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Monday, April 4, 2022

GRICE ED EVOLA: ROMOLO

 GIULIO EVOLA    S \T0 A ROMA IL 19 MAGGIO 1889.    | Evola parie dall’idealismo: il mondo è per lui  ■fa rappresentazione dell’Io. Ma poiché l’Io subisce  Kfa rappresentazione del mondo come nn limite e  wLffrc in essa la sua passività, s’impone all’Io l’ob-  blitpi pratico di sciogliere la sua passività in atti-  vità riducendo il mondo sotto il comando suo, [a-  j rendo di esso l ' atto dell’Io. La tecnica di questo pro-  gresso di risoluzione del mondo nell’Io è data dal-  l’Occultismo magico. Dall’innesto dell’Idealismo clas-  sico con la Magia nasce /'Idealismo Magico di Evola.    irò I;   r„    Opere principali — Saggi sull’Idealismo magia  - L’uomo come potenza - imperialismo pagano, To-  di, Atanor; Teoria dell’Individuo assoluto - Feria-  menologia dell’Individuo assoluto - Maschera e voi.  to dello spiritualismo contemporaneo, Torino, Boc-  ca; L’indivìduo e il divenire del mondo, Roma, Li-  breria di Scienze e Lettere; La Tradizione ermetica  Bari, Laterza; Rivolta contro il mondo moderno  Milano, Hoepli. — Ha diretto le riviste Ur e La  Torre.     Dall    'idealismo assoluto all’idealismo magico.    1) La Grande Solitudine.    Una volta che l’Io si sia costituito a prin-  cipio a sè, a centro distinto di autoriferimen-  to. il fatto stesso che egli possa comunicare  con qualcosa di altro da lui, il fatto stesso che  egli possa in generale conoscere, appare come  un singolare mistero. E poiché è evidente che  posto il soggetto da una parte, l’oggetto dal-  l’altra non vi è più alcun modo di intendere  come quella lor congiunzione, in cui consiste  il conoscere, sia possibile; e poiché d’altra  parte l’Io ha preso ormai coscienza di sè e    75    non può più tornare a quello stato di ingem )4  adesione, di compenetrazione con le cose cli f  era appunto condizionato dal suo non esser.!  si ancora posto; resta aperta una sola via al  problema della conoscenza, e cioè: negar,,  che l’idea di una realtà esistente in sè stessa  abbia un qualunque senso, affermare che ] a  sostanza delle cose consiste semplicemente  nel loro venire rappresentate o pensate dal.  l’Io, intendere dunque che l’intero sistema  mondiale, nella ricchezza sterminata delle  sue forme, con i suoi oceani, i suoi soli e ] t .  sue vie lattee, non è che un fenomeno, una ap-  parizione che è di questo Io e per questo Io,  fuori dal quale non gli si saprebbe coeren-  temente garentire alcuna consistenza. Lungo  una tale via l’uomo vede dunque venir me-  no progressivamente tutti quegli appoggi e  tutte quelle naturali evidenze su cui prima  riposava — tutto gli si fa ora dubbioso, pro-  blematico, contingente. Tutto ciò che sa, è che  egli ora si trova così e così determinato, che  questa è la sua attuale esperienza, queste le  leggi e le categorie secondo cui egli si trova  costretto a pensarla. Ma circa il fondamento  di tale determinatezza, di tali leggi e di tali  categorie, egli non sa nulla, e così nulla sa-  prebbe garentirgli che le cose, se così sono  ed anche sono state nei casi osservati, non  possano ad un tratto cambiare, che ogni uni-     L rI )iilà cd ogni costanza non sia astratta e  precaria, c h e , fondato su una radicale contin-    g c,lZ    za , questo sistema di fenomeni e di cate-    ti» 1 '    j e non sia che un episodio fugace, disper-  mia incoercibile, imprevedibile vicenda.    in    Se, dopo di ciò, l’individuo cerca ancora  „ n punto fermo, egli soltanto nel suo « Io »    può    Irovarlo. — Il mondo è una rappresenta-    r joiie, sta bene: ma si può forse parlare di  Ljpprescnlazione, senza nello stesso punto  resupporre resistenza di un « rappresen tall-  ite». di un soggolo cioè che la rappresenti?  [n mondo è un sogno: ma ogni sogno non im-  Iplica forse un sognatore? Si può chiamare  f a | S o, illusorio, non esistente l’insieme dell’e-  sperienza — ma colui che sperimenta e affer-  ma cotesta falsità, illusione, non esistenza  non può essere, lui, falso, illusorio, non esi-  stente. Di là dall’obliquità e dalla fluttuazio-  ne delle « cose che sono e non sono » vi è dun-  que una sola certezza: 17o. Soltanto qui l’in-  dividuo, con un possesso, ha una realtà asso-  luta ed in sè stessa evidente. Di tutto il resto  _ dell’oceano sterminato dei nomi, delle for-  me e degli esseri — non vi è reale certezza:  parvenza, contingenza, violenza di un bruto,  irrazionale « esser là », tali ne sono i princi-  pi. * lo solo sono — il resto è mia rappresen-  tazione » : in ciò si può dunque intendere la  conclusione del secondo stadio della storia  della coscienza.     Prima di passar oltre, occorre rilevare v  necessità che questo momento critico deli  storia ideale dell’individuo sia portalo e vk  suto sino a fondo. Non prima che egli abbj a  di tutto dubitato e tutto negato, non prima eh,,  egli abbia fatto intorno a sè il deserto, noft  prima che di ogni realtà abbia sofferta I’j N  realtà, di ogni evidenza la precarietà, di ogi,,  luce l’oscurità: non prima che egli abbia di-  strutto ogni appoggio e ogni rifugio ed abbj a  realizzato il punto della «grande solitudine»   — non prima di ciò l’individuo può chiamar-  si veramente tale, non prima di ciò egli è un  essere autonomo ed autocosciente. E’ quest,,  atto negativo, questo assoluto strapparsi da  quanto prima gli dava consistenza — che ora  lo fa essere. Così come secondo l’energico del-  to dello Stirner, l’Io non è tutto, ma ciò che  distrugge tutto; per questa assoluta negatività  albeggia nell’uomo quel principio tragico che   — come fu distintamente visto dal buddhismo   — lo fa superiore all’insieme della natura ed  allo stesso regno degli « dei ».   Si può precisare il luogo di un tale Io co-  me segue. Ogni esperienza è inseparabilmen-  te accompagnata dalla nota, implicita o espli-  cita, di essere una mia esperienza. Uautorife.  rimento, l’ahamkàra della metafisica indiana,  è la condizione elementare, senza di cui non  è concepibile alcuna realtà, giacché la sola    78    Il 11    di cui posso concretamente parlare è  iella che, in un modo o nell’altro, si risolve    r eal |:l    in    ull a mia esperienza. Ora è possibile stacca-    fe cpiesto principio di autoriferimento dai  particolari contenuti delle esperienze per ri-  legarlo in un certo modo su sè stesso. Allo-  ra s i ha: IO — IO, cioè una nuda esperienza,  un possesso, qualcosa di semplice e di ineffa-  bile. Questa nuda esperienza si presuppone,  ,|i fatto e di diritto, a qualsiasi altra esperien-  za si può dire che essa è come la tela sul-  i a quale poi tutte le particolari esperienze si  ritagliano: qui si ha quel «veggente che non  -, mai veduto », quel « conoscente che non è  ina i conosciuto », quel punto di centralità pu-  ra di cui parlano le Upanishad, e rispetto a  cui ogni particolare esperienza, fenomeno o  pensiero è un « posterius », qualcosa che vie-  ne dopo e che sta alla periferia. Si badi: qui  non si tratta nè di un Io « superiore », nè di  un Io « inferiore », nè di un Io « empirico »,  nè di un Io « trascendentale », — semplici no-  mi e astrazioni concettuali — bensì del mio  I>>, di quella assoluta presenza che sono nella  profondità del mio essere individuale. Ora  che un tale Io sia qualcosa di immoltiplicabi-  lr, qualcosa che è « solo e senza un secondo »,  è troppo evidente. Parlare di altri Io da que-  sto livello è infatti contradizione in termini.  Gli altri Io, in quanto sono « altri », non so-      no « Io », bensì dei particolari contenuti p P  senti nella mia esperienza — dunque degl;  oggetti, dei « conosciuti », al più il concett  di un conoscente e di un soggetto, non il So  getto, non il conoscente quale è in sè stesso  (cioè: come autoesperienza), che, come t a |^  esso è unico e incomunicabile. Fenomeni pJj  tieolari in questo grande fenomeno, che è il  mondo a cui, come individuo, mi sveglio,   « altri Io » ne partecipano la contingenza, so-  no qualcosa il cui principio mi sfugge, di cui  non ho alcuna reale certezza (forse che ara  che i sogni non mi presentano la parvenza di  altri esseri simili a me? E non potrebbe essere  la cosidetta esperienza reale un sogno più po.  tenie e costante impresso in me, come lo sup-  pose la scepsi cartesiana, da un qualche spi-  rito?), che cadono fuori da quel centro che,  solo, può costituirmi una terra ferma nel gran  mare dell’essere. E’ questo un punto su cui  occorre richiamare particolarmente l’attenzio-  ne: colui che, o per preoccupazioni morali e  sentimentali — a dir vero riconnettentisi al-  la precedente fase dell’evidenza naturale —  o per insufficienza di riflessione critica, non  sia giunto ad estendere il dubbio sulla realtà  stessa degli altri soggetti, epperò a concepirli  come null’allro che mie rappresentazioni,  quegli non ha veramente condotto a fondo  quel distacco, di cui poco fa si è parlato, ep    .SO    però non ha ancora perfettamente realizzala  la pura essenza dell’individuale. Costui non  è ancora maturo per il passaggio alla terza  epoca giacché di nulla può avere assoluta  I certezza quei che prima non ha saputo di tul-  io dubitare.   2) La uia della Potenza.   Passando dunque alla terza fase, diciamo  subito che in essa si ha un superamento del  lato negativo connesso all’adergersi dell’indi-  vidualità. Come chi una avversa vicenda aves-  se gittato sur una isola deserta incalzato, di  là dal primo sgomento, dalla volontà di vive-  re, va a cercare ed a creare mezzi per una  nuova esistenza, così 1 individuo, che si sen-  te ormai solo con se stesso nell’intero ambito  del mondo, può essere portato a trarre dal  proprio interno un principio che sappia fis-  sare una nuova realtà di là dall’ordine della  parvenza e della mera rappresentazione, in  cui ogni cosa ormai è andata sommersa. Que-  sto principio è: LA POTENZA DI DOMINIO.  L’Io, infatti, non è una cosa, un « dato », un  «fatto», ma, essenzialmente, un centro pro-  fondo di volontà e di potenza. Come lo dice  il Fichte, egli non è, che in quanto si pone  — e soltanto un puro porsi è, a dir vero, il  suo « essere ». Come tale si rivela, per un ul-    c    8L    teriore autoapprofondimento, la natura di  quel punto fermo, che si è realizzato nel se-  condo stadio. Ora questo punto fermo può  comunicare la propria consistenza a quel che  non ne ha, e ciò evidentemente quando si va-  dano a riprendere secondo il rapporto pro-  prio ad una affermazione incondizionata dcl-  l’individuale i vari ordini di quella realtà, che  prima appariva irrazionalmente, in bruta con-  tingenza, senza partecipazione della volontà  dell’Io — quasi come in un sogno. Resta da  procedere ad una determinazione di questo  stadio, tale che si definisca l’oggetto della  presente trattazione, e cioè il rapporto del-  l’individuo al divenire del mondo. Nel frat-  tempo si può dire quale sia il criteiio di cer-  tezza che si impone a questo punto. Esso è  espresso dal principio: « Vi è assoluta certez-  za — ed è postulatile realtà — soltanto di  quelle cose, dell’essere o del non essere, del-  l’essere cosi o dell’essere altrimenti delle qua-  li l’Io ha in sé, in funzione di dominio, il  principio o la causa', delle altre, solamente  nella misura di ciò che in esse soddisfa ad un  tale criterio». Queste cose dipendendo infatti  interamente dalla potenza dell Io, partecipa-  no dell’intrinseca evidenza che è inerente al  nudo principio di questo.   Volendo dunque sviluppare la posizione  assunta dalla coscienza nel terzo stadio, si    82    ■ ns idererà l’unica vera obbiezione incontra-  W dall 'idealismo assoluto. Nell’idealismo as-  P 0lulO si ha la dottrina che cerca di trasfor-  I re in qualcosa di positivo quel lavoro ne-  1 ,ivo di critica e di scepsi che definisce il  Secondo stadio; e ciò cessando di intendere  I il inondo come un fenomeno, come una sem-  jj cC apparizione (unica legittima conclusio-  I „ e dell’indagine critica) per intenderlo invece  [ come qualcosa di posto, di creato dall’Io. Per-  Bianto quando si parla non più di rappresenta-  la bensì di porre e di creare, entra in giuo-  Ico il concetto di una libera volontà, ed allo-  I rii sorge questo problema: lo posso ben ri-  B durre il mondo alla mia ruppi esentazione,  nui fino a che punto posso ridurlo anche alla  mia volontà ed alla mia libertà?   