ricondurlo infine a Dio. Secondo Bonaventura, dunque, il
«viaggio» spirituale verso Dio è frutto di una illuminazione divina, che
proviene dalla «ragione suprema» di Dio stesso. Per giungere a Dio, quindi,
l'uomo deve passare attraverso tre gradi, che, tuttavia, devono essere
preceduti dall'intensa ed umile preghiera, poiché: «(...) nessuno può
giungere alla beatitudine se non trascende sé stesso, non con il corpo, ma con
lo spirito. Ma non possiamo elevarci da noi se non attraverso una virtù
superiore. Qualunque siano le disposizioni interiori, queste non hanno alcun
potere senza l'aiuto della Grazia divina. Ma questa è concessa solo a coloro
che la chiedono (...) con fervida preghiera. È la preghiera il principio e la
sorgente della nostra elevazione. (...) Così pregando, siamo illuminati nel
conoscere i gradi dell'ascesa a Dio.» La "scala" dei 3 gradi
dell'ascesa a Dio è simili alla "scala" dei 4 gradi dell'amore di
Bernardo di Chiaravalle, anche se non uguale; tali gradi sono: 1) Il
grado esteriore: «(...) è necessario che prima consideriamo gli oggetti
corporei, temporali e fuori di noi, nei quali è l'orma di Dio, e questo
significa incamminarsi per la via di Dio.» 2) Il grado interiore: «È
necessario poi rientrare in noi stessi, perché la nostra mente è immagine di
Dio, immortale, spirituale e dentro di noi, il che ci conduce nella verità di
Dio.» 3) Il grado eterno: «Infine, occorre elevarci a ciò che è eterno,
spiritualissimo e sopra di noi, aprendoci al primo principio, e questo dona
gioia nella conoscenza di Dio e omaggio alla Sua maestà.» Inoltre,
afferma Bonaventura, in corrispondenza a tali gradi l'anima ha anche tre
diverse direzioni: «(...) L'una si riferisce alle cose esteriori, e si
chiama animalità o sensibilità; l'altra ha per oggetto lo spirito, rivolto in
sé e a sé; la terza ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra
di sé. Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché l'ami
con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l'anima (...).» (San
Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum) Dunque, per Bonaventura,
l'unica conoscenza possibile è quella contemplativa, cioè la via
dell'illuminazione, che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni
permette persino di accostarsi a Dio misticamente. L'illuminazione guida anche
l'azione umana, in quanto solo essa determina la sinderesi, cioè la
disposizione pratica al bene. Bonaventura elaborò una teologia trinitaria
di derivazione agostiniana, in quanto volle evidenziare l'unità del Dio-Trino,
come forza, che unisce le tre persone. Ma tale unità è conciliabile con la
pluralità delle persone: unità e trinità sono sempre insieme. I dati presenti
nella Scrittura presentano all'uomo la verità rivelata: in Dio vi sono tre
persone. Due sono le fasi dell'auto-rivelazione di Dio: la prima nella
creazione, la seconda in Cristo. Il mondo, per Bonaventura, è come un libro da
cui traspare la Trinità che l'ha creato. Noi possiamo ritrovare la Trinità
extra nos (cioè "fuori di noi"), intra nos ("in noi") e
super nos ("sopra di noi"). Infatti, la Trinità si rivela in 3
modi: come vestigia (o impronta) di Dio, che si manifesta in ogni essere,
animato o inanimato che sia; come immagine di Dio, che si trova solo nelle
creature dotate d'intelletto, in cui risplendono memoria, intelligenza e
volontà; come similitudine di Dio, che è qualità propria delle creature giuste
e sante, toccate dalla Grazia e animate da fede, speranza e carità; quindi, quest'ultima
è ciò che ci rende "figli di Dio". La Creazione dunque è ordinata
secondo una scala gerarchica trinitaria e la natura non ha sua consistenza, ma
si rivela come segno visibile del principio divino che l'ha creata; solo in
questo, quindi, trova il suo significato. Bonaventura trae questo principio
anche da un passo evangelico, in cui i discepoli di Gesù dissero:
««Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e
gloria nel più alto dei cieli!» Alcuni farisei tra la folla gli dissero:
«Maestro, rimprovera i tuoi discepoli.» Ma egli rispose: «Vi dico che, se
questi taceranno, grideranno le pietre.»» (Lc, 19,38-40) Le creature,
dunque, sono impronte, immagini, similitudini di Dio, e persino le pietre
"gridano" tale loro legame col divino. Opere Breviloquium
(Breviloquio) Collationes de decem praeceptis (Raccolte su dieci precetti)
Collationes de septem donis Spiritus Sanctis (Raccolte sui sette doni dello
Spirito Santo) Collationes in Hexaemeron (Raccolte nei Sei Giorni della Creazione)
Commentaria in quattuor libros sententiarum Magistri Petri Lombardi (Commentari
in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo) De mysterio
Trinitatis (Il mistero della Trinità; questione disputata) De perfectione vitae
ad sorores (La perfezione della vita alle sorelle) De reductione artium ad
theologiam (La riduzione della arti alla teologia) De Regno Dei descripto in
parabolis evangelicis (Il Regno di Dio descritto nelle parabole evangeliche) De
scientia Christi et mysterio Trinitatis (La conoscenza di Cristo ed il mistero
della Trinità) De sex alis Seraphin (Le sei ali dei Serafini) De triplici via
(La triplice via) Itinerarium mentis in Deum (Itinerario della mente verso Dio)
Legenda majior Sancti Francisci (La leggenda maggiore di San Francesco) Legenda
minor Sancti Francisci (La leggenda minore di San Francesco) Lignum vitae
(L'Albero della vita) Officium de passione Domini (L'Ufficio della passione del
Signore) Quaestiones de perfectione evangelica (Questioni sopra la perfezione evangelica)
Soliloquium (Soliloquio) Summa theologiae (Complesso di teologia) Vitis mystica
(La vite mistica) Note ^ Eletto Ramacci, S. Bonaventura e il Santo
Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, 1991. ^ Oggi del convento restano
solo i ruderi. ^ Grado Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine
dei Minori, in Maria Pia Alberzoni, et al., Francesco d'Assisi e il primo
secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, 1997. pp. 28-30. ^ G. Bosco,
Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone,
Torino, Libreria Salesiana Editore, 1904, p. 284. URL consultato il 4 novembre
2018 (archiviato il 4 novembre 2018)., con l'approvazione del card. Lorenzo
Gastaldi, arcivescovo di Torino ^ Cesare Pinzi,Storia della Città di Viterbo,Tip.Camera
dei Deputati, Roma, 1887-89,lib.VII. Il Pinzi parla dettagliatamente degli
interventi di Bonaventura a Viterbo in occasione del Conclave e dell'amicizia
con Gregorio X. Bibliografia Testi Bonaventura da Bagnorea (presunto),
Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson, circa 1478. Bonaventura
da Bagnorea, Legenda maior, Milano, Ulrich Scinzenzeler, 1495. Bonaventura da
Bagnorea, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Expositiones in Testamentum novum, Lyon, Borde,
Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea,
Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ;
Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, vol. 1, Lyon, Borde,
Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea,
Opuscula, vol. 2, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, vol. 1,
Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da
Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, vol. 2, Lyon, Borde, Philippe ;
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Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Città Nuova, Roma 2006.
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Costanzi T., San Bonaventura, Armando, Roma 2003. Ramacci Eletto, S.
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italiani, vol. 11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. URL
consultato il 19 dicembre 2017. Modifica su Wikidata Emiliano Ramacci, Un Inno
per S. Bonaventura (1560), Associazione Organum, Bagnoregio, 2017. Emiliano
Ramacci, S. Bonaventura da Bagnoregio - Miracoli, Associazione Organum,
Bagnoregio, 2020. Voci correlate Dottore della Chiesa Filosofia scolastica. Il
Quadragesimale de Contemptu Mundi Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura
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Wikidata Bonaventura da Bagnoregio, su Santi, beati e testimoni,
santiebeati.it. Modifica su Wikidata (EN) Tim Noone e R. E. Houser, Saint
Bonaventure, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. Biografia di San Francesco
d'Assisi (PDF), su assisiofm.it. scritta da San Bonaventura da Bagnoregio
Itinerario della mente in Dio (PDF), su lamelagrana.net. (LA) Itinerarium
mentis in Deum, su thelatinlibrary.com. (FR) Oeuvres spirituelles, su
abbaye-saint-benoit.ch. URL consultato il 26 aprile 2007 (archiviato dall'url
originale il 30 aprile 2007). (LA) S. Bonaventura: Opera Omnia Peltiero Edente,
su documentacatholicaomnia.eu. (LA) San Bonaventura online, su
dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di
Quaracchi (EN) Salvador Miranda, BONAVENTURA, O.F.M., su fiu.edu – The
Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University.
PredecessoreMinistro generale dell'Ordine dei Frati
MinoriSuccessoreFrancescocoa.png Giovanni da Parma2 febbraio 1257 - 15 luglio
1274Girolamo Masci d'Ascoli PredecessoreCardinale vescovo di
AlbanoSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Raoul Grosparmi3 giugno 1273 - 15 luglio
1274Bentivegna de' Bentivegni, O.F.M.V · D · M Padri e dottori della Chiesa
cattolica V · D · M Francescanesimo Controllo di autoritàVIAF (EN) 89657091 ·
ISNI (EN) 0000 0001 1774 1110 · SBN IT\ICCU\CFIV\029314 · LCCN (EN) n79043613 ·
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Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo
Portale Medioevo Categorie: Cardinali italiani del XIII secoloFilosofi italiani
del XIII secoloTeologi italianiMorti nel 1274Morti il 15 luglioNati a
BagnoregioMorti a LioneBonaventura da BagnoregioSanti canonizzati da Sisto
IVCardinali nominati da Gregorio XDottori della Chiesa cattolicaFrancescani
italianiInnatistiNeoplatoniciPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso)Santi per nomeSanti italiani del XIII secoloSanti
minoritiScolasticiCardinali francescani del XIII secoloVescovi e cardinali
vescovi di AlbanoVescovi e arcivescovi cattolici di YorkFilosofi
cattoliciScrittori medievali in lingua latinaVescovi francescani[altre].
Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
figura: figure-ground, the discrimination of an object or
figure from the context or background against which it is set. Even when a
connected region is grouped together properly, as in the famous figure that can
be seen either as a pair of faces or as a vase, it is possible to interpret the
region alternately as figure and as ground. This fact was originally elaborated
in 1 by Edgar Rubin 6 1. Figureground effects and the existence of other
ambiguous figures such as the Necker cube and the duck-rabbit challenged the
prevailing assumption, Vitters thought, in classical theories of
perception maintained, e.g., by H. P.
Grice and J. S. Mill and H. von Helmholtz
that complex perceptions could be understood in terms of primitive
sensations constituting them. The underdetermination of perception by the
visual stimulus, noted by Berkeley in his Essay of 1709, takes account of the
fact that the retinal image is impoverished with respect to threedimensional
information. Identical stimulation at the retina can result from radically
different distal sources. Within Gestalt psychology, the Gestalt, or pattern,
was recognized to be underdetermined by constituent parts available in proximal
stimuli. M. Wertheimer 03 observed in 2 that apparent motion could be induced
by viewing a series of still pictures in rapid succession. He concluded that
perception of the whole, as involving movement, was fundamentally different
from the perception of the static images of which it is composed. W. Köhler An
example of visual reversal from Edgar Rubin: the object depicted can be seen
alternately as a vase or as a pair of faces. The reversal occurs whether there
is a black ground and white figure or white figure and black ground. figure
figure ground 310 310 77 observed that there was no figure
ground articulation in the retinal image, and concluded that inherently
ambiguous stimuli required some autonomous selective principles of perceptual
organization. As subsequently developed by Gestalt psychologists, form is taken
as the primitive unit of perception. In philosophical treatments, figureground
effects are used to enforce the conclusion that interpretation is central to
perception, and that perceptions are no more than hypotheses based on sensory
data. Refs.: Grice, “You can’t see a knife as a knife,” “The Causal Theory of
Perception,” Vitters on ‘seeing-as’”. figura -- schema (Latin ‘figura,’ as in Grice,
‘figure of speech’), also schema plural: schemata, a metalinguistic frame or
template used to specify an infinite set of sentences, its instances, by finite
means, often taken with a side condition on how its blanks or placeholders are
to be filled. The sentence ‘Either Abe argues or it is not the case that Abe
argues’ is an instance of the excluded middle scheme for English: ‘Either . . .
or it is not the case that . . .’, where the two blanks are to be filled with
one and the same well-formed declarative English sentence. Since first-order
number theory cannot be finitely axiomatized, the mathematical induction scheme
is used to effectively specify an infinite set of axioms: ‘If zero is such that
. . . and the successor of every number such that . . . is also such that . . .
, then every number is such that . . .’, where the four blanks are to be filled
with one and the same arithmetic open sentence, such as ‘it precedes its own
successor’ or ‘it is finite’. Among the best-known is Tarski’s scheme T: ‘. . .
is a true sentence if and only if . . .’, where the second blank is filled with
a sentence and the first blank by a name of the sentence. And then there’s the figura quadrata: square of opposition – figura
quadrata – Grice: “It is clear that the apparatus of Modernism does not give a
faithful account of the character of semantic phenomena. One such less than
faithful account, indeed, deviant account, appears in the treatment of the
square of opposition.” cited by Grice in “Retrospective epilogue.” Since
tutoring Strawson on this for Strawson’s ‘logic paper,’ Grice kept an interest,
if only to witness Strwson’s playing with the square – and ‘uselessly trying to
circle it’ -- a graphic representation of various logical relations among
categorical propositions. Relations among modal and even among hypothetical
propositions have also been represented on the square. Two propositions are
said to be each other’s 1 contradictories if exactly one of them must be true
and exactly one false; 2 contraries if they could not both be true although
they could both be false; and 3 subcontraries if at least one of them must be
true although both of them may be true. There is a relation of 4 subalternation
of one proposition, called subaltern, to another called superaltern, if the truth
of the latter implies the truth of the former, but not conversely. Applying
these definitions to the four types of categorical propositions, we find that
SaP and SoP are contradictories, and so are SeP and SiP. SaP and SeP are
contraries. SiP and SoP are subcontraries. SiP is subaltern to SaP, and SoP is
subaltern to SeP. These relations can be represented graphically in a square of
opposition: The four relations on the traditional square are expressed in the
following theses: Contradictories: SaP S -SoP, SeP S -SiP Contraries: -SaP
& SeP or SaP P -SeP Subcontraries: SiP 7 SoP Subalterns: SaP P SiP, SeP P
SoP For these relations to hold, an underlying existential assumption must be
satisfied: the terms serving as subjects of propositions must be satisfied, not
empty e.g., ‘man’ is satisfied and ‘elf’ empty. Only the contradictory
opposition remains without that assumption. Modern interpretations of
categorical propositions exclude the existential assumption; thus, only the
contradictory opposition remains in the square.
Refs.: H. P. Grice, “Apuleius on the square of opposition,” H. P. Grice,
“Boethius and the square of opposition.”
filmer: r. English
political writer who produced, most importantly, the posthumous Patriarcha It
is remembered because Locke attacked it in the first of his Two Treatises of
Government 1690. Filmer argued that God gave complete authority over the world
to Adam, and that from him it descended to his eldest son when he became the
head of the family. Thereafter only fathers directly descended from Adam could
properly be rulers. Just as Adam’s rule was not derived from the consent of his
family, so the king’s inherited authority is not dependent on popular consent.
He rightly makes laws and imposes taxes at his own good pleasure, though like a
good father he has the welfare of his subjects in view. Filmer’s
patriarchalism, intended to bolster the absolute power of the king, is the
classic English statement of the doctrine.
find
play
– where Grice’s implicaturum finds play Strawson Wiggins p. 523
Fides – cf. con-fido – con-fidence -- Fides:
-- justification by faith, the characteristic doctrine of the Protestant
Reformation that sinful human beings can be justified before God through faith
in Jesus Christ. ‘Being justified’ is understood in forensic terms: before the
court of divine justice humans are not considered guilty because of their sins,
but rather are declared by God to be holy and righteous in virtue of the
righteousness of Christ, which God counts on their behalf. Justification is
received by faith, which is not merely belief in Christian doctrine but
includes a sincere and heartfelt trust and commitment to God in Christ for
one’s salvation. Such faith, if genuine, leads to the reception of the transforming
influences of God’s grace and to a life of love, obedience, and service to God.
These consequences of faith, however, are considered under the heading of
sanctification rather than justification. The rival Roman Catholic doctrine of
justification – often mislabeled by Protestants as “justification by works” –
understands key terms differently. ‘Being just’ is understood not primarily in
forensic terms but rather as a comprehensive state of being rightly related to
God, including the forgiveness of sins, the reception of divine grace, and
inner transformation. Justification is a work of God initially accomplished at
baptism; among the human “predispositions” for justification are faith
(understood as believing the truths God has revealed), awareness of one’s
sinfulness, hope in God’s mercy, and a resolve to do what God requires.
Salvation is a gift of God that is not deserved by human beings, but the
measure of grace bestowed depends to some extent on the sincere efforts of the
sinner who is seeking salvation. The Protestant and Catholic doctrines are not
fully consistent with each other, but neither are they the polar opposites they
are often made to appear by the caricatures each side offers of the other.
finis: H. P. Grice, "Cum finis est licitus, etiam media
sunt licita" -- "Der Zweck und die Mittel.” Grice: “means-end
rationality is a must” -- finitum -- telos, ancient Grecian term meaning ‘end’
or ‘purpose’. Telos is a key concept not only in Grecian ethics but also in
Grecian science. The purpose of a human being is a good life, and human
activities are evaluated according to whether they lead to or manifest this
telos. Plants, animals, and even inanimate objects were also thought to have a
telos through which their activities and relations could be understood and
evaluated. Though a telos could be something that transcends human activities
and sensible things, as Plato thought, it need not be anything apart from
nature. Aristotle, e.g., identified the telos of a sensible thing with its
immanent form. It follows that the purpose of the thing is simply to be what it
is and that, in general, a thing pursues its purpose when it endeavors to
preserve itself. Aristotle’s view shows that ‘purpose in nature’ need not mean
a higher purpose beyond nature. Yet, his immanent purpose does not exclude
“higher” purposes, and Aristotelian teleology was pressed into service by
medieval thinkers as a framework for understanding God’s agency through nature.
Thinkers in the modern period argued against the prominent role accorded to
telos by ancient telepathy telos 906
906 and medieval thinkers, and they replaced it with analyses in terms
of mechanism and law. teleology, the philosophical doctrine that all of nature,
or at least intentional agents, are goaldirected or functionally organized.
Plato first suggested that the organization of the natural world can be
understood by comparing it to the behavior of an intentional agent external teleology. For example, human beings
can anticipate the future and behave in ways calculated to realize their
telekinesis teleology 905 905
intentions. Aristotle invested nature itself with goals internal teleology. Each kind has its own
final cause, and entities are so constructed that they tend to realize this
goal. Heavenly bodies travel as nearly as they are able in perfect circles
because that is their nature, while horses give rise to other horses because
that is their nature. Natural theologians combined these two teleological
perspectives to explain all phenomena by reference to the intentions of a
beneficent, omniscient, all-powerful God. God so constructed the world that
each entity is invested with the tendency to fulfill its own God-given nature.
Darwin explained the teleological character of the living world non-teleologically.
The evolutionary process is not itself teleological, but it gives rise to
functionally organized systems and intentional agents. Present-day philosophers
acknowledge intentional behavior and functional organization but attempt to
explain both without reference to a supernatural agent or internal natures of
the more metaphysical sort. Instead, they define ‘function’ cybernetically, in
terms of persistence toward a goal state under varying conditions, or
etiologically, in terms of the contribution that a structure or action makes to
the realization of a goal state. These definitions confront a battery of
counterexamples designed to show that the condition mentioned is either not
necessary, not sufficient, or both; e.g., missing goal objects, too many goals,
or functional equivalents. The trend has been to decrease the scope of
teleological explanations from all of nature, to the organization of those
entities that arise through natural selection, to their final refuge in the
behavior of human beings. Behaviorists have attempted to eliminate this last
vestige of teleology. Just as natural selection makes the attribution of goals
for biological species redundant, the selection of behavior in terms of its
consequences is designed to make any reference to intentions on the part of
human beings unnecessary. Kant, in fact, for reasons not unlike these, sought
to show the validity of a different but fairly closely related Technical
Imperative by just such a method. The form which he selects is one which, in my
terms, would be represented by "It is fully acceptable, given let it be
that B, that let it be that A" or "It is necessary, given let it be
that B, that let it be that A". Applying this to the one fully stated
technical imperative given in Grundlegung, we get "It is necessary, given
let it be that one bisect a line on an unerring principle, that let it be that
I draw from its extremities two intersecting arcs". Call this statement,
(α). Though he does not express himself very clearly, I am certain that his
claim is that this imperative is validated in virtue of the fact that it is,
analytically, a consequence of an indicative statement which is true and, in
the present context, unproblematic, namely, the statement vouched for by
geometry, that if one bisects a line on an unerring principle, then one does so
only as a result of having drawn from its extremities two intersecting arcs.
Call this statement, (β). His argument seems to be expressible as follows. (1)
It is analytic that he who wills the end (so far as reason decides his
conduct), wills the indispensable means thereto. (2) So it is analytic that (so
far as one is rational) if one wills that A, and judges that if A, then A as a
result of B, then one wills that B. end p.93 (3) So it is analytic that (so far
as one is rational) if one judges that if A, then A as a result of B, then if
one wills that A then one wills that B. (4) So it is analytic that, if it is
true that if A, then A as a result of B, then if let it be that A, then it must
be that let it be that B. From which, by substitution, we derive (5): it is
analytic that if β then α. Now it seems to me to be meritorious, on Kant's
part, first that he saw a need to justify hypothetical imperatives of this
sort, which it is only too easy to take for granted, and second that he invoked
the principle that "he who wills the end, wills the means";
intuitively, this invocation seems right. Unfortunately, however, the step from
(3) to (4) seems open to dispute on two different counts. (1) It looks as if an
unwarranted 'must' has appeared in the consequent of the conditional which is
claimed, in (4), as analytic; the most that, to all appearances, could be
claimed as being true of the antecedent is that 'if let it be that A then let
it be that B'. (2) (Perhaps more serious.) It is by no means clear by what
right the psychological verbs 'judge' and 'will', which appear in (3), are
omitted in (4); how does an (alleged) analytic connection between (i) judging
that if A, A as a result of B and (ii) its being the case that if one wills
that A then one wills that B yield an analytic connection between (i) it's
being the case that if A, A as a result of B and (ii) the 'proposition' that if
let it be that A then let it be that B? Can the presence in (3) of the phrase
"in so far as one is rational" legitimize this step? I do not know
what remedy to propose for the first of these two difficulties; but I will
attempt a reconstruction of Kant's line of argument which might provide relief
from the second. It might, indeed, even
be an expansion of Kant's actual thinking; but whether or not this is so, I am
a very long way from being confident in its adequacy. (1) Let us suppose it to
be a fundamental psychological law that, ceteris paribus, for any creature x
(of a sufficiently developed kind), no matter what A and B are, if x wills A
and judges that if A, A only as a result of B, then x wills B. This I take to
be a proper representation of "he who wills the end, wills the
indispensable means"; and in calling it a fundamental law I mean that it
is the end p.94 law, or one of the laws, from which 'willing' and 'judging'
derive their sense as names of concepts which explain behaviour. So, I assume,
to reject it would be to deprive these words of their sense. If x is a rational
creature, since in this case his attitudes of acceptance are at least to some
degree under his control (volitive or judicative assent can be withheld or
refused), this law will hold for him only if the following is true: (2) x wills
(it is x's will) that (for any A, B) if x wills that A and judges that if A, A
only as a result of B, then x is to will that B. In so far as x proceeds
rationally, x should will as specified in (2) only if x judges that if it is
satisfactory to will that A and also satisfactory to judge that if A, A only as
a result of B, then it is satisfactory to will that B; otherwise, in willing as
specified in (2), he will be willing to run the risk of passing from
satisfactory attitudes to unsatisfactory ones. So, given that x wills as
specified in (2): (3) x should (qua rational) judge that (for any A, B) if it
is satisfactory to will that A and also satisfactory to judge that if A, A only
as a result of B, then it is satisfactory to will that B. Since the
satisfactoriness of attitudes of acceptance resolves itself into the
satisfactoriness (in the sense distinguished in the previous chapter) of the
contents of those attitudes (marked by the appropriate mode-markers), if x
judges as specified in (3) then: (4) x should (qua rational) judge that (for any
A, B) if it is satisfactory that ! A and also satisfactory that if it is the
case that A, A only as a result of B, then it is satisfactory that ! B. And, if
x judges as in (4), then (because (A & B → C) yields A → (B → C)): (5) x
should judge that (for any A, B) if it is satisfactory that if A, A only
because B, then it is satisfactory that, if let it be that A, then let it be
that B. But if x judges that satisfactoriness is, for any A, B, transmitted in
this particular way, then: (6) x should judge that (for any A, B) if A, A only
because B, yields if let it be that A, then let it be that B. end p.95 But if
any rational being should (qua rational) judge that (for any A, B) the first
'propositional' form yields the second, then the first propositional form does
yield the second; so: (7) (For any A, B) if A, A only because B yields if let
it be that A, then let it be that B. (A special apology for the particularly
violent disregard of 'use and mention'; my usual reason is offered.) Fig. 4
summarizes the steps of the argument. I. Kant's Steps α = It is necessary,
given let it be that one bisect a line on an unerring principle, that let it be
that I draw from its extremities two intersecting arcs. β = If one bisects a
line on an unerring principle, then one does so only as a result of having
drawn from its extremities two intersecting arcs. (1) It is analytic that (so
far as he is rational) he who wills the end wills the means. (2) It is analytic
that (so far as one is rational) if one wills that A, and judges that if A,
then A only as a result of B, then one wills that B. (3) It is analytic that
(so far as one is rational) if one judges that if A, A as a result of B, then
if one wills that A one wills that B. (4) It is analytic that if, if A, then A
as a result of B, then, if let it be that A, then it must be that let it be
that B. (5) It is analytic that if β, then α. Grice goes on to provide
some Reconstruction Steps (1) Fundamental law
that (ceteris paribus) for any creature x (for any A, B), if x wills A and
judges that if A, then A as a result of B; then x wills B. (2) x wills that
(for any A, B) if x wills A and judges that if A, A as a result of B, then x is
to will that B. (3) x should (qua rational) judge that (for any A, B) if it is
satisfactory to will that A and also satisfactory to judge that if A, A only as
a result of B, then it is satisfactory to will that B. (4) x should (qua rational)
judge that (for any A, B) if it is satisfactory that ! A and also satisfactory
that if ⊢A, then ⊢A only as a result of B, then it is satisfactory that ! B.
(5) x should (q.r.) judge that (for any A, B) if it is satisfactory that if ⊢A, ⊢A only because B, then it is
satisfactory that, if let it be that A, then let it be that B. (6) x should
(q.r.) judge that (for any A, B) if A, A only because B, yields if let it be
that A, then let it be that B. (7) (For any A, B) if A, A only because B yields
if let it be that A, then let it be that B. Fig. 4. Validation of Technical
Acceptabilities end p.96 Prudential Acceptability It will be convenient to
initiate the discussion of this topic by again referring to Kant. Kant thought
that there is a special sub-class of Hypothetical Imperatives (which he called
"counsels of prudence") which were like his class of Technical
Imperatives, except in that the end specified in a full statement of the
imperative is the special end of Happiness (one's happiness). To translate into
my terminology, this seems to amount to the thesis that there is a special
subclass of, for example, singular practical acceptability conditionals which
exemplifies the structure "it is acceptable, given that let a (an
individual) be happy, that let a be (do) G"; an additional indicative
sub-antecedent ("that it is the case that a is F") might be sometimes
needed, and could be added without difficulty. There would, presumably, be a
corresponding special subclass of acceptability generalizations. The main characteristics
which Kant would attribute to such prudential acceptability conditionals would,
I think, be the following. (1) The foundation for such conditionals is exactly
the same as that for technical imperatives; they would be treated as being, in principle,
analytically consequences of indicative statements to the effect that so-and-so
is a (the) means to such-and-such. The relation between my doing philosophy now
and my being happy would be a causal relation not significantly different from
the relation between my taking an aspirin and my being relieved of my headache.
(2) However, though the relation would be the same, the question whether in
fact my doing philosophy now will promote my happiness is insoluble; to solve
it, I should have to be omniscient, since I should have to determine that my
doing philosophy now would lead to "a maximum of welfare in my present and
all future circumstances". (3) The special end (happiness) of specific
prudential acceptability conditionals is one which we know that, as a matter of
"natural necessity", every human being has; so, unlike technical
imperatives, their applicability to himself cannot be disclaimed by any human
being. end p.97 (4) Before we bring in the demands of morality (which will
prescribe concern for our own happiness as a derivative duty), the only
positive evaluation of a desire for one's happiness is an alethic evaluation;
one ought to, or must, desire one's own happiness only in the sense that,
whoever one may be, it is acceptable that it is the case that one desire one's
own happiness; the 'ought' or 'must' is non-practical. (This position seems to
me akin to a Humean appeal to 'natural dispositions', in place of
justification.) I would wish to disagree with Kant in two, or possibly three,
ways.(1) Kant, I think, did not devote a great deal of thought to the nature of
happiness, no doubt because he regarded it as being of little importance to the
philosophical foundations of morality. So it is not clear whether he regarded
happiness as a distinct end from the variety of ends which one might pursue
with a view to happiness, rather than as a complex end which includes (in some
sense of 'include') some of such ends. If he did regard it as a distinct end,
then I think he was wrong. (2) I think he was certainly wrong in thinking of
something's being conducive to happiness as being on all fours with, say,
something's being conducive to the relief of a headache; as, perhaps, a matter
(in both cases) of causal relationship. (3) I would like to think him wrong in
thinking that (morality apart) there is no practical interpretation of 'ought'
in which one ought to pursue (desire, aim at) one's own happiness. We have,
then, three not unconnected questions which demand some attention. (A) What is
the nature of happiness? (B) In what sense (if any) (and why) should I desire,
or aim at, my own happiness? (C) What is the nature of the connection between
things which are conducive to happiness and happiness? (What, specifically, is
implied by 'conducive'?) Though it is fiendishly difficult, I shall take up
question (C) first. I trust that I will be forgiven if I do not present a full
and coherent answer. Let us take a brief look at Aristotle. Aristotle was, I
think, more sophisticated in this area. end p.98 (1) Though it is by no means
beyond dispute, I am disposed to think that he did regard Happiness
(eudaemonia) as a complex end 'containing' (in some sense) the ends which are
constitutive of happiness; to use the jargon of recent commentators, I suspect
he regarded it as an 'inclusive' and not a 'dominant' end. (2) He certainly
thought that one should (practical 'should') aim at one's own happiness. (3)
(The matter directly relevant to my present purpose.) I strongly suspect that
he did not think that the relationship between, say, my doing philosophy and my
happiness was a straightforward causal relationship. The passage which I have
in mind is Nicomachean Ethics VI. 12, 13, where he distinguishes between wisdom
("practical wisdom") and cleverness (or, one might say, resourcefulness).
He there makes the following statements: (a) that wisdom is not the same as
cleverness, though like it, (b) that wisdom does not exist without cleverness,
(c) that wisdom is always laudable (to be wise one must be virtuous), but
cleverness is not always laudable, for example, in rogues, (d) that the
relation between wisdom and cleverness is analogous to the relation between
'natural' virtue and virtue proper (he says this in the same place as he says
(a)). Faced with these not exactly voluminous remarks, some commentators have
been led (not I think without reluctance) to interpret Aristotle as holding
that the only difference between wisdom and cleverness is that the former does,
and the latter does not, require the presence of virtue; to be wise is simply
to be clever in good causes. Apart from the fact that additional difficulties
are generated thereby, with respect to the interpretation of Nicomachean Ethics
VI, to attribute this view to Aristotle does not seem to indicate a very high
respect for his wisdom, particularly as the text does not seem to demand such
an interpretation. Following an idea once given me, long ago, by Austin, I
would prefer to think of Aristotle as distinguishing between the characteristic
manifestation of wisdom, namely, the ability to determine what one should do
(what should be done), and the characteristic manifestation of cleverness,
which is the ability to determine how to do what it is that should be done. On
this interpretation cleverness would plainly be in a certain sense subordinate
to wisdom, since opportunity for cleverness (and associated qualities) will
only end p.99 arise after there has been some determination of what it is that
is to be done. It may also be helpful (suggestive) to think of wisdom as being
(or being assimilable to) administrative ability, with cleverness being
comparable with executive ability. I would also like to connect cleverness,
initially, with the ability to recognize (devise) technical acceptabilities
(though its scope might be larger than this), while wisdom is shown primarily
in other directions. On such assumptions, expansion of the still
obscureAristotelian distinction is plainly a way of pursuing question (C), or
questions closely related to it; for we will be asking what other kinds of
acceptabilities (beyond 'technical' acceptabilities) we need in order to engage
(or engage effectively) in practical reasoning. I fear my contribution here
will be sketchy and not very systematic. We might start by exploring a little
further the 'administrative/ executive' distinction, a distinction which, I
must admit, is extremely hazy and also not at all hard and fast (lines might be
drawn, in different cases, in quite different places). A boss tells his
secretary that he will be travelling on business to suchand-such places, next
week, and asks her to arrange travel and accommodation for him. I suspect that
there is nothing peculiar about that. But suppose, instead of giving her those
instructions, he had said to her that he wanted to travel on business somewhere
or other, next week, and asked her to arrange destinations, matters to be
negotiated, firms to negotiate with, and brief him about what to say to those
whom he would visit. That would be a little more unusual, and the secretary might
reply angrily, "I am paid to be your secretary, not to run your business
for you, let alone run you." What (philosophically) differentiates the two
cases? Let us call a desire or intention D which a man has at t "terminal
for him at t" if there is no desire or intention which he has at t, which
is more specific than D; if, for example, a man wanted at t a car, but it was
also true of him that he wanted a Mercedes, then his desire for a car would not
be terminal. Now I think we can (roughly) distinguish (at least) three ways in
which a terminal desire may be non-specific. (1) D may be finitely
non-specific; for example, a man may want a large, fierce dog (to guard his
house) and not care at all what kind of large, fierce dog he acquired; any kind
will do (at least within end p.100 some normal range). Furthermore, he does not
envisage his attitude, that any kind will do, being changed when action-time
comes; he will of course get some particular kind of dog, but what kind will
simply depend on such things as availability. (2) D may be indeterminately
non-specific: that is to say the desirer may recognize, and intend, that before
he acts the desire or intention D should be made more specific than it is; he
has decided, say, that he wants a large, fierce dog, but has not yet decided
what kind he wants. It seems to me that an indeterminately non-specific desire
or intention differs from a finitely non-specific desire in a way which is
relevant to the application of the concept of 'meanstaking'. If the man with the
finitely non-specific desire for a large, fierce dog decides on a mastiff, that
would be (or at least could be) a case of choosing a mastiff as a means to
having a large, fierce dog, but not something of which getting a large, fierce
dog would be an effect. But, if the man with the indeterminate desire for a
large, fierce dog decides that he wants a mastiff (as a further determination
of that indeterminate desire), that is not a case of meanspicking at all. (3)
There is a further kind of non-specificity which I mention only with a view to
completeness: a desire D may be vaguely, or indefinitely, non-specific; a man
may have decided that he wants a large, fierce dog, but it may not be very well
defined what could count as a large, fierce dog; a mastiff would count, and a
Pekinese would not, but what about a red setter? In such cases the desire or
intention needs to be interpreted, but not to be further specified. With regard
to the first two kinds of non-specificity, there are some remarks to be made.
