IN PLICATVRVM -- impiegato
-- H.
P. Grice, St. John’s Oxford -- Compiled
by Grice’s Playgroup, The Bodleian -- For
The Anglo-Italian Society, Bologna -- Dedicated to A. M. G. – Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. – NAMES. GRICE
ITALICVS: an alphabetical approach to Italian philosophy under Grice’s
implicature. Have you noticed how little Grice says about Italian
philosophy? It’s all *implicated*!
Grice ed Abano – peripatetici a Padova – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Abano). Grice:
“I like Abano; he is from my wife’s favourite part of Italy – Veneto – actually
provincial di Padova – which has a little bit on the water – Strawson says he
is more of a physician than a philosopher – but I say, “Both start with
aspirated p!” – Grice: “My favourite Abano is the logician or philosopher of
the lingo -- Abano Pietro d'Abano Da Wikipedia. Se stai cercando l'opera
lirica, vedi Pietro d'Abano (opera). Pietro d'Abano Pietro d'Abano,
latinizzato in Petrus de Abano o Petrus Patavinus è stato un filosofo, medico e
astrologo italiano, insegnante di medicina, filosofia e astrologia
all'Università di Parigi e dal 1306 all'Università di Padova; inoltre è
considerato il primo rappresentante dell'aristotelismo padovano. Amico di
Marco Polo, visse a lungo a Costantinopoli per imparare il greco e l'arabo,
studiando in originale i testi di Galeno, Avicenna e Averroè. Fu autore anche
di varie traduzioni di testi scientifici greci e arabi in latino: i Problemata
di Aristotele (ai quali aggiunse un commentario, l'Expositio Problematum
Aristotelis), i Problemata di Alessandro di Afrodisia[3], vari scritti di
Galeno e Dioscoride. Rivide inoltre la traduzione delle opere di Abraham ibn
‛Ezra. Si guadagnò una grande fama come autore Conciliator Differentiarum, quæ
inter Philosophos et Medicos Versantur. Probabilmente Pietro d'Abano
ispirò a Giotto il complesso – e per molti versi misterioso – ciclo pittorico
che ornava il Palazzo della Ragione di Padova, andato perso in un incendio e
rifatto da alcuni pittori minori seguendo lo stesso schema iconografico. Il
ciclo di affreschi è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su tre fasce
sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai
nostri giorni. D'Abano è considerato uno dei più colti ingegni del suo tempo,
la sua dottrina lo fece passare per un negromante. Accusato tre volte dal
Tribunale dell'Inquisizione di magia, eresia e ateismo fu prosciolto le prime
due volte. L'ultima volta morì in prigione a causa delle torture subite, un
anno prima della fine del processo. A seguito della condanna il suo cadavere fu
dissotterrato per essere arso sul rogo. A Pietro d'Abano esplicitamente
si rifarà, per alcuni argomenti, come l'embriologia, il celebre medico Iacopo
da Forlì. Citazioni famose Nel Conciliator Differentiarum, quæ inter
Philosophos et Medicos Versantur D'Abano riferisce di avere parlato con Marco
Polo di quello che aveva osservato nella volta celeste durante i suoi viaggi.
Marco raccontò che durante il suo viaggio di ritorno nel Mar Cinese
Meridionale, aveva avvistato quella che descrive in un disegno come una stella
"a forma di sacco" (ut sacco) con una grande coda (magna habet caudam).
Pietro d'Abano interpretò questa informazione come una conferma della sua
teoria secondo cui nell'emisfero sud si potesse osservare una stella analoga
alla stella polare, ma si trattava con ogni probabilità di una cometa. Gli
astronomi sono concordi nell'affermare che non ci furono comete avvistate in
Europa alla fine del 1200, ma ci sono testimonianze che una cometa venne
avvistata in Cina e in Indonesia nel 1293. Questa circostanza non compare nel
Milione. Abano conservò il disegno nel suo volume Conciliator Differentiarum,
quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. Sempre nello stesso documento, si
riporta la descrizione di un animale di grossa stazza con un corno sul muso,
identificato oggi con il rinoceronte di Sumatra; Pietro d'Albano non riferisce
un nome particolare assegnato da Marco a questo animale; si pensa invece che fu
Rustichello a identificarlo con l'unicorno nel Milione. Questa testimonianza è
stata ripresa da Jensen, quando venne messa pesantemente in dubbio la veridicità
del Milione di Marco Polo. Sempre nel Conciliator Differentiarum (Diss.