Qui bisogna porre un punto fondamentale,  e cioè intendere l’essenziale differenza che in-  I lercorre fra spontaneità e volontà. Si ha spon-  taneità là dove il possibile essendo identico  al reale ossia dove quel che è essendo ciò che  soltanto poteva essere, l’atto ha la forma di  I una inconvertibile compulsione, di un bruto  accadere e scatenarsi, ed è passivo, impoten-  te rispetto a sè stesso. Invece nella volontà vi  f è una eccedenza del possibile sul reale, non si  passa cioè dal possibile al reale immediata-  mente, ma un punto di autarchia, di « pote-  stas», domina l’atto come l’estrema, incondi-    zionata ragione del suo essere o del suo i 1(Jll  essere, del suo essere così o del suo essere  altrimenti come alto che è solamente uno c| e j  possibili, anzi dei compossibili. E’ importante  notare che tanto la spontaneità che la volontà  possono dirsi libere: però mentre nella spoj,.  taneità si tratta di una libertà affatto ncgatj.  va, di una libertà cioè che vuole semplicenieji.  te dire: «non essere determinato dall’ester-  no», nella volontà si ha una libertà positiva,  una libertà cioè che significa assoluta assen-  za di condizioni, siano esse interne che ester-  ne, e quindi contingenza, o, se si preferisce,  arbitrarietà dell’atto.   Una volta compresa questa distinzione,  che non poggia tanto su concetti e sottiglicz-  ze intellettuali, quanto piuttosto sur un dato  immediato di coscienza, sur una evidenza in-  terna che o si ha o non si ha, quando l’idea-  lista assoluto di contro al sistema della realtà  afferma essere stato l’Io a porlo, è evidente  che egli si riferisce non ad una volontà, ma  ad una spontaneità. Egli si riferisce infatti a  quell’attività onde le cose vengono percepite  e rese intime al nostro Io, a quell’elementare  « assenso » onde ci si accorge di esse — as-  senso che se è condizione necessaria per ogni  realtà, in quanto realtà sperimentata dall'Io  (e di altra realtà noi non possiamo coerente-  mente parlare), è ben lungi dall’essere anche    84    r   ^dizione sufficiente. Infatti nel rappresen-  c , il reale non è dominato dal possibile, l’Io  passivo rispetto al proprio atto — non tanto  Lff ernia le cose, quanto piuttosto è come se  i L » cose si affermassero in lui. Come la passio-  ne e l’emozione, la rappresentazione è sì qual-  , sa di mio, qualcosa che io traggo dal mio  proprio interno (e fin qui arriva la legittimi-  tà dell’istanza dell’idealismo, del resto soddi-  sfatta sin dal Leibniz), ma non è me, giacché  jo non posso darla liberamente a me stesso,  giacché io non sto in rapporto di signoria alle  determinazioni di essa, onde mi si dispiega  lo spettacolo della realtà che è questa realtà,  |l0) i la realtà che io voglio. Conseguentemeu-  i c; in tanto l'idealista può dire di essere stato  [lo a « porre » la natura, in quanto egli ridu-  ce l’Io a natura, cioè in quanto di quelVlo, che.  c libertà, non sa nulla, o, per meglio dire, fa  come se non sapesse nulla, e, con evidente  paralogismo, mutua il concetto di Io con quel-  lo del principio di spontaneità. — Posso dire  di essere stato io a porre la natura, ma io in  quanto sono spontaneità, non in quanto sono  propriamente un Io, e cioè libertà e domina-  zione. — E questo è il primo punto.   I! realista, riferendosi propriamente al  punto della reale individualità, avanza dun-  que una istanza che è interamente legittima.  Egli ci pone dinnanzi ad una qualunque con-    85    tingenza dell’esperienza, per es. dinnanzi a ,|  una tempesta, e ci domanda se possiamo ( |j.  re di essere stati noi a « porla ». Mentre q U j   l’idealista risponderebbe con l’affermativa   e ciò perchè, come si è detto, per lui « porre >  significa semplicemente rappresentare C o a  « libera necessità » — noi invece, riferendoti  ad un porre che il principio del dominio <•  dell’incondizionata libertà comandi, rispon-  deremmo: « Ciò, in verità, non è posto dal-  l’Io ». Altro non chiede il realista per dire su-  bito: « Poiché ciò non è posto dall’Io, vi deve  essere un “ altro ” a porlo » — ed inferisce  ad una causa reale o esistente in se stessa del-  le rappresentazioni, quale Dio, la materia, il  noumeno, ecc. Qui sta invece l’errore e il pun-  to su cui ci si permette di richiamare tutta  l’attenzione del lettore. — Dire che io, come  lo, cioè come principio sufficiente e libero,  non posso riconoscermi come causa incondi-  zionata delle rappresentazioni, non vuole af-  fatto dire che queste rappresentazioni siano  causate da « altro » e abbiano per substrato  delle cose reali o esistenti in sè stesse, ma  vuole semplicemente dire che io sono insuf-  ficiente ad una parte della mia attività, la  quale è ancora spontaneità, che una tale par-  te non è ancora MORALIZZATA, che l lo co-  me libertà in essa soffre una PRIVAZIONE.  Tutto ciò su cui non posso, tutto ciò che re-    86    5 j e a iia mia volontà, non è che una priva-  tone di questa volontà stessa, qualcosa di ne-  (ivo, non un essere, ma un non-essere. Per-  il realista va respinto par ime fin de non  ecevoir : egli nel suo riferirsi ad un « altro »  ____ Dio, noumeno, sostanza, ecc. — fa del non-  ^sere un essere, chiama reale ciò che essen-  j 0 solamente una privazione della mia poten-  za , essendo nuH’altro che una negazione ed  ’ vuoto nel corpo immoltiplicabile della mia  attività, si dovrebbe invece, secondo giustizia,  dire irreale. Così conferma questa privazione  slcssa __ così {ugge-, all’atto che, dominando-  le, possedendole, annulla le cose (1) e redime  la privazione, egli invece sostituisce l’atto che  le riconosce e che dà loro superstiziosamente  un essere e una realtà autonoma. Proprio al  primo atto si appunta invece il criterio di cer-  tezza della terza delle fasi indicate: esso chie-  de cioè che l’Io libero e nudo dell’individuo  possa veracemente affermare il principio del-  l’idealismo assoluto, epperò dire: « In verità,  io sfesso son la causa ed il Signore di questo  mondo, in cui mi vivo ». Ma quando sarà pos-  sibile affermare ciò? Evidentemente quando  Tindividuo abbia redento in un corpo di li-    ti) Naturalmente: le annulla in quanto sono al-  tre, per affermarle invece come gesti di una vulon-  U) potente.    87    berla l’oscura passione del mondo, quando  abbia fatto passare la forma secondo cui egli  vive l’attività rappresentativa (quell’attività  cioè per cui si forma in lui lo spettacolo del-  l’universo), da spontaneità — da coincidenza  di possibile e reale — a nuda, incondizipnata  causalità, cioè a: volontà potente (1).   Ora che soltanto in una tale veduta l’atto  dell’individuo abbia un valore cosmico, e che  invece in quella del realismo all’attività ven-  ga tolto ogni vero senso e scopo, può risulta-  re ad ognuno chiaro. Infatti l’attività ha ve-  ramente un senso ed un valore soltanto là do-  ve vi è da far reale qualcosa, che già non e  tale. Questo caso si verifica appunto là dove  P « altro » — ossia ciò che rispecchia il limite    (1) Come questa trasformazione, che affermiamo  essere non un mito, ma possibilità reale, possa poi  praticamente compiersi, è un problema da noi trat-  talo almeno nei limiti in cui sia possibile pub-  blicamente e genericamente trattarlo — altrove, c  che qui non trova posto. Si può dire soltanto che  è un compito a cui nè cultura, nè devozione, nè fi-  losofia, nè arte, nè morale, nè nient’altro di ciò  che gli uomini chiamano «spiritualità», può porta-  re il menomo contributo. Quanto alla filosofia, il suo  limite è l’idealismo magico, in cui perviene a rico-  noscere la propria insufficienza e a postillare la rea  lizzazione della potenza come ciò in cui i suoi mas-  simi problemi possono trovare l’unica assoluta lo-  ro soluzione.    88    Ella mia ,i,)erla — venga inteso non come  ■"f 1 realtà» bensì come una negazione ed un  K » 0 - allora il mondo appare come qualco-  ' l \]i incompleto, come qualcosa che chiede  E u a integrazione a quell’atto dell’individuo,  ILe 1« necessità si faccia libertà, a quello  f ii u pp° deirautoaffermazione onde l’attua-  le potente dell’Unico si estenda e riaffermi  r q U anto ne è la privazione. Se invece si po-  f c i K . 1’ « altro » in quanto tale — cioè pro-  |Ljo come quel principio che limita la mia  |j!j )ert à — sia non una privazione e un non-es-  bensì una positività e una realtà — allo-  ro tutto è già perfetto, tutto è già « essere », e  „on occorre far altro. Ogni scopo ed ogni va-  lore dell’attività e del divenire, ogni respon-  I «abilità vengono meno — giacché i vuoti del  ìmio essere non sono anche vuoti dell’essere  in generale: l\ altro», con la realtà attribui-  tagli- li riempie. Invece nell’altro caso tutto il  inondo appare come una oscura, dolorosa ri-  chiesta all’Io affinchè questi si dia a sè me-  desimo secondo potenza e, in ciò, lo attui nel-  l'essere, in ciò lo redima dalla privazione, in  ciò lo faccia reale. E il divenire — ciò che io  faccio — ha allora un valore, un valore co-    smico.   Esaminando più da vicino la posizione  realistica, si vede che essa si fonda su que-  sto presupposto: che una attività imperfetta,    una attività limitata da per sè stessa non poJ  sa venire concepita, che non appena sia p r .ì  sente una attività limitata si debba snjjju  pensare a qualcosa che sia causa di questa li.  nutazione. Infatti così sta la quistione nel p r() _  hlema della conoscenza: nelle cose vi è Utl  aspetto per cui esse indiscutibilmente dip,.,,.  dono dall’attività dell’Io, aspetto che si rif c .  risce al loro venire in generale rappresentale  o sperimentate; ma vi è anche un secondo  aspetto, che rappresenta un lato negativo nel-  l’attività dell’Io, riferentesi appunto aU’in 1J)(> .  tenza di percepire, non percepire o trasmutare  la percezione come si vuole. Ora su che cosa  si basa il realismo? Appunto su ciò, che à  sente il bisogno di dare una spiegazione a  questa limitazione, che esso non vuole ammet-  tere che una attività limitata, cioè una attivi-  tà incompleta, sia ciò che sta prima, e quindi  sente il bisogno di spiegare la limitazione con  qualcosa di «altro»; si riferisce dunque ad  una realtà distinta dall’Io come causa delle  rappresentazioni. Ma un tale presupposto ilei  realista è ciò che vi può essere di più conte-  stabile.   La concezione a cui si rimette è questa:  che ciò che sta prima debba essere l’assoluto  e che tutto ciò che è particolarità e finitezza  non sia concepibile altrimenti che come una  negazione operata da parte di un « altro »    L Ila pienezza di questo assoluto preesisten-  tratta cioè della posizione platonica e  te -noziana, espressa dal principio: « Ciò che  ' veramente, è l’universale; il particolare da  1 ' s è stesso non esiste, cioè: in ciò che esso  1,0 . l’universale, e in ciò che è propriamente  Articolare non è, è fredda e piatta negazio-  r s Ora ad una tale concezione si può con-  Lmporre l’altra, secondo cui non si va a pre-   ' apporre 1,asso,uto al finito e al P articolare ’  f. aim nette invece che ciò che sta prima sia  {«recisamente il finito e il particolare, intesi  *\ r ò non come qualcosa di in sè contraditto-  Ijjjo bensì come qualcosa di incompleto, non  conni qualcosa che non esiste da sè stesso,  bensì come qualcosa che già in una certa mi-  sura possiede l’essere e rispetto a cui l’asso-  luto non ne sarebbe la negazione, ma lo svi-  luppo- P unto in cui esso va a rentlere P er '  folto il proprio principio secondo un proces-  so continuo dal meno al più, dalla potenza  all’atto, da un grado più povero ad un grado  pii, intenso di attualità e di essere. Ora in una  tale concezione — che si impone dovunque  sviluppo, sintesi e divenire non siano un vuo-  to nome — a ciò che viene prima, in quanto  viene prima, inerisce un certo grado di « pri-  vazione », il quale gli è naturale e in nessun  modo chiede di venire spiegato. La sua spie-  gazione, se mai, non sta indietro — in un as-    soluto limitato dalla potenza di un « altro »  — bensì avanti — nel processo dell’incornpi^  to che si integra, della potenza che arde nel  l’atto, onde non vi è propriamente da spiega  re, ma da agire, da procedere in una più j,  tensa affermazione (1).   (1) E’ importante notare la relatività del conte!,  to di privazione. Un dato elemento non è mai p ri .  