(1) We do not usually (if we are sensible) make our desires more determinate
than the occasion demands; if getting a dog is not a present prospect, a man
who decides exactly what kind of dog he would like is engaging in fantasy. (2)
The final stage of determination may be left to the occasion of action; if I
want to buy some fancy curtains, I may leave the full determination of the kind
until I see them in the store. (3) Circumstances may change the status of a
desire; a man may have a finitely non-specific desire for a dog until he talks
to end p.101 his wife, who changes things for him (making his desire
indeterminately non-specific). (4) Indeterminately non-specific desires may of
course be founded (and well founded) on reasons, and so may be not merely
desires one does have but also desires which one should have.We may now return
to the boss and his secretary. It seems to me that what the 'normally' behaved
boss does (assuming that he has a very new and inexperienced secretary) is to
reach a finitely non-specific desire or intention (or a set of such),
communicate these to his secretary, and leave to her the implementation of this
(these) intention(s); he presumes that nothing which she will do, and no
problem which she will encounter, will disturb his intention (for, within
reasonable limits, he does not care what she does), even though her execution
of her tasks may well involve considerable skill and diplomacy (deinotes). If
she is more senior, then he may well not himself reach a finitely, but only an
indeterminately, non-specific intention, leaving it to her to complete the
determination and trusting her to do so more or less as he would himself. If
she reaches a position in which she is empowered to make determinate his
intentions not as she thinks he would think best, but as she thinks best, then
I would say that she has ceased to be a secretary and has become an
administrative assistant. This might be a convenient place to refer briefly to
a distinction which is of some importance in practical thinking which is not
just a matter of finding a means, of one sort or another, to an already fixed
goal, and which is fairly closely related to the process of determination which
I have been describing. This is the distinction between non-propositional ends,
like power, wealth, skill at chess, gardening; and propositional or objective
ends, like to get the Dean to agree with my proposal, or that my uncle should
go to jail for his peculations of the family money. Non-propositional ends are
in my view universals, the kind of items to be named by mass-terms or abstract
nouns. I should like to regard their non-propositional appearance as genuine; I
would like them to be not only things which we can be said to pursue, but also
things which we can be said to care about; and I would not want to reduce
'caring about' to 'caring that', though of course there is an intimate end
p.102 connection between these kinds of caring. I would like to make the
following points. (1) Non-propositional ends enter into the most primitive
kinds of psychological explanation; the behaviour of lower animals is to be
explained in terms of their wanting food, not of their wanting (say) to eat an
apple. (2) Non-propositional ends are characteristically variable in degree,
and the degrees are valuationally ordered; for one who wants wealth, a greater
degree of wealth is (normally) preferable to a lesser degree. (3) They are the
type, I think, to which ultimate ends which are constitutive of happiness
belong; and not without reason, since their non-propositional, and often
non-temporal, character renders them fit members of an enduring system which is
designed to guide conduct in particular cases. (4) The process of determination
applies to them, indeed, starts with them; desire for power is (say) rendered more
determinate as desire for political power; and objectives (to get the position
of Prime Minister) may be reached by determination applied to non-propositional
ends. (5) Though it is clear to me that the distinction exists, and that a
number of particular items can be placed on one side or another of the barrier,
there is a host of uncertain examples, and the distinction is not easy to
apply. Let us now look at things from her (the secretary's) angle. First, many
(indeed most) of the things she does, though perhaps cases of means-finding,
will not be cases of finding means of the kind which philosophers usually focus
on, namely, causal means. She gets him an air-ticket, which enables, but does
not cause, him to travel to Kalamazoo, Michigan; she arranges by telephone for
him to stay at the Hotel Goosepimple; his being booked in there is not an
effect but an intended outcome of her conversation on the telephone; and his
being booked in at that hotel is not a cause of his being booked at a hotel,
but a way in which that situation or circumstance is realized. Second, if
during her operations she discovers that there is an epidemic of yellow fever
at Kalamazoo, she does not (unless she wishes to be fired) go blindly ahead and
book him in; she consults him, because something has now happened end p.103
which will (if he knows of it) disturb his finitely non-specific intention;
indeed may confront the boss with a plurality of conflicting (or apparently
conflicting) ends or desiderata; a situation which is next in line for
consideration. Before turning to it, however, I think I should remark that the
kind of featureswhich have shown up in this interpersonal transaction are also
characteristic of solitary deliberation, when the deliberator executes his own
decisions. We are now, we suppose, at a stage at which the secretary has come
back to the boss to announce that if she executes the task given her
(implements the decision about what to do which he has reached), there is
such-and-such a snag; that is, the decision can be implemented only at the cost
of a consequence which will (or which she suspects may) dispromote some further
end which he wants to promote, or promote some "counter-end" which he
wants to dispromote. (1) We may remark that this kind of problem is not something
which only arises after a finitely non-specific intention has been formed;
exactly parallel problems are frequently, though not invariably, encountered on
the way towards a finitely non-specific intention or desire. This prompts a
further comment on Aristotle's remark that, though wisdom is not identical with
cleverness, wisdom does not exist without cleverness. This dictum covers two
distinct truths; first, that if a man were good at deciding what to do, but
terrible at executing it (he makes a hash of working out train times, he is
tactless with customs officials, he irritates hotel clerks into
non-cooperation), one might hesitate to confer upon him the title 'wise'; at
least a modicum of cleverness is required. Second, and more interestingly, cleverness
is liable to be manifested at all stages of deliberation; every time a snag
arises in connection with a tentative determination of one's will, provided
that the snag is not blatantly obvious, some degree of cleverness is manifested
in seeing that, if one does such-and-such (as one contemplates doing), then
there will be the undesirable result that so-and-so. (2) The boss may now have
to determine how 'deep' the snag is, how radically his plan will have to be
altered to surmount it. To lay things out a bit, the boss might (in some sense
of 'might'), in his deliberation, have formed successively a series of
indeterminately non-specific intentions (I i , I ii , I iii , . . . I n ),
where each end p.104 member is a more specific determination of its predecessor,
and I n represents the final decision which he imparted to the secretary. He
now (the idea is) goes back to this sequence to find the most general (least
specific) member which is such that if he has that intention, then he is
saddled with the unwanted consequences. He then knows where modification is
required. Of course, in practice he may very well not have constructed such a
convenient sequence; if he has not, then he has partially to construct one on
receipt of the bad news from the secretary, to construct one (that is) which is
just sufficiently well filled in to enable him to be confident that a
particular element in it is the most generic intention of those he has, which
generates the undesirable consequence. Having now decided which desire or
intention to remove, how does he decide what to put in its place? How, in
effect, does he 'compound' his surviving end or ends with the new desideratum,
the attainment of the end (or the avoidance of the counter-end) which has been
brought to light by the snag? Now I have to confess that in connection with
this kind of problem, I used to entertain a certain kind of picture. Let us
label (for simplicity) initially just two ends E1 and E2, with degrees of
"objective desirability" d 1 and d 2 . For any action a 1 which might
realize E1, or E2, there will be a certain probability p 1 that it will realize
E1, a certain probability p 2 that it will realize E2, and a probability p 12
(a function of p 1 and p 2 ) that it will realize both. If E1 and E2 are inconsistent
(again, for simplicity, let us suppose they are) p 12 will be zero. We can now,
in principle, characterize the desirability of the action a 1 , relative to
each end (E1 and E2), and to each combination of ends (here just E1 and E2), as
a function of the desirability of the end and the probability that the action a
1 will realize that end, or combination of ends. If we envisage a range of
possible actions, which includes a 1 together with other actions, we can
imagine that each such action has a certain degree of desirability relative to
each end (E1 and (or) E2) and to their combination. If we suppose that, for
each possible action, these desirabilities can be compounded (perhaps added),
then we can suppose that one particular possible action scored higher (in
actiondesirability relative to these ends) than any alternative possible
action; and that this is the action which wins out; that is, is the action
which is, or at least should, end p.105 be performed. (The computation would in
fact be more complex than I have described, once account is taken of the fact
that the ends involved are often not definite (determinate) states of
affairs(like becoming President), but are variable in respect of the degree to
which they might be realized (if one's end is to make a profit from a deal,
that profit might be of a varying magnitude); so one would have to consider not
merely the likelihood of a particular action's realizing the end of making a
profit, but also the likelihood of its realizing that end to this or that
degree; and this would considerably complicate the computational problem.) No
doubt most readers are far too sensible ever to have entertained any picture
even remotely resembling the "Crazy-Bayesy" one I have just
described. I was not, of course, so foolish as to suppose that such a picture
represents the manner in which anybody actually decides what to do, though I
did (at one point) consider the possibility that it might mirror, or reflect, a
process actually taking place in the physiological underpinnings of
psychological states (desires and beliefs), a process in the 'animal spirits',
so to speak. I rather thought that it might represent an ideal, a procedure
which is certainly unrealized in fact, and quite possibly one which is in
principle unrealizable in fact, but still something to which the procedures we
actually use might be thought of as approximations, something for which they
are substitutes; with the additional thought that the closer the approximation
the better the procedure. The inspirational source of such pictures as this
seems to me to be the very pervasive conception of a mechanical model for the
operations of the soul; desires are like forces to which we are subject; and
their influence on us, in combination, is like the vectoring of forces. I am
not at all sure that I regard this as a good model; the strength of its appeal
may depend considerably on the fact that some model is needed, and that, if
this one is not chosen, it is not clear what alternative model is available. If
we are not to make use of any variant of my one-time picture, how are we to
give a general representation of the treatment of conflicting or competing
ends? It seems to me that, for example, the accountant with the injured wife in
Boise might, in the first instance, try to keep everything, to fulfil all
relevant ends; he might think of telephoning Redwood City to see if his firm
could postpone for a week the preparation of their accounts. If this is end
p.106 ineffective, then he would operate on some system of priorities. Looking
after his wife plainly takes precedence over attention to his firm's
accounting, and over visiting his mother. But having settled on measures which
provide adequately for his wife's needs, he then makes whatever adjustments he
can to provide for the ends which have lost the day. What he does not do, as a
rule, is to compromise; even with regard to his previous decision involving the
conflict between the claims of his firm and his mother, substantially he
adopted a plan which would satisfy the claims of the firm, incorporating
therein a weekend with mother as a way of doing what he could for her, having
given priority to the claims of the firm. Such systems of priorities seem to me
to have, among their significant features, the following. (1) They may be quite
complex, and involve sub-systems of priorities within a single main level of
priority. It may be that, for me, family concerns have priority over business
concerns; and also that, within the area of family concerns, matters affecting
my children have priority over matters concerning Aunt Jemima, whs been living
with us all these years. (2) There is a distinction between a standing,
relatively long-term system of priorities, and its application to particular
occasions, with what might be thought of as divergences between the two. Even
though my relations with my children have, in general, priority over my
relations with Aunt Jemima, on a particular occasion I may accord priority to
spending time with Aunt Jemima to get her out of one of her tantrums over
taking my son to the zoo to see the hippopotami. It seems to me that a further
important feature of practical thinking, which plays its part in simplifying
the handling of problems with which such thinking is concerned, is what I might
call its 'revisionist' character (in a non-practical sense of that term). Our
desires, and ascriptions of desirability, may be relative in more than one way.
They may be 'desire-relative' in that my desiring A, or my regarding A as
desirable, may be dependent on my desiring, or regarding as desirable, B; the
desire for, or the desirability of, A may be parasitic on a desire for, or the
desirability of, B. This is the familiar case of A's being desired, or
desirable for the sake of B. But desires and desirabilities may be relative in
another slightly less banal way, which end p.107 (initially) one might think of
as 'fact-relativity'. They may be relative to some actual or supposed
prevailing situation; and, relative to such prevailing situations, things may
be desired or thought desirablewhich would not normally be so regarded. A man
who has been sentenced to be hanged, drawn, and quartered may be relieved and
even delighted when he hears that the sentence has been changed to beheading;
and a man whose wealth runs into hundreds of millions may be considerably upset
if he loses a million or so on a particular transaction. Indeed, sometimes, one
is led to suspect that the richer one is, the more one is liable to mind such
decrements; witness the story, no doubt apocryphal, that Paul Getty had
pay-telephones installed in his house for the use of his guests. The phenomenon
of 'fact-relativity' seems to reach at least to some extent into the area of
moral desirabilities. It can be used, I think, to provide a natural way of
disposing of the Good Samaritan paradox; and if one recalls the parable of the
Prodigal Son, one may reflect that what incensed the for so long blameless son
was that there should be all that junketing about a fact-relative desirability
manifested by his errant brother; why should one get a party for that? It
perhaps fits in very well with these reflections that our practical thinking,
or a great part of it, should be revisionist or incremental in character; that
what very frequently happens is that we find something in the prevailing
situation (or the situation anticipated as prevailing) which could do with
improvement or remove a blemish. We do not, normally, set to work to construct
a minor Utopia. It is notable that aversions play a particularly important role
in incremental deliberations; and it is perhaps just that (up to a point) the
removal of objects of aversion should take precedence over the installation of
objects of desire. If I have to do without something which I desire, the
desired object is not (unless the desire is extreme) constantly present in
imagination to remind me that I am doing without it; but if I have to do or
have something which I dislike, the object of aversion is present in reality,
and so difficult to escape. This revisionist kind of thinking seems to me to
extend from the loftiest problems (how to plan my life, which becomes how to
improve on the pattern which prevails) to the smallest (how to arrange the
furniture); and it extends also, at the next move so to speak, to the projected
improvements which I entertain in thought; I seek to improve on them; a master
chess-player, end p.108 it is said, sees at once what would be a good move for
him to make; all his thought is devoted to trying to find a better one. When
one looks at the matter a little more closely, one sees that 'fact-relative'
desirability is really desirability relative to an anticipated, expected, or
feared temporal extension of the actual state of affairs which prevails (an
extension which is not necessarily identical with what prevails, but which will
come about unless something is done about it). And looked at a little more
closely still, such desires or desirabilities are seen to be essentially
comparative; what we try for is thought of as better than the anticipated state
which prompts us to try for it. This raises the large and difficult question,
how far is desirability of its nature comparative? Is it just that the pundits
have not yet given us a non-comparative concept of desirability, or is there
something in the nature of desire, or in the use we want to make of the concept
of desirability, which is a good reason why we cannot have, or should not have,
a noncomparative concept? Or, perhaps, we do have one, which operates only in
limited regions? Certainly we do not have to think in narrowly incremental
ways, as is attested by those who seek to comfort us (or discomfort us) by
getting us to count our blessings (or the reverse); by, for example, pointing
out that being beheaded is not really so hot, or that, if you have 200 million
left after a bad deal, you are not doing so badly. Are such comforters
abandoning comparative desirability, or are they merely shifting the term of
comparison? Do we find non-comparative desirability (perhaps among other
regions) in moral regions? If we say that a man is honest, we are likely to
mean that he is at least not less honest than the average; but we do not expect
a man, who wants or tries to be honest, just to want or try to be averagely
honest. Nor do we expect him to aspire to supreme or perfect honesty (that
might be a trifle presumptuous). We do expect, perhaps, that he try to be as
honest as he can, which may mean that we don't expect him to form aspirations
with regard to a lifetime record of any sort for honesty, but we do expect him
to try on each occasion, or limited bunch of occasions, to be impeccably honest
on those occasions, even though we know (and he knows) that on some occasions
at some times there will or may be lapses. If something like this interpretation
be correct, it may correspond to a general feature of universals
(non-propositional ends) of which one cannot have end p.109 too much, a type of
which certain moral universals are specimens; desirabilities in the case of
such universals are, perhaps, not comparative. But these are unworked-out
speculations.To summarize briefly this rambling, hopefully somewhat diagnostic,
and certainly unsystematic discussion. I have suggested, in a preliminary
enquiry into practical acceptability which is other than technical
acceptability: (1) that practical thinking, which is not just means-end
thinking, includes the determination or sharpening of antecedently
indeterminate desires and intentions; (2) that means-end thinking is involved
in the process of such determination; (3) that a certain sort of computational
model may not be suitable; (4) that systems of priorities, both general and
tailored to occasions, are central; (5) that much, though not perhaps all, of
practical thinking is revisionist and comparative in character. I turn now to a
brief consideration of questions (A) and (B) which I distinguished earlier, and
left on one side. These questions are: (A) What is the nature of happiness? (B)
In what sense, and why, should I desire or aim at my own happiness? I shall
take them together. First, question (B) seems to me to divide, on closer
examination, into three further questions. (1) Is there justification for the
supposition that one should, other things being equal, voluntarily continue
one's existence, rather than end it? (2) (Given that the answer to (1) is
'yes'.) Is there justification for the idea that one should desire or seek to
be happy? (3) (Given that the answer to (2) is 'yes'.) Is there a way of
justifying (evaluating favourably) the acceptance of some particular set of
ends (as distinct from all other such sets) as constitutive of happiness (or of
my happiness)? end p.110 The second and third questions, particularly the
third, are closely related to, and likely to be dependent on, the account of
happiness provided in answer to question (A); indeed, such an account might
wholly or partly provide an answer to question (3), since "happiness"
might turn out to be a valueparadigmatic term, the meaning of which dictates
that to be happy is to have a combination of ends which (the combination) is
valuable with respect to some particular purpose or point of view. I shall say
nothing about the first two questions; one or both of these would, I suspect,
require a careful treatment of the idea of Final Causes, which so far I have
not even mentioned. I will discuss the third question and question (A) in the
next chapter. end p.111 5 Some Reflections About Ends and Happiness I The topic
which I have chosen is one which eminently deserves a thorough, systematic, and
fully theoretical treatment; such an approach would involve, I suspect, a
careful analysis of the often subtly different kinds of state which may be
denoted by the word 'want', together with a comprehensive examination of the
role which different sorts of wanting play in the psychological equipment of
rational (and non-rational) creatures. While I hope to touch on matters of this
sort, I do not feel myself to be quite in a position to attempt an analysis of
this kind, which would in any case be a very lengthy undertaking. So, to give
direction to my discussion, and to keep it within tolerable limits, I shall
relate it to some questions arising out of Aristotle's handling of this topic
in the Nicomachean Ethics; such a procedure on my part may have the additional
advantage of emphasizing the idea, in which I believe, that the proper habitat
for such great works of the past as the Nicomachean Ethics is not the museums
but the marketplaces of philosophy. My initial Aristotelian question concerns
two conditions which Aristotle supposes to have to be satisfied by whatever is
to be recognized as being the good for man. At the beginning of Nicomachean
Ethics I. 4, Aristotle notes that there is general agreement that the good for
man is to be identified with eudaemonia (which may or may not be well rendered
as 'happiness'), and that this in turn is to be identified with living well and
with doing well; but remarks that there is large-scale disagreement with
respect to any further and more informative specification of eudaemonia. In I.
7 he seeksend p.112 to confirm the identification of the good for man with
eudaemonia by specifying two features, maximal finality (unqualified finality)
and self-sufficiency, which, supposedly, both are required of anything which is
to qualify as the good for man, and are also satisfied by eudaemonia. 'Maximal
finality' is defined as follows: "Now we call that which is in itself
worthy of pursuit more final than that which is worthy of pursuit for the sake
of something else, and that which is never desirable for the sake of something
else more final than the things which are desirable both in themselves and for
the sake of that other thing, and therefore we call final without qualification
that which is always desirable in itself and never for the sake of something
else." Eudaemonia seems (intuitively) to satisfy this condition; such
things as honour, pleasure, reason, and virtue (the most popular candidates for
identification with the good for man and with eudaemonia) are chosen indeed for
themselves (they would be worthy of choice even if nothing resulted from them);
but they are also chosen for the sake of eudaemonia, since "we judge that
by means of them we shall be happy". Eudaemonia, however, is never chosen
for the sake of anything other than itself. After some preliminaries, the
relevant sense of 'self-sufficiency' is defined thus: "The selfsufficient
we now define as that which when isolated makes life desirable and lacking in
nothing." Eudaemonia, again, appears to satisfy this condition too; and
Aristotle adds the possibly important comment that eudaemonia is thought to be
"the most desirable of all things, without being counted as one good thing
among others". This remark might be taken to suggest that, in Aristotle's
view, it is not merely true that the possession of eudaemonia cannot be
improved upon by the addition of any other good, but it is true because
eudaemonia is a special kind of good, one which it would be inappropriate to
rank alongside other goods. This passage in Nicomachean Ethics raises in my
mindseveral queries: (1) It is, I suspect, normally assumed by commentators
that Aristotle thinks of eudaemonia as being the only item which satisfies the
condition of maximal finality. This uniqueness claim is not, however, explicitly
made in the passage (nor, so far as I can recollect, elsewhere); nor is it
clear to me that if it were made it end p.113 would be correct. Might it not be
that, for example, lazing in the sun is desired, and is desirable, for its own
sake, and yet is not something which is also desirable for the sake of
something else, not even for the sake of happiness? If it should turn out that
there is a distinction, within the class of things desirable for their own sake
(I-desirables), between those which are also desirable for the sake of
eudaemonia (H-desirables) and those which are not, then the further question
arises whether there is any common feature which distinguishes items which are
(directly) H-desirable, and, if so, what it is. This question will reappear
later. (2) Aristotle claims that honour, reason, pleasure, and virtue are all
both I-desirable and Hdesirable. But, at this stage in the Nicomachean Ethics,
these are uneliminated candidates for identification with eudaemonia; and,
indeed, Aristotle himself later identifies, at least in a sort of way, a
special version of one of them (metaphysical contemplation) with eudaemonia.
Suppose that it were to be established that one of these candidates (say,
honour) is successful. Would not Aristotle then be committed to holding that
honour is both desirable for its own sake, and also desirable for the sake of
something other than honour, namely, eudaemonia, that is, honour? It is not
clear, moreover, that this prima facie inconsistency can be eliminated by an
appeal to the non-extensionality of the context "——is desirable". For
while the argument-pattern 'α is desirable for the sake of β, β is identical
with γ; so, α is desirable for the sake of γ' may be invalid, it is by no means
clear that the argument-pattern 'α is desirable for the sake of β, necessarily
β is identical with γ; so, α is desirable for the sake of γ' is invalid. And,
if it were true that eudaemonia is to be identified with honour, this would
presumably be a non-contingent truth. (3) Suppose the following: (a) playing
golf and playing tennis are each I-desirables, (b) each is conducive to
physical fitness, which is itself I-desirable, (c) that a daily round of golf
and a daily couple of hours of tennis are each sufficient for peak physical fitness,
and (if you like, for simplicity), (d) that there is no third route to physical
fitness. Now, X and Y accept all these suppositions; X plays golf daily, and Y
plays both golf and tennis daily. It seems difficult to deny, first, that it is
quite conceivable that allof the sporting activities of these gentlemen are
undertaken both for their own sake and also for the sake of physical fitness,
and, second, that (pro end p.114 tanto) the life of Y is more desirable than
the life of X, since Y has the value of playing tennis while X does not. The
fact that in Y's life physical fitness is overdetermined does not seem to be a
ground for denying that he pursues both golf and tennis for the sake of
physical fitness; if we wished to deny this, it looks as if we could, in
certain circumstances, be faced with the unanswerable question, "If he
doesn't pursue each for the sake of physical fitness, then which one does he
pursue for physical fitness?" Let us now consider how close an analogy to
this example we can construct if we search for one which replaces references to
physical fitness by references to eudaemonia. We might suppose that X and Y
have it in common that they have distinguished academic lives, satisfying
family situations, and are healthy and prosperous; that they value, and rightly
value, these aspects of their existences for their own sakes and also regard
them as contributing to their eudaemonia. Each regards himself as a thoroughly
happy man. But Y, unlike X, also composes poetry, an activity which he cares
about and which he also thinks of as something which contributes to his
eudaemonia; the time which Y devotes to poetic endeavour is spent by X
pottering about the house doing nothing in particular. We now raise the
question whether or not Y's life is more desirable than X's, on the grounds
that it contains an I-desirable element, poetic composition, which X's life
does not contain, and that there is no counterbalancing element present in X's
life but absent in Y's. One conceivable answer would be that Y's life is indeed
more desirable than X's, since it contains an additional value, but that this
fact is consistent with their being equal in respect of eudaemonia, in line
with the supposition that each regards himself as thoroughly happy. If we give
this answer we, in effect, reject the Aristotelian idea that eudaemonia is, in
the appropriate sense, self-sufficient. There seems to me, however, to be good
reason not to give this answer. Commentators have disagreed about the precise
interpretation of the word "eudaemonia", but none, so far as I know,
has suggested what I think of as much the most plausible conjecture; namely,
that "eudaemonia" is to be understood as the name for that state or
condition which one's good daemon would (if he could) ensure for one; and my
good daemon is a being motivated, with respect to me, solely by concern for my
well-being or happiness. end p.115 To change the idiom, "eudaemonia"
is the general characterization of what a full-time and unhampered fairy
godmother would secure for you. The identifications regarded by Aristotle as
unexcitingly correct, of eudaemonia with doing well and with living well, now
begin to look like necessary truths. If this interpretation of
"eudaemonia" is correct (as I shall brazenly assume) then it would be
quite impossible for Y's life to be more desirable than X's, though X and Y are
equal in respect of eudaemonia; for this would amount to Y's being better off
than X, though both are equally well-off. Various other possible answers
remain. It might be held that not only is Y's life more desirable than X's, but
Y is more eudaemon (better off) than X. This idea preserves the proposed
conceptual connection between eudaemonia and being well-off, and relies on the
not wholly implausible principle that the addition of a value to a life
enhances the value of that life (whatever, perhaps, the liver may think). One
might think of such a principle, when more fully stated, as laying down or
implying that any increase in the combined value of the H-desirable elements
realized in a particular life is reflected, in a constant proportion, in an
increase in the degree of happiness or well-being exemplified by that life; or,
more cautiously, that the increase in happiness is not determined by a constant
proportion, but rather in some manner analogous to the phenomenon of
diminishing marginal utility. I am inclined to see the argument of this chapter
as leading towards a discreet erosion of the idea that the degree of a
particular person's happiness is the value of a function the arguments of which
are measures of the particular Hdesirables realized in that person's life, no
matter what function is suggested; but at the present moment it will be
sufficient to cast doubt on the acceptability of any of the crudest versions of
this idea. To revert to the case of X and Y: it seems to me that when we speak
of the desirability of X's life or of Y's life, the desirability of which we
are speaking is the desirability of that life from the point of view of the
person whose life it is; and that it is therefore counterintuitive to suppose
that, for example, X who thinks of himself as "perfectly happy" and
so not to be made either better off or more happy (though perhaps more
accomplished) by an injection of poetry composition, should be making a
misassessment of what his stateof well-being would be if the composition of
poetry were added to his occupation. Furthermore, if the pursuit end p.116 of
happiness is to be the proper end, or even a proper end, of living, to suppose
that the added realization of a further H-desirable to a life automatically
increases the happiness or well-being of the possessor of that life will
involve a commitment to an ethical position which I, for one, find somewhat
unattractive; one would be committed to advocating too unbridled an eudaemonic
expansionism. A more attractive position would be to suppose that we should
invoke, with respect to the example under consideration, an analogue not of
diminishing marginal utility, but of what might be called vanishing marginal
utility; to suppose, that is, that X and Y are, or at least may be, equally
well-off and equally happy even though Y's life contains an H-desirable element
which is lacking in X's life; that at a certain point, so to speak, the bucket
of happiness is filled, and no further inpouring of realized Hdesirables has
any effect on its contents. This position would be analogous to the view I
adopted earlier with respect to the possible overdetermination of physical
fitness. Even should this position be correct, it must be recognized that the
really interesting work still remains to be done; that would consist in the
characterization of the conditions which determine whether the realization of a
particular set of Hdesirables is sufficient to fill the bucket. The main
result, then, of the discussion has been to raise two matters for exploration;
first, the possibility of a distinction between items which are merely
I-desirable and items which are not only Idesirable but also H-desirable; and,
second, the possibility that the degree of happiness exemplified by a life may
be overdetermined by the set of H-desirables realized in that life, together
with the need to characterize the conditions which govern such
overdetermination. (4) Let us move in a different direction. I have already
remarked that, with respect to the desirability-status of happiness and of the
means thereto, Aristotle subscribed to two theses, with which I have no quarrel
(or, at least, shall voice no quarrel). (A) That some things are both I-desirable
and H-desirable (are both ends in themselves and also means to happiness). (B)
That happiness, while desirable in itself, is not desirable for the sake of any
further end. end p.117 I have suggested the possibility that a further thesis
might be true (though I have not claimed that it is true), namely: (C) That
some things are I-desirable without being H-desirable (and, one might add,
perhaps without being desirable for the sake of any further end, in which case
happiness will not be the only item which is not desirable for the sake of any
further end). But there are two further as yet unmentioned theses which I am
inclined to regard as being not only true, but also important: first, (D) Any
item which is directly H-desirable must be I-desirable. And second, (E)
Happiness is attainable only via the realization of items which are I-desirable
(and also of course H-desirable). Thesis (D) would allow that an item could be
indirectly H-desirable without being I-desirable; engaging in morning press-ups
could be such an item, but only if it were desirable for the sake of (let us
say) playing cricket well, which would plainly be itself an item which was both
I-desirable and Hdesirable. A thesis related to (D), namely, (D′). (An item can
be directly conducive to the happiness of an individual x only if it is
regarded by x as being I-desirable) seems to me very likely to be true; the
question whether not only (D′) but (D) are true would depend on whether a man
who misconceives (if that be possible) certain items as being I-desirable could
properly be said to achieve happiness through the realization of those items.
To take an extreme case, could a wicked man who pervertedly regards cheating
others in an ingenious way as being I-desirable, and who delights in so doing,
properly be said to be (pro tanto) achieving happiness? I think Aristotle would
answer negatively, and I am rather inclined to side with him; but I recognize
that there is much to debate. A consequence of thesis (D), if true, would be
that there cannot be a happiness-pill (a pill the taking of which leads
directly tohappiness); there could be (and maybe there is) a pill which leads
directly to "feeling good" or to euphoria; but these states would
have to be distinguishable from happiness. Thesis (E) would imply that
happiness is essentially a dependent state; happiness cannot just happen; its
realization is conditional end p.118 upon the realization of one or more items
which give rise to it. Happiness should be thought of adverbially; to be happy
is, for some x, to x happily or with happiness. And reflection on the
interchangeability or near-interchangeability of the ideas of happiness and of
well-being would suggest that the adverbial in question is an evaluation
adverbial. The importance, for present purposes, of the two latest theses is to
my mind that questions are now engendered about the idea that items which are
chosen (or desirable) for the sake of happiness can be thought of as items
which are chosen (or desirable) as means to happiness, at least if the
means-end relation is conceived as it seems very frequently to be conceived in
contemporary philosophy; if, that is, x is a means to y just in case the doing
or producing of x designedly causes (generates, has as an effect) the
occurrence of y. For, if items the realization of which give rise to happiness
were items which could be, in the above sense, means to happiness, (a) it
should be conceptually possible for happiness to arise otherwise than as a
consequence of the occurrence of any such items, and (b) it seems too difficult
to suppose that so non-scientific a condition as the possession of intrinsic
desirability should be a necessary condition of an item's giving rise to
happiness. In other words, theses (D) and (E) seem to preclude the idea that
what directly gives rise to happiness can be, in the currently favoured sense,
a means to happiness. The issue which I have just raised is closely related to
a scholarly issue which has recently divided Aristotelian commentators; battles
have raged over the question whether Aristotle conceived of eudaemonia as a
'dominant' or as an 'inclusive' end. The terminology derives, I believe, from
W. F. R. Hardie; but I cite a definition of the question which is given by
Ackrill in a recent paper: "By 'an inclusive end' might be meant any end
combining or including two or more values or activities or goods . . . By 'a
dominant end' might be meant a monolithic end, an end consisting of just one
valued activity or good."1 One's initial reaction to this formulation may
fall short of overwhelming enlightenment, among other things, perhaps, because
the verb 'include' appears within end p.119 the characterization of an
inclusive end. I suspect, however, that this deficiency could be properly
remedied only by a logicometaphysical enquiry into the nature of the 'inclusion
relation' (or, rather, the family of inclusion relations), which would go far
beyond the limits of my present undertaking. But, to be less ambitious, let us,
initially and provisionally, think of an inclusive end as being a set of ends.