67), Abano menziona la spedizione di Ugolino e Vadino Vivaldi genovesi verso le
Indie Orientali per via mare. "Parum ante ista tempora Januenses
duas paravere omnibus necessariis munitas galeas, qui per Gades Herculis in
fine Hispamia situatas transiere. Quid autem illis contigerit, jam spatio fère
trigesimo ignoratur anno. Transitus tamen nunc patens est per magnos Tartaros
eundo versus aquilonem, deinde se in orientem et meridiem congirando".
Riconoscimenti Il Teatro Congressi di Abano Terme (già "Cinema Teatro
delle Terme") è a lui dedicato, come pure l'IPSSAR "Pietro d'Abano
(Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della
Ristorazione) poco distante, e altrettanto il Centro Studi Termali Pietro
d'Abano, ente di ricerca del territorio Euganeo. È rappresentato a Padova
in una delle 78 statue di Prato della Valle e nell'altorilievo al di sopra di
una delle quattro porte d'entrata di Palazzo della Ragione. Ad Abano Terme
a lui sono dedicati una statua nell'omonima piazza e il bassorilievo sul lato
Est dello gnomone della meridiana monumentale in piazza del Sole e della
Pace. Dizionario di filosofia. M. Guidi, Caratteri e modi della cultura
araba, Real Accademia d'Italia. A Padova, specialmente, ferve lo studio degli
Arabi, poiché Pietro d'Abano – il quale si era servito non solo del greco, ma
anche dell'arabo che era andato a studiare a Costantinopoli per poter
rettificare gli inevitabili errori delle versioni del tempo – aveva fatto della
sua scuola di medicina il centro di quello che fu poi detto l'«Arabismo
medico».». Iolanda Ventura, Translating, commenting, re-translating: some
considerations on the Latin translations of the Pseudo-Aristotelian Problemata
and their readers, in M. Goyens, P. Leemans e A. Smets, Science Translated:
Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises in Medieval Europe,
Leuven University Press, Pietro d'Abano, su galenolatino.com. R. Martorelli Vico, Per una storia
dell'embriologia, Guerini e Associati, Napoli, J. Jensen, The World's most
diligent observer, in Asiatische Studien, F. Bottin, Pietro d'Abano, Marco Polo
e Giovanni da Montecorvino, in Medicina nei Secoli, Girolamo Tiraboschi, Storia
della letteratura italiana: fino all'anno
MCCC, Firenze, presso Molini, Landi e C. Bibliografia Conciliator
differentiarum philosophorum et precipue medicorum Adalberto Pazzini, Pietro
d'Abano, in Dizionario Letterario Bompiani. Autori, III, Milano, Bompiani, Joan
Cadden, "Sciences/silences: the nature and languages of "sodomy"
in Peter of Abano's Problemata Commentary". In: K. Lochrie & P.
McCracken & James Schultz, Constructing medieval sexualities, University of
Minnesota press, Minneapolis & London, Médicine, astrologie et magie entre
Moyen Âge et Renaissance: autour de Pietro d'Abano. Textes réunis par
Jean-Patrice Boudet, Franck Collard et Nicolas Weill-Parot, Firenze, Sismel -
Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio del Medioevo
latino) Pietro de Sclavione d'Abano, Trattati di Astronomia, Lucidator
dubitabilium astronomiae, De motu octavae sphaerae e altre opere a cura di
Graziella Federici Vescovini, Padova: Editoriale Programma, Loris Premuda, «Pietro
d'Abano». In: Dizionario critico della
letteratura italiana, Torino: POMBA L. Norpoth, Zur Bio-Bibliographie und
Wissenschaftslehre des Pietro d'Abano, Mediziners, Philosophen und Astronomen
in Padua, Kyklos, Lynn Thorndike, A history of magic and experimental science,
Vol. II: During the first thirteen centuries of our era. New York: Columbia
university press, Sante Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro
D'Abano: saggio storico-filosofico, Genova: Tipografia R. Istituto Sordomuti, Pietro
d'Abano, Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum, Gregorio
Piaia, Pietro d'Abano. Filosofo medico e astrologo europeo, Milano, FrancoAngeli,
Francesco Aldo Barcaro, L'eretico Pietro d'Abano (medico o mago?), Nuova
Grafica, Vigorovea (Sant'Angelo di Piove di Sacco, PD), Voci correlate Storia
della scienza Aristotelismo Taddeo Alderotti Mondino dei Liuzzi Sefer Raziel
HaMalakh. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Guido Calogero, Pietro d'Abano, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Pietro d'Abano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc.Iolanda Ventura, Pietro d'Abano, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Pietro
d'Abano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.(FR) Bibliografia su Pietro
d'Abano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Marta Cristiani, Pietro
d'Abano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pietro
d'Abano, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. He is
possibly the first alphabetical philosopher. But there are more! Important Italian philosopher. From Abano-Terme. “If
Occam is called Occam, I should be called Harborne.”Grice. “He was an exacting
editor, if ever there was onebut he failed at one thing, “Problemata physica”
was never written by Aristotle!”Grice. Pietro d'Abano-Terme, conosciuto
anche come Petrus de Apono, Petrus Aponensis o Pietro d'Abano italiano a
Padova. -- Abano era nato nella città italiana da cui prende il nome, ora Abano
Terme. Abano-Terme guadagnato la fama scrivendo "Conciliatore
Differentiarum, quae tra Philosophos et Medicos Versantur." Finalmente
Abano-Terme è stato accusato di eresia e l'ateismo, ed è venuto prima della
Inquisizione. Abano e morto in carcere prima della fine del suo processo.