vazione in sè, ma sempre in relazione al valore del-  Pautarchia. Il passaggio ad un tale valore fa di q ll( ,|  che era positivo come spontaneità qualcosa di ne-  gativo e di «in potenza» rispetto al punto ulterio-  re. Cosi pure per chi non vuole passare dal punto  di vista logico a quello della volontà il concetto di  privazione non è intelligibile — ma allora l’ideali-  smo astratto resta l’ultima istanza. — Quando si  crede di superare la presente dottrina spiegando la  privazione con una realtà distinta, non si fa un  passo avanti ma un passo indietro, giacché si [ a  uso della categoria logica della causalità, con il chi-  questa stessa realtà diviene condizionata, logica-  mente posta dall’Io. E il cerchio si richiude e il li-  vello critico resta il limite. Si passa invece oltre  per un assoluto positivismo.   Quale è la differenza fra una cosa reale ed una  imaginata? Rappresentate, lo sono tutte e due egual-  mente; ma di là da ciò l’attività rappresentativa a  cui corrisponde la cosa reale è una attività rispet-  to a cui sono impotente. Vi sono elementi su cui  non posso. Questo è tutto.   11 problema di interpretare questo non-potcre  non lo risolviamo, perchè non lo poniamo e anzi  tacciamo di intellettualistica, di astratta, di irrile-    92    Si può dunque contestare il presupposto  lei realismo, si può non concedere il concel-  |. gpinoziano del finito come negazione su   : peso si basa. Poiché le cose sono, in quan-  cu* ^ f   anzitutto sono rappresentate, cosi che un   ole rispetto a ciò che davvero importa a questo  * unto ogni ricerca di tale genere. Questo è un punto  fondamentale: noi affermiamo che la spiegazione  EL] fatto che si è impotenti in certe situazioni con  •| ricorso ad un « altro » — cosa in sè, Dio, « Sto-  ricità dello spirito» et similia — è una psendospie-  Laziorie, anzi un circolo vizioso per questo: che in  noi il concetto di « altro » trae il suo senso e il suo  fondamento dal concetto di « non potere », il quale  l ciò che sta prima e di cui oggettività, cosa in sè,  ilio. ccc. non sono che tanti simboli e traduzioni  intellettuali. Le cosidette cose reali sono simboli  ,1,1 mio non-potere, della mia privazione. E’ per-  ché sperimento una privazione che chiamo reale  una cosa c non viceversa. La privazione spiega il  concetto di una realtà oggettiva e non la realtà og-  gettiva il concettò di privazione. Segue da ciò una  dichiarata professione di agnosticismo, un arre-  co dinnanzi al nudo fatto del non-potere con ri-  nuncia a spiegarlo come che sia*? Niente affatto. Ciò  che neghiamo (non perchè non ne possiamo dare  una, ma perchè tali spiegazioni non ci servono e  non ci bastano ) è la pseudospiegazione intellettuale,  che lascia i fatti come sono, che non trasforma il  rapporto reale della mia potenza con le cose. (Si  crede sul serio che la miseria e la contingenza che  dannano l’essere finito siano in qualche cosa ri-  mosse quando le si spieghino con la materia anzi-    »3    grado di attività e però di positività è già j n ,  plicito; poiché l’Io si può sperimentare imme-  diatamente come una energia, come un p r j n .  cipio di azione, come qualcosa che non chi e .  de ad altro il suo essere; poiché di diritto non  esiste un limite inconvertibile per lo svilupp,,  del potere; non vi è alcuna necessità di t ra .  scendere, in ordine al problema del conosce-  re, il concetto di una attività imperfetta (qu a .  le è la spontaneità rispetto alla volontà) che  solo, ci viene imposto da un esame positivo  e spiegare la rappresentazione con il riferi-  mento realistico ad un « altro » che la causi  e la sottenda. In ciò si avrebbe non tanto una    che con Dio. con l’ Io trascendentale anziché con  la materia, e cosi via, in simili cattive e a buon mer-  cato astrazioni?). La spiegazione che l’ idealismo mu-  gico esige è ben altra: è una spiegazione mediuntt  l’azione, una spiegazione risolutiva: è ex-plicare, os-  sia attuare, rendere perfetto: far passare in atto ciò  che è in potenza, in perfezione ciò che è imperfe-  zione, in sufficienza ciò che è insufficienza, secon-  do un processo sintetico, originale, creatore. Que-  sta è la sola, vera spiegazione. Il resto è passatempo.   Noi aspramente combattiamo tutta la rettorica  intellettuale e filosofica onde l’uomo si indugia a  discorrere intorno alla sua impotenza (ciò noi in-  tendiamo quando ci si parla di « verità », « raziona-  lità », ecc.) anziché balzare finalmente in piedi, im-  pugnarsi e, ardendola, farsi ciò che in sé è: un  Dio, un costruttore del mondo.    94    Baione intellettuale, quanto piuttosto il  Rfjsnia infingardo di colui, che, insufficiente,    dall’atto.   ■perciò la concezione che si presenta al ter-  s tadio dello sviluppo dell’individuale è,  tj complesso» la seguente: un continuum di  Eit’vità che ha per limiti da una parte la spon-  f c ità, dall’altra la volontà libera. La spon-  r c jtà è l’universale, la volontà libera l’indi-  . i ua le. Questi limiti stanno fra loro come po-  I a a d atto: tutto ciò che nell’esperienza è  Eretti vità, immediatezza, necessità, è, rispet-  to al punto dell’individuale, il non-essere ine-  [fcnte a ciò che è in potenza — e qui si com-  anderà forse a che cosa alludessero certi  fistici quando parlavano dell’ « oscura pas-  sione del mondo », dell’ « indicibile sofferen-  za dell’esistenza » in cui il corpo dell’ « Uomo  I celestiale » è crocifisso. Di una tale tenebra,  di una tale privazione, la libertà è l’a//o e la  Lm ma luminosa; e il mondo diviene, si fa  reale secondo realtà assoluta soltanto in e per  questa fiamma, cioè soltanto nella misura in  cui l’individuo, affermandosi nel punto della  potenza e della dominazione, consuma, arde  ! la sua originaria natura, fatta di spontaneità.  Da qui un punto fondamentale: Solamente  nell’ « Individuo assoluto », solamente nel-  l'«Autarca» il mondo diviene reale: la suf-  ficienza che egli si dà a sè stesso dà alla na-     tura un essere, una consistenza, una certe?*.,  e una ragione che essa, prima di lui, non p 0 .  siede già, ma chiede. Onde cercare la verità  e la certezza nella natura è un assurdo: <jj ac>  che la natura in quanto tale è privazione  axépTjotc e la certezza e la verità non l’ha i n  sè, ma nell’individuo, epperò in tanto Pi la  in quanto l’ individuo se la dia a sè stesso. //  mondo è, soltanto se egli è. Ma questo essere  egli non potrà mutuarlo da nulla, chè, avuto  «la altro, esso non sarebbe più essere, essere  essendo soltanto ciò che è da sè stesso < xxil’  aùtó); se dunque egli non si fa il salvatore di  sè stesso, nulla mai potrà salvarlo. E’ così che  la spiegazione e la verità non stanno dietro,  ma avanti — e non in un dedurre, ma in un  passare aH’atto. Tutta la natura, insieme di  esseri condizionati, insieme di esseri che si  rimettono ognuno ad altro da sè, gravita sul-  l’individuo: quei che non ha bisogno di nulla,  quei che non si appoggia su nulla — è ciò di  cui tutti gli esseri hanno bisogno, su cui tutti  gli esseri si appoggiano e con cui, nella misu-  ra in cui essi sono, sono uno. Egli solo, come  colui che ha in sè stesso il proprio principio,  come colui che è « ente di possesso », clic è  « persuaso », sostiene il peso del mondo: a lui,  che consiste, il processo universale si appen-  de e in lui trova la sua condizione, ciò per  cui dall’eternità è, ed in cui ha la sua desti    96    1    nazione finale. Perciò solamente nel punto  in cui l’individuo si attua nella folgorazione  jello potenza sorge una finalità, una ragione  f ii uno scopo nella natura: non prima ; è lui  che gliela dà. Essa la chiede al suo atto. Ep-  però un solo imperativo ha ormai l’indivi-  ( | U o: «SII, fatti DIO, e in ciò fa essere, SAL-  VA H mondo ».   3 ) Il mondo, atto dell’Io.   A lumeggiare questo punto, connettiamo  due ultime considerazioni, riguardanti l’una  il problema dell’essenza e dell’esistenza, l’al-  tra quello dell’uno e dei molti.   Le cose sono essenza ed esistenza. L’idea  di cento talleri e cento talleri reali non sono  evidentemente la stessa cosa. Pertanto nei  cento talleri reali, così come lo ha mostrato  Kant, non vi è logicamente compreso nulla  più che non sia nell’idea dei cento talleri. Ne  segue che in tanto si fa differenza fra gli uni  c gli altri, in quanto ci si riferisce a qualcosa  ili irreduttibile all’elemento logico. Questo  qualcosa è 1’ « esistenza », opposta all’ « essen-  za » (o, più rigorosamente, 1’ « esse existen-  tiae » opposto all’ « esse essentiae »). — Ed  ora un secondo punto. All’essenza, al « che  cosa è » di una determinata realtà principio    t)7    esplicativo è il concetto: quando una realtà  venga mediante il concetto geneticamente co-  struita in tutte le note che la individuano,  l’istanza esplicativa nell’ordine dell essenza è  esaurita. Pertanto che un oggetto di cui si sia  interamente penetrato ciò che è, sia, il nudo  fatto del suo « esser là » come oggetto reale,  ciò costituisce un punto che sfugge interamen-  te alla spiegazione razionale, è un àXcyov — e  principio esplicativo ad esso adegualo è non  il concetto, bensì la volontà o, per meglio di-  re, la potenza. Infatti il puro essere delle cose  costituisce per me un mistero fin quando esso  ha carattere di bruto dato, di qualcosa che è  là senza partecipazione del mio volere, im-  ponendosi anzi secondo violenza a questo;  breve: come una privazione della mia atti-  vità. Mentre l’essenza posso pensarla e quin-  di « costruirla », l’esistenza semplicemente la  patisco — e per questo mi costituisce una oscu-  rità. Si imagini invece una situazione in cui  possa connettere Tesserci delle cose al loro  volerle incondizionatamente, cioè in cui la  mia volontà avesse valore di potenza creatri-  ce: allora la loro esistenza di fatto di là dal  loro concetto cesserebbe di essermi un miste-  ro, essa al contrario mi sarebbe perfettamen-  te intelligibile — essa sarebbe spiegata. Es-  senza ed esistenza hanno dunque per rispetti-  vi principi esplicativi la costruzione ideale    98    . opera del pensiero e la causazione reale  l"[ 0 pera della volontà. E questo è il secon-  di punto.   ‘ Il terzo punto è il seguente, che fra costru-    F" nza od esistenza — non vi è differenza di   « nnlinnlo /lì errarlo I .MHpa ò fTÌà 1111    ideale e volontà creatrice — quindi fra    atura. ma soltanto di grado. L’idea è già un    dell’affermazione reale; e la eosiddet-  f* realtà oggettiva non è che l’affermazione    pii 1    intensa e completa di quella potenza che.    • forma elementare, determina la cosa sem-  liceinente pensata o rappresentala. La real-  tà non è che l 'atto dell’idea, ciò in cui questa  individua ed esprime interamente sè, cosi co-  pidea non è che una realtà in potenza, os-  sia U na realtà semplicemente abbozzata o al-  lo stato nascente. Fra l’una e l’altra non vi è  dunque salto, vi è invece progressività. Il pen-  derò di cento talleri e cento talleri reali non  sono evidentemente la stessa cosa — ma ciò  n0 n qualitativamente (cosi come potrebbe  pensare chi crede che il pensiero, anziché  un'Impotenza, sia l’imagine impersonale di una  realtà oggettiva) ma intensivamente, nel sen-  so che i cento talleri reali sono la più profon-  da, intensa potenza, relativa propriamente al-  l’atto magico, dell’affermazione corrisponden-  te ai cento talleri pensati. Ed ora uniamo que-  sto risultato a ciò che si è detto poco la.   Vi è una esistenza che è morte, privazione,    99     irrealtà — e tale è quella corrispondente  spontaneità rappresentativa, residuo .yl  prima epoca, in cui l’atto è passivo rispep ^  sé stesso, die l’Io non domina come il SUo *  gnore. Di questa esistenza non vi è certeàjj  vera: non dipendendo da me come la n»«  ne o 1 emozione, essendo un puro accade  un principio di radicale contingenza la ripr e i  de. Vi è invece una seconda esistenza, che i  quella che una volontà elevatasi a pot eri2  può incondizionatamente produrre: sola mi^ !  te questa è propriamente esistenza, realtà ajJ  solida, e solamente di essa — ove si trova L nn  giunto soltanto con se stesso in un possesso  ed in un dominio — l’Io può avere una reale)  certezza. Fra l’una e l’altra di tali esistenze  vi è l’attività mentale propriamente detta. J  In altre parole: di là dal limite ideale del re-  gno della pura necessità — della natura e  della spontaneità — come di là dalla sua  « privazione », l’individuo fruisce nell’ordine  razionale o ideale di un primo grado dell’at-    tualità sufficiente e della libertà. Questo gra-  do procede verso la sua perfezione nello svi-  luppo secondo cui la potenza si riafferma in  livelli sempre più complessi e profondi della  spontaneità — dell’antica natura o dell’uni-  versale — fino a dominare lo stesso grado  intensivo dell’esistenza reale. Allora da oscu-  ra passione e da feroce deserto fatto di pii-    100      Rione, il mondo si farà l'atto stesso dell’in-  Jjduo, ed in ciò sara redento e persuaso . . .    