If happiness is in this sense an inclusive end, then we can account for some of
the features displayed in the previous section. Happiness will be dependent on
the realization of subordinate ends, provided that the set of ends constituting
happiness may not be the empty set (a reasonable, if optimistic, assumption).
Since the "happiness set" has as its elements I-desirables, what is
desirable directly for the sake of happiness must be I-desirable. And if it
should turn out to be the case, contrary perhaps to the direction of my
argument in the last section, that the happiness set includes all I-desirables,
then we should have difficulty in finding any end for the sake of which
happiness would be desirable. So far so good, perhaps; but so far may not
really be very far at all. Some reservation about the treatment of eudaemonia
as an inclusive end is hinted at by Ackrill: It is not necessary to claim that
Aristotle has made quite clear how there may be 'components' in the best life
or how they may be interrelated. The very idea of constructing a compound end
out of two or more independent ends may arouse suspicion. Is the compound to be
thought of as a mere aggregate or as an organized system? If the former, the
move to eudaemonia seems trivial—nor is it obvious that goods can be just added
together. If the latter, if there is supposed to be a unifying plan, what is
it?2 From these very pertinent questions, Ackrill detaches himself, on the
grounds that his primary concern is with the exposition and not with the
justification of Aristotle's thought. But we cannot avail ourselves of this
rain check, and so the difficulties which Ackrill touches on must receive
further exposure.Let us suppose a next-to-impossible world W, in which there
are just three I-desirables, which are also H-desirables, A, B, and C. If you
like, you may think of these as being identical, respectively, with honour,
wealth, and virtue. If, in general, happiness is end p.120 to be an inclusive
end, happiness-in-W will have as its components A, B, and C, and no others. Now
one might be tempted to suppose that, since it is difficult or impossible to
deny that to achieve happiness-in-W it is necessary and also sufficient to
realize A, to realize B, and to realize C, anyone who wanted to realize A,
wanted to realize B, and wanted to realize C would ipso facto be someone who
wanted to achieve happiness-in-W. But there seems to me to be a good case for
regarding such an inference as invalid. To want to achieve happiness-in-W might
be equivalent to wanting to realize A and to realize B and to realize C, or
indeed to wanting A and B and C; but there are relatively familiar reasons for
allowing that, with respect to a considerable range of psychological verbs
(represented by 'ψ'), one cannot derive from a statement of the form 'x ψ's
(that) A and x ψ's (that) B' a statement of the form 'x ψ's (that) A and B'.
For instance, it seems to me a plausible thesis that there are circumstances in
which we should want to say of someone that he believed that p and that he
believed that q, without being willing to allow that he believed that both p
and q. The most obvious cases for the application of the distinction would
perhaps be cases in which p and q are inconsistent; we can perhaps imagine
someone of whom we should wish to say that he believed that he was a
grotesquely incompetent creature, and that he also believed that he was a
world-beater, without wishing to say of him that he believed that he was both
grotesquely incompetent and a world-beater. Inconsistent beliefs are not, or
are not necessarily, beliefs in inconsistencies. Whatever reasons there may be
for allowing that a man may believe that p and believe that q without believing
that p and q would, I suspect, be mirrored in reasons for allowing that a man
may want A and want B without wanting both A and B; if I want a holiday in
Rome, and also want some headache pills, it does not seem to me that ipso facto
I want a holiday in Rome and some headache pills. Moreover, even if we were to
sanction the disputed inference, it would not, I think, be correct to make the
further supposition that a man who wants A and B (simply as a consequence of
wanting A and wanting B) would, or even could, want A (or want B) for the sake
of, or with a view to, realizing A and B. So even if, in world W, a man could
be said to want A and B and C, on the strength of wanting each one of them,
some further condition would end p.121 have to be fulfilled before we could say
of him that he wanted each of them for the sake of realizing A and B and C,
that is, for the sake of achieving happiness-in-W. In an attempt to do justice
to the idea that happiness should be treated as being an 'inclusive' end, let
me put forward a modest proposal; not, perhaps, the only possible proposal, but
one which may seem reasonably intuitive. Let us categorize, for present
purposes, the I-desirables in world W as 'universals'. I propose that to want,
severally, each of these I-desirables should be regarded as equivalent to
wanting the set whose members are just those I-desirables, with the
understanding that a set of universals is not itself a universal. So to want A,
want B, and want C is equivalent to wanting the set whose members are A, B, and
C ('the happinessin-W set'). To want happiness-in-W requires satisfaction of
the stronger condition of wanting A and B and C, which in turn is equivalent to
wanting something which is a universal, namely, a compound universal in which
are included just those universals which are elements of the happiness-inW set.
I shall not attempt to present a necessary and sufficient condition for the
fulfilment of the stronger rather than merely of the weaker condition; but I
shall suggest an important sufficient condition for this state of affairs. The
condition is the following: for x to want the conjunction of the members of a
set, rather than merely for him to want, severally, each member of the set, it
is sufficient that his wanting, severally, each member of the set should be
explained by (have as one of its explanations) the fact that there is an 'open'
feature F which is believed by x to be exemplified by the set, and the
realization of which is desired by x. By an open feature I mean a feature the
specification of which does not require the complete enumeration of the items
which exemplify it. To illustrate, a certain Oxford don at one time desired to
secure for himself the teaching, in his subject, at the colleges of Somerville,
St Hugh's, St Hilda's, Lady Margaret Hall, and St Anne's. (He failed, by two
colleges.) This compound desire was based on the fact that the named colleges
constituted the totality of women's colleges in Oxford, and he desired the
realization of the open feature consisting in his teaching, in his subject, at
all the women's colleges in Oxford. This sufficient condition is important in that it
is, I think, fulfilled with respect to all compound desires which are rational,
as distinct from end p.122 arbitrary or crazy. There can be, of course,
genuinely compound desires which are non-rational, and I shall not attempt to
specify the condition which distinguishes them; but perhaps I do not need to,
since I think we may take it as a postulate that, if a desire for happiness is
a compound desire, it is a rational compound desire. The proposal which I have
made does, I think, conform to acceptable general principles for metaphysical
construction. For it provides for the addition to an initially given category
of items ('universals') of a special sub-category ('compound universals') which
are counterparts of certain items which are not universals but rather sets of
universals. It involves, so to speak, the conversion of certain non-universals
into 'new' universals, and it seems reasonable to suppose that the purpose of
this conversion is to bring these non-universals, in a simple and relatively
elegant way, within the scope of laws which apply to universals. It must be
understood that by 'laws' I am referring to theoretical generalities which
belong to any of a variety of kinds of theory, including psychological,
practical, and moral theories; so among such laws will be laws of various kinds
relating to desires for ends and for means to ends. If happiness is an
inclusive end, and if, for it to be an inclusive end the desire for which is
rational, there must be an open feature which is exemplified by the set of
components of happiness, our next task is plainly to attempt to identify this
feature. To further this venture I shall now examine, within the varieties of
means-end relation, what is to my mind a particularly suggestive kind of case.
II At the start of this section I shall offer a brief sketch of the varieties,
or of some of the varieties, of means-end relation; this is a matter which is
interesting in itself, which is largely neglected in contemporary philosophy,
and which I am inclined to regard as an important bit of background in the
present enquiry. I shall then consider a particular class of cases in our
ordinary thinking about means and ends, which might be called cases of 'end-fixing',
and which might provide an important modification to our consideration of the
idea that happiness is an inclusive end. end p.123 I shall introduce the term
'is contributive to' as a general expression for what I have been calling
'means-end' relation, and I shall use the phrase 'is contributive in way w to'
to refer, in a general way, to this or that particular specific form of the
contributiveness relation. I shall, for convenience, assume that anyone who
thinks of some state of affairs or action as being contributive to the
realization of a certain universal would have in mind that specific form of
contributiveness which would be appropriate to the particular case. We may now
say, quite unstartlingly, that x wants to do A for the sake of B just in case x
wants to do A because (1) x regards his doing A as something which would be
contributive in way w to the realization of B, and (2) x wants B. That leaves
us the only interesting task, namely, that of giving the range of specific
relations one element in which will be picked out by the phrase 'contributive
in way w', once A and B are specified. The most obvious mode of
contributiveness, indeed one which has too often been attended to to the
exclusion of all others, is that of causal antecedence; x's contributing to y
here consists in x's being the (or a) causal origin of y. But even within this
mode there may be more complexity than meets the eye. The causal origin may be
an initiating cause, which triggers the effect in the way in which flipping a
switch sets off illumination in a light bulb; or it may be a sustaining cause,
the continuation of which is required in order to maintain the effect in being.
In either case, the effect may be either positive or negative; I may initiate a
period of non-talking in Jones by knocking him cold, or sustain one by keeping
my hand over his mouth. A further dimension, in respect of which examples of
each variety of causal contributiveness may vary, is that of conditionality.
Doing A may be desired as something which will, given the circumstances which
obtain, unconditionally originate the realization of B, or as something which
will do so provided that a certain possibility is fulfilled. A specially
important subclass of cases of conditional causal contributiveness is the class
of cases in which the relevant possibility consists in the desire or will of
some agent, either the means-taker or someone else, that B should be realized;
these arecases in which x wants to do A in order to enable, or to make it
possible for, himself (or someone else) to achieve the realization of B; as
when, for example, x puts a corkscrew in his pocket to enable him later, should
be wish to do so, to open a bottle of wine. end p.124 But, for present
purposes, the more interesting modes of contributiveness may well be those
other than that of causal contributiveness. These include the following types.
(1) Specificatory contributiveness. To do A would, in the prevailing
circumstances, be a specification of, or a way of, realizing B; it being understood
that, for this mode of contributiveness, B is not to be a causal property, a
property consisting in being such as to cause the realization of C, where C is
some further property. A host's seating someone at his right-hand side at
dinner may be a specification of treating him with respect; waving a Union Jack
might be a way of showing loyalty to the Crown. In these cases, the particular
action which exemplifies A is the same as the item which exemplifies B. Two
further modes involve relations of inclusion, of one or another of the types to
which such relations may belong. (2) To do A may contribute to the realization
of B by including an item which realizes B. I may want to take a certain
advertised cruise because it includes a visit to Naples. (3) To do A may
contribute to the realization of B by being included in an item which realizes
B. Here we may distinguish more than one kind of case. A and B may be
identical; I may, for example, be hospitable to someone today because I want to
be hospitable to him throughout his visit to my town. In such a case the
exemplification of B (hospitality) by the whole (my behaviour to him during the
week) will depend on a certain distribution of exemplifications of B among the
parts, such as my behaviour on particular days. We might call this kind of
dependence "componentdependence". In other cases A and B are
distinct, and in some of these (perhaps all) B cannot, if it is exemplified by
the whole, also be exemplified by any part. These further cases subdivide in
ways which are interesting but not germane to the present enquiry. We are now
in a position to handle, not quite as Aristotle did, a 'paradox' about
happiness raised by Aristotle, which involves Solon's dictum "Call no man
happy till he is dead". I give a simplified, but I hope not distorted,
version of the 'paradoxical' line of argument. If we start by suggesting that
happiness is the end for man, we shall have to modify this suggestion,
replacing "happiness" by "happiness in a complete life".
(Aristotle himself end p.125 applies the qualification "in a complete
life" not to happiness, but to what he gives as constituted of happiness,
namely, activity of soul in accordance with excellence). For, plainly, a life
which as a whole exemplifies happiness is preferable to one which does not. But
since lifelong happiness can only be exemplified by a whole life,
non-predictive knowledge that the end for man is realized with respect to a
particular person is attainable only at the end of the person's life, and so
not (except possibly at the time of his dying gasp) by the person himself. But
this is paradoxical, since the end for man should be such that non-predictive
knowledge of its realization is available to those who achieve its realization.
I suggest that we need to distinguish non-propositional, attributive ends, such
as happiness, and propositional ends or objectives, such as that my life, as a
whole, should be happy. Now it is not in fact clear that people do, or even
should, desire lifelong happiness; it may be quite in order not to think about
this as an objective. And, even if one should desire lifelong happiness, it is
not clear that one should aim at it, that one should desire, and do, things for
the sake of it. But let us waive these objections. The attainment of lifelong
happiness, an objective, consists in the realization, in a whole life, of the
attributive end happiness. This realization is component-dependent; it depends
on a certain distribution of realizations of that same end in episodes or
phases of that life. But these realizations are certainly nonpredictively
knowable by the person whose life it is. So, if we insist that to specify the
end for man is to specify an attributive end and not an objective, then the
'paradox' disappears. The special class of cases to which one might be tempted
to apply the term 'end-fixing' may be approached in the following way. For any
given mode of contributiveness, say causal contributiveness, the same final
position, that x wants (intends, does) A as contributive to the realization of
B, may be reached through more than one process of thought. In line with the
canonical Aristotelian model, x maydesire to realize B, then enquire what would
lead to B, decide that doing A would lead to B, and so come to want, and to do,
A. Alternatively, the possibility of doing A may come to his mind, he then
enquires what doing A would lead to, sees that it would lead to B, which he
wants, and so he comes to want, and perhaps do, A. I now ask whether there are
cases in which the following end p.126 conditions are met: (1) doing A is fixed
or decided, not merely entertained as a possibility, in advance of the
recognition of it as desirable with a view to B, and (2) that B is selected as
an end, or as an end to be pursued on this occasion, at least partly because it
is something which doing A will help to realize. A variety of candidates, not
necessarily good ones, come to mind. (1) A man who is wrecked on a desert
island decides to use his stay there to pursue what is a new end for him,
namely, the study of the local flora and fauna. Here doing A (spending time on
the island) is fixed but not chosen; and the specific performances, which some
might think were more properly regarded as means to the pursuit of this study,
are not fixed in advance of the adoption of the end. (2) A man wants (without
having a reason for so wanting) to move to a certain town; he is uncomfortable
with irrational desires (or at least with this irrational desire), and so comes
to want to make this move because the town has a specially salubrious climate.
Here, it seems, the movement of thought cannot be fully conscious; we might say
that the reason why he wants to move to a specially good climate is that such a
desire would justify the desire or intention, which he already has, to move to
the town in question; but one would baulk at describing this as being his
reason for wanting to move to a good climate. The example which interests me is
the following. A tyrant has become severely displeased with one of his
ministers, and to humiliate him assigns him to the task of organizing the
disposal of the palace garbage, making clear that only a high degree of
efficiency will save him from a more savage fate. The minister at first strives
for efficiency merely in order to escape disaster; but later, seeing that
thereby he can preserve his self-respect and frustrate the tyrant's plan to
humiliate him, he begins to take pride in the efficient discharge of his
duties, and so to be concerned about it for its own sake. Even so, when the tyrant
is overthrown and the minister is relieved of his menial duties, he leaves them
without regret in spite of having been intrinsically concerned about their
discharge. One might say of the minister that he efficiently discharged his
office for its own sake in order to frustrate the tyrant; and this is clearly
inadequately represented as his being interested in the efficient discharge of
his office both for its own sake and for the end p.127 sake of frustrating the
tyrant, since he hoped to achieve the latter goal by an intrinsic concern with
his office. It seems clear that higher-order desires are involved; the minister
wants, for its own sake, to discharge his office efficiently, and he wants to
want this because he wants, by so wanting, to frustrate the tyrant. Indeed,
wanting to do A for the sake of B can plausibly be represented as having two
interpretations. The first interpretation is invoked if we say that a man who
does A for the sake of B (1) does A because he wants to do A and (2) wants to
do A for the sake of B. Here wanting A for the sake of B involves thinking that
A will lead to B. But we can conceive of wanting A for the sake of B
(analogously with doing A for the sake of B) as something which is accounted
for by wanting to want A for the sake of B; if so, we have the second
interpretation, one which implies not thinking that A will help to realize B,
but rather thinking that wanting A will help to realize B. The impact of this
discussion, on the question of the kind of end which happiness should be taken
to be, will be that, if happiness is to be regarded as an inclusive end, the
components may be not the realizations of certain ends, but rather the desires
for those realizations. Wanting A for the sake of happiness should be given the
second mode of interpretation specified above, one which involves thinking that
wanting A is one of a set of items which collectively exhibit the open feature
associated with happiness. III My enquiry has, I hope, so far given some
grounds for the favourable consideration of three theses: (1) happiness is an
end for the sake of which certain I-desirables are desirable, but is to
beregarded as an inclusive rather than a dominant end; (2) for happiness to be
a rational inclusive end, the set of its components must exemplify some
particular open feature, yet to be determined; and (3) the components of
happiness may well be not universals or states of affairs the realization of
which is desired for its own sake, end p.128 but rather the desires for such
universals or states of affairs, in which case a desire for happiness will be a
higher-order desire, a desire to have, and satisfy, a set of desires which
exemplifies the relevant open feature. At this point, we might be faced with a
radical assault, which would run as follows. "Your whole line of enquiry
consists in assuming that, when some item is desired, or desirable, for the
sake of happiness, it is desired, or desirable, as a means to happiness, and in
then raising, as the crucial question, what kind of an end happiness is, or
what kind of means-end relation is involved. But the initial assumption is a
mistake. To say of an item that it is desired for the sake of happiness should
not be understood as implying that that item is desired as any kind of a means
to anything. It should be understood rather as claiming that the item is
desired (for its own sake) in a certain sort of way: 'for the sake of
happiness' should be treated as a unitary adverbial, better heard, perhaps, as
'happinesswise'. To desire something happiness-wise is to take the desire for
it seriously in a certain sort of way, in particular to take the desire
seriously as a guide for living, to have incorporated it in one's overall plan
or system for the conduct of life. If one looks at the matter this way, one can
see at once that it is conceivable that these should be I-desirables which are
not H-desirables; for the question whether something which is desirable is
intrinsically desirable, or whether its desirability derives from the
desirability of something else, is plainly a different question from the
question whether or not the desire for it is to be taken seriously in the
planning and direction of one's life, that is, whether the item is H-desirable.
One can, moreover, do justice to two further considerations which you have, so
far, been ignoring: first, that what goes to make up happiness is relative to
the individual whose happiness it is, a truth which is easily seen when it is
recognized that what x desires (or should desire) happiness-wise may be quite
different from what y so desires; and, second, that intuition is sympathetic to
the admittedly vague idea that the decision that certain items are constitutive
of one's happiness is not so much a matter of judgement or belief as a matter
of will. One's happiness consists in what one makes it consist in, an idea
which will be easily accommodated if 'for the sake of happiness' is understood
in the way which I propose." end p.129 There is much in this (spirited yet
thoughtful) oration towards which I am sympathetic and which I am prepared to
regard as important; in particular, the idea of linking H-desirability with
desires or concerns which enter into a system for the direction of one's life,
and the suggestion that the acceptance of a system of ends as constituting
happiness, or one's own happiness, is less a matter of belief or judgement than
of will. But, despite these attractive features, and despite its air of
simplifying iconoclasm, the position which is propounded can hardly be regarded
as tenable. When looked at more closely, it can be seen to be just another form
of subjectivism: what are ostensibly beliefs that particular items are
conducive to happiness are represented as being in fact psychological states or
attitudes, other than beliefs, with regard to these items; and it is vulnerable
to variants of stock objections to subjectivist manœuvres. That in common
speech and thought we have application for, and so need a philosophical account
of, not only the idea of desiring things for the sake of happiness but, also,
that of being happy (or well-off), is passed over; and should it turn out that
the position under consideration has no account to offer of the latter idea,
that would be not only paradoxical but also, quite likely, theoretically disastrous.
For it would seem to be the case that the construction or adoption of a system
of ends for the direction of life is something which can be done well or badly,
or better or less well; that being so, there will be a demand for the
specification of the criteria governing this area of evaluation; and it will be
difficult to avoid the idea that the conditions characteristic of a good system
of ends will be determined by the fact that the adoption of a system conforming
to those conditions will lead, or is likely to lead, or other things being
equal will lead, to the realization of happiness; to something, that is, which
the approach under consideration might well not be able to accommodate. So it
begins to look as if we may be back where we were before the start of this
latest discussion. But perhaps not quite; for, perhaps, something can be done
with the notion of a set or system of endswhich is suitable for the direction
of life. The leading idea would be of a system which is maximally stable, one
whose employment for the direction of life would be maximally conducive end
p.130 to its continued employment for that purpose, which would be maximally
self-perpetuating. To put the matter another way, a system of ends would be
stable to the extent to which, though not constitutionally immune from
modification, it could accommodate changes of circumstances or vicissitudes
which would impose modification upon other less stable systems. We might need
to supplement the idea of stability by the idea of flexibility; a system will
be flexible in so far as, should modifications be demanded, they are achievable
by easy adjustment and evolution; flounderings, crises, and revolutions will be
excluded or at a minimum. A succession of systems of ends within a person's
consciousness could then be regarded as stages in the development of a single
life-scheme, rather than as the replacement of one life-scheme by another. We
might find it desirable also to incorporate into the working-out of these ideas
a distinction, already foreshadowed, between happiness-in-general and
happiness-for-an-individual. We might hope that it would be possible to present
happiness-in-general as a system of possible ends which would be specified in
highly general terms (since the specification must be arrived at in abstraction
from the idiosyncrasies of particular persons and their circumstances), a
system which would be determined either by its stability relative to stock
vicissitudes in the human condition, or (as I suspect) in some other way; and
we might further hope that happiness for an individual might lie in the
possession, and operation for the guidance of life, of a system of ends which
(a) would be a specific and personalized derivative, determined by that
individual's character, abilities, and situations in the world, of the system
constitutive of happiness in general; and (b) the adoption of which would be
stable for that individual in his circumstances. The idea that happiness might
be fully, or at least partially, characterized in something like this kind of
way would receive some support if we could show reason to suppose that features
which could plausibly be regarded, or which indeed actually have been regarded,
as characteristic of happiness, or at least of a satisfactory system for the guidance
of life, are also features which are conducive to stability. Refs.: H. P.
Grice, “Means-end rationality.”
fiore: da Floris:
Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni
in Fiore (vide, Grice, “St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest
of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his
major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in
Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris illustrates the deep meaning of history as he
perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos
and threes. The two testaments represent history as divided in two phases
ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also
through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that
of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260;
the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders
like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this
final era of spirituality and interpreted Joachim’s prophecies as suggesting
the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his
views were condemned by the Lateran Council.
floridi: essential Italian philosopher. He
has explored aspects of Grice’s use of the expression ‘inform,’ ‘mis-inform,’
in terms of ‘factivity.’ Refs.: Luigi Speranza, "Informazione ed
implicatura: Grice e Floridi," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
fludd: r. English
physician and writer. Influenced by Paracelsus, hermetism, and the cabala,
Fludd defended a Neoplatonic worldview on the eve of its supersession by the
new mechanistic philosophy. He produced improvements in the manufacture of
steel and invented a thermometer, though he also used magnets to cure disease
and devised a salve to be applied to a weapon to cure the wound it had
inflicted. He held that science got its ideas from Scripture allegorically
interpreted, when they were of any value. His works combine theology with an
occult, Neoplatonic reading of the Bible, and contain numerous fine diagrams
illustrating the mutual sympathy of human beings, the natural world, and the
supernatural world, each reflecting the others in parallel harmonic structures.
In controversy with Kepler, Fludd claimed to uncover essential natural
processes rooted in natural sympathies and the operation of God’s light, rather
than merely describing the external movements of the heavens. Creation is the
extension of divine light into matter. Evil arises from a darkness in God, his
failure to will. Matter is uncreated, but this poses no problem for orthodoxy,
since matter is nothing, a mere possibility without the least actuality, not
something Filmer, Robert Fludd, Robert 311
311 coeternal with the Creator.
fondazione Giovanni
Gentile per gli studi filosofici. The foundation was founded [sic] after
Gentile was murdered. Gentile dedicated his life to philosophy. His interests
were broad: from Roman philosophy to idealism, through Leopardi’s poetics.
forcing: a method
introduced by Paul J. Cohen see his Set
Theory and the Continuum Hypothesis 6 to
prove independence results in Zermelo-Fraenkel set theory ZF. Cohen proved the
independence of the axiom of choice AC from ZF, and of the continuum hypothesis
CH from ZF ! AC. The consistency of AC with ZF and of CH with ZF ! AC had
previously been proved by Gödel by the method of constructible sets. A model of
ZF consists of layers, with the elements of a set at one layer always belonging
to lower layers. Starting with a model M, Cohen’s method produces an “outer
model” N with no more levels but with more sets at each level whereas Gödel’s
method produces an ‘inner model’ L: much of what will become true in N can be
“forced” from within M. The method is applicable only to hypotheses in the more
“abstract” branches of mathematics infinitary combinatorics, general topology,
measure theory, universal algebra, model theory, etc.; but there it is
ubiquitous. Applications include the proof by Robert M. Solovay of the consistency
of the measurability of all sets of all projective sets with ZF with ZF ! AC;
also the proof by Solovay and Donald A. Martin of the consistency of Martin’s
axiom MA plus the negation of the continuum hypothesis -CH with ZF ! AC. CH
implies MA; and of known consequences of CH about half are implied by MA, about
half refutable by MA ! -CH. Numerous simplifications, extensions, and variants
e.g. Boolean-valued models of Cohen’s method have been introduced.
fordyce: d., philosopher
and educational theorist whose writings were influential in the eighteenth
century. His lectures formed the basis of his Elements of Moral Philosophy,
written originally for The Preceptor 1748, later tr. into G. and , and abridged
for the articles on moral philosophy in the first Encylopaedia Britannica 1771.
Fordyce combines the preacher’s appeal to the heart in the advocacy of virtue
with a moral “scientist’s” appraisal of human psychology. He claims to derive
our duties experimentally from a study of the prerequisites of human
happiness..
fondatum
-- Grice’s foundationalism: the view that knowledge and epistemic
knowledge-relevant justification have a two-tier structure: some instances of
knowledge and justification are non-inferential, or foundational; and all other
instances thereof are inferential, or non-foundational, in that they derive
ultimately from foundational knowledge or justification. This structural view
originates in Aristotle’s Posterior Analytics at least regarding knowledge,
receives an extreme formulation in Descartes’s Meditations, and flourishes,
with varying details, in the works of such twentieth-century philosophers as
Russell, C. I. Lewis, and Chisholm. Versions of foundationalism differ on two
main projects: a the precise explanation of the nature of non-inferential, or
foundational, knowledge and justification, and b the specific explanation of
how foundational knowledge and justification can be transmitted to
non-foundational beliefs. Foundationalism allows for differences on these
projects, since it is essentially a view about the structure of knowledge and
epistemic justification. The question whether knowledge has foundations is
essentially the question whether the sort of justification pertinent to
knowledge has a twotier structure. Some philosophers have construed the former
question as asking whether knowledge depends on beliefs that are certain in
some sense e.g., indubitable or infallible. This construal bears, however, on
only one species of foundationalism: radical foundationalism. Such
foundationalism, represented primarily by Descartes, requires that foundational
beliefs be certain and able to guarantee the certainty of the non-foundational
beliefs they support. Radical foundationalism is currently unpopular for two
main reasons. First, very few, if any, of our perceptual beliefs are certain i.e.,
indubitable; and, second, those of our beliefs that might be candidates for
certainty e.g., the belief that I am thinking lack sufficient substance to
guarantee the certainty of our rich, highly inferential knowledge of the
external world e.g., our knowledge of physics, chemistry, and biology.
Contemporary foundationalists typically endorse modest foundationalism, the
view that non-inferentially justified, foundational beliefs need not possess or
provide certainty and need not deductively support justified non-foundational
beliefs. Foundational beliefs or statements are often called basic beliefs or
statements, but the precise understanding of ‘basic’ here is controversial
among foundationalists. Foundationalists agree, however, in their general understanding
of non-inferentially justified, foundational beliefs as beliefs whose
justification does not derive from other beliefs, although they leave open
whether the causal basis of foundational beliefs includes other beliefs.
Epistemic justification comes in degrees, but for simplicity we can restrict
discussion to justification sufficient for satisfaction of the justification
condition for knowledge; we can also restrict discussion to what it takes for a
belief to have justification, omitting issues of what it takes to show that a
belief has it. Three prominent accounts of non-inferential justification are
available to modest foundationalists: a self-justification, b justification by
non-belief, non-propositional experiences, and c justification by a non-belief
reliable origin of a belief. Proponents of self-justification including, at one
time, Ducasse and Chisholm contend that foundational beliefs can justify
themselves, with no evidential support elsewhere. Proponents of foundational
justification by non-belief experiences shun literal self-justification; they
hold, following C. I. Lewis, that foundational perceptual beliefs can be
justified by non-belief sensory or perceptual experiences e.g., seeming to see
a dictionary that make true, are best explained by, or otherwise support, those
beliefs e.g., the belief that there is, or at least appears to be, a dictionary
here. Proponents of foundational justification by reliable origins find the
basis of non-inferential justification in belief-forming processes e.g.,
perception, memory, introspection that are truth-conducive, i.e., that tend to
produce true rather than false beliefs. This view thus appeals to the
reliability of a belief’s nonbelief origin, whereas the previous view appeals
to the particular sensory or perceptual experiences that correspond to e.g.,
make true or are best explained by a foundational belief. Despite disagreements
over the basis of foundational justification, modest foundationalists typically
agree that foundational justification is characterized by defeasibility, i.e.,
can be defeated, undermined, or overridden by a certain sort of expansion of
one’s evidence or justified beliefs. For instance, your belief that there is a
blue dictionary before you could lose its justification e.g., the justification
from your current perceptual experiences if you acquired new evidence that
there is a blue light shining on the dictionary before you. Foundational
justification, therefore, can vary over time if accompanied by relevant changes
in one’s perceptual evidence. It does not follow, however, that foundational
justification positively depends, i.e., is based, on grounds for denying that
there are defeaters. The relevant dependence can be regarded as negative in
that there need only be an absence of genuine defeaters. Critics of
foundationalism sometimes neglect that latter distinction regarding epistemic
dependence. The second big task for foundationalists is to explain how
justification transmits from foundational beliefs to inferentially justified,
non-foundational beliefs. Radical foundationalists insist, for such
transmission, on entailment relations that guarantee the truth or the certainty
of nonfoundational beliefs. Modest foundationalists are more flexible, allowing
for merely probabilistic inferential connections that transmit justification.
For instance, a modest foundationalist can appeal to explanatory inferential
connections, as when a foundational belief e.g., I seem to feel wet is best
explained for a person by a particular physical-object belief e.g., the belief
that the air conditioner overhead is leaking on me. Various other forms of
probabilistic inference are available to modest foundationalists; and nothing
in principle requires that they restrict foundational beliefs to what one “seems”
to sense or to perceive. The traditional motivation for foundationalism comes
largely from an eliminative regress argument, outlined originally regarding
knowledge in Aristotle’s Posterior Analytics. The argument, in shortest form,
is that foundationalism is a correct account of the structure of justification
since the alternative accounts all fail. Inferential justification is
justification wherein one belief, B1, is justified on the basis of another
belief, B2. How, if at all, is B2, the supporting belief, itself justified?
Obviously, Aristotle suggests, we cannot have a circle here, where B2 is
justified by B1; nor can we allow the chain of support to extend endlessly,
with no ultimate basis for justification. We cannot, moreover, allow B2 to remain
unjustified, foundationalism foundationalism 322 322 lest it lack what it takes to support
B1. If this is right, the structure of justification does not involve circles,
endless regresses, or unjustified starter-beliefs. That is, this structure is
evidently foundationalist. This is, in skeletal form, the regress argument for
foundationalism. Given appropriate flesh, and due attention to skepticism about
justification, this argument poses a serious challenge to non-foundationalist
accounts of the structure of epistemic justification, such as epistemic
coherentism. More significantly, foundationalism will then show forth as one of
the most compelling accounts of the structure of knowledge and justification.
This explains, at least in part, why foundationalism has been very prominent
historically and is still widely held in contemporary epistemology. fundamentum divisionis: a term in
Scholastic logic and ontology for the ‘grounds for a distinction’. Some
distinctions categorize separately existing things, such as men and beasts.
This is a real distinction, and the fundamentum divisionis exists in reality.
Some distinctions categorize things that cannot exist separately but can be
distinguished mentally, such as the difference between being a human being and having
a sense of humor, or the difference between a soul and one of its powers, say,
the power of thinking. A mental distinction is also called a formal
distinction. Duns Scotus is well known for the idea of formalis distinctio cum
fundamento ex parte rei a formal distinction with a foundation in the thing,
primarily in order to handle logical problems with functionalism, analytical
fundamentum divisionis 335 335 the
Christian concept of God. God is supposed to be absolutely simple; i.e., there
can be no multiplicity of composition in him. Yet, according to traditional
theology, many properties can be truly attributed to him. He is wise, good, and
powerful. In order to preserve the simplicity of God, Duns Scotus claimed that
the difference between wisdom, goodness, and power was only formal but still
had some foundation in God’s own being. Refs.: H. P. Grice, “The fundamentum
divisionis of all my divisions!”
ferrero:
Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.”
functum
-- Functionalism: -- Grice: “With
a capital ‘F,’ of course – one of my
twelve labours!” -- Grice’s functionalism: a response to the dualist challenge
-- dualism, the view that reality consists of two disparate parts. The crux of
dualism is an apparently unbridgeable gap between two incommensurable orders of
being that must be reconciled if our assumption that there is a comprehensible
universe is to be justified. Dualism is exhibited in the pre-Socratic division
between appearance and reality; Plato’s realm of being containing eternal Ideas
and realm of becoming containing changing things; the medieval division between
finite man and infinite God; Descartes’s substance dualism of thinking mind and
extended matter; Hume’s separation of fact from value; Kant’s division between
empirical phenomena and transcendental noumena; the epistemological double-aspect
theory of James and Russell, who postulate a neutral substance that can be
understood in separate ways either as mind or brain; and Heidegger’s separation
of being and time that inspired Sartre’s contrast of being and nothingness. The
doctrine of two truths, the sacred and the profane or the religious and the
secular, is a dualistic response to the conflict between religion and science.