Abano-Terme Ha vissuto in Grecia per un periodo di tempo prima che si è
trasferito e ha iniziato i suoi studi a lungo a Costantinopoli. Si trasferisce
a Parigi, dove è stato promosso ai gradi di dottore in filosofia e medicina,
nella pratica di cui era un grande successo, ma i suoi costi erano notevolmente
alta. A Parigi divenne noto come "il Grande lombarda". Abano-Terme si
stabilì a Padova. Abano-Terme è stato accusato di praticare la magia: le accuse
specifiche è che è tornato, con l'aiuto del diavolo, tutti i soldi che ha
pagato di distanza, e che possedeva la pietra filosofale. Gabriel Naudé, nel
suo "antiquitate scholae Medicae Parisiensis," dà il seguente
resoconto di lui. "Cerchiamo di prossima produciamo Peter de Apona, o
Pietro da Abano, chiamato il riconciliatore, a causa del famoso libro che ha
pubblicato durante il suo soggiorno nella vostra università. E 'certo che
fisica laici sepolto in Italia, scarsa noto a nessuno, incolto e disadorno,
fino alla sua genio tutelare, un abitante del villaggio di Apona-Terme,
destinata a liberare l'Italia dalla sua barbarie e l'ignoranza, come Camillo
volta liberato Roma dall'assedio del Galli, ha fatto un'indagine diligente in
quale parte del mondo della letteratura cortese è stato felicemente coltivata,
la filosofia più astuzia gestito, e fisico ha insegnato con la massima solidità
e la purezza; e di essere certi che sola Parigi rivendicò questo onore, là vola
attualmente; dando se stesso interamente alla sua tutela, si applicò con diligenza
per i misteri della filosofia e della medicina; ottenuto un grado e l'alloro in
entrambi; e poi entrambi insegnato con grande applauso: e dopo un soggiorno di
molti anni, loaden con la ricchezza acquisita in mezzo a voi, e, dopo essere
stato il più famoso filosofo del suo tempo, torna al suo paese, dove, a
giudizio del giudizioso Scardeon, è stato il primo restauratore della vera
filosofia. Gratitudine, quindi, invita a riconoscere i vostri obblighi a causa
di Michael Angelus Blondus, di Roma, che nell'ultimo impegno secolo di
pubblicare il Conciliationes Physiognomicæ del proprio Aponensian, e trovando
erano state composte a Parigi, e nella vostra università, ha scelto di
pubblicarli nel nome, e con il patrocinio, della vostra società. Portava
le sue indagini finora nelle scienze occulte della natura astruso e nascosta,
che, dopo aver dato più ampie prove, dai suoi scritti in materia di fisionomia,
geomanzia, e chiromanzia, si è trasferito sulla allo studio della filosofia;
che studi hanno dimostrato in modo vantaggioso per lui, che, per non parlare
dei due prima, che lo presentò a tutti i papi del suo tempo, e lo ha acquisito
una reputazione tra i dotti, è certo che era un grande maestro in quest'ultimo,
che appare non solo dalle cifre astronomiche che aveva dipinto nella grande
sala del palazzo di Padova, e le traduzioni fece dei libri del rabbino
dottissimo Abraham Aben Ezra, aggiunto a quelli che si ricompose nei giorni
critici, e il miglioramento di astronomia, ma dalla testimonianza del celebre
matematico Regiomontano, che ha fatto un bel panegirico su di lui, in qualità
di un astrologo, nell'orazione ha pronunciato pubblicamente a Padova quando ha
spiegato c'è il libro di Alfragano. Steepto scritti
Conciliatore differentiarum philosophorum et precipue medicorum Nei suoi
scritti egli espone e difende i sistemi medici e filosofici di Averroè,
Avicenna, ed altri scrittori. Le sue opere più note sono il Conciliatore
differentiarum quae tra philosophos et medicos versantur e De venenis eorumque