Ji l'Individuo Assoluto.    Si può raccogliere insieme nel modo se-  dente quanto si è detto.   Il punto di partenza è l’universale, il qua-  L nell’ordine della realtà non costituisce il  grado più ricco — come lo vuole il platoni-  co — ■ ma invece il grado più povero, non il  punto di arrivo, il terniinus ad quem, ma il  punto di partenza, il terniinus a quo. In esso  s j ha infatti il semplice stato dell’essere che  trova sè stesso, che è pura spontaneità, che  nini si possiede ma, semplicemente, è. Stato  di pienezza e di luce per l’Io non ancor nato,  t presso al punto dell’individuale esso appare  invece come oscurità e morte: cosi in un pri-  mo momento esso si dissolve nel mondo della  parvenza e della mera rappresentazione; in  Jan secondo momento viene sentito come pas-  | suine infinita, come il dolore cupo e muto del-  la privazione, come l’indicibile crocifissione  nel mondo della necessità. Ma, nata da lui,  questa morte l’individuo la assume ora con    (gioia: egli è sufficiente ad essa; egli sa che  soltanto il suo proprio, sovrannaturale valore  I 1 essere fatto di possesso» ne è la causa;    101    egli la riconosce come la materia, dalla q„ a .  lo soltanto egli potrà trarre lo splendore <ij  una vita e di una realtà assolute. Ed allora  l’oscurità gradatamente si illumina, allora  dall’abisso della necessità sorge il fiore ferri .  bile dell’Individuo assoluto. Egli si erge lei,,  tissimamente nel cielo senza stelle, liacndosj  dalla vampa di ciò che egli divora nella sua  potenza. Le cose e gli esseri muoiono nell’i,,.  tensità vertiginosa di lui che, gradatamente,  irresistibilmente, diviene — che, spaventevoh  nella sua purità, è « Signore del Sì e del K<> >  <? Dominatore dei « tre mondi ». E in lui, ente  di possesso, ente che «arde e fiammeggi! »,  il processo dell’universo avrà con il suo allo,  la sua consumazione o perfezione tinaie. I   Questo è, ad un dipresso, il senso del siste-  ma che io sostengo; nel quale da una parte  ho cercato di fondere il problema gnoseologi  co e il problema ontologico con quello etico c  della autorealizzazione o magico; dall’altra,  di rivendicare il valore dell’individuo e di far-  gli nascere la coscienza del suo compito e del-  la sua dignità cosmica. j   E’ ciò che io riconosco come verità, o, per  meglio dire, è ciò che io voglio come verità (1).   (1) L’individuo e il divenire del mondo, Roma, Li-  breria di Scienze e Lettere, 1 5)2(5, cap. I. Race and the Myth of the Origins of Rome In his Life of Romulus (I,8), Plutarch writes: “Rome would not have risen to such power had it not had, in any way, a divine origin, such as to offer to th eyes of men something great and inexplicable.” Cicero repeats the same thing (Nat. Deor. II, 3, 8) and then goes on to consider (Har. Resp., IX, 19) the Roman civilisation as that which surpassed eveyr other people or nation through sacred knowledge: omnes gentes nationesque superavivums. For the ancient Romans, Sallust has the expression religiosissimi mortales [the most religious mortals]. On the other hand, in our day all of that is fantasy or superstition for many “serious” persons and “critical” minds. The “facts” are the only thing that count for them. The mythical traditions of the ancients have no value, or they have it only insofar as it is supposed that, here and there, they are confused reflections of real events, that is to say, tangibly historical. There is, in that, a fundamental misunderstanding that was already denounced to a certain degree by our Giambattista Vico, then by Schelling, still more recently by Bachofen and, finally, by the most recent school of the metaphysical interpretation of myth, and by those little known today (Guenon, W.R Otto, Altheim, Kerenyi, etc.). According to all these writers, the mystical traditions are neither arbitrary creations more or less on the poetic and fantastic plane, nor deformations and transpositions of historical elements. Especially in regard to origins, Bachofen correctly pointed out that symbols and legends, “If only in a dramatised form, represent actually and truly the history of the beginnings of a nation, but not the history of events occurring materially on earth, but rather of spiritual processes that have given birth to a new people alongside other people although different in culture and civilisation: history, so to say, of its prenatal period. Legend and history, are tightly connected; the former proceeds through interiorisation and is dispersed through images, while the latter proceeds through exteriorisation as facts and events. These images are the result of formative living forces, facts are organised by human thought. In legends one is transported by formative forces; in the other, there is premeditated organisation of facts. But the legend is the invisible part and root of history; it is not poetry, rather it is a reality much vaster than history itself. The threads of the destiny of a people that unravel visibly in the most various ways in their historical development, go back to the impulses, to the creative spheres, to which the heroes of its legends are connected.” 125  In a particular way, Bachofen revealed that even at the point in which evidence, by being recognised as a myth, came to be rejected by profane history, even when it is a positive witness to the spirit of a people. In that way, a study of mystical traditions, using new criteria, can lead us to interesting conclusions from the point of view of a theory of race that is not defined by the material aspects of the issues, but also addresses the inner reality of race. On the occasion of the current anniversary of the Birth of Rome, we want to illustrate this interpretative method, applying it precisely to the exegesis of the myth of our origins. The legends related to the birth of Rome concentrate such a quantity of sensitive elements based on general meanings of civilisations and mythologies of Aryan peoples, that a special work would be necessary to analyse them and clarify them adequately. Therefore, we will point out here only the most notable themes, among which are: the miraculous birth, the theme of being “saved by the waters”, the “wolf”, the “tree”, the rival pair of twins. The myth of the union of a god with a mortal woman, in the present case, of Mars with Rhea Silvia, form which union Romulus and Remus were born, recurs in almost all traditions in regard to the birth of “divine heroes”. Zeus and Leto gave birth to Apollo, Zeus and Alcmene to Hercules, Heracles being the symbolic hero of the Doric-Achaean Aryan peoples, and Apollo having a connection with the land of the Hyperboreans and with the primordial Nordic-Aryan races. An analogous origin, in properly Germanic traditions, is attributed to the heroic peoples of the Volsungs, to which Siegfried belongs. In the ancient royal Egyptian tradition - whose remove origin can with good reason also be considered to be Aryan and Atlantic-Occidental - every sovereign is thought to have been begotten by a god uniting with the queen: his tradition in which the hidden meaning of the myth comes to the fore, inasmuch as a miraculous birth without the help of a man, of a human father, was imagined. Since the queen had her consort, the idea that her son was conceived by a god, being awaken to life by her husband, could only indicate that he, not in his moral part, but so to say, in that eternal and “divinatory” part, had to be thought of as a type of incarnation of a decisive supernatural element that came to confer a royal dignity on him. In the case of Rome, therefore, Mars is such an element from above, that is, the divine representation of the principle of warrior virility. Such a force stands therefore at the origins of the Eternal City and at the basis of its secret origin, veiled by the legend: so that in some traditions form the era of the Roman Republic itself, it will be directly conceived as the “son” of Mars. And this “Mars” force is associated with those who may be the guardians of the sacred flame of life; symbolically, with a vestal (Rhea Silvia). 126  The twins Romulus and Remus are abandoned to the waters and are saved from the waters. Here again is a symbolic theme recurring in many traditions: Moses is saved from the waters, the Indo-Aryan hero Karna is left in a basket in the river and is saved from the waters, and so on. But the symbol contained in the most ancient Aryan tradition is especially important, i.e., the Vedic tradition, in which ascetics are depicted as “supreme natures who stand on the waters”. Analogous explanations and, therefore, the hidden meaning of such a symbol, can be clarified as follows: the waters have traditionally always depicted the current of time, i.e., the basic element of mortal, unstable, contingent, passionate, fleeting life. The weak man is taken from the waters and carried from the waters. The seer or hero, the ascetic or the prophet is saved from the waters, or is capable of standing on the waters, or of not sinking in the waters. Hence, in the myth of the origins of Rome this symbol must again characterise the “divine” element of the founders of Rome, their, so to speak, supernatural dignity. The twins find refuge near the fig tree [Ficus Ruminalis] and are suckeld by a She- wolf. The word Ruminal contains the idea of feeding: the quality of Ruminus, related to Jupiter, alluded to the quality of “nourisher”, of the “god who gives nourishment” in the ancient Latin language. But this is the most elementary aspect of the symbol. In general, in the most ancient traditions of the Aryan races, the tree is the symbol of universal life, it is the tree of the world or the cosmic tree. If it is in the form of a fig tree as it appears in the legend of Roman origins, precisely as a “fico indico” [Banyan tree] - the ashwattha tree - it is depicted as upside- down in the Indo-Aryan tradition to express that its roots are from above, in the “heavens”. The idea of a mystical flood from the tree is an often recurring theme: the myth of Jason, Hercules, Odin, Gilgamesh, etc. Naturally, according to the races and their spirit, this then present diverse variations. We know from the Hebraic myth that to pick and eat from the tree in order to make oneself like god is considered as the principle of guilt, abuse of power, and a curse. Things are conceived in a very different way in the myths of the Aryan races and even in the paleo-Chaldean myth of Gilgamesh. Also, in the legends of the Ghibelline Middle Ages, the heroic theme prevails and the tree often appears as that of the universal empire, reaching it in the symbolic lands of the mysterious Prester John means insuring the same dignity that the ancient Ario-Iranian rulers associated with the title of “king of kings”. Returning to our main subject, in the myth of the twins at the origins of Rome, we therefore have the allusion to a supernatural food from the Tree - but also the She- Wolf. The symbol of the She-wolf, considered in its entirety and in all the stories that refer to it, has an ambiguous character. Lucian and Emperor Julian recall that, in the ancient world, on the basis of the phonetic resemblance between the two words, the idea of the wolf [lupo] and of light [luce] are often associated: lykos, which in Greek means world, sounds like lyke, light. But there are also figurations of the wolf a sa hellish animal, as a dark force. The Wolf thus appears to us in the double aspect, symbol of a ferocious and savage nature and also as the symbol 127  of aluminous nature. This duality is verifiable, not only in Hellenic-Mediterranean prehistory, but also in the Celtic and Nordic. In fac,t on the one hand in the Nordic- Celtic and Delphic cults the “wolf” is connected to Apollo, i.e., to the Hyperborean, Nordic-Aryan god, simultaneously conceived as the solar god of the golden age and significantly associated by Virgil with Roman greatness. “Sons of the wolf”, on this basis, was a