Descartes’s dualism is taken to be the source of the mindbody problem. If the
mind is active unextended thinking and the body is passive unthinking
extension, how can these essentially unlike and independently existing
substances interact causally, and how can mental ideas represent material
things? How, in other words, can the mind know and influence the body, and how
can the body affect the mind? Descartes said mind and body interact and that
ideas represent material things without resembling them, but dream argument
dualism 244 244 could not explain how,
and concluded merely that God makes these things happen. Proposed dualist
solutions to the mindbody problem are Malebranche’s occasionalism mind and body
do not interact but God makes them appear to; Leibniz’s preestablished harmony
among noninteracting monads; and Spinoza’s property dualism of mutually
exclusive but parallel attributes expressing the one substance God. Recent
mindbody dualists are Popper and John C. Eccles. Monistic alternatives to
dualism include Hobbes’s view that the mental is merely the epiphenomena of the
material; Berkeley’s view that material things are collections of mental ideas;
and the contemporary materialist view of Smart, Armstrong, and Paul and
Patricia Churchland that the mind is the brain. A classic treatment of these
matters is Arthur O. Lovejoy’s The Revolt Against Dualism. Dualism is related
to binary thinking, i.e., to systems of thought that are two-valued, such as
logic in which theorems are valid or invalid, epistemology in which knowledge
claims are true or false, and ethics in which individuals are good or bad and
their actions are right or wrong. In The Quest for Certainty, Dewey finds that
all modern problems of philosophy derive from dualistic oppositions,
particularly between spirit and nature. Like Hegel, he proposes a synthesis of
oppositions seen as theses versus antitheses. Recent attacks on the view that
dualistic divisions can be explicitly described or maintained have been made by
Vitters, who offers instead a classification scheme based on overlapping family
resemblances; by Quine, who casts doubt on the division between analytic or
formal truths based on meanings and synthetic or empirical truths based on
facts; and by Derrida, who challenges our ability to distinguish between the
subjective and the objective. But despite the extremely difficult problems
posed by ontological dualism, and despite the cogency of many arguments against
dualistic thinking, Western philosophy continues to be predominantly dualistic,
as witnessed by the indispensable use of two-valued matrixes in logic and
ethics and by the intractable problem of rendering mental intentions in terms
of material mechanisms or vice versa. functional
dependence, a relationship between variable magnitudes especially physical
magnitudes and certain properties or processes. In modern physical science
there are two types of laws stating such relationships. 1 There are numerical
laws stating concomitant variation of certain quantities, where a variation in
any one is accompanied by variations in the others. An example is the law for
ideal gases: pV % aT, where p is the pressure of the gas, V its volume, T its
absolute temperature, and a a constant derived from the mass and the nature of
the gas. Such laws say nothing about the temporal order of the variations, and
tests of the laws can involve variation of any of the relevant magnitudes.
Concomitant variation, not causal sequence, is what is tested for. 2 Other
numerical laws state variations of physical magnitudes correlated with times.
Galileo’s law of free fall asserts that the change in the unit time of a freely
falling body in a vacuum in the direction of the earth is equal to gt, where g
is a constant and t is the time of the fall, and where the rate of time changes
of g is correlative with the temporal interval t. The law is true of any body
in a state of free fall and for any duration. Such laws are also called
“dynamical” because they refer to temporal processes usually explained by the
postulation of forces acting on the objects in question. functionalism, the
view that mental states are defined by their causes and effects. As a
metaphysical thesis about the nature of mental states, functionalism holds that
what makes an inner state mental is not an intrinsic property of the state, but
rather its relations to sensory stimulation input, to other inner states, and
to behavior output. For example, what makes an inner state a pain is its being
a type of state typically caused by pinpricks, sunburns, and so on, a type that
causes other mental states e.g., worry, and a type that causes behavior e.g.,
saying “ouch”. Propositional attitudes also are identified with functional
states: an inner state is a desire for water partly in virtue of its causing a
person to pick up a glass and drink its contents when the person believes that
the glass contains water. The basic distinction needed for functionalism is
that between role in terms of which a type of mental state is defined and
occupant the particular thing that occupies a role. Functional states exhibit
multiple realizability: in different kinds of beings humans, computers,
Martians, a particular kind of causal role may have different occupants e.g., the causal role definitive of a belief
that p, say, may be occupied by a neural state in a human, but occupied perhaps
by a hydraulic state in a Martian. Functionalism, like behaviorism, thus
entails that mental states may be shared by physically dissimilar systems.
Although functionalism does not automatically rule out the existence of
immaterial souls, its motivation has been to provide a materialistic account of
mentality. The advent of the computer gave impetus to functionalism. First, the
distinction between software and hardware suggested the distinction between
role function and occupant structure. Second, since computers are automated,
they demonstrate how inner states can be causes of output in the absence of a
homunculus i.e., a “little person” intelligently directing output. Third, the
Turing machine provided a model for one of the earliest versions of
functionalism. A Turing machine is defined by a table that specifies
transitions from current state and input to next state or to output. According
to Turing machine functionalism, any being with pscychological states has a
unique best description, and each psychological state is identical to a machine
table state relative to that description. To be in mental state type M is to
instantiate or realize Turing machine T in state S. Turing machine
functionalism, developed largely by Putnam, has been criticized by Putnam, Ned
Block, and Fodor. To cite just one serious problem: two machine table
states and hence, according to Turing
machine functionalism, two psychological states
are distinct if they are followed by different states or by different
outputs. So, if a pinprick causes A to say “Ouch” and causes B to say “Oh,”
then, if Turing machine functionalism were true, A’s and B’s states of pain
would be different psychological states. But we do not individuate
psychological states so finely, nor should we: such fine-grained individuation
would be unsuitable for psychology. Moreover, if we assume that there is a path
from any state to any other state, Turing machine functionalism has the
unacceptable consequence that no two systems have any of their states in common
unless they have all their states in common. Perhaps the most prominent version
of functionalism is the causal theory of mind. Whereas Turing machine
functionalism is based on a technical computational or psychological theory,
the causal theory of mind relies on commonsense understanding: according to the
causal theory of mind, the concept of a mental state is the concept of a state
apt for bringing about certain kinds of behavior Armstrong. Mental state terms
are defined by the commonsense platitudes in which they appear David Lewis.
Philosophers can determine a priori what mental states are by conceptual
analysis or by definition. Then scientists determine what physical states
occupy the causal roles definitive of mental states. If it turned out that
there was no physical state that occupied the causal role of, say, pain i.e.,
was caused by pinpricks, etc., and caused worry, etc., it would follow, on the
causal theory, that pain does not exist. To be in mental state type M is to be
in a physical state N that occupies causal role R. A third version is
teleological or “homuncular” functionalism, associated with William G. Lycan
and early Dennett. According to homuncular functionalism, a human being is
analogous to a large corporation, made up of cooperating departments, each with
its own job to perform; these departments interpret stimuli and produce
behavioral responses. Each department at the highest subpersonal level is in
turn constituted by further units at a sub-subpersonal level and so on down
until the neurological level is reached. The roleoccupant distinction is thus
relativized to level: an occupant at one level is a role at the next level
down. On this view, to be in a mental state type M is to have a sub- . . .
subpersonal f-er that is in its characteristic state Sf. All versions of
functionalism face problems about the qualitative nature of mental states. The
difficulty is that functionalism individuates states in purely relational
terms, but the acrid odor of, say, a paper mill seems to have a non-relational,
qualitative character that functionalism misses altogether. If two people, on
seeing a ripe banana, are in states with the same causes and effects, then, by
functionalist definition, they are in the same mental state say, having a sensation of yellow. But it seems
possible that one has an “inverted spectrum” relative to the other, and hence
that their states are qualitatively different. Imagine that, on seeing the
banana, one of the two is in a state qualitatively indistinguishable from the
state that the other would be in on seeing a ripe tomato. Despite widespread
intuitions that such inverted spectra are possible, according to functionalism,
they are not. A related problem is that of “absent qualia.” The population of
China, or even the economy of Bolivia, could be functionally equivalent to a human
brain i.e., there could be a function
that mapped the relations between inputs, outputs, and internal states of the
population of China onto those of a human brain; yet the population of China,
no matter how its members interact with one another and with other nations,
intuitively does not have mental states. The status of these arguments remains
controversial.
futurum
contingens:
Grice knew that his obsession with action was an obsession with the uncertainty
of a contingent future, alla Aristotle. Futurum -- future contingents, singular
events or states of affairs that may come to pass, and also may not come to
pass, in the future. There are three traditional problems involving future
contingents: the question of universal validity of the principle of bivalence,
the question of free will and determinism, and the question of foreknowledge.
The debate about future contingents in modern philosophical logic was revived
by Lukasiewicz’s work on three-valued logic. He thought that in order to avoid
fatalistic consequences, we must admit that the principle of bivalence for any
proposition, p, either p is true or not-p is true does not hold good for
propositions about future contingents. Many authors have considered this view
confused. According to von Wright, e.g., when propositions are said to be true
or false and ‘is’ in ‘it is true that’ is tenseless or atemporal, the illusion
of determinism does not arise. It has its roots in a tacit oscillation between
a temporal and an atemporal reading of the phrase ‘it is true’. In a
temporalized reading, or in its tensed variants such as ‘it was/will be/is
already true’, one can substitute, for ‘true’, other words like ‘certain’,
‘fixed’, or ‘necessary’. Applying this diachronic necessity to atemporal
predications of truth yields the idea of logical determinism. In contemporary
discussions of tense and modality, future contingents are often treated with
the help of a model of time as a line that breaks up into branches as it moves
from left to right i.e., from past to future. Although the conception of truth
at a moment has been found philosophically problematic, the model of historical
modalities and branching time as such is much used in works on freedom and
determination. Aristotle’s On Interpretation IX contains a classic discussion
of future contingents with the famous example of tomorrow’s sea battle. Because
of various ambiguities in the text and in Aristotle’s modal conceptions in
general, the meaning of the passage is in dispute. In the Metaphysics VI.3 and
in the Niocmachean Ethics III.5, Aristotle tries to show that not all things
are predetermined. The Stoics represented a causally deterministic worldview;
an ancient example of logical determinism is Diodorus Cronus’s famous master
argument against contingency. Boethius thought that Aristotle’s view can be
formulated as follows: the principle of bivalence is universally valid, but
propositions about future contingents, unlike those about past and present
things, do not obey the stronger principle according to which each proposition
is either determinately true or determinately false. A proposition is
indeterminately true as long as the conditions that make it true are not yet
fixed. This was the standard Latin doctrine from Abelard to Aquinas. Similar
discussions occurred in Arabic commentaries on On Interpretation. In the
fourteenth century, many thinkers held that Aristotle abandoned bivalence for
future contingent propositions. This restriction was usually refuted, but it
found some adherents like Peter Aureoli. Duns Scotus and Ockham heavily
criticized the Boethian-Thomistic view that God can know future contingents
only because the flux of time is present to divine eternity. According to them,
God contingently foreknows free acts. Explaining this proved to be a very
cumbersome task. Luis de Molina 15351600 suggested that God knows what possible
creatures would do in any possible situation. This “middle knowledge” theory
about counterfactuals of freedom has remained a living theme in philosophy of
religion; analogous questions are treated in theories of subjunctive
reasoning. Then there’s the futurum indicativum: The Grecians
called it just ‘horistike klesis.’ The Romans transliterated as modus
definitivus, inclination anima affectations demonstrans.’ But they had other
terms, indicativus, finitus, finitivus, and pronuntiativus. f. H. P. Grice and
D. F. Pears, “Predicting and deciding.” The future is essentially involved in
“E communicates that p,” i. e. E, the emissor, intends that his addressee, in a
time later than t, will come to believe this or that. Grice is especially concerned with the future
for his analysis of the communicatum. “Close the door!” By uttering “Close the
door!,” U means that A is to close the door – in the future. So Grice spends
HOURS exploring how one can have justification to have an intention about a
future event. Grice is aware of the ‘shall.’ Grice uses ‘shall’ in the first
person to mean wha the calls ‘futurum indicativum.’ (He considers the case of
the ‘shall’ in the second and third persons in his analysis of mode). What are
the conditions for the use of “shall” in the first person. “I shall close the
door” may be predictable. It is in the indicative mode. “Thou shalt close the
door,” and “He shall close the door” are in the imperative mode, or rather they
correspond to the ‘futurum intentionale.’
Since Grice is an analytic
philosopher, he specifies the analysis in the third person (“U means that…”)
one has to be careful. For ‘futurum indicativum’ we have ‘shall’ in the first
person, and ‘will’ in the second and third persons. So for the first group, U
means that he will go. In the second group, U means that his addressee or a
third party shall go. Grice adopts a subscript variant, stick with ‘will,’ but
add the mode afterwards: so will-ind. will be ‘futurum indicativum,’ and
will-int. will be futurum intentionale. The OED has it as “shall,”
and defines as a Germanic preterite-present strong verb. In Old English,
it is “sceal,” and which the OED renders as “to owe (money,” 1425 Hoccleve Min.
Poems, The leeste ferthyng þat y men shal. To owe (allegiance); 1649 And by
that feyth I shal to god and yow; followed by an infinitive, without to. Except
for a few instances of shall will, shall may (mowe), "shall conne" in
the 15th c., the infinitive after shall is always either that of a principal
verb or of have or be; The present tense shall; in general statements of what
is right or becoming, = ought, superseded by the past subjunctive should; in
OE. the subjunctive present sometimes occurs in this use; 1460 Fortescue Abs.
and Lim. Mon. The king shall often times send his judges to punish rioters and
risers. 1562 Legh Armory; Whether are Roundells of all suche coloures, as ye
haue spoken of here before? or shall they be Namesd Roundelles of those
coloures? In OE. and occas. in Middle English used to express necessity of
various kinds. For the many shades of meaning in Old English see Bosworth and
Toller), = must, "must needs", "have to", "am
compelled to", etc.; in stating a necessary condition: = `will have to,
`must (if something else is to happen). 1596 Shaks. Merch. V. i. i. 116 You
shall seeke all day ere you finde them, & when you haue them they are
not worth the search. 1605 Shaks. Lear. He that parts vs, shall bring a Brand
from Heauen. c In hypothetical clause, accompanying the statement of a
necessary condition: = `is to. 1612 Bacon Ess., Greatn. Kingd., Neither must
they be too much broken of it, if they shall be preserued in vigor; ndicating
what is appointed or settled to take place = the mod. `is to, `am to, etc. 1600
Shaks. A.Y.L. What is he that shall buy his flocke and pasture? 1625 in Ellis
Orig. Lett. Ser. "Tomorrow His Majesty will be present to begin the Parliament which is thought
shall be removed to Oxford; in commands or instructions; n the second person,
“shall” is equivalent to an imperative. Chiefly in Biblical language, of divine
commandments, rendering the jussive future of the Hebrew and Vulgate. In Old
English the imperative mode is used in the ten commandments. 1382 Wyclif Exod.
Thow shalt not tak the Names of the Lord thi God in veyn. So Coverdale, etc. b)
In expositions: you shall understand, etc. (that). c) In the formula you shall
excuse (pardon) me. (now "must"). 1595 Shaks. John. Your Grace shall
pardon me, I will not backe. 1630 R. Johnsons Kingd. and Commw. 191 You shall
excuse me, for I eat no flesh on Fridayes; n the *third* person. 1744 in Atkyns
Chanc. Cases (1782) III. 166 The words shall and may in general acts of
parliament, or in private constitutions, are to be construed imperatively, they
must remove them; in the second and third persons, expressing the determination
by the Griceian utterer to bring about some action, event, or state of things
in the future, or (occasionally) to refrain from hindering what is otherwise
certain to take place, or is intended by another person; n the second person.
1891 J. S. Winter Lumley. If you would rather not stay then, you shall go down
to South Kensington Square then; in third person. 1591 Shaks. Two Gent. Verona
shall not hold thee. 1604 Shaks. Oth. If there be any cunning Crueltie, That
can torment him much, It shall be his. 1891 J. S. Winter Lumley xiv, `Oh, yes,
sir, she shall come back, said the nurse. `Ill take care of that. `I will come
back, said Vere; in special interrogative uses, a) in the *first* person, used
in questions to which the expected answer is a command, direction, or counsel,
or a resolve on the speakers own part. a) in questions introduced by an
interrogative pronoun (in oblique case), adverb, or adverbial phrase. 1600
Fairfax Tasso. What shall we doe? shall we be gouernd still, By this false
hand? 1865 Kingsley Herew. Where shall we stow the mare? b) in categorical
questions, often expressing indignant reprobation of a suggested course of
action, the implication (or implicaturum, or entailment) being that only a
negative (or, with negative question an affirmative) answer is conceivable.
1611 Shaks. Wint. T. Shall I draw the Curtaine? 1802 Wordsw. To the Cuckoo i, O
Cuckoo! shall I call thee Bird, Or but a wandering Voice? 1891 J. S. Winter
Lumley `Are you driving, or shall I call you a cab? `Oh, no; Im driving,
thanks. c) In *ironical* affirmative in exclamatory sentence, equivalent to the
above interrogative use, cf. Ger. soll. 1741 Richardson Pamela, A pretty thing
truly! Here I, a poor helpless Girl, raised from Poverty and Distress, shall put
on Lady-airs to a Gentlewoman born. d) to stand shall I, shall I (later shill
I, shall I: v. shilly-shally), to be at shall I, shall I (not): to be
vacillating, to shilly-shally. 1674 R. Godfrey Inj. and Ab. Physic Such
Medicines. that will not stand shall I? shall I? but will fall to work on the
Disease presently. b Similarly in the *third* person, where the Subjects
represents or includes the utterer, or when the utterer is placing himself at
anothers point of view. 1610 Shaks. Temp., Hast thou (which art but aire) a
touch, a feeling Of their afflictions, and shall not my selfe, One of their
kinde be kindlier moud then thou art? In the second and third person, where the
expected answer is a decision on the part of the utterer or of some person
OTHER than the Subjects. The question often serves as an impassioned
repudiation of a suggestion (or implicaturum) that something shall be
permitted. 1450 Merlin `What shal be his Names? `I will, quod she, `that it
haue Names after my fader. 1600 Shaks. A.Y.L.; What shall he haue that kild the
Deare? 1737 Alexander Pope, translating Horaces Epistle, And say, to which
shall our applause belong, this new court jargon, or the good old song? 1812
Crabbe Tales, Shall a wife complain? In indirect question. 1865 Kingsley Herew,
Let her say what shall be done with it; as a mere auxiliary, forming, with
present infinitive, the future, and (with perfect infinitive) the future
perfect tense. In Old English, the notion of the future tense is ordinarily
expressed by the present tense. To prevent ambiguity, wile (will) is not
unfrequently used as a future auxiliary, sometimes retaining no trace of its
initial usage, connected with the faculty of volition, and cognate indeed with
volition. On the other hand, sceal (shall), even when rendering a Latin future,
can hardly be said to have been ever a mere future tense-sign in Old English.
It always expressed something of its original notion of obligation or
necessity, so Hampshire is wrong in saying I shall climb Mt. Everest is predictable.
In Middle English, the present early ceases to be commonly employed in futural
usage, and the future is expressed by shall or will, the former being much
more common. The usage as to the choice between the two auxiliaries, shall and
will, has varied from time to time. Since the middle of the seventeenth
century, with Wallis, mere predictable futurity is expressed in the *first*
person by shall, in the second and third by will, and vice versa. In oratio
obliqua, usage allows either the retention of the auxiliary actually used by
the original utterer, or the substitution of that which is appropriate to the
point of view of the uttering reporting; in Old English, ‘sceal,; while
retaining its primary usage, serves as a tense-sign in announcing a future event
as fated or divinely decreed, cf. Those spots mean measle. Hence shall has
always been the auxiliary used, in all persons, for prophetic or oracular
announcements of the future, and for solemn assertions of the certainty of a
future event. 1577 in Allen Martyrdom Campion; The queene neither ever was, nor
is, nor ever shall be the head of the Church of England. 1601 Shaks. Jul. C.
Now do I Prophesie. A Curse shall light vpon the limbes of men. b In the first
person, "shall" has, from the early ME. period, been the normal
auxiliary for expressing mere futurity, without any adventitious notion. (a) Of
events conceived as independent of the volition of the utterer. To use will in
these cases is now a mark of, not public-school-educated Oxonian, but Scottish,
Irish, provincial, or extra-British idiom. 1595 in Cath. Rec. Soc. Publ. V. 357
My frend, yow and I shall play no more at Tables now. 1605 Shaks. Macb. When
shall we three meet againe? 1613 Shaks. Hen. VIII, Then wee shall haue em,
Talke vs to silence. 1852 Mrs. Stowe Uncle Toms C.; `But what if you dont hit?
`I shall hit, said George coolly; of voluntary action or its intended result.
Here I shall or we shall is always admissible except where the notion of a
present, as distinguished from a previous, decision or consent is to be
expressed, in which case ‘will’ shall be used. Further, I shall often expresses
a determination insisted on in spite of opposition. In the 16th c. and earlier,
I shall often occurs where I will would now be used. 1559 W. Cunningham Cosmogr.
Glasse, This now shall I alway kepe surely in memorye. 1601 Shaks. Alls Well;
Informe him so tis our will he should.-I shall my liege. 1885 Ruskin On Old
Road, note: Henceforward I shall continue to spell `Ryme without our wrongly
added h. c In the *second* person, shall as a mere future auxiliary appears
never to have been usual, but in categorical questions it is normal, e.g. Shall
you miss your train? I am afraid you will. d In the *third* person, superseded
by will, except when anothers statement or expectation respecting himself is
reported in the third person, e.g. He conveys that he shall not have time to
write. Even in this case will is still not uncommon, but in some contexts leads
to serious ambiguity. It might be therefore preferable, to some, to use ‘he
shall’ as the indirect rendering of ‘I shall.’ 1489 Caxton Sonnes of Aymon ii.
64 Yf your fader come agayn from the courte, he shall wyll yelde you to the
kynge Charlemayne. 1799 J. Robertson Agric. Perth, The effect of the statute
labour has always been, now is, and
probably shall continue to be, less productive than it might. Down to the
eighteenth century, shall, the auxiliary appropriate to the first person, is
sometimes used when the utterer refers to himself in the third person. Cf. the
formula: `And your petitioner shall ever pray. 1798 Kemble Let. in Pearsons
Catal. Mr. Kemble presents his respectful compliments to the Proprietors of the
`Monthly Mirror, and shall have great pleasure at being at all able to aid
them; in negative, or virtually negative, and interrogative use, shall often =
will be able to. 1600 Shaks. Sonn. lxv: How with this rage shall beautie hold a
plea. g) Used after a hypothetical clause or an imperative sentence in a
statementsof a result to be expected from some action or occurrence. Now (exc.
in the *first* person) usually replaced by will. But shall survives in literary
use. 1851 Dasent Jest and Earnest, Visit Rome and you shall find him [the Pope]
mere carrion. h) In clause expressing the object of a promise, or of an
expectation accompanied by hope or fear, now only where shall is the ordinary
future auxiliary, but down to the nineteenth century shall is often preferred
to will in the second and third persons. 1628 in Ellis Orig. Lett. Ser., He is
confident that the blood of Christ shall wash away his sins. 1654 E. Nicholas
in N. Papers, I hope neither your Cosen Wat. Montagu nor Walsingham shall be permitted to
discourse with the D. of Gloucester; in impersonal phrases,
"it shall be well, needful", etc. (to do so and so). (now
"will"). j) shall be, added to a future date in clauses measuring
time. 1617 Sir T. Wentworth in Fortescue Papers. To which purpose my late Lord
Chancelour gave his direction about the 3. of Decembre shallbe-two-yeares; in the
idiomatic use of the future to denote what ordinarily or occasionally occurs
under specified conditions, shall was formerly the usual auxiliary. In the
*second* and *third* persons, this is now somewhat formal or rhetorical.
Ordinary language substitutes will or may. Often in antithetic statements
coupled by an adversative conjunction or by and with adversative force. a in
the first person. 1712 Steele Spect. In spite of all my Care, I shall every now
and then have a saucy Rascal ride by reconnoitring under my Windows. b) in the *second* person.
1852 Spencer Ess. After knowing him for years, you shall suddenly discover that
your friends nose is slightly awry. c) in the *third* person. 1793 W. Roberts
Looker-On, One man shall approve the same thing that another man shall condemn.
1870 M. Arnold St. Paul and Prot. It may well happen that a man who lives and
thrives under a monarchy shall yet theoretically disapprove the principle of
monarchy. Usage No. 10: in hypothetical, relative, and temporal clauses
denoting a future contingency, the future auxiliary is shall for all persons
alike. Where no ambiguity results, however, the present tense is commonly used
for the future, and the perfect for the future-perfect. The use of shall, when
not required for clearness, is, Grice grants, apt to sound pedantic by non
Oxonians. Formerly sometimes used to express the sense of a present
subjunctive. a) in hypothetical clauses. (shall I = if I shall) 1680 New
Hampsh. Prov. Papers, If any Christian shall speak contempteously of the Holy
Scriptures, such person shall be
punished. b) in relative clauses, where the antecedent denotes an as yet
undetermined person or thing: 1811 Southey Let., The minister who shall first
become a believer in that book will
obtain a higher reputation than ever statesman did before him. 1874 R. Congreve
Ess. We extend our sympathies to the unborn generations which shall follow us
on this earth; in temporal clauses: 1830 Laws of Cricket in Nyren Yng.
Cricketers Tutor, If in striking, or at any other time, while the ball shall be
in play, both his feet be over the popping-crease; in clauses expressing the
purposed result of some action, or the object of a desire, intention, command,
or request, often admitting of being replaced by may. In Old English, and occasionally
as late as the seventeenth century, the present subjunctive was used exactly as
in Latin. a) in final clause usually introduced by that. In this use modern
idiom prefers should (22 a): see quot. 1611 below, and the appended remarks.
1879 M. Pattison Milton At the age of nine and twenty, Milton has already
determined that this lifework shall be an epic poem; in relative clause: 1599
Shaks. Hen. V, ii. iv. 40: As Gardeners doe with Ordure hide those Roots that
shall first spring. The choice between should and would follows the same as
shall and will as future auxiliaries, except that should must sometimes be
avoided on account of liability to be misinterpreted as = `ought to. In present
usage, should occurs mainly in the first person. In the other persons it
follows the use of shall. III Elliptical and quasi-elliptical uses. Usage No.
24: with ellipsis of verb of motion: = `shall go; he use is common in OHG. and
OS., and in later HG., LG., and Du. In the Scandinavian languages it is also
common, and instances occur in MSw.] 1596 Shaks. 1 Hen. IV, That with our small
coniunction we should on. 1598 Shaks. Merry W. If the bottome were as deepe as
hell, I shold down; n questions, what shall = `what shall (it) profit, `what
good shall (I) do. Usage No. 26: with the sense `is due, `is proper, `is to be
given or applied. Cf. G. soll. Usage No. 27: a) with ellipsis of active
infinitive to be supplied from the context. 1892 Mrs. H. Ward David Grieve,
`No, indeed, I havnt got all I want, said Lucy `I never shall, neither; if I
shall. Now dial. 1390 Gower Conf. II. 96: Doun knelende on mi kne I take leve,
and if I schal, I kisse hire. 1390 Gower Conf., II. 96: I wolde kisse hire
eftsones if I scholde. 1871 Earle Philol. Engl. Tongue 203: The familiar
proposal to carry a basket, I will if I shall, that is, I am willing if you
will command me; I will if so required. 1886 W. Somerset Word-bk. Ill warn our
Tomll do it vor ee, nif he shall-i.e. if you wish. c) with generalized ellipsis
in proverbial phrase: needs must that needs shall = `he must whom fate compels.
Usage No. 28: a) with ellipsis of do (not occurring in the context). 1477
Norton Ord. Alch., O King that shall These Workes! b) the place of the inf. is
sometimes supplied by that or so placed at the beginning of the sentence. The
construction may be regarded as an ellipsis of "do". It is distinct
from the use (belonging to 27) in which so has the sense of `thus, `likewise,
or `also. In the latter there is usually inversion, as so shall I. 1888 J. S.
Winter Bootles Childr. iv: I should like to see her now shes grown up. `So you
shall. Usage No. 29: with ellipsis of be or passive inf., or with so in place
of this (where the preceding context has is, was, etc.). 1615 J. Chamberlain in
Crt. And Times Jas.; He is not yet executed, nor I hear not when he shall.
Surely he may not will that he be executed.Then there’s the futurum
intentionale: Grice: “I’m obsessed with the
future – unless most Englishmen – hence my need to coin the ‘implicaturum,’ a
future form!” -- Surely intention has nothing to do with predictable truth. If
Smith promises Jones a job – he intends that Jones get a job. Then the world
explodes, so Jones does not get the job. Kant, Austin, or Grice, don’t care. A
philosopher is not a scientist. He is into ‘conceptual matters,’ about what is
to have a good intention, not whether the intention, in a future scenario, is
realised or not. If they are interested in ‘tense,’ as Prior was as Grice was
with his time-relative identity, it’s still because in the PRESENT, the emissor
emits a future-tense utterance. The future figures more prominently than
anything because in “Emissor communicates that p” there is the FUTURE
ESSENTIAL. The emissor intends that his addressee in a time later than the
present will do this or that. While Grice is always looking to cross the
credibility/desirability divide, there is a feature that is difficult to cross
in the bridge of asses. This is the shall vs. will. Grice is aware that ‘will,’
in the FIRST person, is not a matter of prediction. When Grice says “I will go
to Harborne,” that’s not a prediction. He firmly contrasts it with “I shall go
to Harborne” which is a perfect prediction in the indicative mode. “I will go
to Harborne” is in the ‘futurum intentionale.’ Grice is also aware that in the
SECOND and THIRD persons, ‘will’ reports something that the utterer must judge
unpredictable. An utterance like “Thou wilt go to London” and “He will go to
London” is in the ‘futurum indicativus.’ This is one nuance that Prichard
forgets in the analysis of ‘willing’ that Grice eventually adopts. Prichard
uses ‘will’ derivatively, and followed by a ‘that’-clause. Prichard quotes from
the New-World, where the dialect is slightly different. For William James had
said, “I will that the distant table slides over the floor toward me. And it
does not.” Since James is using ‘will’ in the first person, the utterance is
indeed NOT in the indicative, but the ‘intentional’ mode. In the case of the
‘communicatum,’ things get complicated, since U intends that A will believe
that… In which case, U’s intention (and thus will) is directed towards the
‘will’ of his addressee, too, even if it is merely to adopt a ‘belief.’ So what
would be the primary uses of the ‘will.’ In the first person, “I will go to
Harborne” is in the futurum intentionale. It is used to report the utterer’s
will. In the second and third person – “Thou will go to Harborne” and “He will
go to Harborne,” the utterer uses the futurum indicativum and utters a statement
which is predictable. Since analytic
philosophers specify the analysis in the third person (“U means that…”) one has
to be careful. For ‘futurum intentionale’ we have ‘will’ in the first person,
and ‘shall’ in the second and third persons. So for the first group, U means
that he SHALL go. In the second group, U means that his addressee or a third
party WILL go. Grice adopts a subscript variant, stick with ‘will,’ but add the
mode afterwards: so will-ind. will be ‘futurum indicativum,’ and will-int. will
be futurum intentionale. Grice distinguishes the ‘futurum imperativum.’ This
may be seen as a sub-class of the ‘futurum intentionale,’ as applied to the
second and third persons, to avoid the idea that one can issue a
‘self-command.’ Grice has a futurum imperativum, in Latin ending in -tō(te),
used to request someone to do something, or if something else happens first.
“Sī quid acciderit, scrībitō. If anything happens, write to me' (Cicero). ‘Ubi
nōs lāverimus, lavātō.’ 'When*we* have finished washing, *you* get washed.’
(Terence). ‘Crūdam si edēs, in acētum intinguitō.’ ‘If you eat cabbage raw, dip
it in vinegar.’ (Cato). ‘Rīdētō multum quī tē, Sextille, cinaedum dīxerit et
digitum porrigitō medium.’ 'Laugh loudly at anyone who calls you camp,
Sextillus, and stick up your middle finger at him.' (Martial). In Latin, some verbs have only a futurum
imperativum, e. g., scītō 'know', mementō 'remember'. In Latin, there is also a
third person imperative also ending in -tō, plural -ntō exists. It is used in
very formal contexts such as laws. ‘Iūsta imperia suntō, īsque cīvēs pārentō.’
'Orders must be just, and citizens must obey them' (Cicero). Other ways of
expressing a command or request are made with expressions such as cūrā ut 'take
care to...', fac ut 'see to it that...' or cavē nē 'be careful that you
don't...' Cūrā ut valeās. 'Make sure you keep well' (Cicero). Oddly, in Roman,
the futurum indicativum can be used for a polite commands. ‘Pīliae salūtem dīcēs
et Atticae.’ 'Will you please give my
regards to Pilia and Attica?' (Cicero. The OED has will, would. It is traced to
Old English willan, pres.t. wille, willaþ, pa. t. wolde. Grice was especially interested
to check Jamess and Prichards use of willing that, Prichards shall will and the
will/shall distinction; the present tense will; transitive uses, with simple
obj. or obj. clause; occas. intr. 1 trans. with simple obj.: desire, wish for,
have a mind to, `want (something); sometimes implying also `intend, purpose.
1601 Shaks. (title) Twelfe Night, Or what you will. 1654 Whitlock Zootomia 44
Will what befalleth, and befall what will. 1734 tr. Rollins Anc. Hist. V. 31 He
that can do what ever he will is in great danger of willing what he ought not.
b intr. with well or ill, or trans. with sbs. of similar meaning (e.g. good,
health), usually with dat. of person: Wish (or intend) well or ill (to some
one), feel or cherish good-will or ill-will. Obs. (cf. will v.2 1 b). See also
well-willing; to will well that: to be willing that. 1483 Caxton Gold. Leg. I
wyl wel that thou say, and yf thou say ony good, thou shalt be pesybly herde.