remediis, entrambi i quali sono ancora esistente in decine di manoscritti e
varie edizioni a stampa dalla fine del Quattrocento attraverso Cinquecento. Il
primo tentativo di riconciliare apparenti contraddizioni tra teoria medica e la
filosofia naturale aristotelica, ed è stato considerato autorevole in ritardo
quanto XVI secolo. E 'stato affermato che Abano-Terme ha anche scritto un
libro di magia chiamato "Heptameron," un libro conciso di riti magici
rituali che si occupano di evocare gli angeli specifici per i sette giorni
della settimana (da qui il titolo). Egli è anche accreditato con la scrittura
De venenis eorumque remediis, che ha esposto sulle teorie arabi in materia di
superstizioni, veleni e contagi. l'Inquisizione Generico ritratto
di Petr [noi] da Abano conciliatore, <la rovesciata 'c' è un'abbreviazione
corrente latina per il prefisso 'con -'> xilografia dalla Cronaca di
Norimberga, 1493 E 'stato due volte portato in giudizio da parte
dell'Inquisizione; per la prima volta è stato assolto, e morì prima che il
secondo processo è stato completato. E 'stato trovato colpevole, però, e il suo
corpo è stato ordinato di essere riesumato e bruciato; ma un amico aveva
segretamente rimosso, e l'Inquisizione doveva quindi accontentarsi con la
proclamazione pubblica della sua frase e la combustione di Abano in effigie.
Secondo Naude: L'opinione generale di quasi tutti gli autori è, che era
il più grande mago del suo tempo; che per mezzo di sette spiriti, familiari,
che teneva chiuso dell'articolo in chrystal, aveva acquisito la conoscenza
delle sette arti liberali, e che aveva l'arte di causare il denaro che aveva
fatto uso di tornare ancora in tasca. È stato accusato di magia nel ottantesimo
anno della sua età, e che morire prima che il suo processo era finito, è stato
condannato (come riporta Castellan) al fuoco; e che un fascio di paglia o
vimini, che rappresenta la sua persona, è stata pubblicamente bruciato a
Padova; che così rigoroso un esempio, e dalla paura di incorrere in una
sanzione, come, potrebbero sopprimere la lettura dei tre libri che aveva
composto su questo argomento: il primo dei quali è la nota Heptameron, o
elementi magici di Peter de Abano, filosofo, ora esistente, e stampato alla
fine di Agrippa opere s'; il secondo, quello che Trithemius chiama Elucidarium
Necromanticum Petri da Abano; e un terzo, chiamato dallo stesso autore Liber
experimentorum mirabilium de Annulis secundem, 28 Mansiom Lunae. Abside con il suo
sarcofago. Barrett si riferisce al parere che non era sul punteggio di magia
che l'Inquisizione ha condannato Pietro d'Abano-Terme a morte, ma perché ha
cercato di spiegare i meravigliosi effetti nella natura dalle influenze dei
corpi celesti, non attribuendole agli angeli o demoni; in modo che l'eresia,
piuttosto che la magia, sotto forma di opposizione alla dottrina degli esseri
spirituali, sembra aver portato alla sua persecuzione. Per citare Barrett: Il
suo corpo, prese privatamente dalla sua tomba dai suoi amici, sfuggito alla
vigilanza degli inquisitori, che avrebbero condannato a essere bruciato. E
'stato rimosso da un luogo all'altro, e finalmente depositato nella Chiesa di
St. Augustin, senza epitaffio, o qualsiasi altro segno di onore. I suoi
accusatori attribuiti opinioni incoerenti a lui; lo accusato di essere un mago,
e tuttavia con negare l'esistenza degli spiriti. Aveva una tale antipatia per
il latte, che vedendo chiunque prendere lo faceva vomitare.Altro lettura Francis
Barrett, The Magus, J. Cadden, "Scienze / silenzi: la natura e le lingue
di" sodomia "in Pietro d'Abano Problemata Commento". In: K.