designation for warrior and heroic peoples of Nordic-Germanic origins, designations that persisted even up to the epoch of the Goths and Nibelungs. Yet, on the other hand, in the Edda, the “age of the Wolf” signifies a dark age, marking the epoch of the outbreak of savage and elementary forces, almost of the power of chaos, against the forces of the “divine heroes”, or Aesir. Now we can certainly also relate this quality to the principle that, according to the legend of origins, “fed” the two twins insofar as we see it reflected in their very nature, that is, in the antagonistic duality of Romulus and Remus, as related to us in the myth. As others already noticed, so also the theme of a single principle from which an antithesis is differentiated, whether depicted by the antagonism of two brothers of twins or, in general, of a couple, is found again in many traditions, and not rarely in respect ot particularly significant moments for the origins of a given civilisation, race, or religion. For example, we only recall that in the ancient Egyptian tradition Osiris and Set are two brothers of discord - sometimes conceived as wins - and one incarnates the luminous power of the sun, the other, a dark, “infernal”, principle, whose generation is called the “sons of the impotent revolt”. Does not something similar also show through perhaps in the Roman legend? Romulus is the one who marks the contour of the city as the meaning of a sacre drite and a principle of limit- of order, of law - having received the right of putting his name to the city form the apparition of the solar number, of the twelve vultures. Remus is instead the one who violates such a limit and is killed for this reason. One could say that the primordial force of Roman origins thus are differentiated and destroys the “dark” powers that contain din themselves, affirms in its luminous aspect of order, Olympian denomination, purified warrior force. There have been attempts to see in the contrast between Romulus and Remus the reflection of the contrast between opposed Aryan racial forces, or of the Aryan type, and non-Aryan or pre-Aryan types. Research of this kind is without doubt interesting: problematic in its conclusions, if it intends to remain exclusively on the plane of material facts, or archaeological and anthropological evidence. It has greater possibilities if it also penetrates the myth and legend in order to extract elements that integrate research in other domains. Naturally, in order to accomplish that, it also needs to resolve to outline general frameworks of various aspects of ancient Roman society, considering, for example, with various writers, somewhat probable that the social system of castes of ancient Rome had a racial substrate. 128  In this totality, it is interesting to examine the link between the two principles, whose symbolic figurations could well be Romulus and Remus, with the two hills Palatine and Aventine. The Palatine is, as we know, Romulus’ hill and the Aventine is Remus’. Now, according to the ancient Italic tradition, on the Palatine, Hercules met the good king Evander (who significantly founded a temple of the goddess Victoria on the same Palatine hill) after having killed Cacus, son of the Pelasgian (pre-Aryan) god of the subterranean fire: and Hercules conquered and killed in Cacus’ cave, located in the Aventine, and erected an altar to the Olympic god, to whom he was allied according to the Hellenic myth. Researchers like Piganiol, are of the opinion that this duel between Hercules and Cacus - with the corresponding opposition of the Palatine and Aventine hills - could be a mythic transcription of the battle waged by peoples of opposing races. The mythic legend of the origins of Rome is therefore saturated with deep meaning. The triumph of Romulus and the death of Remus is the key to the origin hidden in Romanity - and the first episode of a dramatic , outer and inner, spiritual, social and racial battle, in part known, in part still enclosed in symbols or in events not yet penetrated with respect to their most essential aspect - almost, we will say: with respect to the “third dimension” Through this secular battle Rome rises gradually and asserts itself in the world as triumphal manifestations of a principle of light and of order, of an ethic and a vision of life that, in its original and uncorrupted forms, is witness to the Aryan spirit. And we know what it is, according to the most widespread tradition, the conclusion of the legend of origins: it is the apotheosis of Romulus, Romulus deified, “He returned from the earth to heaven after his mortal part was destroyed by means of the dazzling fire.” So what has been treated is neither fantasy, nor poetry, nor rhetoric. Analogous explanations recur in the traditions of all peoples, according to a uniformity that should lead anyone to reflection. Also in regards to Romulus, the myth contains a faith and a spiritual certainty: it is the meaning of a reality that, freed from the person and symbol, was not once, but will always be, and will always be present, in its greatness beyond history, the race that knows how to recall the “mystery." EVOLA E LA TRADIZIONE  COME RIVOLUZIONE    Julius Evola è stato il più importante teorico della  «Rivoluzione conservatrice» in Italia nel nostro dopo¬  guerra. Nei suoi scritti si ritrova l'utilizzazione consa¬  pevole della espressione «rivoluzione conservatrice», la  base teorica e i limiti entro cui ha senso tale definizione.   Tuttavia in Evola la rivoluzione conservatrice si dis¬  socia nettamente dall 'ideologia italiana. La sua elabo¬  razione del concetto di rivoluzione conservatrice è at¬  tinta direttamente dalla konservative Revolution tede¬  sca, e ad essa si rifà espressamente, pur con alcune spe¬  cifiche motivazioni. In secondo luogo l’idea di  rivoluzione conservatrice in Evola si situa in una linea  fortemente critica verso la tradizione teorica e storica  italiana. A cominciare dall’idea stessa di nazione, di cui  Evola sottolinea l'eredità giacobina, egli sottopone a una  critica serrata tutte le stazioni più importanti della ideo¬  logia italiana: la critica del Risorgimento, che pure è ri¬  corrente in tutta l’ideologia italiana, è condotta da Evola  non più nel nome dell’inveramento del Risorgimento,  inteso come radicalizzazione o correzione di rotta, ma  diviene rifiuto e negazione del Risorgimento, visto co¬  me la traduzione nazionale della rivoluzione francese,  e rigettato come l'espressione di un liberalismo anti¬  tradizionale.   Qui Evola accoglie l'eredità del pensiero controrivo¬  luzionario e si situa nettamente nel solco della tradizio¬  ne «reazionaria», pur non condividendo il riferimento  cattolico e cristiano che la sottende. Critiche non meno  nette Evola rivolge al processo unitario postrisorgimen¬    198    tale e a tentativi come quello crispino di generare una  sintesi tra nazionalpopulismo e autoritarismo. Ma la cri¬  tica di Evola non si arresta nemmeno alle soglie del fa¬  scismo, a cui pure il suo nome è solitamente associato.  Quasi tutta la critica evoliana verso il fascismo gravita  proprio sul tentativo fascista di costituire una «ideolo¬  gia italiana» o di inserirsi nella tradizione «italiana»,  sia verticalmente, cioè come recupero della storia «ita¬  liana», sia orizzontalmente, come tentativo di integra¬  re le masse e tutte le diversità in una comunità nazio¬  nale.   Per Evola il fascismo non avrebbe dovuto abdicare  al suo ruolo di minoranza attiva, di aristocrazia, avreb¬  be anzi dovuto accentuare la sua «diversità», da quel  che costituiva la linea «italiana» risorgimentalista.   La critica di Evola all'ideologia italiana, così impla¬  cabile, sconsiglierebbe dunque di ritrovare nel suo pen¬  siero i lineamenti di quella «rivoluzione conservatrice»  che abbiamo indicato come il filo rosso della storia ita¬  liana. Le sue scelte lo porterebbero, piuttosto, nella li¬  nea di de Maistre e de Bonald o di larga parte del pen¬  siero mitteleuropeo.   Ma a questo punto si dispiega uno dei maggiori para¬  dossi della dottrina politica evoliana: quanto più Evola  ha teorizzato una tradizione radicalmente diversa dal¬  la modernità e integralisticamente depurata da ogni  scoria di «pseudo-tradizionalismo» nazionalista e risor¬  gimentale, tanto più Evola ha coniugato l’idea della tra¬  dizione con posizioni che appartengono al mondo della  rivoluzione. Rivolta, anomìa, anarchismo di destra, ni¬  chilismo attivo sono ricorrenti espressioni del pensie¬  ro evoliano che segnano un indubbio recupero della di¬  mensione «rivoluzionaria».   Questo dualismo, solitamente, è stato attribuito a due  tappe differenti e fondamentali del pensiero evoliano  del dopoguerra, divise da un decennio e identificate Lu¬  na ne Gli uomini e le rovine, 1 l'altra in Cavalcare la ti¬  gre. 2 Ma, più vastamente, l’intera opera evoliana si di¬  spiega all’interno di un orizzonte antinomico, tra Rivo¬  luzione e Tradizione, se si considera l'esperienza pitto¬  rica dadaista, fortemente eversiva, il periodo filosofico,  con sostanziali elementi rivoluzionari e stirneriani, la  valorizzazione del Tantrismo nel suo aspetto più «di-    199                                  struttivo» (la via della «Mano Sinistra»). Elementi che  convivono nell’opera evoliana con la ricerca e l'affer¬  mazione della tradizione, il primato dell'Essere, il re¬  cupero della dimensione metafisica; o nel mondo poli¬  tico con il richiamo a una concezione fondata sull'au¬  torità, l’ordine e la gerarchia. Sul piano della dottrina  politica, l'aporia può forse trovare agevole soluzione se  si tiene presente che in un mondo sconsacrato e secola¬  rizzato la tradizione non può che rivelarsi come una ri¬  voluzione e attraverso la rivoluzione. Il ritorno alla tra¬  dizione, in questo contesto, sarebbe infatti un evento  di rottura, una radicale inversione di rotta rispetto al¬  la realtà presente. La rivoluzione sarebbe dunque per  Evola il rigetto del presente nel nome del passato; rivo¬  luzione-restaurazione, ovvero rivoluzione nel senso del¬  l'astronomia classica, come già ripeteva Evola. In uno  scritto divulgativo, tra gli ultimi di Evola, il pensatore  tradizionalista affermava: «Se si vuole, ci si può riferi¬  re alla formula, solo in apparenza paradossale, di una  "rivoluzione conservatrice”. Essa concerne tutte le ini¬  ziative che si impongono per la rimozione di situazioni  negative, fattuali, necessarie per una restaurazione». 3   In linea di massima, si può riconoscere la coerenza  di questa posizione e il rigoroso uso dell'espressione «ri¬  voluzione conservatrice». Tuttavia, soprattutto se si tie¬  ne conto dell'orizzonte di pensiero in cui Evola utilizza  questa definizione, i due piani di rivoluzione e tradizio¬  ne non sembrano poi così nettamente delineati e divisi.  In Evola vi sono interpolazioni e attraversamenti: tal¬  volta la «pratica» rivoluzionaria finisce col rivoltarsi  contro gli stessi principi tradizionali e finisce con l'as¬  sumere valori autonomi; 1 ’anomìa finisce con Tessere  una pericolosa arma a doppio taglio. E dall’altra parte,  soprattutto nell’ultimo Evola, il metodo «rivoluziona¬  rio» risulta spesso alterato o addirittura soppiantato  da una scelta pratica di tipo conservatore, fondata sui  parametri del «salvare il salvabile», «preferire il male  minore», «allearsi con i moderati per combattere la sov¬  versione», eccetera.   A parte questi sconfinamenti, peraltro marginali se  si considera Titinerario evoliano nel suo complesso,  Evola si pone legittimamente come il teorico principa¬  le della «rivoluzione conservatrice» vista da «destra».    200    almeno nel nostro dopoguerra.   Il suo pensiero è alle origini sia delTintegralismo «di  destra» che del modernismo «di destra» (in parte deflui¬  to da destra). Non si potrebbe infatti comprendere il  neotradizionalismo, anche quello cattolico, senza tran¬  sitare per le opere di Evola imperniate sui valori della  tradizione. Ma dall'altro verso non si potrebbero com¬  prendere neanche i fermenti della cosiddetta «nuova  cultura», della «nuova destra» o i tentativi di andare «al  di là della destra e della sinistra», senza risalire a quel  filo rosso che scorre dall’Evola dadaista e iconoclasta  all’Evola filosofo, al seguace del tantrismo e soprattut¬  to all’autore di Cavalcare la tigre. Da entrambe le posi¬  zioni, neotradizionaliste e moderniste, si sono staccate  frange opposte e simmetriche, che hanno parimenti ri¬  fiutato l'eredità evoliana, l'una nel nome della tradizio¬  ne cattolica, l'altra nel nome della modernità assurta  a valore. Se il linguaggio non fosse improprio e desue¬  to, si potrebbe dire che la sua opera abbia generato una  «destra» e una «sinistra» evoliana.   