Usage No. 2: trans. with obj. clause (with vb. in pres. subj., or in periphrastic
form with should), or acc. and inf.: Desire, wish; sometimes implying also
`intend, purpose (that something be done or happen). 1548 Hutten Sum of
Diuinitie K viij, God wylle all men to be saued; enoting expression (usually
authoritative) of a wish or intention: Determine, decree, ordain, enjoin, give
order (that something be done). 1528 Cromwell in Merriman Life and Lett. (1902)
I. 320 His grace then wille that thellection of a new Dean shalbe emonges them
of the colledge; spec. in a direction or instruction in ones will or testament;
hence, to direct by will (that something be done). 1820 Giffords Compl. Engl.
Lawyer. I do hereby will and direct that my executrix..do excuse and release
the said sum of 100l. to him; figurative
usage. of an abstract thing (e.g. reason, law): Demands, requires. 1597 Shaks.
2 Hen. IV, Our Battaile is more full of Namess then yours Then Reason will, our
hearts should be as good. Usage No. 4 transf. (from 2). Intends to express,
means; affirms, maintains. 1602 Dolman La Primaud. Fr. Acad. Hee will that this
authority should be for a principle of demonstration. 2 With dependent
infinitive (normally without "to"); desire to, wish to, have a mind
to (do something); often also implying intention. 1697 Ctess DAunoys Trav. I
will not write to you often, because I will always have a stock of News to tell
you, which..is pretty long in picking up. 1704 Locke Hum. Und. The great Encomiasts of the Chineses, do all
to a man agree and will convince us that the Sect of the Literati are Atheists.
6 In relation to anothers desire or requirement, or to an obligation of some
kind: Am (is, are) disposed or willing to, consent to; †in early use sometimes
= deign or condescend to.With the (rare and obs.) imper. use, as in quot. 1490,
cf. b and the corresponding negative use in 12 b. 1921 Times Lit. Suppl. 10
Feb. 88/3 Literature thrives where people will read what they do not agree
with, if it is good. b In 2nd person, interrog., or in a dependent clause after
beg or the like, expressing a request (usually courteous; with emphasis,
impatient). 1599 Shaks. Hen. V, ii. i. 47 Will you shogge off? 1605 1878 Hardy
Ret. Native v. iii, O, O, O,..O, will you have done! Usage No. 7 Expressing
voluntary action, or conscious intention directed to the doing of what is
expressed by the principal verb (without temporal reference as in 11, and
without emphasis as in 10): = choose to (choose v. B. 3 a). The proper word for
this idea, which cannot be so precisely expressed by any other. 1685 Baxter
Paraphr., When God will tell us we shall know. Usage No. 8 Expressing natural
disposition to do something, and hence habitual action: Has the habit, or `a
way, of --ing; is addicted or accustomed to --ing; habitually does; sometimes
connoting `may be expected to (cf. 15). 1865 Ruskin Sesame, Men, by their
nature, are prone to fight; they will fight for any cause, or for none;
expressing potentiality, capacity, or sufficiency: Can, may, is able to, is
capable of --ing; is (large) enough or sufficient to.†it will not be: it cannot
be done or brought to pass; it is all in vain. So, †will it not be? 1833 N.
Arnott Physics, The heart will beat after removal from the body. Usage No. 10
As a strengthening of sense 7, expressing determination, persistence, and the
like (without temporal reference as in 11); purposes to, is determined to. 1539
Bible (Great) Isa. lxvi. 6, I heare ye voyce of the Lorde, that wyll rewarde,
etc; recompence his enemyes; emphatically. Is fully determined to; insists on
or persists in --ing: sometimes with mixture of sense 8. (In 1st pers. with
implication of futurity, as a strengthening of sense 11 a. Also fig. = must
inevitably, is sure to. 1892 E. Reeves Homeward Bound viii. 239, I have spent
6,000 francs to come here..and I will see it! c In phr. of ironical or critical
force referring to anothers assertion or opinion. Now arch. exc. in will have
it; 1591 Shaks. 1 Hen. VI, This is a Riddling Merchant for the nonce, He will
be here, and yet he is not here. 1728 Chambers Cycl., Honey, Some naturalists
will have honey to be of a different quality, according to the difference of
the flowers..the bees suck it from. Also, as auxiliary of the future tense with
implication (entailment rather than cancellable implicaturum) of intention,
thus distinguished from ‘shall,’ v. B. 8, where see note); in 1st person:
sometimes in slightly stronger sense = intend to, mean to. 1600 Shaks. A.Y.L.,
To morrow will we be married. 1607 Shaks. Cor., Ile run away Till I am bigger,
but then Ile fight. 1777 Clara Reeve Champion of Virtue, Never fear it..I will
speak to Joseph about it. b In 2nd and 3rd pers., in questions or indirect
statements. 1839 Lane Arab. Nts., I will
cure thee without giving thee to drink any potion When King Yoonán heard his
words, he..said.., How wilt thou do this? c will do (with omission of
"I"): an expression of willingness to carry out a request. Cf. wilco.
colloq. 1967 L. White Crimshaw Memorandum, `And find out where the bastard was
`Will do, Jim said. 13 In 1st pers., expressing immediate intention: "I will"
= `I am now going to, `I proceed at once to. 1885 Mrs. Alexander At Bay, Very
well; I will wish you good-evening. b In 1st pers. pl., expressing a proposal:
we will (†wule we) = `let us. 1798 Coleridge Nightingale 4 Come, we will rest
on this old mossy bridge!, c figurative, as in It will rain, (in 3rd pers.) of
a thing: Is ready to, is on the point of --ing. 1225 Ancr. R. A treou þet wule
uallen, me underset hit mid on oðer treou. 14 In 2nd and 3rd pers., as
auxiliary expressing mere futurity, forming (with pres. inf.) the future, and
(with pf. inf.) the future pf. tense: corresponding to "shall" in the
1st pers. (see note s.v. shall v. B. 8). 1847 Tennyson Princess iii. 12 Rest,
rest, on mothers breast, Father will come to thee soon. b As auxiliary of
future substituted for the imper. in mild injunctions or requests. 1876 Ruskin
St. Marks Rest. That they should use their own balances, weights, and measures;
(not by any means false ones, you will please to observe). 15 As auxiliary of
future expressing a contingent event, or a result to be expected, in a supposed
case or under particular conditions (with the condition expressed by a
conditional, temporal, or imper. clause, or otherwise implied). 1861 M.
Pattison Ess. The lover of the
Elizabethan drama will readily recal many such allusions; b with pers.sSubjects
(usually 1st pers. sing.), expressing a voluntary act or choice in a supposed
case, or a conditional promise or undertaking: esp. in asseverations, e.g. I
will die sooner than, I’ll be hanged if, etc.). 1898 H. S. Merriman Rodens
Corner. But I will be hanged if I see what it all means, now; xpressing a
determinate or necessary consequence (without the notion of futurity). 1887
Fowler Deductive Logic, From what has been said it will be seen that I do not
agree with Mr. Mill. Mod. If, in a syllogism, the middle term be not
distributed in either premiss, there will be no conclusion; ith the notion of
futurity obscured or lost: = will prove or turn out to, will be found on
inquiry to; may be supposed to, presumably does. Hence (chiefly Sc. and north.
dial.) in estimates of amount, or in uncertain or approximate statements, the
future becoming equivalent to a present with qualification: e.g. it will be =
`I think it is or `it is about; what will that be? = `what do you think that
is? 1584 Hornby Priory in Craven Gloss. Where on 40 Acres there will be xiij.s.
iv.d. per acre yerely for rent. 1791 Grose Olio (1792) 106, I believe he will
be an Irishman. 1791 Grose Olio. C. How far is it to Dumfries? W. It will be
twenty miles. 1812 Brackenridge Views Louisiana, The agriculture of this
territory will be very similar to that of Kentucky. 1876 Whitby Gloss. sThis
word we have only once heard, and that will be twenty years ago. 16 Used where
"shall" is now the normal auxiliary, chiefly in expressing mere
futurity: since 17th c. almost exclusively in Scottish, Irish, provincial, or
extra-British use (see shall. 1602 Shaks. Ham. I will win for him if I can: if
not, Ile gaine nothing but my shame, and the odde hits. 1825 Scott in Lockhart
Ballantyne-humbug. I expect we will have some good singing. 1875 E. H. Dering
Sherborne. `Will I start, sir? asked the Irish groom. Usage No. 3 Elliptical
and quasi-elliptical uses; n absol. use, or with ellipsis of obj. clause as in
2: in meaning corresponding to senses 5-7.if you will is sometimes used
parenthetically to qualify a word or phrase: = `if you wish it to be so called,
`if you choose or prefer to call it so. 1696 Whiston The. Earth. Gravity
depends entirely on the constant and efficacious, and, if you will, the
supernatural and miraculous Influence of Almighty God. 1876 Ruskin St. Marks
Rest. Very savage! monstrous! if you will. b In parenthetic phr. if God will
(†also will God, rarely God will), God willing: if it be the will of God,
`D.V.In OE. Gode willi&asg.ende (will v.2) = L. Deo volente. 1716
Strype in Thoresbys Lett. Next week, God willing, I take my journey to my
Rectory in Sussex; fig. Demands, requires (absol. or ellipt. use of 3 c). 1511
Reg. Privy Seal Scot. That na seculare personis have intrometting with thaim
uther wais than law will; I will well: I assent, `I should think so indeed.
(Cf. F. je veux bien.) Usage No. 18: with ellipsis of a vb. of motion. 1885
Bridges Eros and Psyche Aug. I will to thee oer the stream afloat. Usage No.
19: with ellipsis of active inf. to be supplied from the context. 1836 Dickens
Sk. Boz, Steam Excurs., `Will you go on deck? `No, I will not. This was said
with a most determined air. 1853 Dickens Bleak Ho. lii, I cant believe it. Its
not that I dont or I wont. I cant! 1885 Mrs. Alexander Valeries Fate vi, `Do
you know that all the people in the house will think it very shocking of me to
walk with you?.. `The deuce they will!; With generalized ellipsis, esp. in
proverbial saying (now usually as in quot. 1562, with will for would). 1639 J.
Clarke Paroem. 237 He that may and will not, when he would he shall not. c With
so or that substituted for the omitted inf. phr.: now usually placed at the
beginning of the sentence. 1596 Shaks. Tam. Shr. Hor. I promist we would beare
his charge of wooing Gremio. And so we wil. d Idiomatically used in a
qualifying phr. with relative, equivalent to a phr. with indef. relative in
-ever; often with a thing as subj., becoming a mere synonym of may: e.g. shout
as loud as you will = `however loud you (choose to) shout; come what will =
`whatever may come; be that as it will = `however that may be. 1732 Pope Mor.
Ess. The ruling Passion, be it what it will, The ruling Passion conquers Reason
still. 20 With ellipsis of pass. inf. A. 1774 Goldsm. Surv. Exp. Philos. The
airs force is compounded of its swiftness and density, and as these are
encreased, so will the force of the wind; in const. where the ellipsis may be
either of an obj. clause or of an inf. a In a disjunctive qualifying clause or
phr. usually parenthetic, as whether he will or no, will he or not, (with pron.
omitted) will or no, (with or omitted) will he will he not, will he nill he
(see VI. below and willy-nilly), etc.In quot. 1592 vaguely = `one way or
another, `in any case. For the distinction between should and would, v. note
s.v. shall; in a noun-clause expressing the object of desire, advice, or
request, usually with a person as subj., implying voluntary action as the
desired end: thus distinguished from should, which may be used when the persons
will is not in view. Also (almost always after wish) with a thing as Subjects,
in which case should can never be substituted because it would suggest the idea
of command or compulsion instead of mere desire. Cf. shall; will; willest;
willeth; wills; willed (wIld); also: willian, willi, wyll, wille, wil, will,
willode, will, wyllede, wylled, willyd, ied, -it, -id, willed; wijld, wilde,
wild, willid, -yd, wylled,willet, willed; willd(e, wild., OE. willian wk. vb. =
German “willen.” f. will sb.1, 1 trans. to wish, desire; sometimes with
implication of intention: = will. 1400 Lat. and Eng. Prov. He þt a lytul me
3euyth to me wyllyth optat longe lyffe. 1548 Udall, etc. Erasm. Par. Matt. v.
21-24 Who so euer hath gotten to hymselfe the charitie of the gospell, whyche
wylleth wel to them that wylleth yll. 1581 A. Hall Iliad, By Mineruas helpe,
who willes you all the ill she may. A. 1875 Tennyson Q. Mary i. iv, A great
party in the state Wills me to wed her; To assert, affirm: = will v.1 B. 4.
1614 Selden Titles Hon. None of this excludes Vnction before, but only wils him
the first annointed by the Pope. 2 a to direct by ones will or testament (that
something be done, or something to be done); to dispose of by will; to bequeath
or devise; to determine by the will; to attempt to cause, aim at effecting by
exercise of will; to set the mind with conscious intention to the performance
or occurrence of something; to choose or decide to do something, or that something
shall be done or happen. Const. with simple obj., acc. and inf., simple inf.
(now always with to), or obj. clause; also absol. or intr. (with as or so).
Nearly coinciding in meaning with will v.1 7, but with more explicit reference
to the mental process of volition. 1630 Prynne Anti-Armin. 119 He had onely a
power, not to fall into sinne vnlesse he willed it. 1667 Milton P.L. So
absolute she seems..that what she wills to do or say, Seems wisest. 1710 J.
Clarke tr. Rohaults Nat. Philos. If I will to move my Arm, it is presently
moved. 1712 Berkeley Pass. Obed. He that willeth the end, doth will the
necessary means conducive to that end. 1837 Carlyle Fr. Rev. All shall be as
God wills. 1880 Meredith Tragic Com. So great, heroical, giant-like, that what he
wills must be. 1896 Housman Shropsh. Lad xxx, Others, I am not the first, Have
willed more mischief than they durst; intr. to exercise the will; to perform
the mental act of volition. 1594 Hooker Eccl. Pol. To will, is to bend our
soules to the hauing or doing of that which they see to be good. 1830
Mackintosh Eth. Philos. Wks.. But what could induce such a being to will or to
act? 1867 A. P. Forbes Explan. Is this infinitely powerful and intelligent
Being free? wills He? loves He? c trans. To bring or get (into, out of, etc.)
by exercise of will. 1850 L. Hunt Table-t. (1882) 184 Victims of opium have
been known to be unable to will themselves out of the chair in which they were
sitting. d To control (another person), or induce (another) to do something, by
the mere exercise of ones will, as in hypnotism. 1882 Proc. Soc. Psych.
Research I. The one to be `willed would go to the other end of the house, if
desired, whilst we agreed upon the thing to be done. 1886 19th Cent. They are
what is called `willed to do certain things desired by the ladies or gentlemen
who have hold of them. 1897 A. Lang Dreams & Ghosts iii. 59 A young
lady, who believed that she could play the `willing game successfully without
touching the person `willed; to express or communicate ones will or wish with
regard to something, with various shades of meaning, cf. will, v.1 3.,
specifically: a to enjoin, order; to decree, ordain, a) with personal obj.,
usually with inf. or clause. 1481 Cov. Leet Bk. 496 We desire and also will you
that vnto oure seid seruaunt ye yeue your aid. 1547 Edw. VI in Rymer Foedera,
We Wyll and Commaunde yowe to Procede in the seid Matters. 1568 Grafton Chron.,
Their sute was smally regarded, and shortly after they were willed to silence.
1588 Lambarde Eiren. If a man do lie in awaite to rob me, and (drawing his
sword upon me) he willeth me to deliver my money. 1591 Shaks. 1 Hen. VI We doe
no otherwise then wee are willd. 1596 Nashe Saffron Walden P 4, Vp he was had
and.willed to deliuer vp his weapon. 1656 Hales Gold. Rem. The King in the
Gospel, that made a Feast, and..willed his servants to go out to the high-ways
side. 1799 Nelson in Nicolas Disp., Willing and requiring all Officers and men
to obey you; 1565 Cooper Thesaurus s.v. Classicum, By sounde of trumpet to will
scilence. 1612 Bacon Ess., Of Empire. It is common with Princes (saith Tacitus)
to will contradictories. 1697 Dryden Æneis i. 112 Tis yours, O Queen! to will
The Work, which Duty binds me to fulfil. 1877 Tennyson Harold vi. i, Get thou
into thy cloister as the king Willd it.; to pray, request, entreat; = desire v.
6. 1454 Paston Lett. Suppl. As for the questyon that ye wylled me to aske my
lord, I fond hym yet at no good leyser. 1564 Haward tr. Eutropius. The Romaines
sent ambassadoures to him, to wyll him to cease from battayle. 1581 A. Hall
Iliad, His errand done, as he was willde, he toke his flight from thence. 1631
[Mabbe] Celestina. Did I not will you I should not be wakened? 1690 Dryden
Amphitryon i. i, He has sent me to will and require you to make a swinging long
Night for him; fig. of a thing, to require, demand; also, to induce, persuade a
person to do something. 1445 in Anglia. Constaunce willeth also that thou doo
noughte with weyke corage. Cable and Baugh note that one important s. of prescriptions
that now form part of all our grammars -- that governing the use of will and
shall -- has its origin in this period. Previous to 1622 no grammar recognized
any distinction between will and shall. In 1653 Wallis in his Grammatica
Linguae Anglicanae states in Latin and for the benefit of Europeans that
Subjectsive intention is expressed by will in the first person, by shall in the
second and third, while simple factual indicative predictable futurity is
expressed by shall in the first person, by will in the second and third. It is
not until the second half of the eighteenth century that the use in questions
and subordinate clauses is explicitly defined. In 1755 Johnson, in his
Dictionary, states the rule for questions, and in 1765 William Ward, in his
Grammar, draws up for the first time the full set of prescriptions that
underlies, with individual variations, the rules found in later tracts. Wards
pronouncements are not followed generally by other grammarians until Lindley
Murray gives them greater currency in 1795. Since about 1825 they have often
been repeated in grammars, v. Fries, The periphrastic future with will and
shall. Will qua modal auxiliary never had an s. The absence of conjugation is a
very old common Germanic phenomenon. OE 3rd person present indicative of willan
(and of the preterite-present verbs) is not distinct from the 1st person
present indicative. That dates back at least to CGmc, or further if one looks
just as the forms and ignore tense and/or mood). Re: Prichard: "Prichard wills
that he go to London. This is Prichards example, admired by Grice ("but I
expect not pleasing to Maucaulays ears"). The -s is introduced to indicate
a difference between the modal and main verb use (as in Prichard and Grice) of
will. In fact, will, qua modal, has never been used with a to-infinitive. OE
uses present-tense forms to refer to future events as well as willan and
sculan. willan would give a volitional nuance; sculan, an obligational nuance.
Its difficult to find an example of weorthan used to express the future, but
that doesnt mean it didnt happen. In insensitive utterers, will has very little
of volition about it, unless one follows Walliss observation for for I
will vs. I shall. Most probably use ll, or be going to for the future.
fuzzy implicaturum. Grice loved ‘fuzzy,’ “if only because it’s one of the few
non-Graeco-Roman philosophical terms!” -- fuzzy set, a set in which membership is a
matter of degree. In classical set theory, for every set S and thing x, either
x is a member of S or x is not. In fuzzy set theory, things x can be members of
sets S to any degree between 0 and 1, inclusive. Degree 1 corresponds to ‘is a
member of’ and 0 corresponds to ‘is not’; the intermediate degrees are degrees
of vagueness or uncertainty. Example: Let S be the set of men who are bald at
age forty. L. A. Zadeh developed a logic of fuzzy sets as the basis for a logic
of vague predicates. A fuzzy set can be represented mathematically as a
function from a given universe into the interval [0, 1]. Zadeh tried to interpret Grice alla fuzzy in
“Pragmatics”
G
G: SUBJECT
INDEX
G: NAME INDEX: ITALIANO
GALILEO
G: NAME INDEX: ITALIANO
GALILEO
GALLUPPI
GENTILE
GENOVESI
GIUDICE
GRAMSCI
GREGORIO
G:
NAME INDEX: ENGLISHMEN (Oxonian tutors)
GARDINER
GRICE
galen: philosopher, he traveled
extensively in the Greco-Roman world before settling in Rome and becoming court
physician to Marcus Aurelius. His philosophical interests lay mainly in the
philosophy of science On the Therapeutic Method and nature On the Function of
Parts, and in logic Introduction to Logic, in which he develops a crude but
pioneering treatment of the logic of relations. Galen espoused an extreme form
of directed teleology in natural explanation, and sought to develop a
syncretist picture of cause and explanation drawing on Plato, Aristotle, the
Stoics, and preceding medical writers, notably Hippocrates, whose views he
attempted to harmonize with those of Plato On the Doctrines of Hippocrates and
Plato. He wrote on philosophical psychology On the Passions and Errors of the
Soul; his materialist account of mind Mental Characteristics Are Caused by
Bodily Conditions is notable for its caution in approaching issues such as the
actual nature of the substance of the soul and the age and structure of the
universe that he regarded as undecidable. In physiology, he adopted a version
of the four-humor theory, that health consists in an appropriate balance of
four basic bodily constituents blood, black bile, yellow bile, and phlegm, and
disease in a corresponding imbalance a view owed ultimately to Hippocrates. He
sided with the rationalist physicians against the empiricists, holding that it
was possible to elaborate and to support theories concerning the fundamentals
of the human body; but he stressed the importance of observation and
experiment, in particular in anatomy he discovered the function of the
recurrent laryngeal nerve by dissection and ligation. Via the Arabic tradition,
Galen became the most influential doctor of the ancient world; his influence
persisted, in spite of the discoveries of the seventeenth century, until the
end of the nineteenth century. He also wrote extensively on semantics, but
these texts are lost.
galileo
galilei:
Grice: “His father was, like mine, a musician.” -- philosopher. His Dialogue concerning
the Two Chief World Systems defends Copernicus by arguing against the major
tenets of the Aristotelian cosmology. On his view, one kind of motion replaces
the multiple distinct celestial and terrestrial motions of Aristotle;
mathematics is applicable to the real world; and explanation of natural events
appeals to efficient causes alone, not to hypothesized natural ends. Galileo
was called before the Inquisition, was made to recant his Copernican views, and
spent the last years of his life under house arrest. Discourse concerning Two
New Sciences 1638 created the modern science of mechanics: it proved the laws
of free fall, thus making it possible to study accelerated motions; asserted
the principle of the independence of forces; and proposed a theory of parabolic
ballistics. His work was developed by Huygens and Newton. Galileo’s scientific
and technological achievements were prodigious. He invented an air thermoscope,
a device for raising water, and a computer for calculating quantities in geometry
and ballistics. His discoveries in pure science included the isochronism of the
pendulum and the hydrostatic balance. His telescopic observations led to the
discovery of four of Jupiter’s satellites the Medicean Stars, the moon’s
mountains, sunspots, the moon’s libration, and the nature of the Milky Way. In
methodology Galileo accepted the ancient Grecian ideal of demonstrative
science, and employed the method of retroductive inference, whereby the
phenomena under investigation are attributed to remote causes. Much of his work
utilizes the hypothetico-deductive method. Refs: Luigi Speranza, “Galileo,
Grice e il saggiatore,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
galluppi: essential Italian philosopher. Pasquale
Galluppi (Tropea, 2 aprile 1770 – Napoli, 13 dicembre 1846) è stato un filosofo
italiano. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna Lucrezia Galluppi,
entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie
della città calabrese di Tropea. Dopo lo studio della lingua latina,
secondo il metodo di quel tempo in Tropea, nell'età di tredici anni apprese gli
elementi della filosofia e della matematica alla scuola di don Giuseppe Antonio
Ruffa. Trasferitosi in seguito con la famiglia in Sicilia, a Santa Lucia del
Mela, compì il corso elementare di filosofia e di matematica presso il
Seminario vescovile della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio
della teologia a Napoli, seguendo le lezioni di Francesco Conforti. Nel
1794 sposò Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei
femmine. Trascorreva le giornate di libertà nella residenza privata di
famiglia, cioè il castello, ora diventato un Complesso Monumentale di proprietà
del Comune di Drapia e sede di una biblioteca, un museo, un centro congressi e
un giardino storico in fase di restauro, sito sulla Strada Provinciale in
Carìa, frazione del comune di Drapia (VV). Nel 1807 pubblicò a Napoli
Sull'analisi e la sintesi; durante i moti del 1820 aderì alla causa liberale
sostenendo la riforma costituzionale dello Stato e protestando quindi contro
l'intervento repressivo degli Austriaci. Nel 1830 si riavvicinò alla monarchia
borbonica. Dal 1831 fu titolare della cattedra di logica e di metafisica
nell'Università di Napoli. Fu membro dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia
Pontaniana di Napoli, dell'Accademia degli Affatigati di Tropea, di quella del
Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone. Il suo merito
maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia lo studio e la conoscenza della
filosofia europea, soprattutto quella kantiana: le Lettere filosofiche furono
definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia moderna.
A Pasquale Galluppi sono dedicati il Convitto nazionale, il Liceo Classico di
Catanzaro e il Liceo Classico di Tropea. A Tropea, città natale di
Pasquale Galluppi è attivo il Centro studi Galluppiani, associazione culturale
dedita alla ripubblicazione dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha
decretato l'ampliamento dei fini statutari, fino ad accogliere e curare altre
interessanti iniziative di un certo spessore culturale. Periodicamente,
il Centro organizza il Congresso degli Studi Galluppiani, importante
appuntamento di respiro nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti
da tutta Italia. L'attuale presidente è Luciano Meligrana. Altre
personalità di notevole importanza nella storia del Centro studi Galluppiani
sono stati Don Francesco Pugliese e Giuseppe Lo Cane, filosofo,
appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi. Una vera dedizione, la
sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore
infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere in
particolar modo ai giovani il pensiero del Galluppi, favorendo la pubblicazione
dell'opera inedita "La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo
ha visto anche quale curatore. Su Galluppi ha pubblicato numerosi saggi ed
articoli in quotidiani e riviste specializzate. Onorificenze Legion
Honneur Chevalier ribbon.svg Cavaliere del Real Ordine della Legion d'Onore
(insignito da Luigi Filippo Re dei Francesi) Cavaliere del Reale Ordine
di Francesco I (insignito da Ferdinando II Re delle Due Sicilie)
Bibliografia Opere Memoria apologetica, Napoli, pei torchi di Vincenzo
Mozzola-Vocola, 1795. Sull'analisi e la sintesi, Napoli, presso Giuseppe
Verriento, 1807. Ed. moderne a cura di E. Di Carlo, Firenze, Olschki, 1935; a
cura di A. Guzzo, Milano Marzorati, 1970. Saggio filosofico sulla critica della
conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più
importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia
trascendentale, 6 voll., Napoli, pei torchi di Domenico Sangiacomo, 1819 (voll.
I, II), Messina, presso Giuseppe Pappalardo, 1822 (vol. III), 1827 (vol. IV),
1829 (vol. V), 1832 (vol. VI). Elementi di filosofia, 6 tomi in 3 voll.,
Messina, Pappalardo, tt. I e II, 1820, tt. III-V, 1826, t. VI, 1827; t. I,
Messina, Pappalardo, 1830; tt. II-V, Napoli, 1832; 3 voll., Milano, Silvestri,
1832; 6 voll., Napoli, 1834-37. Lettere filosofiche sulle vicende della
filosofia, relativamente a' principii della conoscenza umana da Cartesio insino
a Kant inclusivamente, Messina, Pappalardo, 1827. Lezioni di logica e di
metafisica, 3 voll., Napoli, 1832-34; 5 voll.: Napoli, Tramater, 1837-41 (voll.
I-IV), Napoli, Barone, 1842 (vol. V); Milano, 1840; 2 voll., Firenze, tip.
della Speranza, 1841; 4 voll., Milano, Borroni e Scotti, 1845-46. Filosofia
della volontà, 4 voll., Napoli, Giachetti, 1832-34 (voll. I-II), Tramater,
1839-40 (voll. III-IV); Napoli, Tramater, 1838-42; 3 voll., Milano, Silvestri,
1846. Storia della filosofia, Napoli, 1842; Opera compresa in nove capitoli a
cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico Pessina autore del Quadro
storico dei sistemi filosofici, Milano, Dalla tipografia di Gio. Silvestri,
1847, pp. XL-431. Autobiografia [15 agosto 1822], in F. Pietropaolo, Scritti
inediti di Pasquale Galluppi, in "Rivista di filosofia scientifica",
1887, vol. VI, pp. 260–265; estratto, Milano, Dumolard, 1887, pp. 6–8; in C.
Toraldo Tranfo, Saggio sulla filosofia del Galluppi e le sue relazioni col
Kantismo, Napoli, Morano, 1902, pp. 29–32; in P. Galluppi, Lettere filosofiche,
a cura di G. Bonafede, Palermo, E.S.A., 1974, pp. 389–391. Antonio Di Chicco,
"Pasquale Galluppi", Edizioni Giuseppe Laterza, Bari luglio
2003. Epistolario Lettere private. Inedite e rare, a cura di Franco
Ottonello, Milano, Franco Angeli, 2006 ("Filosofia e scienza nell'età
moderna" Collana a cura della Sezione di Milano dell'Istituto per la storia
del pensiero filosofico e scientifico moderno). Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pasquale
Galluppi Collegamenti esterni Mario Di Napoli, GALLUPPI, Pasquale, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 51, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1998. URL consultato il 1º novembre 2018. Simona Venezia, GALLUPPI,
Pasquale, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. URL consultato il 1º novembre 2018.
Pro Loco Tropea - Personaggi illustri di Tropea. Pasquale Galluppi filosofo,
sito web a cura di Giuseppe Tortora, Università degli Studi di Napoli (ultimo
aggiornamento: 28 maggio 2000). Google Books: opere di Galluppi in versione
digitale integrale. Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, su
books.google.it. Elementi di filosofia, su books.google.it. Lettere filosofiche
sulle vicende della filosofia, su books.google.it. Lezioni di logica e di
metafisica, su books.google.it. Filosofia della volontà, su books.google.it.
Controllo di autorità VIAF (EN) 71453163 · ISNI (EN) 0000 0000 8077 7434 · SBN
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Identities (EN) lccn-n85082982 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale
Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XIX secoloNati nel 1770Morti nel
1846Nati il 2 aprileMorti il 13 dicembreNati a TropeaMorti a NapoliProfessori
dell'Università degli Studi di Napoli Federico II[altre]. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per Il Club Anglo-Italiano,The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
gambler’s
fallacy:
also called Monte Carlo fallacy, the fallacy of supposing, of a sequence of
independent events, that the probabilities of later outcomes must increase or
decrease to “compensate” for earlier outcomes. For example, since by
Bernoulli’s theorem in a long run of tosses of a fair coin it is very probable
that the coin will come up heads roughly half the time, one might think that a
coin that has not come up heads recently must be “due” to come up heads must have a probability greater than one-half
of doing so. But this is a misunderstanding of the law of large numbers, which
requires no such compensating tendencies of the coin. The probability of heads
remains one-half for each toss despite the preponderance, so far, of tails. In
the sufficiently long run what “compensates” for the presence of improbably
long subsequences in which, say, tails strongly predominate, is simply that
such subsequences occur rarely and therefore have only a slight effect on the
statistical character of the whole.
garin,
Italian philosopher, author of a very rich, “La cultura filosofica del
rinascimento italiano.” And “L’umanesimo italiano” – Grice was Lit. Hum. Oxon,
so he knew. Eugenio Garin (Rieti, 9 maggio 1909 –
Firenze, 29 dicembre 2004) è stato un filosofo, storico della filosofia
italiano. Allievo del filosofo Ludovico Limentani, è considerato uno dei
più autorevoli storici della filosofia e della cultura dell'Umanesimo e del
Rinascimento vissuti nel Novecento, tanto da essere stato paragonato a Jacob
Burckhardt da Delio Cantimori[1]. Dopo aver studiato presso il Liceo
classico statale Galileo, Garin inizia giovanissimo l'Università e si laurea a
soli 21 anni sotto la guida di Limentani. In questi anni pubblica vari studi
sull'Illuminismo inglese che confluiranno nel volume del 1942 sui moralisti
inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei
licei, cosa che continuò a fare fino al 1949, quando vinse la cattedra da
ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale c'era Augusto
Guzzo, una figura che costituirà un punto di riferimento per Garin quanto meno
fino ai primi anni del dopoguerra. In questi anni i suoi riferimenti culturali
non erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi
di matrice spiritualista e cattolica come Louis Lavelle e René Le Senne o, in
Italia, Enrico Castelli Gattinara di Zubiena, Michele Federico Sciacca e lo
stesso Guzzo. Nel 1944 Garin, iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1931,
pronunciò al Lyceum di Firenze una commemorazione per la morte del presidente
dell'Accademia d'Italia Giovanni Gentile, assassinato dai GAP [2]. Una
svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose non
vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci,
che hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla
concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia
italiana. Questo volume, fortemente sollecitato da Vito Laterza, vinse il
premio Viareggio per la saggistica[3] e fu favorevolmente accolto da vari
recensori. Tra questi spicca Roderigo di Castiglia, alias Palmiro Togliatti,
che lo recensì molto favorevolmente su Rinascita. Dopo l'intervento di
Togliatti, Garin assurse al ruolo di intellettuale civile e principale
interlocutore culturale del Partito Comunista. Questo ruolo fu sancito nel
gennaio del 1958 quando Garin aprì il convegno per i venti anni dalla morte di
Gramsci, convegno a cui partecipò lo stesso Togliatti. Storico della
filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiutava la
definizione di filosofo; è tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle
sue polemiche antispeculative e come influente teorico della storiografia
filosofica. Per molti anni è stato affermato docente nell'Università degli
Studi di Firenze, insieme a note figure intellettuali come Delio Cantimori e
Cesare Luporini. In seguito si trasferì a Pisa a causa dei perduranti disordini
della rivolta studentesca iniziata nel '68, di cui non condivideva le modalità
di lotta e che considerava espressione di astratto rivoluzionarismo.