Lochrie &McCracken & J. Schultz, Costruire sessualità medievali,
University of Minnesota Press, Minneapolis & London; L. Premuda, Dizionario
della biografia scientifica. New York: Charles Scribner Sons. L’Heptameron. Refs.: Luigi Speranza, “The reception of pseudo-Aristotle
via Abano’s edition”. Abano. Keywords: filosofia del linguaggio. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Abano," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abano
#Abano https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420327627979198
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51640855484/in/photolist-2mQwYd8-2mPyQHL-2mPnrMV-2mN8u25-2mN8ym7-2mLP4Rj-2mLMbqp-2mLRd1Y-2mLN7jm-2mLP3hz-2mKwuhr-2mKP4jT-2mKAsyK-2mFchpL-2mFhC8V-2mFjTcj-2mFchpR/
Grice ed Abbà – teoria
del segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Farigliano). Filosofo.
Grice: “Abbà is a genius – an Italian
Lockino, as he calls himself in “Elementae logicae” – But he is actually better
than Locke – England’s and Oxford’s greatest philosopher – for a couple of
reasons: Locke uses barbarisms – anglo-saxonisms, Abba, who could be
philosophising in his Cuneo vernacular, uses Cicero’s tongue! And the good
thing is that he is fluent at it and his prose is flowing – It is difficult for
a Locke to write in Latin – witness the roughness of Occam’s prose in Latin –
but for Abba, he is obviousl THINKING in Italian and expressing his thoughts in
‘palaeo-Italian,’ as he calls ‘Latin.’ “Thinking in Italian may be
preoponderant, but it need not be true!” Grice” “Of course I enjoyed most his
philosophising on the ‘signum naturale’ – on which I drew for my Oxford
seminars!” -- He is a great interpreter of Locke; in a country that needs
that!” - Filosofo allievo di Benone,
gli succedette nella cattedra di metafisica a Torino. Partendo dalla filosofia di Locke, ritiene
che i dati empirici forniti dall'esperienza siano alla base della conoscenza
umana, ma che le idee si formino attraverso un'elaborazione di questi elementi
empirici da parte dell'anima umana, che utilizza categorie logiche indipendenti
dall'esperienza. Abbà entrò in polemica con Rosmini a proposito del suo “Saggio
sull'origine delle idee” mettendo in dubbio la veridicità del suo sistema.
Rosmini controbatté alle critiche nel Diario filosofico di Adolfo, VII,
G.A.A.(pubblicato in Riv. Rosminiana). Elementa logices et metaphysices, Taurini,
Stamperia reale, Delle cognizioni umane: trattato del teol.o coll.o Abbà,
Torino, Canfari. Lettere a Filomato sulle credenze primitive e sulla filosofia
sino a Socrate scritte dal teologo coll.o Abbà, Torino, Canfari. G. Capone
Braga, La filosofia fitaliana del Settecento, Padova,Francesco Corvino, Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia.
De idearum signis 38. Sunt autem signa vel naturalia, quibus sen sus nostros
significamus ex effectibus;vel artificialia. Maistrii sententia est, nihil arbitrarii
esse in sermone. Sicuti per vocabula ideas;ita per scripturam vocabula quo dam
modo pingimus ad ideas abscntibus permanenter manifestan
das.Quibusdampermanentibussignisideas,cogitationesque suas communi consensu
exprimere vel homines in barbarie positi con sueverunt.Cultiores populi remotis
temporibus scripturâ,usi sunt, cuius auctor, tempus, originislocus, omnia
incerta. Quidam Cadmo, alii Phoeniciis, alii Ægyptiis eam acceptam
referunt.Putarem ego Divinae originis.Ab Asia in Europam immigravit. Quidam
putant spiritum in hac re progressum fuisse a scriptura Ideographica, seu
figurativa, ad Hyerogliphicam seu symbolicam, a qua ad syllabicam inde ad alphabeticam. V. Degerando de
l'éducation des sourds-muets, tom. quae
cum re significata consociationem habent ex hominum arbitrio, et institutione. Hisce
signis con stat idioma. Dicitur autem idioma signorum com plexio, quibus ideae
significantur. Est idioma tran siens, et permanens.Illud actionis, et
pronunciationis, hoc scriptionis appellatur. Omisso scriptionis idiomate, de
duobus reliquis dicemus. Idioma actionis coalescit ex gestibus repetitis ad
sensus animi aperiendos. Hisce gestibus consulto adhibitis, et observatis ad
quaedam sensa manife standa, orta est huius idiomatis ars. Formae rerum
externarum gestibus pictae mirum in modum istud idiomatis amplificarunt. Hoc
praesertim constať ani versalis quaedam hominum lingua, et sermo panto mimicus.
sed omnem linguam enasci, et enutriri ex ruinis aliarum; hasce vero ruinas esse
formidanda divinae iustitiaemonumenta.Itaque inimi cus et omnis Neologismi.