È curioso osservare che i «modernisti» di destra ri¬  percorrono, pur con specifici tratti, lo stesso cammino  già percorso da un certo radicalismo «di destra» che  aveva trovato in Evola elementi per fondare una scelta  rivoluzionaria in senso nazionalpopolare. Il cammino  dei «modernisti» di destra si rivela come la versione «de¬  bole» (e quindi più intellettualistica, più dolce nel me¬  todo e più esitante) di quello stesso processo di moder¬  nizzazione del pensiero evoliano, la cui versione «for¬  te» è costituita proprio dal rivoluzionarismo nazional¬  popolare.   I vari filoni dipartitisi da Evola ritrovano oggi sul lo¬  ro cammino gli stessi incroci in cui si dibatteva il pen¬  siero evoliano:- trasgressioni e fedeltà, soggettività e tra¬  dizione, organicismo senza statolatria, ricomposizione  comunitaria ed élitismo, rigetto dell’ideologia italiana  e insieme esigenza di radicarsi nel tessuto reale di que¬  sta società, e così via. Le contraddizioni, mutatis mu-  tandis, sono ancora le stesse.   Per ripercorrere queste stazioni cruciali del pensie¬  ro evoliano, sarà proficuo attraversare le principali in¬  terpretazioni critiche del pensiero di Evola che si pos¬  sono ricondurre a quattro tesi fondamentali: in primo    201                                       luogo l'interpretazione di Evola come maestro eretico  del pensiero negativo; in secondo luogo Evola visto co¬  me teorico di un neopaganesimo anticristiano e antitra¬  scendente; in terzo luogo Evola visto come un gentilia-  no minore che tenta invano di superare l'attualismo; in¬  fine Evola visto come l'ispiratore del neo-nazifascismo.    Evola maestro eretico del pensiero negativo   L’accostamento tra Evola e il pensiero negativo si può  far risalire al tempo della contestazione, quando qual¬  cuno ravvisò impressionanti simmetrie tra il pensiero  evoliano e il pensiero di Marcuse. Simmetrie che lo stes¬  so Evola non ha mancato di sottolineare, seppure rimar¬  cando la radicale divergenza di fondo.   Di quel parallelo aveva parlato qualche anno fa Gior¬  gio Galli, soffermandosi soprattutto sulle sue valenze  politiche . 4   Da un punto di vista filosofico la collocazione di Evo-  la nell'alveo del pensiero negativo è stata recentemen¬  te proposta da Italo Mancini e da Massimo Cacciari . 5   Entrambi scorgono in Nietzsche il crocevia del pen¬  siero negativo. Dopo Nietzsche si potrebbe quasi parla¬  re di un pensiero negativo di sinistra che coniuga Nietz¬  sche con Marx, Freud e al limite Stirner, e che si espri¬  me, soprattutto, ma non solo, con la triade francoforte-  se Adorno, Horkheimer e Marcuse; e un pensiero  negativo di destra che coniuga Nietzsche con i valori tra¬  dizionali e che si esprimerebbe tra gli altri con Evola,  Junger e larga parte del pensiero rivoluzionario-conser¬  vatore . 6 Quale sarebbe il filo comune del pensiero nega¬  tivo? In primo luogo la critica radicale della ragione e  delle pretese sintetiche e costruttive della razionalità; in  secondo luogo lo smascheramento della civiltà moder¬  na e borghese e la rivolta contro la nostra società; in ter¬  zo luogo lo sfaldamento della fiducia nel progresso ma  anche negli antichi appoggi; la crisi del principio di iden¬  tità e di non contraddizione; indi, la concezione conflit¬  tuale e catastrofica della storia. E scavando più a fondo  si giunge alla matrice del nichilismo: la morte di Dio, la  perdita del reale, del senso e degli scopi, l'incertezza esi¬  stenziale, l'oscuramento della metafisica.    202    I due versanti del pensiero negativo sarebbero dun¬  que compresi nell’alveo del nichilismo. Soltanto che il  versante destro del pensiero negativo, a cominciare da  Evola, per estendersi a buona parte della rivoluzione  conservatrice, tradirebbe Nietzsche, mascherando il ni¬  chilismo nell'irrazionale e nella retorica dei valori.   A questo punto le conclusioni di un Italo Mancini con¬  ducono a una condanna senza appello del pensiero evo¬  liano, le conclusioni di un Cacciari conducono invece  a un appello senza condanna agli evoliani: liberatevi dal  camuffamento irrazionalistico, liberatevi dalle vostre  «certezze» che reggono solo sulla «retorica», e proce¬  dete «con occhio sgombro» verso un sapere senza fon¬  damenti, verso un nichilismo consapevolmente vissu¬  to e accettato come destino finale.   In fondo il discorso ruota intorno a un’equazione tutta  da dimostrare: l'equazione, appunto, tra Evola e il pen¬  siero negativo.   È necessario dunque affrontare la differenza radica¬  le che allontana Evola dal pensiero negativo. Una diffe¬  renza di provenienza e di approdi, di metodi e di aper¬  ture.   È certamente vero che il pensiero negativo e il P en -  siero evoliano nascono entrambi come filosofie della  crisi.   Ma la crisi del pensiero negativo è la crisi di una ra¬  zionalità che ha perduto la ragione, di una dialettica che  ha perso la possibilità della sintesi, di un materialismo  che ha perduto la materia, di un orizzontalismo che ha  perduto orizzonti, di una rivoluzione che ha perduto il  progetto. La crisi da cui nasce il pensiero evoliano è in¬  vece la crisi di una trascendenza che ha perduto Dio,  di un verticalismo che ha perduto il suo vertice, di un  eroismo che ha perduto gli eroi, di un Olimpo che ha  perduto gli dei, di una tradizione che ha perduto i suoi  templi, i suoi riti e i suoi uomini.   Da una parte è Yorfanità della ragione che incita a ri¬  pensare i miti; dall'altra parte Yorfanità del mito che  spinge a cercare le ragioni. In entrambe si assisto al «di¬  sormeggio della storia» secondo la suggestiva espres¬  sione di Emil Cioran . 7 Da una parte in Evola la tradi¬  zione sembra smarrire gli anelli che la congiungono al  presente; dall’altra parte nel pensiero negativo il P ro_    203                       gresso si separa daH'ottimismo e dal migliorismo sto¬  rico e scivola nella catastrofe, nel vuoto.   Ma differente è pure la reazione alla crisi: il pensiero  negativo diviene pensiero della liberazione trasgressi¬  va, sollecita a liberarsi dai vincoli della realtà e della  ragione, oppone la ragione distruttiva come risposta alla  ragione decretante.   Opposta appare invece la reazione evoliana alla cri¬  si: alla liberazione dal destino si oppone qui l'accetta¬  zione del destino, la fedeltà ai valori oscurati, l’azione  nonostante i frutti, la risposta eroica al nichilismo.   Entrambe le vie germogliano dunque dalla crisi: ma  il pensiero evoliano induce a vivere come se i valori esi¬  stano; il pensiero negativo induce a vivere come se non  abbia importanza avere valori. Evola scommette sui va¬  lori, il pensiero negativo rigetta la scommessa come in¬  significante, fuorviante, mistificatrice.   Nel pensiero negativo il nichilismo è pensato e vissu¬  to come esito finale; nel pensiero evoliano il nichilismo  è inteso come prova del fuoco, come deserto da attra¬  versare. L’esperienza del nichilismo è rivolta in Evola  a fortificare il bagaglio interiore, a essenzializzare la vi¬  ta, a denudare i valori dalle incrostazioni, per ricondurli  alla nudità originaria. Il nichilismo, secondo questa pro¬  spettiva che Evola coglie da Nietzsche, dovrebbe raffor¬  zare ciò che non riesce a spezzare.   Il pensiero evoliano ha Nietzsche alle sue spalle, om¬  bra titanica che si allunga sul suo cammino; il pensiero  negativo trova invece Nietzsche davanti a sé, scoglio in¬  sormontabile per la ragione dialettica. Ciò che in Evo-  la è punto di partenza, che pure si allunga su tutto il  percorso, nel pensiero negativo è punto d'arrivo, oltre  il quale non si può andare. Non è un caso, poi, che il pen¬  siero negativo si definisca tale, laddove il pensiero evo¬  liano si autodefinisce magico: il pensiero magico è per  sua stessa vocazione rivolto a comporre, a ordinare il  mondo e non a disfarlo, a rivelare la sua segreta armo¬  nia, a concepire la libertà come attività produttiva e  creativa. Il pensiero magico risale dal caos al cosmos,  dal conflitto all’armonia, ponendosi infine come pen¬  siero costruttivo, pensiero positivo. Il pensiero negati¬  vo al contrario dissolve il cosmos nel caos, nell'armo¬  nia scorge il contrasto, eternizza il conflitto e la cata¬    204    strofe, definendosi infine come pensiero distruttivo.   Nel crocevia tra magia e trascendenza, il pensiero evo¬  liano si inviluppa in alcune contraddizioni: le forti apo¬  rie tra senso della trascendenza e immanentismo volon¬  taristico che si esprimono nell'Autarca, le tentazioni  faustiane, il pericoloso velleitarismo di chi vuole tra¬  versare l'abisso, l'etica della disperazione che si risol¬  ve talvolta in Evola in uno spiritualismo nobile ma cie¬  co, che rigetta i frutti e le prospettive. Ma pur nella con¬  traddittorietà delle posizioni ciò che distingue radical¬  mente Evola dal pensiero negativo risale a una opzione  di fondo: è la opzione della trascendenza che conduce  Evola alla riscoperta del sacro. La trascendenza resta  una dimensione assente nel pensiero negativo in virtù  di una originaria opzione immanentistica mai smentita.   La f iducia in una «più che vita», la scommessa sul-  r immo rt alità, la certezza del sacro, il culto dell'invisi-   bil e e de fì'eterno, accend on o in Ev ola un bag lioré me¬   t afisico che non é flato tr ovare, n el pensi ero negativo.  Alla luce del sacro, la stessa concezione eroica esce dal  campo del puro arbitrio, della mera retorica, del vole¬  re autarchico, per farsi essa stessa segno di quella cer¬  tezza metafisica e metaesistenziale, espressione e testi¬  monianza che pure vacillando nel vuoto, la strada per¬  corsa è quella che sale.    Evola padre del neopaganesimo anticristiano   Occupandosi del radicalismo di destra, «Civiltà Cat¬  tolica» ha individuato in Evola il principale ispiratore  di una nuova destra fortemente anticristiana e neopa¬  gana . 8 Le argomentazioni condotte a rinforzo di questa  tesi erano attinte quasi interamente dalla lettura di Im¬  perialismo pagano . 9   Che in Evola vi sia una forte ascendenza di tipo paga¬  no è certamente fuori discussione: la grande valutazio¬  ne del mondo greco e romano, l’esaltazione della spiri¬  tualità nordica, il risalto attribuito alla figura di Fede¬  rico II, sono solo alcuni tra i segnali di questa ispira¬  zione «pagana» del pensiero di Evola.   Tuttavia l’interpretazione di Evola come padre di un  neopaganesimo anticristiano, è semplicistica e a tratti    205                                    fuorviante. Vi è in primo luogo una ragione metodolo¬  gica: non si può valutare il pensiero evoliano sofferman¬  dosi sulla lettura di Imperialismo pagano, un saggio che  Evola scrisse non ancora trentenne nel 1928 e che in se¬  guito «disconobbe». Imperialismo pagano è un pamph¬  let fortemente polemico che risente degli umori del tem¬  po e che si inserisce nel dibattito preconciliare. Impe¬  rialismo pagano è un'opera certamente minore rispet¬  to ad altre opere evoliane più mature e di spessore ben  più notevole: per comprendere Evola bisogna transita¬  re almeno da altre cinque, sei opere ignorate da «Civil¬  tà Cattolica».   In secondo luogo, il pensiero evoliano si alimenta di  correnti e torrenti che sarebbe improprio definire di ti¬  po pagano: la tradizione gnostica e orfica, pitagorica,  la metafisica orientale, il buddismo.   Se si vuol definire pagano, nel senso di anticristiano,  tutto ciò che non è cristiano, si finisce nel più piatto ma¬  nicheismo.   In terzo luogo, dal complesso dell'opera evoliana non  si può dedurre un orientamento anticristiano e ancor  meno un orientamento antitrascendente. Altrimenti non  si comprenderebbe in Evola la lettura dei mistici cri¬  stiani, l'influenza di certo gnosticismo cristiano, l’atten¬  zione positiva verso pensatori come Meister Eckart e  San Giovanni della Croce, la grande influenza di Carlo  Michelstaedter che rivela profondissime tracce di cri¬  stianesimo.   