Personalità estremamente stimolante, si è dedicato con passione alla formazione
dei suoi numerosi allievi; sotto la sua guida si sono formati egregi studiosi,
tra i quali si ricordano Giancarlo Garfagnini, ordinario di Filosofia Medievale
nell'ateneo fiorentino, Cesare Vasoli, Michele Ciliberto, ordinario alla
Normale di Pisa, Sergio Moravia, Paolo Rossi, Maurizio Torrini, Saverio Ricci,
Loris Sturlese, ordinario di Filosofia Medievale a Lecce. È stato per decenni
il principale consulente della casa editrice Laterza, sia per la filosofia
antica sia per la filosofia moderna, collaborando attivamente alle due collane
di classici della filosofia fondate da Benedetto Croce, e affidando ai tipi
della Laterza numerose sue opere fondamentali. I suoi interessi furono
essenzialmente rivolti al pensiero dell'umanesimo, del Rinascimento e alla
storia della cultura. La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo
rese consigliere prezioso anche per le giovani o giovanissime leve di
pensatori, italiani e non. La Casa editrice Laterza gli ha reso omaggio
commissionando e pubblicando un volume comprendente la bibliografia completa
delle sue opere. Nel 1970 l'Accademia dei Lincei gli ha conferito il
Premio Feltrinelli per le Scienze Filosofiche.[4] Opere principali
Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, 1937 Gli illuministi inglesi. I
Moralisti, 1942 Il Rinascimento italiano, 1941 L'Umanesimo italiano, 1952
Medioevo e Rinascimento, 1954 Cronache di filosofia italiana, 1955 L'educazione
in Europa 1400-1600, 1957 La filosofia come sapere storico, 1959 La cultura
filosofica del Rinascimento italiano, 1960 La cultura italiana tra Ottocento e
Novecento, 1962 Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, 1965 Storia
della filosofia italiana, 1966 (tre volumi) Dal Rinascimento all'Illuminismo,
1970 Intellettuali italiani del XX secolo, 1974 Rinascite e rivoluzioni, 1975
Lo zodiaco della vita, 1976 Tra due secoli, 1983 Vita e opere di Cartesio, 1984
Ermetismo del Rinascimento, 1988 Gli editori italiani tra Ottocento e
Novecento, 1991 La cultura del Rinascimento, 2000. Dopo il decesso,
avvenuto alla fine del 2004[5], per suo lascito testamentario le sue carte e la
sua biblioteca sono state depositate presso la Scuola Normale Superiore di
Pisa.[6] Note ^ «ciò non toglie che l'importanza della interpretazione
del Rinascimento che Garin ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue
edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo
(filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole,
confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori,
Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 312. ^ la Repubblica, 11 aprile 2014;
Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi,
Milano 2014 ^ Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su
premioletterarioviareggiorepaci.it. URL consultato il 9 agosto 2019. ^ Premi
Feltrinelli 1950-2011, su lincei.it. URL consultato il 17 novembre 2019. ^
Eugenio Garin, The Times (London, England), Friday, March 04, 2005; pg. 76;
Issue 68326. ^ Scuola normale di Pisa. Fondi di personalità. Fondo Eugenio
Garin, su centroarchivistico.sns.it. Bibliografia Felicita Audisio e Alessandro
Savorelli (a cura di), Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro,
Firenze, Le Lettere, 2003. Marino Biondi, Dopo il diluvio. Eugenio Garin,
l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino,
Arezzo, Helicon, 2015, pp. 375–410. Olivia Catanorchi e Valentina Lepri (a cura
di), Eugenio Garin dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze,
6 - 8 marzo 2009), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011. Michele
Ciliberto, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, Roma - Bari, Laterza,
2011. Raffaele Liucci,Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani
Magazine", 17 febbraio 2015 Luciano Mecacci, Contributo alla bibliografia
degli scritti su Eugenio Garin, in: «Il Protagora», XXXVIII, luglio-dicembre
2011, sesta serie, n. 16, pp. 519–526. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina
e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano 2014 (pp. 269–295, 437-450: Le
commemorazioni di Eugenio Garin). Michele Maggi, "Il Gramsci di Eugenio
Garin", in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia
della realtà, Napoli, Bibliopolis, 2011. Stefania Zanardi, Umanesimo e
umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di Eugenio Garin, Milano,
FrancoAngeli, 2019. Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
citazioni di o su Eugenio Garin Collegamenti esterni Eugenio Garin, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Eugenio Garin / Eugenio Garin (altra versione), in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Eugenio Garin, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Eugenio Garin, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Eugenio
Garin, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Eugenio Garin -
Biblioteche dei Filosofi (SNS), su picus.unica.it. V · D · M Vincitori del
Premio Viareggio per la saggistica V · D · M Vincitori del Premio Feltrinelli
Controllo di autorità VIAF (EN) 24425 · ISNI (EN) 0000 0001 2117 1974 · SBN
IT\ICCU\CFIV\008177 · LCCN (EN) n79142651 · GND (DE) 119252457 · BNF (FR)
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lccn-n79142651 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia
Categorie: Filosofi italiani del XX secoloStorici italiani del XX secoloNati
nel 1909Morti nel 2004Nati il 9 maggioMorti il 29 dicembreNati a RietiMorti a
FirenzeVincitori del Premio FeltrinelliVincitori del Premio Viareggio per la
saggisticaBibliofiliProfessori della Scuola Normale SuperioreAccademici dei
Lincei[altre]
gay: j. philosopher Grice read quite a
lot, who tried to reconcile divine command theory and utilitarianism. The son
of a minister, Gay was elected a fellow of Sidney Sussex , Cambridge, where he
taught Grecian philosophy. His essay, “Dissertation Concerning the Fundamental
Principle of Virtue or Morality” argues that obligation is founded on the will
of God, which, because people are destined to be happy, directs us to act to
promote the general happiness. Gay offers an associationist psychology
according to which we pursue objects that have come to be associated with
happiness e.g. money, regardless of whether they now make us happy, and argues,
contra Hutcheson, that our moral sense is conditioned rather than natural.
Gay’s blend of utilitarianism with associationist psychology gave David Hartley
the basis for his moral psychology, which later influenced Bentham in his
formulation of classical utilitarianism.
gedanke experiment – Grice: “Oddly, Turing’s Gedanke
experiment’ is about the meaning of ‘gedanke’!” -- used by Grice, first, in his
“Some remarks about the senses.” His Gedanke experiment involves a Martian who
comes and conquers the earth. He has four eyes in his face, with two of them he
x-s, with the other tow he y-s. Tthought experiment, a technique for testing a
hypothesis by imagining a situation and what would be said about it or more
rarely, happen in it. This technique is often used by philosophers to argue for
or against a hypothesis about the meaning or applicability of a concept. For
example, Locke imagined a switch of minds between a prince and a cobbler as a
way to argue that personal identity is based on continuity of memory, not
continuity of the body. To argue for the relativity of simultaneity, Einstein
imagined two observers one on a train,
the other beside it who observed
lightning bolts. And according to some scholars, Galileo only imagined the
experiment of tying two five-pound weights together with a fine string in order
to argue that heavier bodies do not fall faster. Thought experiments of this
last type are rare because they can be used only when one is thoroughly
familiar with the outcome of the imagined situation. J.A.K. Thrasymachus fl. 427
B.C., Grecian Sophist from Bithynia who is known mainly as a character in Book
I of Plato’s Republic. He traveled and taught extensively throughout the
Grecian world, and was well known in Athens as a teacher and as the author of
treatises on rhetoric. Innovative in his style, he was credited with inventing
the “middle style” of rhetoric. The only surviving fragment of a speech by
Thrasymachus was written for delivery by an Athenian citizen in the assembly,
at a time when Athens was not faring well in the Peloponnesian War; it shows
him concerned with the efficiency of government, pleading with the Athenians to
recognize their common interests and give up their factionalism. Our only other
source for his views on political matters is Plato’s Republic, which most
scholars accept as presenting at least a half-truth about Thrasymachus. There,
Thrasymachus is represented as a foil to Socrates, claiming that justice is
only what benefits the stronger, i.e., the rulers. From the point of view of
those who are ruled, then, justice always serves the interest of someone else,
and rulers who seek their own advantage are unjust. Refs.: H. P. Grice, “Some
remarks about the senses,” in WoW – Coady, “The senses of the Martians.”
gentile: g. idealist
philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics
as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual
idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject
can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and
evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is
distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria
generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del
conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent
difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental
subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it
influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet
and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The
Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Giovanni
Gentile (Castelvetrano, 29 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944) è stato un
filosofo, pedagogista, politico e accademico italiano. Fu insieme a
Benedetto Croce uno dei maggiori esponenti del neoidealismo filosofico e
dell'idealismo italiano, nonché un importante protagonista della cultura
italiana nella prima metà del XX secolo, cofondatore dell'Istituto
dell'Enciclopedia Italiana e, da ministro, artefice, nel 1923, della riforma
della pubblica istruzione nota come Riforma Gentile.[1] La sua filosofia è
detta attualismo. Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In
seguito alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato
durante la seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei
GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia
incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di
carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi
pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura.
Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un vigoroso massaro
siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca.
[...]» (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie, 1984[2]) Gli studi e la
carriera accademica Ottavo di dieci figli, Gentile nasce nel 1875 a
Castelvetrano, nel trapanese, da Giovanni Gentile senior, farmacista, e Teresa
Curti, figlia di un notaio. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a
Trapani. Vince quindi il concorso per quattro posti di interno della Scuola
normale superiore di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia:
qui ha come maestri, tra gli altri, Alessandro D'Ancona, professore di
letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali,
Amedeo Crivellucci, professore di storia, e Donato Jaja, professore di
filosofia, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto sul suo pensiero
filosofico da adulto. Dopo la laurea nel 1897, con massimo dei voti e
ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di
perfezionamento a Firenze, Gentile ottiene una cattedra in filosofia presso il
convitto nazionale Mario Pagano di Campobasso. Nel 1900 si sposta al liceo
Vittorio Emanuele di Napoli. Nel 1901 sposa Erminia Nudi, conosciuta a
Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Francesca (1902), Federico (1904), i
gemelli Gaetano e Giovanni junior (1906), Giuseppe (1908) e Tonino
(1910). Nel 1902 ottiene la libera docenza in filosofia teoretica e
l'anno successivo quella in pedagogia. Ottiene poi la cattedra universitaria
all'Università degli Studi di Palermo (1906-1914, storia della filosofia), dove
frequenta il circolo "Giuseppe Amato Pojero" e fonda nel 1907 con
Giuseppe Lombardo Radice la rivista Nuovi Doveri. Nel 1914 all'università di
Pisa (fino al 1919, filosofia teoretica) ed infine alla Sapienza di Roma (già
dal 1917 professore ordinario di Storia della filosofia, e nel 1926 professore
ordinario di Filosofia teoretica). Giovanni Gentile nel 1910 È
stato professore ordinario di Storia della filosofia all'Università di Palermo
(27 marzo 1910), professore ordinario di Filosofia teoretica all'Università di
Pisa (9 agosto 1914), professore ordinario di Storia della filosofia
all'Università di Roma (11 novembre 1917), professore ordinario di Filosofia
teoretica alla Università di Roma (1926), commissario della scuola normale
superiore di Pisa (1928-1932), direttore della Scuola Normale superiore di Pisa
(1932-1943) e vicepresidente dell'Università Bocconi di Milano
(1934-1944). Durante gli studi a Pisa incontra Benedetto Croce con cui
intratterrà un carteggio continuo dal 1896 al 1923: argomenti trattati dapprima
la storia e la letteratura, poi la filosofia. Uniti dall'idealismo (su cui
avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le
degenerazioni, a loro dire, dell'università italiana. Insieme fondano nel 1903
la rivista La Critica, per contribuire, in base alle loro idee, al rinnovamento
della cultura italiana: Croce si occupa di letteratura e di storia, Gentile,
invece, si dedica alla storia della filosofia. In quegli anni Gentile non ha
ancora sviluppato il proprio sistema filosofico. L'attualismo avrà
configurazione sistematica solo alle soglie della prima guerra mondiale. Sarà
inoltre dal 1915 che Gentile divenne membro del Consiglio superiore della
pubblica istruzione, fino al 1919. Il primo dopoguerra e l'adesione al
fascismo All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non
belligeranza, Gentile si schiera a favore della guerra come conclusione del
Risorgimento italiano. In quel tempo rivelò a sé stesso la passione politica
che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella
del professore che parla dalla cattedra, ma quella
dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico
attraverso i giornali quotidiani. Nell'immediato dopoguerra partecipa
attivamente al dibattito politico e culturale. Nel 1919 è, insieme a Luigi
Einaudi e Gioacchino Volpe, tra i firmatari del manifesto del Gruppo Nazionale
Liberale romano, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti
forma l'Alleanza Nazionale per le elezioni politiche, il cui programma politico
prevede la rivendicazione di uno «Stato forte», anche se provvisto di larghe
autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica,
i protezionismi, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a
tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno
interpretare i sentimenti più schietti e nobili».[3] Nel 1920 fonda il
Giornale critico della filosofia italiana. Sempre nel 1920 diviene consigliere
comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche
assessore supplente alla X Ripartizione, A.B.A., ovvero alle Antichità e alle
belle Arti, sempre del Municipio di Roma[4]. Nel 1922 diviene socio
dell'Accademia dei Lincei. Fino al 1922 Gentile non mostra particolare
interesse nei confronti del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in
merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore del liberalismo
risorgimentale nel quale si riconosceva: «Mi son dovuto persuadere che il
liberalismo, com'io l'intendo e come lo intendevano gli uomini della gloriosa
Destra che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella
legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica,
non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o meno
apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.» (Da una lettera del
31 maggio 1923 rivolta a Benito Mussolini, cit. in G. Gentile, La riforma della
scuola in Italia, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 94-95) Il 31 ottobre,
all'insediamento del regime viene nominato da Mussolini ministro della Pubblica
Istruzione (1922-1924, per dimissioni volontarie), attuando nel 1923 la riforma
Gentile, fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla
legge Casati di più di sessant'anni prima (1859). Il 5 novembre 1922 diviene
senatore del Regno[5]. Nel 1923 Gentile si iscrive al Partito Nazionale
Fascista (PNF) con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale.
Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato
a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello
Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento
giuridico dello Stato). Gentile resta fascista e nel 1925 pubblica il
Manifesto degli intellettuali fascisti, in cui vede il fascismo come un
possibile motore della rigenerazione morale e religiosa degli italiani e tenta
di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento
definitivo di Gentile da Benedetto Croce, che gli risponde con un
contromanifesto. Nel 1925 promuove la nascita dell'Istituto Nazionale di
Cultura Fascista, di cui è presidente fino al 1937. Per le numerose
cariche culturali e politiche, esercita durante tutto il ventennio fascista un
forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore amministrativo
e scolastico. È il direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana
dell'Istituto Treccani dal 1925 al 1938, e vicepresidente di tale istituto dal
1933 al 1938 dove accolse numerosi "collaboratori non fascisti" come
il socialista Rodolfo Mondolfo[6]. A Gentile si devono in gran parte il livello
culturale e l'ampiezza della visione dell'opera: invitò infatti «a collaborare
alla nuova impresa 3.266 studiosi, di diverso orientamento»[7], poiché
«nell'opera si doveva coinvolgere tutta la migliore cultura nazionale, compresi
molti studiosi ebrei o notoriamente antifascisti, che ebbero spesso da tale
lavoro il loro unico sostentamento».[7] Egli riesce in tal modo a mantenere una
sostanziale autonomia, nella redazione dell'enciclopedia, dalle interferenze
del regime fascista. Nel 1928 diventa regio commissario della Scuola
Normale Superiore di Pisa, e nel 1932 direttore. È coinvolto nell'istituzione
del Giuramento di fedeltà al fascismo del 1931 che causerà l'allontanamento di
alcuni illustri accademici dall'Università italiana. Nel 1930 diventa
vicepresidente dell'Università Bocconi. Nel 1932 diventa Socio Nazionale della
Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Lo stesso anno inaugura l'Istituto
Italiano di Studi Germanici, di cui diviene presidente nel 1934. Nel 1933
inaugura e diviene presidente dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo
Oriente. Nel 1934 inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fu direttore della
Nuova Antologia e accolse "collaboratori non fascisti" come il
socialista Rodolfo Mondolfo[6]. Nel 1937 diventa regio commissario, nel 1938
presidente del Centro nazionale di studi manzoniani e nel 1941 è presidente della
Domus Galilaeana a Pisa. Rapporti con la cultura cattolica Non mancano
comunque i dissensi col regime: in particolare il suo pensiero subisce un duro
colpo nel 1929, alla firma dei Patti Lateranensi tra Chiesa cattolica e Stato
Italiano: sebbene Gentile riconosca il cattolicesimo come forma storica della
spiritualità italiana, ritiene di non poter accettare uno Stato non laico.
Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante; è inoltre
contrario all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole medie e
superiori, mentre riteneva giusto - avendolo inserito nella sua riforma -
quello nelle scuole elementari, in quanto lo riteneva una preparazione alla
filosofia adatta ai bambini. Nel 1934 il Sant'Uffizio mette all'indice le opere
di Gentile e di Croce, a causa del loro riconoscimento, nel solco
dell'idealismo, del cristianesimo cattolico come mera "forma dello
spirito", ma considerato inferiore alla filosofia, come Gentile spiega nel
discorso del 1943 La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche
al papato storico, ispirate da Dante, Gioberti e Manzoni.[8] Degna di nota
anche la sua difesa di Giordano Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo
dall'Inquisizione nel 1600, al quale dedica un saggio[9], impegnandosi anche
presso Mussolini perché la statua del pensatore nolano - eretta in Campo de'
Fiori nel 1889 e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrari - non fosse
rimossa, come richiesto da alcuni cattolici.[10] Nel 1936 comincia una
lunga polemica contro il nuovo ministro dell'Educazione Nazionale Cesare Maria
De Vecchi, che Gentile accusa di «inquinare la cultura nazionale».[11]
Gentile, personalmente, non condivise le leggi razziali del 1938, come si
evince da un carteggio con Benvenuto Donati durato per tutto il periodo tra il
1920 ed il 1943. Già il 21 dicembre 1933, nel corso della giornata inaugurale
dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente prese posizione contro
le teorie razziste che si stavano propagando nella Germania nazista[12]:
«Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre
e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo
programma di fare dell'urbe, l'orbe. La prima e la seconda volta, la Roma
antica e la Roma cristiana: volgendosi con accogliente simpatia e pronta e
conciliatrice intelligenza a ogni nazione a ogni forma di vivere civile, niente
ritenendo alieno da sé che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse
riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile» (Giovanni Gentile nel discorso inaugurale dell'Istituto
italiano per il Medio ed Estremo Oriente il 21 dicembre 1933[12]) Benché sia
stato indicato da taluni[13] come uno dei firmatari del Manifesto della razza,
si tratta di una diceria, in quanto Gentile non lo firmò mai, come dimostrato
dallo studioso Paolo Simoncelli.[14][15] Soprattutto dopo la
promulgazione delle leggi razziali in Italia, si susseguirono gli interventi di
Gentile a favore di colleghi ebrei come Mondolfo[16], Gino Arias[17] e Arnaldo
Momigliano[18]. Il Discorso agli Italiani "Il discorso agli
Italiani" del 24 giugno 1943 Gli ultimi interventi politici sono
rappresentati da due conferenze nel 1943. Nella prima, tenuta il 9 febbraio a
Firenze, dal titolo La mia religione, in cui dichiarò di essere cristiano e
cattolico, sebbene credente nello Stato laico. Nella seconda, molto più
importante, tenuta il 24 giugno su proposta di Carlo Scorza[19], nuovo
segretario nazionale del PNF al Campidoglio a Roma, dal titolo Discorso agli
Italiani, esortò all'unità nazionale, in un momento difficile della guerra.
Dopo questi interventi si ritirò a Troghi[20] (Fi), dove scrive la sua ultima
opera, uscita postuma, Genesi e struttura della società, nella quale recupera
l'antico interesse per la filosofia politica[21], e nel quale teorizzò
"l'Umanesimo del lavoro". Gentile considerò questa sua ultima
opera il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che all'amico
antifascista Mario Manlio Rossi, mostrandogli il manoscritto, scherzando disse:
"I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono. Il mio lavoro nella
vita è concluso"[22]. La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 non
preoccupò particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al
governo[23]. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri
che precedentemente erano stati suoi collaboratori come Domenico Bartolini e
Leonardo Severi lo confortava[24]. In particolare la vecchia amicizia con il
ministro Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina
e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo
precedente[24]. Il 4 agosto Severi rispose a Gentile lanciandogli un duro
e inatteso attacco[25]. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però
di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come
consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta[26]. Gentile
replicò al ministro e rassegnò le dimissioni da direttore della Scuola Normale
di Pisa, Gentile respinse in un primo tempo la proposta di Carlo Alberto
Biggini che nel frattempo era divenuto ministro, di entrare al Governo, dopo un
incontro avvenuto il 17 novembre 1943 con Benito Mussolini sul lago di Garda si
convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Nel novembre 1943 divenne
presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare la
vecchia Accademia dei Lincei che fu assorbita dall'Accademia. Così Gentile alla
figlia Teresa raccontò l'evento: «Venne qui tempo fa un amico ministro a
cercarmi, ed io dissi francamente i motivi personali e politici per cui
desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicurò che io potevo benissimo
restare in disparte: ma dovevo fare una visita al mio vecchio amico che
desiderava vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili
alla mia persona. Negare questa visita non era possibile. Feci comodamente il
viaggio con Fortunato. Ebbi il giorno 17 un colloquio di quasi due ore, che fu
commoventissimo. Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui
comincio a vedere qualche benefico aspetto. Credo di aver fatto molto bene al
paese. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il colloquio fu a
quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me
da un Direttore generale. Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e
demolizione di tutta la mia vita.» (Giovanni Gentile in una lettera
indirizzata alla figlia Teresa[27]) Sostenne la chiamata alle armi e la
coscrizione militare[senza fonte] dei giovani nell'esercito della RSI,
auspicando il ripristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta
di Mussolini. Intanto il figlio Federico, capitano d'artiglieria del
Regio Esercito, dopo l'8 settembre era stato internato dai tedeschi in un campo
di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe: era l'unico
ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. Federico
Gentile aveva aderito alla RSI ma non aveva accettato l'arruolamento
nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da
civile.[28] Gentile, in un discorso del 19 marzo 1944, elogiò pubblicamente per
la prima volta Adolf Hitler, definendolo il "Condottiero della grande
Germania", e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse; pochi giorni
dopo il figlio venne trasferito in un campo meno duro e infine gli fu permesso
il ritorno.[29] Assassinio da parte dei GAP L'ingresso nella
Basilica di Santa Croce a Firenze della salma del filosofo Giovanni Gentile 18
aprile 1944 Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Uccisione di Giovanni Gentile. Il 30 marzo 1944, per il suo appoggio dichiarato
alla leva per la difesa della RSI, ricevette diverse missive contenenti minacce
di morte[30]. In una in particolare era riportato: "Tu come esponente del
neofascismo sei responsabile dell'assassinio dei cinque giovani al mattino del
22 marzo 1944". L'accusa era riferita alla fucilazione di cinque giovani
renitenti alla leva rastrellati dai militi della RSI il 14 marzo dello stesso anno
(fucilazione orchestrata dal maggiore Mario Carità, che detestava Gentile,
ricambiato; il filosofo aveva infatti minacciato di denunciare le eccessive
violenze del suo reparto allo stesso Mussolini).[31] Gentile non era
assolutamente collegato con tale evento. Il governo fascista repubblicano gli
offrì quindi una scorta armata[30] che però Gentile declinò: "Non sono
così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre
disponibile"[30]. Lapide nei pressi della tomba di Giovanni
Gentile, Basilica di Santa Croce Considerato in ambito resistenziale come uno
dei principali teorici e responsabili del regime fascista, "apologo della
repressione" e di "un regime ostaggio di un esercito occupante",
fu ucciso il 15 aprile 1944 sulla soglia della sua residenza di Firenze, la
Villa di Montalto al Salviatino, da un gruppo partigiano fiorentino aderente ai
GAP di ispirazione comunista. Il commando gappista, composto da Bruno
Fanciullacci, Elio Chianesi[32], Giuseppe Martini "Paolo", Antonio
Ignesti e la staffetta Liliana Benvenuti Mattei "Angela"[33] come
appoggio[34][35] e con Teresa Mattei e Bruno Sanguinetti nell'organizzazione
logistica[36][37], si appostò alle 13:30 circa nei pressi della villa al
Salviatino e, appena il filosofo giunse in auto, Fanciullacci e Martini gli si
avvicinarono tenendo sotto braccio dei libri per nascondere le armi e farsi
così credere studenti. Il filosofo abbassò il vetro per prestare ascolto, ma fu
subito raggiunto dai colpi della rivoltella di Fanciullacci. Fuggiti i gappisti
in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il
filosofo moribondo, ma Gentile, colpito direttamente al cuore e in pieno petto,
in breve spirò.[38] Fu un episodio che divise lo stesso fronte
antifascista e che ancora oggi è al centro di polemiche non sopite, venendo
infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del
Partito Comunista, che rivendicò l'esecuzione[39].[40] Il 18 aprile fu
sepolto, per iniziativa del ministro Carlo Alberto Biggini[41] e con decreto di
approvazione da parte di Mussolini stesso, nella basilica di Santa Croce a
Firenze, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato le
autorità della RSI - dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Mario Carità[42]
- promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni sui responsabili,
mentre venne disposto l'arresto di cinque docenti, indicati dal capo della
provincia Raffaele Manganiello come i mandanti morali dell'agguato[43]:
Ranuccio Bianchi Bandinelli (che aveva forse approvato l'uccisione), Renato
Biasutti, Francesco Calasso, Ernesto Codignola, Enrico Greppi; ma gli ultimi
due sfuggirono alla cattura[44]. Grazie al diretto intervento della famiglia
Gentile gli arrestati scamparono alla consueta rappresaglia che i fascisti
eseguivano in seguito alle azioni gappiste (meno di due settimane prima, il 3
aprile, a Torino erano stati fucilati cinque prigionieri per l'uccisione del
giornalista Ather Capelli), venendo rimessi in libertà.[45] In occasione
del decennale della morte, tra il 15 e il 17 aprile 1955, all'interno della
basilica fu inaugurato il primo di una serie di convegni di "studi
gentiliani". Di tanto in tanto si sono levate isolate voci contro la
presenza della tomba del "filosofo del fascismo" in Santa Croce, ma
senza seguito.[46] La filosofia di Gentile fu da lui denominata attualismo
o idealismo attuale, poiché in esso l'unica vera realtà è l'atto puro del
«pensiero che pensa», cioè l'autocoscienza, in cui si manifesta lo spirito che
comprende tutto l'esistente; in altre parole, solo quello che si realizza
tramite il pensiero rappresenta la realtà in cui il filosofo si
riconosce.[47] Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è
distinzione tra soggetto e oggetto. Gentile avversa pertanto ogni dualismo e
naturalismo rivendicando l'unità di natura e spirito (monismo), cioè di spirito
e materia, all'interno della coscienza pensante, assieme al primato
gnoseologico ed ontologico di questa. La coscienza è vista come sintesi di
soggetto e oggetto, sintesi di un atto in cui il primo (il soggetto) pone se
stesso e pone il secondo (autoconcetto): in ciò consiste l'autoctisi. Non hanno
quindi senso orientamenti solo spiritualisti o solo materialisti, come non ne
ha la divisione netta tra spirito e materia del platonismo, in quanto la realtà
è Una: qui è evidente l'influsso del panteismo rinascimentale e
dell'immanentismo, più che dell'hegelismo.[48] Di Hegel, a differenza di
Benedetto Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista),
per cui tutta la realtà è storia e non atto, in senso aristotelico, Gentile non
apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo
alla coscienza: la coscienza è considerata come fondamento del reale. Anche
secondo Gentile vi è un errore in Hegel nella formulazione della dialettica, ma
questo non consiste unicamente, come aveva affermato Croce, nella sistemazione
scolastica hegeliana di Logica, Filosofia della natura e Filosofia dello
Spirito. In proposito Croce aveva infatti sostenuto, contro questa
tripartizione hegeliana,che "tutto è Spirito". Pur essendo
condivisibile la critica crociana, non è assolutamente sufficiente, in quanto
Gentile sostiene ne La riforma della dialettica hegeliana (1913) che Hegel avrebbe
infatti confuso la dialettica del pensare (che ha individuato correttamente)
con la dialettica del pensato: avrebbe pertanto lasciato forti residui della
dialettica del pensato,cioè quella del pensiero determinato e delle
scienze.[48] Gentile inoltre non accetta la crociana dialettica dei distinti,
che Croce (in base al principio che "non ogni negazione è
opposizione") ha introdotto e posto accanto alla hegeliana
"dialettica degli opposti"; infatti il filosofo siciliano la ritiene
un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica hegeliana medesima. Questa
invece si esplica in un attualismo, in cui Gentile utilizza la dialettica
hegeliana degli opposti all'interno della teoria dell'atto del pensiero come
atto puro: questa dialettica si esplica quindi nel rapporto dialettico tra
logica del pensare e logica del pensato.[49]. Recuperando Fichte (in
particolare la Dottrina della scienza del 1794), il filosofo siciliano afferma
che lo spirito è fondante in quanto unità di coscienza ed autocoscienza,
pensiero in atto; l'atto del pensiero pensante, o «atto puro», è il principio e
la forma della realtà diveniente. Secondo Gentile la dialettica dell'atto puro
si attua nell'opposizione tra la soggettività rappresentata dall'arte (tesi) e
l'oggettività rappresentata dalla religione (antitesi), cui fa da soluzione la
filosofia (sintesi).[48] L'atto puro si fonda sull'opposizione della
«logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato»: la prima è
una logica filosofica e dialettica, la seconda una logica formale ed
erronea.[48] Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività
dell'arte e al suo rapporto con la religione e la filosofia, ovvero l'intera
vita dello spirito; se da un lato l'arte è il prodotto di un sentimento
soggettivo, dall'altro essa è un atto sintetico, che coglie tutti i momenti
della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del discorso
razionale.[48] Sviluppando fino in fondo l'hegelismo di Bertrando
Spaventa, l'attualismo gentiliano, per il quale ogni realtà esiste solo
nell'atto che la pensa, è stato interpretato come un idealismo soggettivo (una
forma di soggettivismo), sebbene il suo autore tendesse a respingere tale
definizione,[50] non essendo quell'atto preceduto né dal soggetto né tantomeno
dall'oggetto, bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in
cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo
infinito" è in realtà immanente all'esperienza, proprio perché creatore
dell'esperienza.[51] Gentile fu il primo e più importante ideologo del
fascismo, assieme a Mussolini stesso. La sua è una filosofia politica
fortemente attivista e attualista (cioè vuole trasporre l'attualismo nel campo
civile e sociale), che coniughi «prassi e pensiero», che sia insieme «azione a
cui è immanente una dottrina».[52] Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà,
in Gentile troviamo il primato del futuro, ma, allo stesso tempo, un recupero
della concezione romantica della Ragione intesa come Spirito universale che
tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente
strumentale.[53] Per Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la
vita» proprio del fascismo è di tipo «spiritualistico».[52] Il fascismo
non è la sola qualificazione politica che dà della propria filosofia, Gentile infatti
vuole essere anche liberale, nonostante sembri respingere quasi in toto il
liberalismo ottocentesco ne La dottrina del fascismo.[52] Difatti la sua
concezione politica riprende la concezione hegeliana dello Stato etico, per cui
libero non è l'individuo atomisticamente e materialisticamente inteso, ma
soltanto lo Stato nel suo processo storico.[54] L'individuo può essere
libero ed esplicare la sua moralità esclusivamente nelle forme istituzionali
dello Stato, come chiarisce nella voce «Fascismo» dell'Enciclopedia
italiana.[55] L'individuo può maturare la sua libertà individuale solo
all'interno dello Stato ("libertà nella legge"), con ciò a dire in un
contesto istituzionale organizzato. Un esempio di questa concezione lo si può
trovare nella Destra storica, la quale governò i primi anni dell'Unità
d'Italia: impostò un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla
Sinistra storica di Francesco Crispi) che riuscì a moderare l'individualità dei
singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla disgregazione; questo
modello di governo forte è giusto per Gentile, in quanto lo Stato deve essere
Stato etico, definito mazzinianamente come "educatore".[52] Se
Gentile voglia uno stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta,
di certo nella sua fase prettamente fascista egli fa riferimento allo
"Stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé.[55]
Giovanni Gentile negli ultimi anni Con il fascismo si può avere vero
"liberalismo" in quanto riporta ai valori primigeni del
Risorgimento:[56] Gentile dimostra qui un forte approccio storicistico, secondo
il quale il fascismo trarrebbe la sua legittimazione dalla storia, sarebbe
appunto una fase storica, non un'ideologia politica.[52] Il Risorgimento
non fu solo un'operazione politica, ma un "atto di fede":[56] il
campione di suddetto atto di fede fu Mazzini: anti-illuminista e romantico,
anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici.[57] Lo
Stato giolittiano rappresentò invece, secondo Gentile (concezione che lo divide
radicalmente da Croce), un tradimento dei valori risorgimentali: per rompere
questo status quo degenerativo del processo italiano fu necessario il ricorso
all'illegalità e alla violenza del fascismo movimento: una violenza
rivoluzionaria, perché portatrice di un nuovo assetto, ma anche statale, perché
va a colmare le lacune che vigono nel sistema statale.[58] Gentile insiste
molto sulla novità del fascismo: è un modo nuovo di concepire la nazione, ha
una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo.[58] Benito Mussolini
viene perciò dipinto come un vero eroe idealistico. La missione del fascismo,
secondo Gentile, è quella di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale,
anti-materialista, volto a grandi imprese.[58] Questo nuovo tipo di uomo sarà
antitetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere alla nazione e che
connotava l'Italia come scettica, mediocre e furbastra.[52] Egli, in
quanto ideologo, sostiene che il fascismo si dovesse istituzionalizzare: ciò
avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran Consiglio del Fascismo.[52]
Il fascismo si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il contrario):
il fine è che nella società non vi siano più contraddizioni, nessuna differenza
tra cultura italiana e cultura fascista.[58] Bisogna arrivare ad una
comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo: attraverso
l'istituzione della corporazione, la quale deve sanare la frattura
sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione di classe; anche qua egli
riprende le teorie mazziniane, oltre che il distributismo.[52] Il
corporativismo (di cui le estreme realizzazioni saranno la democrazia organica
e la socializzazione dell'economia, progettate nella RSI) permetterà di
giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici si risolveranno
all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture all'interno
della società, ed evitando la lotta di classe, grazie alla terza via
fascista.[52] Negli ultimi anni di vita Gentile sostenne, opponendosi
all'ala estrema e intransigente del fascismo, l'idea una riconciliazione, la
più ampia possibile, di tutti gli italiani, sia fascisti che antifascisti: pur
riconoscendosi nella RSI, invitò pubblicamente il “popolo sano” ad ascoltare
“la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta
fratricida"[59], di cui comunque non vedrà la fine. Il gentilismo
fu, assieme al fascismo di sinistra "rivoluzionario" (Malaparte,
Maccari, Bottai, Marinetti), al fascismo clericale, alla mistica fascista
(Giani, Arnaldo Mussolini) e al neoghibellinismo paganeggiante (Julius Evola),
una delle principali correnti culturali del regime fascista. Per
l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che riteneva il pensiero di Marx
solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle
ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da
Hegel. Nella Filosofia di Marx (1899) Gentile afferma infatti che questa
filosofia della storia (come concezione materialistica della storia) è
costruita da Marx sostituendo la Materia - la struttura economica - allo
Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la
materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo
sviluppo; secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si
finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè il fatto
economico) la funzione dell'Assoluto - che per Hegel si sviluppa
dialetticamente ed è determinato a priori - rendendo così determinato a priori
l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia
marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana
"rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un
pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach (che
Gentile tradusse per primo in italiano) il "Moro" infatti critica il
materialismo volgare: questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e
il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo
Gentile, Marx,attribuisce alla prassi, considerata come attività sensibile
umana,la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo: il filosofo di
Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività
sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Il filosofo siciliano, fondatore
dell'attualismo, sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto
del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a
crearlo.[60] Teorie pedagogiche Primo piano di Giovanni Gentile
Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la
filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima,
negandone i nessi con la psicologia e con l'etica.[61] L'educazione deve
essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza
così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si
possono fissare le fasi o prescrivere il metodo: «il metodo è il maestro», il
quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito
sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe
come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla
base dell'educazione. Al maestro è richiesta una vasta cultura e null'altro, il
metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa che si forma
continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e
ri-creazione.[61] Il dualismo scolaro-maestro deve risolversi in unità
attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la
cultura muove l'educatore verso l'educando e lo riassorbe nell'universalità
dell'atto spirituale. «Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro
dell'essere divino, dello spirito».[61] Il maestro incarna lo spirito
stesso, l'allievo deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi, facendo del tutto
propri i grandi contenuti presentati.[61] Questi concetti ispirano la
riforma scolastica del 1923 attuata da Gentile in veste di ministro della
Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi
desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma
scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro
fondamentale dello Stato (viene infatti istituito un esame di Stato che
sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati
in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo
umanistico-filologico.[61] Gentile fu ministro della pubblica istruzione e
nel 1923 mise in atto la sua riforma scolastica, elaborata assieme a Giuseppe
Lombardo Radice e definita da Mussolini "la più fascista delle riforme",
in sostituzione della vecchia legge Casati.[62] Essa era fortemente
meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua
l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e
centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata «ai
migliori» e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo
classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo professionale per il popolo. I
gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a quelli
appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio perché gli
studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi.[63] Le
scienze naturali e la matematica furono messe in secondo piano, poiché secondo
Gentile erano materie prive di valore universale, che avevano la loro
importanza solo a livello professionale. Questa svalutazione, tuttavia, non
avvenne nelle Università,[64] in quanto luoghi delle formazioni specialistiche;
difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce che sosteneva l'assoluta
preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza[65], pur criticando
gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie letterarie come
superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo, con matematici e
fisici italiani (come Ettore Majorana, collaboratore di Enrico Fermi nel gruppo
dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne anche amico del figlio
Giovanni jr., coetaneo del Majorana) e cercò di instaurare un confronto
costruttivo con la cultura scientifica.[62][66] L'obbligo scolastico fu
innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni.