Bonald super linguarum originem suum systema Phylosophicum struxit. Pronuncialus
autem hic sermo constat ex voci bus articulatis. Voces sunt soni ex ore
animantis emissi: Articulatio est vocalis, et consonantis per vocis emissionem
coniunctio.Ex hac coniunctione or tae sunt syllabae, ex his vocabula, quae sunt
sonį articulata voce prolati, quibus ideas mente conceptas significanus.Quum
autem omnis idea in mente existens determinata sit, quodlibet vocabulum ideam
quamdam determinatam denotat, ac veluti determinat. Unde vocabula termini etiam
dicti sunt: quum etiam ideae res repraesentent; termini,quoque res ipsas median
tibus ideis denotant. Ex vocabulis,seu terminis ortus sermo. Quae di sciplinà
generales sermonis regulas tradit, grammatica generalis, seu philosophica
dicitur; quia hae regulae in natura cogitationis fundantur, suntque in omni
lingua servandae.Quae regulas docent singulis nationum lin guis proprias
grammaticae particulares appellantur. Singulae linguae sua syntaxi, et inflexionibus
moderantur. Licet possint homines actionis idiomate sua sensa manifestare;
aliquando tamen id magna cum difficultate fit; aliquando etiam id fieri omnino nequit,
ut in magnis distantiis, et interpositis obstaculis. Ut id incommodi averteret
Deus, qui hominem ad societatem condidit,non solum eum facultate loquendi,
organisque ad sermonem aptissimis donavit; rerum etiam ad serinonem ipsum
pronunciatum instituit, ut ex sacris litteris edocemur,qui postmodum hominum
arte, urgentibus necessitatibus auctus quoque fuit. coloribusque donantur,
qui nationis indolem, culturam, et in genium exprimerent, ac fata: suis
singulae divitiis florentes sunt pro varia coeli temperie, naturae facie,
aspectibus, forma regiminis, opinionum, religionis, educationis, morum,
studiorumquc diversitate. Hinc variae apud varios populos idearum complexiones,
ex quibus est interpretationis difficultas. Hinc etiam linguae histo ria una
refert gentis suae historiam philosophicam, et civilizzationem. Huiusce
picturae exemplaria sunt ideae, quas proinde pictura ist haec imitari debet. Idea
vero est vivax, rapida, clara. Ad hanc
imitationem perficiendam spectarc Grammatica debet. Cum etiam omnes idcae
exhibeant obiecta, et relationes; hinc duo verborum species existere debent,
quarum aliae pingant obiecta, aliae rela tiones eorum. Quare Plato, Apollonius,
aliique ex veteribus duo tantum sermonis elementa admittebant, nomen, et verbum.
Nos putamus, lot esse debere elementa, quot colores sunt necessarii ad cogitationis
tabulam exhibendam, huiusmodi sunt nomen, quasi notamen exhibens obiecta; hoc
porro proprium, vel commune substantiarum, modorum: articulus obiecta
determinans: pronomen ad vitandam satictatern: verbum relationem exhibens inter
obiecta, et istud substantivum, quod semper inest ceteris, quae adiectiva
dicuntur. Eidem convenit notio temporis, et variis modis inflectitur. Verbum
est aliquando iterum modificandum, idque fit per adverbium, quasi comes verbi;
in qua modificatione sunt gradus positivus, comparativus, superlativus: sunt
quaedam ideae temporis, passionis, actionis, quae mistae veluti sunt ex nomine,
et verbo, hae particivis exhibentur: sunt innumerae aliae relatìoncs
obiectorumrepraesentandae,puta loci,proclivitatis,directionis aliaque id genus,
quae praepositionibus significantur. In tabula. Grammatica dici potest ars
ideas pingendi per verba, est enim a graeco vocabulo gramma pictura, seu a
verbo graphein describere, et pingere; vocabulis namque cogitationis nostrae
veluti tabulam pingimus. Hinc tot sunt vocabulorum,et terminorum species, quot
idearum. Sunt praeterea termini positivi, qui aliquam reipsa ideam denotant, ut
homo, arbor, etc. negativi qui absentiam alicuius ideae SIGNI-FICANT, ut nihil,
ignorantia, tenebrae. Terminus positivus,qui eam dem ideam constanter
denotat,fixus dicitur, qui vel proprius est,si uni,eidemque rei significandae
sem per inservit, ut Plato, Aristoteles; vel univocus si pluribus rebus sub
eadem significatione tribuatur, ut sunt omnia vocabula generum, et specierum.