E non si comprenderebbe il carteggio evoliano con pa¬  dre Clemente Rébora, il ritiro di Evola in un convento  verso i trent'anni, la sua difesa della Chiesa del Sillabo  (se la Chiesa fosse ancora quella del Sillabo — afferma  Evola — non ci sarebbero esitazioni a schierarsi dalla  sua parte per affermare i valori della tradizione»), 10  ma anche della fede cristiana e del suo significato nella  nostra epoca «sconsacrata».   E non si comprenderebbe infine per quali misteriose  ragioni la lettura di Evola sia stata per molti una sta ¬   z ione d i transito ve rso una riconversion e al cattoli cesi-   una ris coperta d el sac ro e del trascendente, del rito e  dell aJracE zionèr Sarà un paradosso^lha mòTti dfcoTo-  ro che hanno poi criticato il pensiero evoliano alla luce    206    del cattolicesimo tradizionale, devono a Evola la cono¬  scenza di autori come de Maistre, Donoso Cortes, de Bo-  nald. È poi significativo che Evola condanni le franga  moderniste[del cristianesimo , colo ro che riducono la re¬   ligionenelForizzonte immanentistico de l messaggioso .  ciale, la stòricizzazione e l’umanizzazione del divino, la  tèòlogià dellà mòrte di Dio, la razionalizzazione dei prin¬  cipi e delle tradizioni, l a confusione d el cr istianesim o  conjun m oralistico sentimentalism o bor ghese.   ~In Evola permane, certamente, un senso di estranei¬  tà al cristianesimo, ma non di ostilità; vi è un differen¬  te tipo di spiritualità che trae alimento da differenti tra¬  dizioni.   Nel cristianesimo Evola denuncia la mancanza di una  dottrina esoterica che possa affiancarsi alla religione  fideistica e devozionale. Appare quindi improprio il ten¬  tativo di demonizzare il pensiero evoliano come l'espres¬  sione di una rivolta anticristiana con esiti immanenti¬  stici. Questa riduttiva interpretazione del pensiero evo¬  liano rimanda a un'antitesi più vasta e insensata quan¬  do pretende di essere assoluta: l’antitesi tra paganesimo  e cristianesimo alla cui radicalità mostrano di credere  da un verso «Civiltà Cattolica» e dall'altro verso alcuni  esponenti della nouvelle droite, a cominciare da de Be-  noist. 11   L'antitesi autentica e radicale della nostra epoca, in  realtà, non è tra paganesimo e cristianesimo ma tra sa¬  cro e nichilismo, tra vocazione alla trascendenza e sfal¬  damento nell'immanenza.   Per un autentico spirito cristiano la santità è intesa  come il culmine del sacro, è il gradino supremo in cui  il sacro si incarna nell'umano e si palesa nel mondo; per  una autentica religiosità di tipo pagano, la santità è una  delle più alte manifestazioni del sacro.   Per entrambi resta essenziale l'antitesi tra sacro e ni¬  chilismo. Per una spiritualità di tipo cristiano il senso  elèi sacro può dirsi quasi il rosminiano « sentimento fon¬  damentale», quell'innata vocazione metafisica sulle cui  basi si eleva poi la fede cristiana. 12   Per una spiritualità di tipo pagano, il sacro può in¬  tendersi non come la base ma come il vertice verso cui  convergono le religioni, il principio metafisico di cui le  religioni sono bracci, manifestazioni, assi di una ruota.    207                                             Nel pensiero contemporaneo, la distinzione di cam¬  po più rigorosa è senza dubbio quella tra pensiero ispi¬  rato alla trascendenza e pensiero esaurito neH'imma-  nenza, tra pensiero fondato metafisicamente (proteso  verso l'Essere) e pensiero senza fondamenti o comun¬  que fondato storicisticamente, vitalisticamente e ma¬  terialisticamente (risolto dentro il Divenire).   In questa distinzione di campo, il pensiero di Evola  ritrova una identità molto diversa da quella che gli vie¬  ne attribuita da «Civiltà Cattolica» e da taluni esponenti  del «neopaganesimo».   Vi sono certamente alcune «cadute» immanentistiche  e superomistiche nel pensiero evoliano che in un pen¬  satore come Guénon, ad esempio, non sono presenti: ma  il pensiero di Evola rischia l’impurità e talvolta l’incoe-  renza perché si cimenta con la crisi contemporanea. È  una scommessa più difficile quella di Evola, un cam¬  mino più arduo: attraversare il nostro tempo.   Questa sua scommessa può essere intesa come la sua  peculiarità più feconda e insieme come il suo limite più  netto: ma, in ogni caso, il.pensiero di Evola si incammi¬  na sul l a s trada, del sacro.    Evola «gentiliano minore»   Un autorevole filosofo come Antimo Negri ha recen¬  temente individuato in Evola un «gentiliano minore»  che tenta invano di superare l'attualismo. 13 L’interpre¬  tazione di Negri ripercorre i sentieri già solcati negli  anni Trenta da Spirito, Carlini e Sciacca che appunto  a Gentile avevano ricondotto il pensiero di Evola. 14   Che l’ombra gigantesca di Gentile si allunghi su tut¬  ta la filosofia italiana del nostro secolo, soprattutto ne¬  gli anni Venti, può essere difficilmente confutabile. Per¬  sino lo spiritualismo cattolico o la filosofia della pras¬  si di un Gramsci mostrano i segni di quella influenza.  Ma che vi siano specifiche e preponderanti tracce di in¬  fluenza su Evola è largamente inesatto.   Si deve anzi osservare il fenomeno opposto: forse non  è mai accaduto che due pensatori, vissuti nello stesso  tempo e nella stessa nazione, associati seppur generi¬  camente in uno stesso indirizzo «filosofico» e in uno    208    stesso ambiente storico-politico, siano stati così lonta¬  ni come Gentile ed Evola.   Alle sorgenti della formazione evoliana vi sono cor¬  renti e autori in larga parte estranei a Gentile. Manca  a Gentile il riferimento alla metafisica orientale, al pen¬  siero tradizionale e legittimista, a Stirner, a Nietzsche,  a Bachofen, a Weininger, a Michelstaedter e a tutta la  grande cultura mitteleuropea, a cominciare da Spen¬  gler e Junger.   E manca a Evola la lettura del pensiero risorgimen¬  tale, l’influenza di Spaventa e di Mazzini, di Gioberti e  di Rosmini, il confronto con la filosofia di Marx e con  lo storicismo, che sono invece determinanti nella for¬  mazione di Gentile. I riferimenti comuni si limitano a  certi autori dell'idealismo tedesco.   In Evola l'idealismo è un episodio, seppure notevole,  inserito in un altro episodio, seppure importante, qua¬  le è il suo periodo filosofico. Se si prescinde dalle coor¬  dinate extrafilosofiche, si è già lontani dalla compren¬  sione del pensiero evoliano.   Inoltre, va ricordato, della filosofia evoliana si occu¬  pò Croce ma non se ne occupò mai Gentile, che non vi  riconobbe mai alcuna «parentela». E della filosofia gen-  tiliana, Evola se ne è sempre occupato in chiave criti¬  ca. I suoi rilievi, le sue critiche alTattualismo sono no¬  tevoli, radicali e tutt’altro che superabili. 15   Sul piano storico, Evola condannò del fascismo quel  che Gentile approvava o addirittura aveva egli stesso  ispirato. E le distanze con Gentile non si attenuarono  nemmeno quando il vento del Concordato condusse  Gentile ed Evola a scontare una comune «emargina¬  zione».   Come per Gentile, anche per Evola il fascismo era in¬  teso come una rivoluzione conservatrice, anzi una «re¬  staurazione»; ma restaurazione non della tradizione ita¬  liana esaltata dal Risorgimento e dalla filosofia na¬  zionale, come voleva Gentile, ma restaurazione della  tradizione romana e ghibellina. Ovvero una restaura¬  zione così radicale che finisce con l'essere una ri¬  voluzione rispetto al passato più prossimo. Nel momen¬  to in cui Evola superava Gentile in radicalismo restau¬  ratore, lo superava al contempo in radicalismo rivolu¬  zionario.    209                                     Va infine considerata l'evoluzione storico-politica del  pensiero evoliano in senso aristocratico e tradizionali¬  sta, che diverge nettamente dall'evoluzione gentiliana  verso l'umanesimo del lavoro.   hi definitiva, se è riduttivo chiudere il pensiero evo¬  liano nell alveo dell'idealismo, è doppiamente ridutti¬  vo e fuorviarne considerare la filosofia di Evola alla stre¬  gua di un attualismo malriuscito, un tentativo velleita¬  rio di «superare» Gentile. In Evola vi è ben altro.    Evola ispiratore dell’attivismo neofascista e neona¬  zista   Per 1 j n ?,° tem P° EvoIa è stato conosciuto come l'ispi¬  ratore dell'attivismo neofascista e neonazista. Una de¬  finizione canonica che ha dominato per decenni nel gior-  nalismo e nella cultura politicante, che ha trovato la sua  giusti!ic aziope teo rica in studiosi come Furio Jesi ; 16  ma una definizione che ancora resiste, come dimostra¬  no certi interventi al convegno di Cuneo sulla cultura  di destra o certe pagine di un recente volume colletta-  neo sulla «destra radicale». 17   In realtà, se vi è stato un autore di destra che più ha  contribuito à scongelare il neofascismo dall’ibernàzio-  n e nostalgica, questi è stato proprio Julius Evola . Da  fy^gla^ prima di ogni altro autore, la gioventù di destra  ha imparato a leggere il fascismo e il nazismo in chiave  critica, anche se la critica di Evola ai due fascismi é pur  sempre «daTpùnto di vista della destra». Leggendo il  fascismo di Evola,Te sueNoIelutTérzo Reich , 18 la sua  critica al nazionalismo e alla statolatria, al bonaparti¬  smo e al populismo fascista, al razzismo biologico e agli  isterismi del Fuhrer, all'idealismo gentiliano e al senti¬  mentalismo cristiano-borghese, conoscendo le difficoltà  che Evola dovette affrontare durante il fascismo, il «ra¬  dicalismo di destra» ha avvertito l'esigenza di rivedere  il proprio patrimonio ideale e storico.   E leggendo Evola, quella gioventù ha cominciato a co¬  noscere orizzonti più vasti, prospettive storiche e me¬  tastoriche più ampie, nel tempo e nello spazio. Ha co¬  nosciuto autori e tradizioni che con i fascismi poco o  nulla avevano a che vedere. Si deve principalmente a    210    Evola, alle sue letture e alle sue divulgazioni, alle sue  traduzioni e ai suoi riferimenti, se quella destra ha po¬  tuto conoscere ampi filoni della cultura mitteleuropea,  a cominciare dalla konservative Revolution, grandi pi¬  lastri della sapienza orientale, solidi pensatori legitti¬  misti e tradizionalisti.   In secondo luogo, se vi è stato un autore di destra che  ha meno sollecitato l'attivismo, questi è stato proprio  Julius Evola. Se un limite si deve individuare nella le¬  zione «politica» di Evola esso è piuttosto di segno con¬  trario: coloro che si sono avvicinati a Evola si sono so¬  litamente allontanati dall’attivismo politico.   Ci si avvicinava a Evola alla ricerca di fondamenti per  la propria scelta politica: ma la radicalizzazione del Po¬  litico è coincisa con il rigetto della politica.   La lettura del pensiero evoliano ha avuto infatti un  esito generalmente impolitico. Quando Evola richiama  tradizioni lontane nello spazio e nel tempo, remote età  dell'oro, inaccessibili vette del Grande Passato di cui  non sopravvivono più neanche tracce e vestigia, né riti  né fiaccole viventi, la tradizione finisce di essere una  radice per diventare un'Idea, cessa di essere una tra¬  smissione di valori per convertirsi in una rappresenta¬  zione concettuale, si estingue come pratica viva e rituale  per ridursi a un oggetto del puro pensare.   Tradizione è collegamento e qui diventa isolamento,  è apertura verso il mondo e qui diventa solipsismo, è  anello di congiunzione e qui diventa rottura con il  tempo.   Quando Evola definisce la tradizione «una discesa del¬  l’Individuo Assoluto nella concretezza storica», 19 priva  la tradizione del suo significato metastorico e metafi¬  sico, riduce la tradizione o travestimento dell'Io, a una  volizione del soggetto. Non vi è alcuna tradizione che  possa ricondursi a una soggettività; ogni tradizione si  incarna e trascende i membri di una comunità. Altri¬  menti tradizione non è. Quando Evola ripropone la dot¬  trina tradizionale dei cicli storici, delle quattro età, e  ci ricorda che viviamo nell'età oscura, ci conduce da¬  vanti a un paradosso insolubile: se aderisco fedelmen¬  te alla dottrina, devo convincermi che io non posso mo-  ■ dificare il corso metafisico delle epoche, e quindi inuti¬  le sarà la mia azione politica, il mio impegno nel mon-    211                                             do; se viceversa penso che gli individui possono cam¬  biare radicalmente il corso dell'epoca, la dottrina per¬  de il suo vigore metafisico e la tradizione si piega anco¬  ra una volta al soggettivismo volontaristico.   