L'allievo che terminava la scuola elementare aveva la possibilità di scegliere
tra i licei classico e scientifico oppure gli istituti tecnici. Solo i due
licei permettevano l'accesso all'università (il secondo solo alle facoltà
scientifiche), in questo modo però veniva mantenuta una profonda divisione tra
classi sociali (questo vincolo fu rimosso completamente solo nel 1969).[62]
Per diminuire l'iscrizione al sovraffollato Istituto magistrale, e per
mantenere la separazione tra i sessi nei licei dove prevaleva una maggioranza
maschile, fece creare un apposito liceo femminile,[67] favorendo l'accesso
delle donne all'insegnamento, ritenuto particolarmente adatto a loro[67], ma
escludendole dall'insegnamento delle materie di Storia, Filosofia ed Economia
politica nei licei, nonché Materie letterarie, Diritto ed Economia politica
nelle scuole e negli istituti tecnici[68][69]. Ciò andava incontro alla visione
patriarcale di Mussolini che intendeva spingere le donne a dedicarsi alla
famiglia e ad avere più figli, distogliendole dal lavoro e dallo studio[70].
Anche Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo
("il femminismo è morto" dirà nel 1934[71]), sebbene più sfumate,
sostenendo che i licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri,
mentre le donne (sulla scia di un'interpretazione lombrosiana) avevano una
capacità di "comprensione dello Spirito imperfetta"[72] e perciò
dovevano dedicarsi ad attività non politiche e non scientifiche, "terreno
di battaglia dell'uomo", studiando in una «scuola adatta ai bisogni
intellettuali e morali delle signorine», in cui erano privilegiate la danza, la
musica e il canto. Tuttavia non venne vietata alle donne la frequentazione
dell'università.[73] Il liceo femminile sarà soppresso già nel 1928, per
lo scarso successo ottenuto. Per Victoria De Grazia, la riforma della scuola
femminile esprimeva la contraddittoria visione della donna nel regime: «come
riproduttrici della razza le donne dovevano incarnare i ruoli tradizionali,
essere stoiche, silenziose, e sempre disponibili; come cittadine e patriote,
dovevano essere moderne, cioè combattive, presenti sulla scena pubblica e pronte
alla chiamata».[74] Fra gli scopi dichiarati della riforma vi era anche
la riduzione della popolazione scolastica delle scuole medie e superiori:
«L'esclusione di un certo numero di alunni dalla scuola pubblica era stato il
proposito ben chiaro della nostra riforma (...) Non si deve trovare posto per
tutti (...) La riforma tende proprio a questo: a ridurre la popolazione
scolastica[75].» (Giovanni Gentile) Ribadisce che non esiste un metodo
nell'insegnamento, ogni argomento è metodo a sé stesso, cioè non è una nozione
astratta da memorizzare ma atto di ricerca attiva e creativa.[62] L'insegnante
può adoperare delle indicazioni di metodo per preparare le fasi che precedono
l'insegnamento.[62] La riforma Gentile fu sostituita dalla riforma Bottai del 1940,
che però non entrerà mai completamente a pieno regime a causa della guerra, e
sarà definitivamente archiviata dal 1962. Gran parte della suddivisione ideata
da Gentile con la riforma del 1924, tuttavia, come la scuola elementare, media
e superiore comprendente i licei, è rimasta formalmente in vigore fino a oggi
nonostante vari tentativi di modificarla, mentre venne eliminata la cosiddetta
"scuola di avviamento". Verrà però permesso, dopo il 1968, l'accesso
universitario da tutte le scuole superiori.[62] L'insegnamento della
religione cattolica La religione è insegnata obbligatoriamente a livello
primario, introdotta anche per le altre scuole con il Concordato, ma con parere
contrario di Gentile. Nella riforma è prevista però la richiesta di esonero,
per chi professi altre fedi.[76]. Gentile riteneva che tutti i cittadini
dovessero possedere una concezione religiosa e che la religione da insegnare
fosse la religione cattolica in quanto religione dominante in Italia.[62] Nel
triennio dell'istruzione classica veniva poi introdotta, in sostituzione, la
filosofia, adatta alle classi dominanti e alla futura classe dirigente, ma non
al popolo minuto. Gentile e la cultura successiva Emissione
filatelica dedicata dalla Repubblica Italiana a Gentile nel cinquantesimo
anniversario della morte (1994) Con l'uccisione di Gentile - il 15 aprile 1944
- e la fine del regime fascista che egli sino all'ultimo appoggiò, iniziò nei
suoi confronti non tanto una forma di ostracismo, quanto di rimozione,
attenuatasi però negli ultimi decenni grazie all'opera di studiosi spesso in
polemica tra loro. Secondo il filosofo cattolico Augusto Del Noce, uno dei suoi
principali rivalutatori[77], Gentile è un pensatore della secolarizzazione e
della risoluzione della trascendenza in prassi - in ciò accomunato a Marx -,
determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa
che ne fece Antonio Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine
Nuovo, Piero Gobetti nel 1921 scrive che Gentile «ha veramente formato la
nostra cultura filosofica».[78] Di tutt'altro avviso Gennaro Sasso[79],
secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi
politica di Gentile, la cui «passionale» adesione al fascismo «fu filosofica,
forse, a parole [...] ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere
studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa
«e il fascismo non c'è, né ci può essere, alcun nesso». Secondo Martin
Beckstein, invece, proprio la filosofia di Gentile rappresenta la
«fascistizzazione dell'attualismo» e pertanto una «deformazione
dell'idealismo»[80]. Al di là della sua appartenenza politica, lo storico Leo
Valiani attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore filosofico:
«Giovanni Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà al fascismo. Ma
fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino
Gramsci e Togliatti.» (Leo Valiani, articolo sul Corriere della Sera del
12/09/1975) Per approfondire gli studi sull'opera del filosofo sono nati negli
anni '80 l'Istituto di studi gentiliani di Roma, presieduto da Antonio Fede[81]
e la "Fondazione Giovanni Gentile", la cui sede, dal 1982, è presso
la Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma "La Sapienza", e
presieduta da Gennaro Sasso[82]. La filosofia gentiliana è stimata anche
dal filosofo laico Emanuele Severino,[83][84][85][86] che ravvisandovi una
condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera «uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale»,[87] mentre per
Nicola Abbagnano, «Gentile era certamente un romantico, forse l'ultima più
vigorosa figura del Romanticismo europeo».[88] Nel 1994 gli venne
dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le personalità di primo
piano del regime fascista ad avere questa celebrazione da parte della
Repubblica Italiana. In una lettera scritta nel 2000 a Chicco Testa e
resa nota dal Riformista, la giornalista e scrittrice fiorentina Oriana
Fallaci, nonostante si fosse sempre autodefinita una partigiana (fu staffetta
delle brigate Giustizia e Libertà) non risparmia critiche sull'assassinio di
Giovanni Gentile. Scrive infatti che «l'assassinio di Gentile fu una carognata
ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista». Che gli antifascisti furono
dei «cacasotto» perché «uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero
il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano
minato».[89] Onorificenze Cavaliere di gran croce insignito del gran
cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme
ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei
Santi Maurizio e Lazzaro — Roma, 2 giugno 1937 Cavaliere di gran croce
insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia - nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italia — 30 dicembre 1923 Cavaliere di II classe
dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) - nastrino per uniforme
ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania
nazista) — luglio 1940. Opere Di carattere filosofico o generale L'atto
del pensare come atto puro (1912) La riforma della dialettica hegeliana,
Firenze, Sansoni, (1913) La filosofia della guerra (1914) Teoria generale dello
spirito come atto puro, Firenze, Sansoni, (1916) I fondamenti della filosofia
del diritto (1916) Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922)
Guerra e fede (1919, raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la
vittoria (1920, raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di
religione (1920) Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1921)
Frammenti di storia della filosofia (1926) La filosofia dell'arte (1931)
Introduzione alla filosofia (1933) Genesi e struttura della società (postumo
1946) L'attualismo a cura di V. Cicero e con introduzione di E. Severino,
Bompiani, Milano 2014 Di carattere storiografico Delle commedie di
Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca (1895) Rosmini e Gioberti (1898, tesi di
laurea) La filosofia di Marx (1899) Dal Genovesi al Galluppi (1903) Bernardino
Telesio (1911) Studi vichiani (1914) Le origini della filosofia contemporanea
in Italia (1917-1923) Il tramonto della cultura siciliana (1918) Giordano Bruno
e il pensiero del Rinascimento (1920) Frammenti di estetica e letteratura
(1921) La cultura piemontese (1922) Gino Capponi e la cultura toscana del
secolo XIX (1922) Studi sul Rinascimento (1923) I profeti del Risorgimento
italiano: Mazzini e Gioberti (1923) Bertrando Spaventa (1924) Manzoni e
Leopardi (1928) Economia ed etica (1934) Giovanni Gentile un filosofo scomodo
(2019) Di carattere pedagogico L'insegnamento della filosofia nei licei (1900)
Scuola e filosofia (1908) Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912) I
problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913) Il problema scolastico
del dopoguerra (1919) La riforma dell'educazione, Bari, Laterza, (1920)
Educazione e scuola laica (1921) La nuova scuola media (1925) La riforma della
scuola in Italia (1932) Sul fascismo Manifesto degli intellettuali del fascismo
(1925) Che cos'è il fascismo (1925) Fascismo e cultura (1928) Origini e
dottrina del fascismo (1929) La mia religione (1943, discorso tenuto a Firenze)
Discorso agli Italiani (1943, discorso tenuto a Roma). L’essenza del fascismo
(1928-29, la prima parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T., del
1928: la prima e la seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del
Littorio, Roma, 1929; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini
e dottrina del fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma, 1929;
altro testo in cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La
filosofia del fascismo (1941 o 1928, in Origini e dottrina del fascismo; si
trova in Politica e Cultura, cit., Vol II, pagg 165-181; oppure lo si può
trovare le libro intitolato L’Identità fascista op. cit. pp 217–232; un altro
libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano
del mondo, Roma, 1941) Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze,
1925, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola (1924) Giovanni Gentile
Scritti per il Corriere 1927-1944. Note ^ Vi è chi attribuisce al
neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica
in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria ( 1911-2011:
l'Italia della scienza negata, in Il Sole 24 ORE. URL consultato il 9 giugno
2017.), altri invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante
l'egemonia gentiliana nacquero numerosi enti scientifici ( Croce e Gentile
amici della scienza, in Corriere della Sera. URL consultato il 10 giugno
2017.). ^ Cit. di Geno Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un
filosofo, a cura di Marcello Staglieno, § III, pag. 26, Milano, Rizzoli, 1990.
^ Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale.
Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 71-72 ^ Cfr.
Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa
a Roma e linguaggio politico (1920-1922), "Nuova Storia
contemporanea", a. XVIII, n. 6, 2014, pagg. 95-120. Dello stesso
autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là di destra e sinistra. Il
linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro
(1920-19249)", Chieti, Solfanelli, 2017, pp. 464. ^ Scheda senatore
GENTILE Giovanni Paolo Simoncelli, p. 41. Amedeo Benedetti,
"L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche
Oggi, Milano, n. 8, ottobre 2005, p. 41 ^ Testo qui ^ Ripubblicato nel 1991
come Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La
nuova meridiana. S. saggi cult. cont. ^ Giordano Bruno. III. LE VICENDE DELLA
STATUA ^ «De Vecchi, Cesare Maria», Treccani Paolo Simoncelli, p. 207. ^ La
scelta di campo di Gentile Archiviato il 24 settembre 2015 in Internet Archive.
^ Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, 30
marzo 2013 ^ Paolo Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del
regime. Uno sforzo vano ^ Paolo Simoncelli, p. 43. ^ Paolo Simoncelli, p. 40. ^
Paolo Simoncelli, p. 34. ^ Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, p.
13. ^ "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi (p. 501), Google libri. ^
Giovanni Gentile in “Il Contributo italiano alla storia del Pensiero –
Filosofia” – Treccani ^ Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, p. 23. ^
Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, p. 24. Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo, p. 25. ^ Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi
e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, 1985, pp. 49-64. ^ Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo, p. 26. ^ Vittorio Vettori, Giovanni Gentile,
Editrice Italiana, Roma, marzo 1967, pp. 151-152 ^ Simonetta Fiori, dirigere la
casa editrice Sansoni e – secondo la testimonianza dell'ex interermania.html
Io, italiano prigioniero in Germania, in La Repubblica, 12 marzo 2005. ^
Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per salvare il figlio, in
Corriere della Sera, 9 giugno 2005. Renzo Baschera, "Chiese la
grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su
"Historia", febbraio 1974, N° 194, p. 135. ^ Raffaello Uboldi,
Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata nº 200, luglio 1974, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, p. 56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di
denunciarlo a Mussolini" ^ Elio Chianesi, su anpi.it. URL consultato il 25
luglio 2010. ^ La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal
suo punto di vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare
rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata
l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho
rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C.
Carratù (2016). ^ Paolo Paoletti, "Il Delitto Gentile" esecutori e
mandanti, Ed. Le Lettere, 2005, pp. 21-25 par. 1.6 " L'omicidio raccontato
da Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori
materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se
era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non
attraverso i due finestrini posteriori..." ^ Resistenza:
"Angela", la ragazza col fiore rosso ^ Antonio Carioti, Sanguinetti
venne a dirmi che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera, 6 agosto 2004,
p. 29. URL consultato il 12 marzo 2013 (archiviato dall'url originale il 7
dicembre 2013). ^ «Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato
potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia
d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani,
poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo.» (Teresa
Mattei) ^ Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La
Repubblica Sociale Italiana 1943-1945, a cura di P. P. Poggio, Annali della
Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 1986, pp. 235-243 ^ Antonio Carioti,
Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, sul Corriere della Sera
del 6 agosto 2004, p. 29: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme,
suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con
l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione,
scrisse un articolo per dissociarsi." ^ Maria Cristina Carratù, E dopo 70
anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24
aprile 2016 ^ Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma
non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", febbraio 1974,
N° 194, p. 136. ^ Ecco le carte che assolvono l'archeologo ^ Romano, p. 302. ^
Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" (pagina 522) ^ Così Gaetano Gentile
ricordò nel 1954 il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera stessa
[del 15 aprile], per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della
Provincia e gli parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città,
esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se
effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati.
Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo dover
esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella mattina
la voce di mio Padre si era levata […] a deplorare la tragica inutilità di un
metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele
successione di attentati e rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente
dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del
genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si
doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di
rispetto delle sue convinzioni e del suo costante atteggiamento». ^ Firenze:
due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su
liberoquotidiano.it. URL consultato il 15 novembre 2017 (archiviato dall'url
originale il 16 novembre 2017). ^ «Attualismo», Enciclopedia Treccani
Diego Fusaro (a cura di), Giovanni Gentile ^ Sull'importanza della riforma
della dialettica idealista di matrice hegeliana in Gentile, si veda
quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia
Multimediale delle Scienza Filosofiche. ^ Bruno Minozzi, Saggio di una teoria
dell'essere come presenza pura, pag. 114, Il Mulino, 1960. ^ Gentile quindi
contestava a Fichte la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di
restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del
pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo
infinito"), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale
Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di
uscire da sé» (Giovanni Gentile, Discorsi di religione, pp. 53-55, Firenze,
Sansoni, 1935). Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La dottrina del
fascismo. ^ Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, a cura di Marcello Staglieno,
§ III, Nella Napoli nobilissima, pag. 37, Milano, Rizzoli, 1990. ^ Vito de
Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, su libertates.com, 26 giugno 2014
(archiviato dall'url originale il 13 settembre 2014). Benito Mussolini,
Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana.
Augusto Del Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni
Gentile, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", a. XLVII,
Terza serie, vol. XXII, n. 2, aprile-giugno 1968, pp. 163-215. ^ Giovanni
Belardelli, Il fascismo e Giuseppe Mazzini Giovanni Gentile, Manifesto
degli intellettuali fascisti ^ Giovanni Gentile, "Ricostruire" in
Corriere della Sera, 28 dicembre 1943 ^ Cfr. Libertà e liberalismo
("Conferenza tenuta all'Università fascista di Bologna la sera del 9 marzo
1925"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura a cura di H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1990 (Opere complete XLV). Il pensiero
pedagogico di Giovanni Gentile La riforma Gentile, su pbmstoria.it. URL
consultato il 2 novembre 2014 (archiviato dall'url originale il 14 febbraio
2015). ^ Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali,
1958-1974 (di 15 voll.), Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, OCLC
1588868. : «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza
nella limitazione delle iscrizioni? — [Gentile:] Questa limitazione non c'è
nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole
professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità
di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli
incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole
classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno
consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità
di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.
Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed
abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di
minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei
loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a
disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la scuola
umanistica.» ( R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola (novembre
'22-aprile '24): discorsi e interviste, a cura di Ferruccio E. Boffi, 1924, p.
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(filosofia) Fascismo Idealismo italiano Manifesto degli intellettuali fascisti
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lastoriasiamonoi.rai.it. URL consultato il 23 novembre 2017 (archiviato
dall'url originale il 1º dicembre 2017). Lettera a Mussolini in occasione
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PredecessoreMinistro della Pubblica Istruzione del Regno d'ItaliaSuccessoreFlag
of Italy (1861–1946).svg Antonino Anile30 ottobre 1922 - 1º luglio
1924Alessandro CasatiPredecessoreDirettore della Scuola Normale Superiore di
PisaSuccessoreSNS.jpg Luigi Bianchi1928 - 1936Giovanni D'AchiardiI Giovanni
D'Achiardi1937 - 1943Luigi RussoII PredecessorePresidente della Reale Accademia
d'ItaliaSuccessore Luigi Federzoni 19431944Giotto
Dainelli V · D · M Giovanni Gentile V · D · M Governo Mussolini (31 ottobre
1922 - 25 luglio 1943) V · D · M Liberalismo Controllo di autoritàVIAF (EN)
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maggioMorti il 15 aprileNati a CastelvetranoMorti a FirenzeGiovanni
GentileGoverno MussoliniDirettori della Scuola Normale SuperioreAccademici
italiani del XX secoloStudenti della Scuola Normale SuperioreProfessori
dell'Università degli Studi di PalermoProfessori dell'Università di
PisaProfessori della Sapienza - Università di RomaSepolti nella basilica di
Santa CroceFilosofi della politicaIdealistiPolitici del Partito Nazionale
FascistaPersonalità dell'Italia fascistaPersonalità della Repubblica Sociale
ItalianaMinistri della pubblica istruzione del Regno d'ItaliaAccademici
dell'Accademia d'ItaliaAnticomunisti italianiPolitici assassinatiAssassinati
con arma da fuocoSenatori della XXVI legislatura del Regno d'ItaliaCritici
letterari italiani del XX secoloScrittori italiani del XX secoloMembri
dell'Accademia delle Scienze di Torino[altre]. Refs.: Luigi Speranza,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Conversation and inter-subjectivity.
genus:
gender.
H. P. Grice calls Austin an artless sexist when referring to the trouser word.
We see how after Austin’s death, Grice more and more loses his reverential
attitude towards the ‘school master’ and shows Austin for what he is! Gender implicaturum
– Most languages have three genders: masculine, feminine, and neuter (or
epicene, or common). feminist epistemology, epistemology from a feminist
perspective. It investigates the relevance that the gender of the
inquirer/knower has to epistemic practices, including the theoretical practice
of epistemology. It is typified both by themes that are exclusively feminist in
that they could arise only from a critical attention to gender, and by themes
that are non-exclusively feminist in that they might arise from other
politicizing theoretical perspectives besides feminism. A central, exclusively
feminist theme is the relation between philosophical conceptions of reason and
cultural conceptions of masculinity. Here a historicist stance must be adopted,
so that philosophy is conceived as the product of historically and culturally
situated hence gendered authors. This stance brings certain patterns of
intellectual association into view
patterns, perhaps, of alignment between philosophical conceptions of
reason as contrasted with emotion or intuition, and cultural conceptions of
masculinity as contrasted with femininity. A central, non-exclusively feminist
theme might be called “social-ism” in epistemology. It has two main
tributaries: political philosophy, in the form of Marx’s historical
materialism; and philosophy of science, in the form of either Quinean
naturalism or Kuhnian historicism. The first has resulted in feminist
standpoint theory, which adapts and develops the Marxian idea that different
social groups have different epistemic standpoints, where the material
positioning of one of the groups is said to bestow an epistemic privilege. The
second has resulted in feminist work in philosophy of science which tries to
show that not only epistemic values but also non-epistemic e.g. gendered values
are of necessity sometimes an influence in the generation of scientific
theories. If this can be shown, then an important feminist project suggests
itself: to work out a rationale for regulating the influence of these values so
that science may be more self-transparent and more responsible. By attempting
to reveal the epistemological implications of the fact that knowers are
diversely situated in social relations of identity and power, feminist
epistemology represents a radicalizing innovation in the analytic tradition,
which has typically assumed an asocial conception of the epistemic subject, and
of the philosopher. -- feminist philosophy, a discussion of philosophical
concerns that refuses to identify the human experience with the male
experience. Writing from a variety of perspectives, feminist philosophers
challenge several areas of traditional philosophy on the grounds that they fail
1 to take seriously women’s interests, identities, and issues; and 2 to
recognize women’s ways of being, thinking, and doing as valuable as those of
men. Feminist philosophers fault traditional metaphysics for splitting the self
from the other and the mind from the body; for wondering whether “other minds”
exist and whether personal identity depends more on memories or on physical
characteristics. Because feminist philosophers reject all forms of ontological
dualism, they stress the ways in which individuals interpenetrate each other’s
psyches through empathy, and the ways in which the mind and body coconstitute
each other. Because Western culture has associated rationality with
“masculinity” and emotionality with “femininity,” traditional epistemologists
have often concluded that women are less human than men. For this reason,
feminist philosophers argue that reason and emotion are symbiotically related,
coequal sources of knowledge. Feminist philosophers also argue that Cartesian
knowledge, for all its certainty and clarity, is very limited. People want to
know more than that they exist; they want to know what other people are
thinking and feeling. Feminist philosophers also observe that traditional
philosophy of science is not as objective as it claims to be. Whereas
traditional philosophers of science often associate scientific success with
scientists’ ability to control, rule, and otherwise dominate nature, feminist
philosophers of science associate scientific success with scientists’ ability
to listen to nature’s self-revelations. Since it willingly yields abstract
theory to the testimony of concrete fact, a science that listens to what nature
says is probably more objective than one that does not. Feminist philosophers
also criticize traditional ethics and traditional social and political
philosophy. Rules and principles have dominated traditional ethics. Whether
agents seek to maximize utility for the aggregate or do their duty for the sake
of duty, they measure their conduct against a set of universal, abstract, and
impersonal norms. Feminist philosophers often call this traditional view of
ethics a “justice” perspective, contrasting it with a “care” perspective that
stresses responsibilities and relationships rather than rights and rules, and
that attends more to a moral situation’s particular features than to its
general implications. Feminist social and political philosophy focus on the
political institutions and social practices that perpetuate women’s
subordination. The goals of feminist social and political philosophy are 1 to
explain why women are suppressed, repressed, and/or oppressed in ways that men
are not; and 2 to suggest morally desirable and politically feasible ways to
give women the same justice, freedom, and equality that men have. Liberal
feminists believe that because women have the same rights as men do, society
must provide women with the same educational and occupational opportunities
that men have. Marxist feminists believe that women cannot be men’s equals
until women enter the work force en masse and domestic work and child care are
socialized. Radical feminists believe that the fundamental causes of women’s
oppression are sexual. It is women’s reproductive role and/or their sexual role
that causes their subordination. Unless women set their own reproductive goals
childlessness is a legitimate alternative to motherhood and their own sexual
agendas lesbianism, autoeroticism, and celibacy are alternatives to
heterosexuality, women will remain less than free. Psychoanalytic feminists
believe that women’s subordination is the result of earlychildhood experiences
that cause them to overdevelop their abilities to relate to other people on the
one hand and to underdevelop their abilities to assert themselves as autonomous
agents on the other. Women’s greatest strength, a capacity for deep
relationships, may also be their greatest weakness: a tendency to be controlled
by the needs and wants of others. Finally, existentialist feminists claim that
the ultimate cause of women’s subordination is ontological. Women are the
Other; men are the Self. Until women define themselves in terms of themselves,
they will continue to be defined in terms of what they are not: men. Recently,
socialist feminists have attempted to weave these distinctive strands of
feminist social and political thought into a theoretical whole. They argue that
women’s condition is overdetermined by the structures of production,
reproduction and sexuality, and the socialization of children. Women’s status
and function in all of these structures must change if they are to achieve full
liberation. Furthermore, women’s psyches must also be transformed. Only then
will women be liberated from the kind of patriarchal thoughts that undermine
their self-concept and make them always the Other. Interestingly, the socialist
feminist effort to establish a specifically feminist standpoint that represents
how women see the world has not gone without challenge. Postmodern feminists
regard this effort as an instantiation of the kind of typically male thinking
that tells only one story about reality, truth, knowledge, ethics, and politics.
For postmodern feminists, such a story is neither feasible nor desirable. It is
not feasible because women’s experiences differ across class, racial, and
cultural lines. It is not desirable because the “One” and the “True” are
philosophical myths that traditional philosophy uses to silence the voices of
the many. Feminist philosophy must be many and not One because women are many
and not One. The more feminist thoughts, the better. By refusing to center,
congeal, and cement separate thoughts into a unified and inflexible truth,
feminist philosophers can avoid the pitfalls of traditional philosophy. As
attractive as the postmodern feminist approach to philosophy may be, some
feminist philosophers worry that an overemphasis on difference and a rejection
of unity may lead to intellectual as well as political disintegration. If
feminist philosophy is to be without any standpoint whatsoever, it becomes
difficult to ground claims about what is good for women in particufeminist
philosophy feminist philosophy 306 306
lar and for human beings in general. It is a major challenge to contemporary
feminist philosophy, therefore, to reconcile the pressures for diversity and
difference with those for integration and commonality. Then there’s the genus generalissimum: “I love a superlative: good, gooder and
goodest, my favourites!” a genus that is not a species of some higher genus; a
broadest natural kind. One of the ten Aristotelian categories, it is also
called summum genus. For Aristotle
and many of his followers, the ten categories (twelve in Kant, four in Grice) are
*not* species of some higher all-inclusive genus say, being. Otherwise, that alleged
over-arching all-inclusive genus would wholly include the differences, say,
between conversational quality, conversational quantity, conversational
relation, and conversational mode, and would be universally predicable of
conversational quality, conversational quantity, conversational relation, and
conversational mode. But no genus is predicable of its differences in this
manner. Few authors explained this reasoning clearly, but Grice did: “If I
appeal to four conversational categories, I know what I am doing. The principle
of conversational benevolence cannot float in the air: it needs four categories
– informativeness, trustworthiness, connectedness and perspicuity – to make it
applicable to our conversational realities. Grice points out that if the
difference ‘rational’ just meant ‘rational animal’, to define ‘man’ as
‘rational animal’ would be to define him as ‘rational animal animal’, which
would infringe the conversational maxims ‘be brief,’ and ‘do not be repetitive’
– “On toop, man is a rational animal animal is ill formed.” So too generally:
no genus can include its differences in this way. Thus there is no all-inclusive
genus. Grice’s four conversational categories are the most general conversational
genera.
get across – A more colloquial way for what Grice later will have as
‘soul-to-soul-transfer,’ used by Grice in Causal: Surely the truth or falsity
of Strawson having a beautiful handwriting has no bearing on the truth or
falsity of his being hopeless at philosophy (“provided that is what I intended
to get across,” implicating, ‘who cares,’ or ‘whatever’). His cavalier attitude
shows that Grice is never really concerned with the individuation of the
logical form of the implicaturum, just to note that whatever some philosopher
thought was part of the sense it ain’t! This is the Austinian in Grice. Austin
suggested that Grice analysed or consult with Holdcroft for all ‘forms of
indirect communication.’ Grice lists: mean, indicate, suggest, imply,
insinuate, hint – ‘get across’.
genovesi: essential
Italian philosopher – Antonio Genovesi (Castiglione del Genovesi, 1º novembre 1713 –
Napoli, 22 settembre 1769) è stato uno scrittore, filosofo, economista e
sacerdote italiano. Figlio di Salvatore Genovese, calzolaio e
piccolo imprenditore, e di Adriana Alfinito di San Mango, nacque a Castiglione,
Salerno (da distinguersi dalla omonima Castiglione di Ravello, situata sempre
nella stessa provincia) nel 1713. Il padre lo indirizzò in tenera età
verso gli studi. A quattordici anni fu affidato agli insegnamenti di Niccolò
Genovese, un congiunto, giovane medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in
filosofia peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. A
diciotto anni, nel corso degli studi teologici, Genovesi si innamorò di una
ragazza di Castiglione, Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione
del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino,
dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove
seguì gli insegnamenti teologici e filosofici del prete Giovanni Abbamonte,
appassionandosi al latino e al greco. Ricevette l'ordinazione a diacono
dopo aver superato l'esame di teologia dogmatica alla presenza dell'arcivescovo
di Salerno Fabrizio di Capua il 22 dicembre 1736, presso la Cattedrale di
Salerno. A ventiquattro anni fu nominato maestro di retorica presso il
seminario di Salerno dove incontrò il vice rettore, Antonio Doti, dal quale
ricevette insegnamenti di lingua francese e lezioni di perfezionamento nel
latino e nell'italiano. Nel 1738, a venticinque anni, venne ordinato sacerdote
e, dopo pochi mesi, si trasferì a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera
forense, che lasciò presto. Nel 1739 fondò una scuola privata di metafisica e
teologia. A Napoli fu in contatto con Giambattista Vico e nell'Università di
Napoli, nel 1741, ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione
teologiche contenute nella suo libro Elementa Metaphysicae pubblicato nel 1743,
furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento
dell'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, e dello stesso pontefice
Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lasciò
l'insegnamento della metafisica nell'università di Napoli, per passare, nel
1745, all'etica, cattedra che era stata tenuta in passato da Vico.