Qui modo hanc, modo illam ideam exhibet dicitur v a gus, vel aequivocus. Potest
autem aequivocus esse vel casu, nempe hominum arbitrio; vel consilio, quum res
diversae, quae eodem termino significantur, ali quam habent similitudinem, et
analogiam, unde ter minus analogus, seu metaphoricus dicitur, ut termi nus leo,
quo etiam homo fortis significari consuevit ob analogiam fortitudinis, qua homo
cum leone con venit. Tandem termini dicuntur etiam synonimi, cum variis
vocabulis eamdem ideam significamus. denique cogitationis, omnia sunt coniungenda,
quod coniunctio. nes efficiunt.Haec duo postrema,una cum adverbiis elyptica di
cuntur, quia brevitati inserviunt. Non solum idearum, sed affe ctuum etiam, et
sensationum pictura quaedam esse debet, huic officio addictas interiectiones,
quarum imitationes sunt a c centus, quidam veluti cantus, qui vocabula
vivificant, animâque donant, unde spiritus à Graecis, sapores ab Hebraeis dicti
sunt. Putat Tracyus (qui sermonis analysim in sua grammatica philosophica, et
universali dedit) interiectionem alias sermonis partes ordine praecessisse
quemadmodum sensationes praecedunt ideas ipsamque esse quoddam propositionis
genus. Vocabula vere synonima, si existerent, linguae perfectioni. Quum
vocabulis ideas mente conceptas signia ficemus, iam sequitur, ipsa non esse
signa idearum, quae in audientium animis sunt', sed earum solum, quas loquens
in mente habet.Hinc quum pro varia h o minum cognitione, variae in diversis
hominibus de eadem re ideae esse possint, necesse est, ut idem v o cabulum a
diversis pronunciatum,diversnm etiam sen sum continere possit. Unde si verum vocabuli
sensum determinare velis, ut aliorum sensa assequaris, non ex propriis ideis
tuis, sed e scribentis, vel loquen tis mente ipsum interpreteris oportet. Quare
d u m alio rum scripta legis, vel sermones audis, cave ne tuae ideae, quae
latenter subrepunt, efficiant, ut aliorum sensa in tuam sententiam quandoque
iniquissime d e torqueas, et eas vocabulis ideas subiicias. Ex eo quod vocabula
sint idearum nostrarum signa, patet ideas et vocabula ita esse eadem esse
debeat utrarumque oeconomia,'et quae de illis praedicantur, de istis aeque
possint usurpari. Hinc maxima est vocabulorum vis in scientiis, quae quantum
iis perficiantur intelliges, si teneas eiusdem esse vis in scientiis vocabula,
ac in arithmetica numeri, in algebra litterae, in geometria figurae. In ideas
vero ipsas, et operationes mentis n o quas auctorem ipsum in mente
habuisse, expensis omnibus, verisimillimum non est. connexa ut oílicere
viderentur. Sunt autem quaedam impropries ynonima,quae nempe repraesentant
quidem eamdem ideam principalem sed non casdem accessorias, ut verba amo, et
diligo. strae tantus est vocabulorum influxus, ut sine illis ne tacita quidem
mentis cogitatione vix aliquid mente revolvere posse videamur. Iisdem ideae
complexae usque, et usque resolvuntur; resolutae autem uno vocabulo iterum
comprehenduntur, unde attentio, et memoria mirum in modum iuvatur; sicut eorum
sono, accentu, melodia, imaginationi succurrimus. Comparate ad alios communicationi
inserviunt, et in SERMOVE CIVILI, aesthetico, et philosophico,qui caeteris
accuratior esse debet, culturam, humanitatemque augent. Sed quantum mentem,
scientiasque perficit rectus vocabulorum usus; tantum obest eorumdem abusus.
Errat enim semper qui bene non utitur lin gua. Hi autem abusus ortum habent. ex
naturali vocabulorum imperfectione; cum enim comparate ad ideas exiguus admodum
sit vocabulorum numerus, fit saepe ut uno vocabulo plures quandoque etiam
discrepantes ideas, aut admodum complexas exprimere cogamur. Nihil magis
ostendit huiusce sermonis utilitatem, quam surdi-muti nondum instructi, pueri, etsylvestres.