Quando Evola sostiene che il fascismo sia stato «ro¬  vinato» dalla natura del popolo italiano, può avere ra¬  gione sul piano della pura teoria, ma esprime un'osser¬  vazione impolitica, riduce il fascismo a una pura cate¬  goria dello spirito, astratta dalle coordinate storiche e  temporali. La politica agisce in un dato tempo, in un da¬  to spazio e in un dato popolo: se si dice che il tempo,  lo spazio e il popolo sono inadatti per quell'idea si fa  dell’idealismo assoluto, e si è decisamente lontani da  ogni considerazione politica. Non può esistere una po¬  litica sradicata dalla storia e dalla natura degli uomini  su cui vuole agire.   Quando Evola sostiene che la nostra patria non deve  essere quella sancita dalla nostra appartenenza natu¬  rale e territoriale, ma «la vera patria è l’idea», 20 ridu¬  ce la patria, e la stessa tradizione, a un'essenza disin¬  carnata; riduce il radicamento, architrave di ogni tra¬  dizionalismo, a puro convincimento intellettualistico.   Sulla scia di queste aporie ha serpeggiato tra molti  evoliani una forma di pessimismo assoluto, una specie  di antiprovvidenza che vuole i migliori sempre perden¬  ti, poiché il successo di un’idea, nel nostro mondo scon¬  sacrato, sarebbe il segno del suo scadimento. Se la ve¬  rità è ciò che si oppone alla storia, è fatale che la via  della verità diventi la negazione della storia. Si è così  insinuata una cultura della disperazione, il mito dell’E¬  roe perdente, del Profeta inascoltato, del Suicida veg¬  gente. Senza una adeguata mediazione, questi orienta¬  menti evoliani conducono fatalmente a un esito impo¬  litico.   E conducono a quei due opposti equivoci che inibi¬  scono oggi il rapporto tra la cosiddetta «destra radica¬  le» e la politica: da un verso lo sradicamento e dall'al¬  tro l'ibernazione.   Da una parte nasce il tradizionalismo immobile, che  per inseguire il soprastorico scivola nell'astorico, il tra¬  dizionalismo chiuso a ogni forma di attivo impegno nel  mondo e dunque un tradizionalismo senza tradizione  perché senza continuità effettiva. Ma dall'altra, più re¬    centemente, è nato il tentativo di disancorare la storia  dalla tradizione, di liberare l’impegno civile e politico  da ogni punto fermo, di emanciparsi da ogni appartenen¬  za radicata.   I due pericoli sono opposti nello sviluppo ma uniti nel¬  la genesi: entrambi nascono dalla convinzione che vi sia  una frattura insanabile tra il mondo dei valori e il mon¬  do dei fatti, tra l’ideale e il reale, fra la tradizione e la  storia.   Partendo entrambi dalla constatazione di questa frat¬  tura, le strade poi divergono: i primi seguono la via del¬  l’imbalsamazione, del dogmatismo e fatalmente appro¬  dano all'isola immobile dell’impolitico. I secondi scel¬  gono la via della liquefazione, del relativismo e finiscono  poi a inseguire il successo ad ogni costo, prescindendo  dai motivi di fondo per cui il successo avrebbe un senso.   I due comportamenti sono fondamentalmente con¬  trassegnati dall'individualismo e si rivelano letteral¬  mente schizofrenici: nascono infatti da una dissociazio¬  ne di fondo tra pensiero e atto, idea e realtà, essere e  dover essere. L'esito dei primi è segnato dall'idealismo,  con la tradizione ridotta a pura rappresentazione men¬  tale e soggettiva, disincarnata dalle sue forme visibili,  sensibili e comunitarie. L'esito dei secondi è il nomina¬  lismo, la riduzione dei valori a strumenti di locomozio¬  ne, a convenzioni e volizioni del soggetto.   In questo senso va ripensata non solo la frattura po¬  sta da Evola tra i valori della tradizione e gli strumenti  della modernità. Ma occorre rimeditare anche lo iato  sancito da Evola sul piano storico-politico tra rivolu¬  zione conservatrice e ideologia italiana. Una frattura,  quest'ultima, che ha contribuito non poco a generare a  destra quel rigetto della tradizione nazionale e quella  ricerca di autori e modelli attinti da altre tradizioni e  da altri paesi. Nell'opera in cui Evola teorizza esplicita¬  mente i lineamenti di una rivoluzione conservatrice, vale  a dire Gli uomini e le rovine, è ribadita con forza la frat¬  tura tra «ideologia italiana» e rivoluzione conservatrice.   Dopo aver spiegato il senso in cui si può positivamente  parlare di «rivoluzione conservatrice», Evola aggiun¬  ge: «Pel vero conservatore rivoluzionario è questione  di una fedeltà non a forme e istituzioni di tempi trascor¬  si bensì a dei princìpi». 21 Affermazione che già presen-           ta l’insidia del puro idealismo ovvero il disancoramen¬  to della tradizione dalla storia; ma, al limite, si può an¬  cora condividere soprattutto se si tiene conto del pas¬  saggio da una veduta integralmente tradizionalista, e  quindi fondata sulla continuità, a una veduta rivoluzio¬  naria conservatrice, e quindi fondata sulla consapevo¬  lezza di una frattura verificatasi fra tradizione e mo¬  dernità. E ancor più si può comprendere e apprezzare  il riferimento evoliano se si ha presente il contesto a cui  Evola si rivolge: riferendosi agli ambienti del neofasci¬  smo, Evola invitava a non confondere la difesa di valo¬  ri con la nostalgica difesa di regimi e istituzioni che non  sono più presenti. Quello di Evola era un passo forse  troppo prematuro, per dissociare il mondo rivoluzio¬  nario-conservatore di destra dal puro nostalgismo.   Ma Evola si spinge ancora ben oltre. Egli giunge ad  affermare che la componente «rivoluzionaria» presen¬  te appunto nella «rivoluzione conservatrice», va intesa  nel senso di fare tabula rasa della storia per lasciare il  posto alle pure idee. Grazie al carattere rivoluzionario  le forze attive «si presenteranno ad uno stato quasi pu¬  ro, con un minimo di scorie storiche». E a questo Evola  aggiunge: «Appunto perché l’appoggio materiale con¬  sistente in un passato tradizionale ancora vivo e con¬  cretizzato in forme storiche non del tutto scadute è da  noi inesistente, la rivoluzione restauratrice dovrà pre¬  sentarsi in Italia come un fenomeno anzitutto spiritua¬  le ed avente come base la pura idea». 22   Rispetto a quel che Evola intende per tradizione, la  sua conclusione è rigorosa quanto ineccepibile. Ma al¬  trettanto evidente è l'esito impolitico e la separazione  dalla storia che essa sancisce.   Il problema che si pone, in fondo, è questo; se si in¬  tende scegliere una strada esistenziale dissociata da  ogni impegno politico, il rigetto della ideologia italia¬  na, e della storia italiana, è in linea di rigorosa coeren¬  za con le idee affermate da Evola e ha una sua legitti¬  mità e dignità incontestabili. Ma se, viceversa, si inten¬  de costruire una linea politica, se si intende davvero ado¬  perarsi per una rivoluzione conservatrice, allora è  impossibile fare il vuoto intorno e dietro a sé, reciden¬  do i ponti con la storia del proprio paese e con la realtà  del proprio popolo. Né si può disancorare, in questa se-    214    conda ipotesi, l'idea di tradizione dalla rappresentazio¬  ne storica che ha avuto.   Occorre allora rimeditare la storia italiana, almeno  dal Risorgimento in poi, con spirito critico, senza dub¬  bio, ma senza apocalittici dinieghi.   Né va trascurato il fatto che talvolta, a sostenere cau¬  se che metastoricamente si possono definire negative,  possono trovarsi uomini e ragioni che hanno intrinseci  tratti di giustezza, di nobiltà e di dignità. Uomini giusti  per cause sbagliate. Articolare i giudizi, dunque, pur  senza privarli della loro globalità, e risalire alle intime  ragioni di certi accadimenti.   In questo senso la teorizzazione evoliana di una linea  rivoluzionaria conservatrice rivela tratti di insufficien¬  za e di carenza sul piano storico-politico. Laddove in¬  vece, nelle grandi linee metafisiche e metastoriche, il  pensiero evoliano risulta ancora di inesaurita ricchez¬  za e fecondità.    NOTE   1. J. Evola, Gli uomini e le rovine, Roma 1972 (la prima edizione risale a  vent'anni prima).   2. J. Evola, Cavalcare la tigre, Milano 1961.   3. J. Evola, Essere di destra, in «Roma», 19 marzo 1973, poi in Citimi scrit¬  ti, Napoli 1977; cfr., Gli uomini e le rovine, cit., p. 17.   4. Di G. Galli su Evola cfr. La destra in Italia, cit., p. 65; La tigre di carta  ed il drago scarlatto, pp. 193-97 e 236-37, Bologna 1970.   5. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano 1984. p er m.  Cacciari, i riferimenti sono a una intervista da lui concessa a G. De Turris, Z//r-  razionale? E chi lo conosce..., in «Il Settimanale», pp. 72-74, n. 16,1980, e all'ar¬  ticolo È una figura complessa su Evola, apparso sempre su «Il Settimanale»  n. 24, pp. 68-69, 1980.   6. Evola ha avuto un ruolo importante per la conoscenza e la diff us j one  in Italia della konservative Revolution. Oltre ai suoi contributi, e ai numerosi  riferimenti sparsi nella sua opera, Evola ha tradotto in Italia II Tramonto del¬  l’Occidente di Spengler, ha introdotto Anni decisivi dello stesso autore, h a tra¬  dotto/!/ muro del Tempo di Junger (Roma 1965) e ha scritto un’ampia sintesi  dell 'Operaio (cit.), solo per citare alcuni dei suoi contributi.   7. E. Cioran, Storia e utopia, Milano 1970.   8. Il riferimento è a un editoriale anonimo ma attribuito aH’allora diret¬  tore della rivista, padre Bartolomeo Sorge, apparso nel fascicolo 3210 del 15  marzo 1984 di «Civiltà Cattolica», Il neo-paganesimo della Nuova Destra.   9. J. Evola, Imperialismo pagano, Roma 1928.   10. Cfr. M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, pp. 63-64 Ro¬  ma 1984.   11. A tale proposito si veda di A. de Benoist soprattutto Come si può essere  pagani?, Roma 1984.   12. Ibidem.    215                      13. A. Negri, Evola e il superamento dell'attualismo in appendice a M. Ve¬  neziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, cit., pp. 195-96. Negri si riferisce  a Evola anche nel suo Sviluppi e incidenze dell’attualismo, cit., p. 91.   14. I riferimenti a Evola di Spirito, Carlini e Sciacca sono stati raccolti da  G. De Turris in Omaggio a Julius Evola, Roma 1973.   15. Cfr. Gentile non è il nostro filosofo, in «Tradizione», II, n. 4,1965; Il filo¬  sofo G. Gentile, in «Il Conciliatore», 1, 1972 (poi in Ricognizioni, Roma 1974).  Si vedano inoltre di Evola su Gentile: Saggi sull’idealismo magico, pp. 148-61,  Roma 1925; Il cammino del cinabro, cit., pp. 41-43; e gli scritti Superamento  dell’idealismo (18 gennaio 1935), Superamento dell'idealismo (2 febbraio 1935)  e L'equivoco dell'immanenza (10 maggio 1935) raccolti in Diorama filosofico, cit.   16. F. Jesi, Cultura di destra. Il linguaggio delle parole senza idee, Milano  1979.   17. AA.VV., Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, cit. Si  veda anche AA.VV., La destra radicale, Milano 1985.   18. J. Evola, Il Fascismo visto dalla Destra. Con note sul Terzo Reich, cit.   19. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 91. A proposito della teoria evo-  liana sulla razza è da riferire quanto emerge dai Documenti segreti del Terzo  Reich pubblicati a Roma nel 1986 a cura di N. Cospito e H. Werner Neulen.  In uno scritto, una nota inviata dal dirigente dell’Ufficio politico della razza  della NSDAR, dr. Gross, al ministro tedesco per l’istruzione popolare e propa¬  ganda, Evola viene accusato di elaborare una teoria razziale «italiana», e fon¬  damentalmente antitedesca. Osservando che Evola pone il primato dello spiri¬  to sul corpo, l’estensore della nota rileva che Evola aderisce all’idea della su¬  periorità spirituale dei popoli latini e asseconda «la favola della barbarie nor¬  dica in un altra forma» (p. 130). Dopo aver accusato Evola di teorizzare un  razzismo «annacquato», privo di scientificità, antievoluzionistico, il redattore  afferma: «Dalla latinità dell’autore scaturiscono concezioni che costituiscono  un atteggiamento totalmente estraneo alle visioni tedesche... Per questa ragio¬  ne colpisce in molti punti la sintonia con il cattolicesimo mediterraneo» e pro¬  segue con alcuni esempi (pp. 130-31 dr. Huttig, Berlino, 9 settembre 1942).   20. Su tale idea cfr. Gli uomini e le rovine, cit., p. 41; «Orientamenti», p.  17, Roma 1950. A tale proposito cfr. M. Veneziani, Prefazione all'ultima edizio¬  ne di «Orientamenti», Roma 1984 e in AA.VV., Testimonianze su Evola, Roma  1986; Evola e la generazione del sessantotto ».   21. J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., p. 19.   22. Ibidem, p. 23. 

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