L'evoluzione dalla metafisica-teologia all'etica proseguì con il passaggio
all'economia, avvenuto nei primi anni cinquanta, quando si compì la
trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere
nella sua autobiografia. Divenne titolare della cattedra di 'commercio e
meccanica', istituita con fondi privati dal toscano Bartolomeo Intieri, la
prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non
consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti del XVIII
secolo in Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come
economista è stato quello più fecondo, tanto che Genovesi divenne un autore
fondamentale per la tradizione italiana e non solo (le sue Lezioni furono
tradotte in spagnolo, e parzialmente in francese). Morì a Napoli il 22
settembre 1769. La salma fu sepolta nella chiesa del monastero di Sant'Eramo
Nuovo (o Sant'Eusebio) a cura del suo amico Raimondo di Sangro, Principe di San
Severo. Tuttavia non ebbe un sepolcro individuabile, ma fu semplicemente
deposto nella cripta. In seguito a ristrutturazioni della chiesa nei primi anni
trenta del XX secolo, le ossa della cripta (e dunque anche quelle del Genovesi)
furono trasferite nella chiesa di Sant'Eframo Vecchio. Pensiero filosofico
Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al
costume della Controriforma: gli spunti di polemica antigesuitica e
anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia dello Stato
laico contro ogni interferenza della Chiesa, i primi elementi di una teoria
delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano
letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e
coraggiose. In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che
si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo
caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini della
vecchia civiltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, il pensiero
politico di Genovesi fu decisamente di tipo riformatore[1]: fu definito
"un anglofilo sotto spoglie francesi", nello scritto di Paola Zanardi
sull'influenza di David Hume nell'Illuminismo napoletano[2]. Nelle sue
opere filosofiche, Genovesi persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo,
cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della
filosofia cristiana. Antonio Genovesi recepì l'influenza del nuovo
panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti
il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo
stato di "oscurità" (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les
Lumières). Egli prese coscienza della decadenza culturale, materiale e
spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della
necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a
nuovi splendori[3]. «Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi
teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso
sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai
permanentemente di non pensare più a queste materie.[4]» Per tale motivo,
abbandonò l'etica e la filosofia e si dedicò allo studio dell'economia
affermando tra le altre cose, che essa doveva servire ai governi per alimentare
la ricchezza e la potenza delle nazioni[5], argomento cardine della filosofia
smithiana. Ritiene che per favorire il benessere sociale sia necessario
promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad
impartire le sue lezioni in italiano anziché in latino. Dal 1754 fu docente di
economia politica, occupando una cattedra istituita appositamente per lui di
“commercio e meccanica” presso l'Ateneo napoletano da Bartolomeo Intieri.
Soggiornò più volte nel palazzo proprio di Bartolomeo Intieri a Massaquano per
lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e
lì infatti scrisse alcune sue opere. Genovesi sostiene che anche le donne
e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento
fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di
conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini
e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi
all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i
mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono
esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come; problemi di
debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero
economico è espresso nel volume Lezioni di commercio o sia di economia civile
pubblicato nel 1765 e considerate una delle prime opere scientifiche in materia
economica. Il Genovesi cercò, così, di indicare la via per alcune riforme
fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del
protezionismo governativo su commerci e industrie. Stile letterario Tenne
sempre le sue lezioni in lingua italiana grazie alla sua passione per il
civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a non esprimersi in
latino durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati
di metafisica e di logica in italiano.[6] Così operò, anche e soprattutto, per
diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo
atteggiamento Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti,
giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Opere Lezioni di
commercio, 1769 (Milano, Fondazione Mansutti). Tra le sue opere filosofiche, le
principali sono: Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, 4
volumi, Napoli 1743-1756, seconda edizione in 5 volumi, 1760-1763; Elementorum
artis logicae-criticae libri quinque 1745; (traduzione italiana di Giuseppe
Manzoni, Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia, 1783) Meditazioni
filosofiche 1758; Lettere filosofiche 1759; Lettere Accademiche 1764; Memorie
Autobiografiche. 1756; Lezioni di commercio o sia d'economia civile 1765; Della
diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto 1766; Delle Scienze
Metafisiche per li giovanetti 1767; Altre opere da ricordare sono La logica per
i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari,
che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato
dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo
pugliese. Note ^ Corpaci, F., Antonio Genovesi; note sul pensiero
politico, Giuffrè, 1966. ^ Peter Jones (a cura di), Reception of David Hume in
Europe, Continuum, 2005, p. 171. ^ Palatano, Rosario; Genovesi, Antonio.
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Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
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economico di Antonio Genovesi, xii + 205. F. Le Monnier, 1958. ^ Chines,
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uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com, 2016. M.
Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia
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Genovesi e il suo mercantilismo "rinnovato", in A. M. Fusco, Visite
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"Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio
Genovesi, L'acropoli, 2002, 5, 3, p. 628. G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le
autobiografie di Antonio Genovesi, L'acropoli, 2004, 4, 5. D. Ippolito, Antonio
Genovesi lettore di Beccaria, Materiali per una storia della cultura giuridica,
2007, 1, 37. C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero
di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, 2009, 2, 121. M.L.Perna,
Eluggero Pii e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri
scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di
storia delle idee politiche e sociali, 2001, 2, 34, p. 220. A. M. Rao, Etica e
commercio: i Dialoghi di Antonio Genovesi nell'edizione di Eluggero Pii, Il
pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, 2010, 1,
43, p. 73. Wolfgang Rother, Antonio Genovesi, in Johannes Rohbeck, Wolfgang
Rother (a cura di): Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie
des 18. Jahrhunderts, vol. 3: Italien. Schwabe, Basel 2011, pp. 374–390
(Bibliografia: pp. 429-430). Rosario Villari, Antonio Genovesi e la ricerca
delle forze motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», 11 (1970), pp.
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Genovesi, Studi economici, 2007, 92, 62. V. Gleijeses, Napoli nostra e le sue
storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1973, pp. 253-256. Voci correlate
Pietro Napoli Signorelli Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Italiana, 2010. Modifica su Wikidata (EN) Antonio Genovesi, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Antonio
Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Antonio Genovesi, su BeWeb, Conferenza
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Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Antonio Genovesi, su Open Library, Internet Archive.
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italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2012. URL consultato il 13 novembre 2018. Saverio Ricci, Genovesi,
Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
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A. V(1944), fasc. 1-2. V · D · M Illuministi italiani Controllo di autorità
VIAF (EN) 85061848 · ISNI (EN) 0000 0000 8160 7859 · SBN IT\ICCU\PARV\244718 ·
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Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Economia
Portale Economia Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura
Categorie: Scrittori italiani del XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII
secoloEconomisti italianiNati nel 1713Morti nel 1769Nati il 1º novembreMorti il
22 settembreNati a Castiglione del GenovesiMorti a NapoliPersonalità
dell'anticurialismoIlluministiPresbiteri italianiStoria
dell'assicurazioneFederalistiProfessori dell'Università degli Studi di Napoli
Federico II[altre]. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Genovesi," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
gioberti: essential Italian
philosopher, He was imprisoned and exiled for advocating unification, and became a central political
figure during the Risorgimento. His major political oeuvre, “Del primato morale
e civile degli italiani,” argues for a federation of the states. Gioberti’s philosophical theory,
ontologism, in contrast to Hegel’s idealism, identifies the dialectics of Being
with God’s creation. Gioberti condensed his theory in the formula: “Being
creates the existent.” “L’essere crea l’essistente.” The dialectics of Being,
which is the only necessary substance, is a “palingenesis,” or a return to its
origin, in which the existent first departs from and imitates its creator (“mimesis”)
and then returns to its creator (“methexis”). By intuition, the human mind
comes in contact with God and discovers truth by retracing the dialectics of
Being. However, knowledge of supernatural truths is given only by God’s
revelation. His oeuvre also includes “Teorica del soprannaturale” and “Introduzione
allo studio della filosofia.” Gioberti criticized modern philosophers such as
Descartes for their psychologism seeking
truth from the human subject instead of from Being itself and its revelation.
His thought is very influential in Italy. Vincenzo
Gioberti (Torino, 5 aprile 1801 – Parigi, 26 ottobre 1852) è stato un
presbitero, patriota e filosofo italiano, nonché il primo Presidente della
Camera dei deputati del Regno di Sardegna, esponente di primo piano del
Risorgimento italiano. Ricevuta la prima istruzione dai padri
dell'Oratorio di San Filippo Neri con la prospettiva del sacerdozio, si laureò
in teologia nel 1823 e, nel 1825, prese gli ordini sacerdotali. All'inizio
condusse una vita ritirata, ma gradualmente acquisì sempre più interesse negli
affari del suo paese e nelle nuove idee politiche come anche nella
pubblicistica sui temi di attualità. Parzialmente influenzato da Mazzini, lo
scopo principale della sua vita divenne l'unificazione dell'Italia sotto un
unico regime: la sua emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da
concetti reputati alieni al suo genio e sprezzanti del primato morale e civile
degli italiani. Questo primato era associato nella sua mente alla supremazia
papale, anche se inteso in un modo più letterario che politico. Fu perciò
notato dal re Carlo Alberto di Savoia, che lo nominò suo cappellano. La sua
popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti
per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e
non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico nel 1833, ma
fu improvvisamente arrestato con l'accusa di complotto e, dopo quattro mesi di
carcere, fu bandito dal Regno sabaudo senza processo. Gioberti andò prima a
Parigi[1] e, un anno dopo, a Bruxelles dove restò fino al 1845 per insegnare
filosofia e assistere un amico nella direzione di una scuola privata.
Nonostante ciò, trovò il tempo di scrivere diverse opere di importanza
filosofica con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.
Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto nel 1846, Gioberti
divenne libero di tornare in patria, ma si rifiutò di farlo fino alla fine del
1847. Al suo ritorno a Torino, il 29 aprile 1848, fu ricevuto con il più grande
entusiasmo. Rifiutò la dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto,
preferendo rappresentare la sua città natale nella Camera dei deputati, della
quale fu presto eletto presidente. Il 16 dicembre 1848 cadde il governo.
Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo governo terminò il
21 febbraio 1849. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II, nel marzo del
1849 la sua vita politica giunse alla fine. Per un breve periodo, infatti, ebbe
un posto nel consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio
irriconciliabile non tardò a maturare. Fu allontanato da Torino con
l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi, da cui non fece più
ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione ecclesiastica,
visse in povertà e passò il resto dei suoi giorni a Bruxelles, dove si trasferì
dedicandosi agli studi letterari. Morì improvvisamente di un colpo apoplettico
il 26 ottobre 1852. I primi due licei istituiti a Torino, nel 1865,
celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il Liceo classico Cavour) e
l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il Liceo classico Vincenzo
Gioberti). Gli scritti di Gioberti sono più importanti della sua carriera
politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui scrisse, sono
state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale; anche il sistema di
Gioberti, conosciuto come ontologismo, più nello specifico nelle sue più
importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole di pensiero. Mostra
un'armonia con la fede cattolica che spinse Victor Cousin a sostenere che la
filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti non era
un filosofo. Il metodo per lui è uno strumento sintetico, soggettivo e
psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia con la formula
ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo.[2] Dio è l'unico ente Ens;
tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la conoscenza
umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio stesso. È intuita
direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve riflettere, e questo
avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza dell'ente e delle
esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni reciproche, sono
necessarie per l'inizio della filosofia. Gioberti è, da un certo punto di
vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e nel suo trattato
Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla conclusione che la
chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si fonda. In questo
afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata dalla restaurazione
del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e sull'opinione
pubblica; tale opera sarà la base teorica del neoguelfismo. Nelle sue ultime
opere, Rinnovamento e Protologia si dice che abbia spostato il suo campo
sull'influenza degli eventi. La sua prima opera, scritta quando aveva 37
anni, aveva una ragione personale per la sua esistenza. Un giovane compagno
d'esilio e amico Paolo Pallia, avendo molti dubbi e sfortune per la realtà
della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de La teorica del
sovrannaturale (1838). Dopo questa, sono passati in rapida successione dei
trattati filosofici. La Teorica è stata seguita dall'Introduzione allo studio
della filosofia in tre volumi (1839-1840), dove afferma le ragioni per
richiedere un nuovo metodo e una nuova terminologia. Qui riporta la dottrina
per cui la religione è la diretta espressione dell'idea in questa vita ed è un
unicum con la vera civiltà nella storia. La Civiltà è una tendenza alla
perfezione mediata e condizionata, alla quale la religione è il completamento
finale se portato a termine. È la fine del secondo ciclo espresso dalla seconda
formula, l'ente redime gli esistenti. I saggi (inediti fino al 1846) su
materie più leggere e più famose, Del bello e Del buono hanno seguito
l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla
stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno,
pubblicato clandestinamente a Losanna da Stanislao Antonio Bonamici[3], ha
senza dubbio accelerato il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle
civili. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri
articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che ha
portato Gioberti ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese
natio. Tutte queste opere sono state perfettamente ortodosse e hanno
contribuito ad attirare l'attenzione del clero liberale nel movimento che è
sfociato, sin dai suoi tempi, nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia,
si sono radunati attorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma e
alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all'indice. I resti delle sue
opere, specialmente La filosofia della rivelazione e la Prolologia espongono i
suoi punti di vista maturi in molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra
cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati pubblicati da Giuseppe Massari
(Torino, 1856-1861). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la redazione
dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici "Enrico
Castelli", presso l'Università La Sapienza di Roma[4] Opere Edizione
nazionale delle opere edite e inedite di Vincenzo Gioberti in 38 volumi.
Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani,[5] a cura di Enrico
Castelli (1938) Primato morale e civile degli italiani,[6] a cura di Ugo Redanò
(1938) Introduzione allo studio della filosofia, a cura di Alessandro Cortese
(2001) Teorica del sovrannaturale, 3 voll., a cura di Alessandro Cortese (1970)
Del rinnovamento civile d'Italia (1850) Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento
civile d'Italia, Scrittori d'Italia 14, vol. 1, Bari, Laterza, 1911. URL
consultato il 29 giugno 2015. Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile
d'Italia, Scrittori d'Italia 16, vol. 2, Bari, Laterza, 1911. URL consultato il
29 giugno 2015. Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori
d'Italia 24, vol. 3, Bari, Laterza, 1912. URL consultato il 29 giugno
2015. Note ^ Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi del 27 ottobre 1833
in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze,
Successori Le Monnier, 1906, pagg. 442 sgg.. Gioberti visse in Rue des marais
S. Germain, hotel du Pont des Arts n° 3. ^ In lingua latina: "dal
nulla", vedi anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. ^
Bonamici Stanislao Antonio, su Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. URL consultato il 17 marzo 2018. ^ Istituto
Castelli-Università di Roma Archiviato il 15 marzo 2008 in Internet Archive. ^
Anteprima disponibile su books.google. ^ Anteprima della II edizione
disponibile su books.google. Bibliografia Giuseppe Massari, Vita di Vincenzo
Gioberti, Firenze, 1848. Antonio Rosmini Serbati, Vincenzo Gioberti e il
panteismo, Milano, 1848. Charles Bohun Smyth, Christian Metaphysics, 1851.
Bertrando Spaventa, La Filosofia di Gioberti, Napoli, 1854. Achille Mauri,
Della vita e delle opere di Vincenzo Gioberti, Genova, 1853. Giuseppe Prisco,
Gioberti e l'ontologismo, Napoli, 1867. Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia
nuova italiana, Napoli, 1866-1872. Domenico Berti, Di Vincenzo Gioberti,
Firenze, 1881. Giorgio Rumi, Gioberti, Bologna, Il mulino, 1999. Mario
Sancipriano, Vincenzo Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento, Roma,
Studium, 1997. Francesco Traniello, Da Gioberti a Moro: percorsi di una cultura
politica, Milano, Angeli, 1990. Gianluca Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica.
Un'interpretazione del pensiero filosofico di Vincenzo Gioberti alla luce delle
opere postume, Milano, Mursia, 1999. Marcello Mustè, La scienza ideale.
Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000.
Marcello Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, 2002. Alessio Leggiero,
Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne, 2013. Luigi
Ferri, L'Histoire de la philosophie en Italie au XIX' siècle, Paris, 1869. Karl
Werner, Die italienische Philosophie des 18 Jahrhunderts, ii. 1885. Raffaele
Mariano, La Philosophie contemporaine en Italie, 1866. L'esauriente voce della
Allgemeine Encyclopädie di Ersch e Gruber, a firma di R. Seydel Francesco
Traniello, GIOBERTI, Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
55, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2001. URL consultato l'11
ottobre 2017. Modifica su Wikidata Voci correlate Società nazionale per la
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Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Vincenzo Gioberti, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Vincenzo Gioberti, su
storia.camera.it, Camera dei deputati. Modifica su Wikidata (EN) Vincenzo
Gioberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Marcello Mustè, Vincenzo Gioberti, in Il contributo italiano alla
storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2012. PredecessorePresidente del Consiglio dei ministri del Regno di
SardegnaSuccessoreFlag of Italy (1861–1946).svg Ettore Perrone di San
Martinodicembre 1848 - febbraio 1849Agostino ChiodoV · D · M Presidenti del
Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna PredecessorePresidente della
Camera dei deputatiSuccessore Nessuno8 maggio 1848 - 30 dicembre 1848Lorenzo
Pareto V · D · M Presidenti della Camera dei deputati Controllo di autoritàVIAF
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ottobreNati a TorinoMorti a ParigiPersonalità del RisorgimentoPresidenti del
consiglio dei ministri del Regno di SardegnaStoria delle relazioni tra Santa
Sede e Stato italianoPresidenti della Camera dei deputatiMembri dell'Accademia
delle Scienze di TorinoGoverno BalboGoverno CasatiGoverno GiobertiGoverno de
LaunayFederalistiDeputati della I legislatura del Regno di SardegnaDeputati
della II legislatura del Regno di SardegnaDeputati della III legislatura del
Regno di Sardegna[altre]. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Gioberti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
giudice: essential Italian philosopher – who
has studied in depth the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli, 14 agosto 1957) è uno
scrittore italiano. Dopo essersi laureato in medicina
all'Università degli Studi di Napoli Federico II nel 1982 inizia a scrivere
opere sulla vita e il pensiero di Giordano Bruno e sulla filosofia del
Rinascimento. È membro del comitato scientifico della Nicolas Benzin
Stiftung[1]. Nel 2008 l'Accademia Internazionale Partenopea Federico II ha
assegnato alla sua opera, La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, il
primo posto nel "Premio internazionale Giordano Bruno", quale
"migliore opera d'ingegno dedicata al filosofo".[2] Dal 2013
pubblica i suoi articoli sulla rivista di letteratura e biblofilia “la
Biblioteca di Via Senato”.[3] Nel 2015 ha fondato “The Giordano Bruno
Society”, associazione culturale per la diffusione del pensiero bruniano nel
mondo. Opere WWW. Giordano Bruno, Marotta e Cafiero Editori, Napoli
2001.[4] La coincidenza degli opposti. Giordano Bruno tra Oriente e Occidente,
Di Renzo Editore, Roma 2005.[5] Pubblicata una seconda edizione con il saggio:
Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma 2006.[5] Due
Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma
2006;[5] La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore,
Roma 2008. Il Dio dei Geometri - quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma,
2009.[5] Somma dei termini metafisici, con il saggio: Bruno in Svizzera, tra
alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, 2010. Io dirò la verità.
Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, 2012. Contro i matematici,
Di Renzo Editore, Roma, 2014. Giordano Bruno. Il profeta dell'universo
infinito, The Giordano Bruno Society, Napoli, 2015.[6] Giordano Bruno. Epistole
latine, Fondazione Mario Luzi, 2017.[7] Giordano Bruno. Scintille d'infinito.
Il pensiero del grande filosofo in 200 aforismi. Di Renzo Editore, 2020 Note ^
Nicolas Benzin Stiftung sito. ^ Premio Bruno Archiviato l'11 gennaio 2012 in
Internet Archive. su giornalewolf. ^ La Biblioteca di Via Senato di Milano., su
www.bibliotecadiviasenato.it. URL consultato il 20 novembre 2018. ^ Guido del
Giudice su ibs. Guido del Giudice Archiviato il 20 gennaio 2012 in Internet
Archive. su lafeltrinelli. ^ Amazon.com: guido del giudice, su www.amazon.com.
URL consultato l'11 gennaio 2016. ^ Guido del Giudice, su www.lafeltrinelli.it.
URL consultato il 20 novembre 2018. Voci correlate Giordano Bruno Rinascimento
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Categorie: Nati nel 1957Nati il 14 agostoNati a Napoli Refs.:
Luigi Speranza, "Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana,"
per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
glanvill: English
philosopher who defended the Royal Society against scholasticism. Glanvill believes
that certainty is possible in the mathematical but not in the empirical realm.
In “The Vanity of Dogmatizing,” he claimed that the human corruption that
resulted from Adam’s fall precludes dogmatic knowledge of nature. Using
traditional sceptical arguments as well as an analysis of causality that
anticipate Hume, Glanvill argues that empirical belief is the probabilistic
variety acquired by piece-meal investigation. Despite his scepticism he argues
for the existence of witches in Witches and Witchcraft (“Probably he was
married to one,” Grice comments).
gnosticism:
a philosophical
movement, especially important under the leadership of Valentinus and
Basilides. They teach that matter was evil, the result of a cosmic disruption
in which an evil archon often associated with the god of the Old Testament,
Yahweh rebelled against the heavenly pleroma the complete spiritual world. In
the process divine sparks were unleashed from the pleroma and lodged in
material human bodies. Jesus was a high-ranking archon Logos sent to restore
those souls with divine sparks to the pleroma by imparting esoteric knowledge
gnosis to them. Gnosticism influenced and threatened the orthodox church from
within and without. NonChristian gnostic sects rivaled Christianity, and
Christian gnostics threatened orthodoxy by emphasizing salvation by knowledge
rather than by faith. Theologians like Clement of Alexandria and his pupil
Origen held that there were two roads to salvation, the way of faith for the
masses and the way of esoteric or mystical knowledge for the philosophers.
Gnosticism profoundly influenced the C. of E., causing it to define its
scriptural canon and to develop a set of creeds and an episcopal organization
(“My mother, Mabel Fenton Grice, was a bit of a gnostic, if I must say” –
Grice).
godwin: w. English
philosopher. “An Enquiry concerning Political Justice” arises heated debate.
Godwin argues for radical forms of determinism, anarchism, and utilitarianism. Godwin
thought that government corrupts everyone by encouraging stereotyped thinking
that prevents us from seeing each other as unique individuals. His “Caleb
Williams” portrays a good man corrupted by prejudice. Once we remove prejudice
and artificial inequality we will see that our acts are wholly determined. This
obviously makes punishment pointless. Only in a small anarchic society – such
as the one he observed outside Oxford -- can people see others as they really
are and thus come to feel a ‘sympathetic concern’ for his well-being. (In this
he influenced Edward Carpenter of “England Arise” infame). Only so can we be
virtuous, because being virtuous is acting from a ‘sympathetic’ (cf. Grice’s
principle of conversational sympathy) feeling to bring the greatest happiness
to the dyad affected. Godwin takes this principle (relabeled “the principle of
conversational sympathy” by Grice) quite literally, and accepts all its
consequences. Truthfulness has no claim on us other than the happiness it
brings. If keeping a promise causes less good than breaking it, there is no
reason (or duty) at all to keep it. If one must choose between saving the life
either of a major human benefactor or of one’s distant uncle, one must choose
the benefactor. We surely need no ‘rules’ in morals. An alleged ‘moral’ “rule”
would prevent us from seeing others properly, thereby impairing the sympathetic
feeling that constitutes virtue. Rights, too, are pointless. Sympathetic people
will act to help (or cooperate with) others. Later utilitarians like Bentham
had difficulty in separating their positions from Godwin’s notorious
views. Refs.: H. P. Grice, “Godwin and
the ethics of conversation.’
gorgias: Grecian Sophist –
“a sophist is never to be confused with a ‘philosopher,’ even if he is
oh-so-much cleverer than your average one!” – Grice. A teacher of rhetoric from
Leontini in Syracuse, Gorgias came to Athens as an ambassador from his city and
caused a sensation with his artful oratory. He is known through references and
short quotations in later writers, and through a few surviving texts two speeches and a philosophical treatise. He
taught a rhetorical style much imitated in antiquity, by delivering model speeches
to paying audiences. Unlike other Sophists he did not give formal instruction
in other topics, nor prepare a formal rhetorical manual. He was known to have
had views on language, on the nature of reality, and on virtue. Gorgias’s style
was remarkable for its use of poetic devices such as rhyme, meter, and elegant
words, as well as for its dependence on artificial parallelism and balanced
antithesis. His surviving speeches, defenses of Helen and Palamedes, display a
range of arguments that rely heavily on what the ancients called eikos ‘likelihood’
or ‘probability’. Gorgias maintained in his “Helen” that a speech can compel
its audience to action; elsewhere he remarked that in the theater it is wiser
to be deceived than not. Gorgias’s short book On Nature or On What Is Not
survives in two paraphrases, one by Sextus Empiricus and the other now
considered more reliable in an Aristotelian work, On Melissus, Xenophanes, and
Gorgias. Gorgias argued for three theses: that nothing exists; that even if it
did, it could not be known; and that even if it could be known, it could not be
communicated. Although this may be in part a parody, most scholars now take it
to be a serious philosophical argument in its own right. In ethics, Plato
reports that Gorgias thought there were different virtues for men and for
women, a thesis Aristotle defends in the Politics.
grammaticum: Grice: “strictly, I’m a grammarian, for I’m a B. A. and M.
A. in litterae humaniores, and litterae is nothing but a rought transliteration
of Grecian ‘grammatike tekhne’ -- Is there a ‘grammar’ of gestures? How loose
can an Oxonian use ‘grammar’? Sometimes geography, sometimes botany –
“Grammatica” the Romans never cared to translate. Although ‘literature’ is the
cognate. – For some reasons, the Greeks were obsessed with the alphabet – It
was a trivial ‘art’. Like ‘logic,’ and philosophy is NOT an art or ‘techne.’ A
philosopher is not a technician – and hardly an artist like William Morris (his
‘arts and crafts’ is a joke since it translates in Latin to ‘ars et ars,’ and
‘techne kai techne’). The sad thing is that at MIT, as Grice knew, Chomsky is
appointed professor of philosophy, and he mainly writes about ‘grammar’! Later,
Chomsky tries to get more philosophical, but chooses the wrong paradigm –
Cartesianism, the ghost in the machine, in Ryle’s parlance. Odly, Oxonians, who
rarely go to grammar schools, see ‘grammar’ as a divinity, and talk of the
logical grammar of a Ryleian agitation, say. It sounds high class because there
is the irony that an Oxonian philosopher is surely not a common-or-garden
grammarian, involved in the grammar of, say, “Die Deutsche Sprache.” The
Oxonian is into the logical grammar. It is more of a ‘linguistic turn’
expression than the duller ‘conceptual analysis,’ or ‘linguistic philosophy.’
cf. logical form, and Russell, “grammar is a pretty good guide to logical
form.” while philosophers would use grammar jocularly, Chomsky didnt. The
problem, as Grice notes, is that Chomsky never tells us where grammar ends (“or
begins for that matter.”) “Consider the P, karulising elatically.” When Carnap
introduces the P, he talks syntax, not grammar. But philosophers always took
semiotics more seriously than others. So Carnap is well aware of Morriss triad
of the syntactics, the semantics, and the pragmatics. Philosophers always
disliked grammar, because back in the days of Aelfric, philosophia was supposed
to embrace dialectica and grammatica, and rhetorica. “It is all part of
philosophy.” Truth-conditional semantics and implicatura. grammar, a system
of rules specifying a language. The term has often been used synonymously with
‘syntax’, the principles governing the construction of sentences from words
perhaps also including the systems of word derivation and inflection case markings, verbal tense markers, and the
like. In modern linguistic usage the term more often encompasses other
components of the language system such as phonology and semantics as well as
syntax. Traditional grammars that we may have encountered in our school days,
e.g., the grammars of Latin or English, were typically fragmentary and often
prescriptive basically a selective
catalog of forms and sentence patterns, together with constructions to be
avoided. Contemporary linguistic grammars, on the other hand, aim to be
descriptive, and even explanatory, i.e., embedded within a general theory that
offers principled reasons for why natural languages are the way they are. This
is in accord with the generally accepted view of linguistics as a science that
regards human language as a natural phenomenon to be understood, just as
physicists attempt to make sense of the world of physical objects. Since the
publication of Syntactic Structures 7 and Aspects of the Theory of Syntax 5 by
Noam Chomsky, grammars have been almost universally conceived of as generative
devices, i.e., precisely formulated deductive systems commonly called generative grammars specifying all and only the well-formed
sentences of a language together with a specification of their relevant
structural properties. On this view, a grammar of English has the character of
a theory of the English language, with the grammatical sentences and their
structures as its theorems and the grammar rules playing the role of the rules
of inference. Like any empirical theory, it is subject to disconfirmation if
its predictions do not agree with the facts
if, e.g., the grammar implies that ‘white or snow the is’ is a
wellformed sentence or that ‘The snow is white’ is not. The object of this
theory construction is to model the system of knowledge possessed by those who
are able to speak and understand an unlimited number of novel sentences of the
language specified. Thus, a grammar in this sense is a psychological
entity a component of the human
mind and the task of linguistics
avowedly a mentalistic discipline is to determine exactly of what this
knowledge consists. Like other mental phenomena, it is not observable directly
but only through its effects. Thus, underlying linguistic competence is to be
distinguished from actual linguistic performance, which forms part of the
evidence for the former but is not necessarily an accurate reflection of it,
containing, as it does, errors, false starts, etc. A central problem is how
this competence arises in the individual, i.e., how a grammar is inferred by a
child on the basis of a finite, variable, and imperfect sample of utterances
encountered in the course of normal development. Many sorts of observations
strongly suggest that grammars are not constructed de novo entirely on the basis
of experience, and the view is widely held that the child brings to the task a
significant, genetically determined predisposition to construct grammars
according to a well-defined pattern. If this is so, and since apparently no one
language has an advantage over any other in the learning process, this inborn
component of linguistic competence can be correctly termed a universal grammar.
It represents whatever the grammars of all natural languages, actual or
potential, necessarily have in common because of the innate linguistic
competence of human beings. The apparent diversity of natural languages has
often led to a serious underestimation of the scope of universal grammar. One
of the most influential proposals concerning the nature of universal grammar
was Chomsky’s theory of transformational grammar. In this framework the
syntactic structure of a sentence is given not by a single object e.g., a parse
tree, as in phrase structure grammar, but rather by a sequence of trees
connected by operations called transformations. The initial tree in such a
sequence is specified generated by a phrase structure grammar, together with a
lexicon, and is known as the deep structure. The final tree in the sequence,
the surface structure, contains the morphemes meaningful units of the sentence
in the order in which they are written or pronounced. For example, the English
sentences ‘John hit the ball’ and its passive counterpart ‘The ball was hit by
John’ might be derived from the same deep structure in this case a tree looking
very much like the surface structure for the active sentence except that the
optional transformational rule of passivization has been applied in the
derivation of the latter sentence. This rule rearranges the constituents of the
tree in such a way that, among other changes, the direct object ‘the ball’ in
deep structure becomes the surface-structure subject of the passive sentence.
It is thus an important feature of this theory that grammatical grammar grammar
352 352 relations such as subject,
object, etc., of a sentence are not absolute but are relative to the level of
structure. This accounts for the fact that many sentences that appear
superficially similar in structure e.g., ‘John is easy to please’, ‘John is
eager to please’ are nonetheless perceived as having different underlying
deep-structure grammatical relations. Indeed, it was argued that any theory of
grammar that failed to make a deep-structure/surface-structure distinction
could not be adequate. Contemporary linguistic theories have, nonetheless,
tended toward minimizing the importance of the transformational rules with
corresponding elaboration of the role of the lexicon and the principles that
govern the operation of grammars generally. Theories such as generalized
phrase-structure grammar and lexical function grammar postulate no
transformational rules at all and capture the relatedness of pairs such as
active and passive sentences in other ways. Chomsky’s principles and parameters
approach 1 reduces the transformational component to a single general movement
operation that is controlled by the simultaneous interaction of a number of
principles or subtheories: binding, government, control, etc. The universal
component of the grammar is thus enlarged and the contribution of languagespecific
rules is correspondingly diminished. Proponents point to the advantages this
would allow in language acquisition. Presumably a considerable portion of the
task of grammar construction would consist merely in setting the values of a
small number of parameters that could be readily determined on the basis of a
small number of instances of grammatical sentences. A rather different approach
that has been influential has arisen from the work of Richard Montague, who
applied to natural languages the same techniques of model theory developed for
logical languages such as the predicate calculus. This so-called Montague
grammar uses a categorial grammar as its syntactic component. In this form of
grammar, complex lexical and phrasal categories can be of the form A/B.
Typically such categories combine by a kind of “cancellation” rule: A/B ! B P A
something of category A/B combines with something of category B to yield
something of category A. In addition, there is a close correspondence between
the syntactic category of an expression and its semantic type; e.g., common
nouns such as ‘book’ and ‘girl’ are of type e/t, and their semantic values are
functions from individuals entities, or e-type things to truth-values T-type
things, or equivalently, sets of individuals. The result is an explicit,
interlocking syntax and semantics specifying not only the syntactic structure
of grammatical sentences but also their truth conditions. Montague’s work was
embedded in his own view of universal grammar, which has not, by and large,
proven persuasive to linguists. A great deal of attention has been given in
recent years to merging the undoubted virtues of Montague grammar with a
linguistically more palatable view of universal grammar. Refs.:
One source is an essay on ‘grammar’ in the H. P. Grice Papers, BANC.
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