Quoad surdos mutos praesertim,'censet Bonald, ipsos nihil cogitare. Quanta
igitur gratia est habenda D. Ponce, Andres, De-l'Epée, Sicard, Assaroti,
aliisque. Ex hominum vel socordia, vel malitia. Abulimur nimirum vocabulis cum
iis vel obscuram, vel confusam, vel nullam ideam afligimus; quod vi tium ex eo
est, quod a pueris prius vocabulum. Hos autem abusus praecavebimus Si vite mus
voces ambiguas,obscuras,aequivocas,sine sensu, antiquatas, barbaras, nimium
translatas, nimium e m phaticas. Si prius ideam in mente concipiamus, tum de
signo,quo eadem exprimatur solliciti simus; ab ideis enim ad vocabula progredi
nos oportet,non vicissim. Si vocabulorum sensus in eodem sermo nis filo
constanter idem relineatur; vel si necessitas contrarium expostulet, auditor,
aut lector praemo neatur, nisi ex adiunctis id manifeste colligi possit. Si
utamur vocabulis usitatis, quae ab iis desu menda sunt auctoribus, qui studio,
et labore per rum sermonibus, aut scriptis accuratior vocabulorum usus communi
doetorum suffragio elucet. Licebit ta men aliquando nova condere vocabula pro
novis ideis exprimendis, dummodo id prudenter fiat. Si fixum quam ideas
mente informare consueverimus; vel ex eo quod velimus aliquando pertinaciter
desperatam sententiam nostram defendere. Abulimur quum in sermonis decursu
eamdem vocem in diversa signific. catione usurpamus quin auditorem, aut
lectorem m o neamus. Quum obscuritatem sublimioris cuiusdam doctrinae famam
captemus. Hinc vocabula barbara peregrina obsoleta usurpamus, vel usitatis
novam significationem ad privatum arbitrium confictam affigimus. Quum vocabula
pro rebus ipsis accipimus, ac per eadem reales rerum essentias ex primi
arbitramur, quo vitio praesertim laborant ter mini abstracti. affectamus ut
inde pararunt,et in quo sit menti tantum per vocabula de rebus ipsis signi
ficari, quantum loquens de iis cognoscit. Si vocabula obscura, vel dubia, vel
aequivoca, accuratâ definitione declaremus; quae autem confusa sunt rite factâ
divisione distinguamus. Andrea Abba. Keywords: teoria del segno, segnare,
segnato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abba,” The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abbà #Abbà https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4581626745182618
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51640278106/in/photolist-2mFh9gv-2mFiexT-2mFmvLR-2mFh9gq-2mFh9gA-2mFgVyw-2mFmvLW-2mFmhWY-2mFkgpR-2mFcEYD-2mFcEYJ-2mFmhXK-2mDdaEq-2mD8ZFV-2mEiqh9-2bNcQfR-2bP1SP4-R3Ah1d-R43vL7-Pqghbe-2d7p5fd-2bNcQir-2d8byM3-21fAcHP-GjKJbv-FcebeC-E58e4H-E4u3XA-DndBhH-Bq5Mgn-jkGK9m-js45BA-jkK47d-jkJZJm-hSTpSd-CkaHMd-CfbuaM-BpEqsh-CntuMM-BvUfSB-BFQviK-BDuNmW-o45YVC-o619tS-nUb9rJ-jkEKUz-idiqKe-idiMHY-idirUj-hJJo1T
Grice ed Abbagnano –
filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo. Grice:
“There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different, dubbed his
‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo), and MY
Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived in
Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the
Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian
philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no
entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of
philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Nicola Abbagnano (n. Salerno), filosofo. Laureatosi
in filosofia a Napoli con Antonio Aliotta, insegna dapprima al Liceo Umberto I
ed all'Istituto Superiore di Magistero "Suor Orsola Benincasa" del
capoluogo campano, per poi trasferirsi all'Torino dove è Professore di Storia
della filosofia prima presso la Facoltà di Magistero, poi presso quella di
Lettere e Filosofia; è condirettore, a fianco di Norberto Bobbio, della Rivista
di filosofia; è stato ispiratore del gruppo di intellettuali e filosofi,
comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e Ludovico Geymonat, che prende
il nome di "neoilluminismo italiano", organizzando una serie di
convegni rivolti alla costruzione di una filosofia "laica", aperta ai
principali orientamenti del pensiero filosofico internazionale. Collabora con
il quotidiano La Stampa; si trasferisce poi a Milano dove collabora con Il
Giornale di Indro Montanelli e dove viene eletto consigliere comunale nelle
liste del Partito Liberale Italiano e assume per circa un anno la carica di
assessore comunale alla Cultura. Divenne socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. È stato uno dei promotori del Centro di studi metodologici
di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia,
negli anni trenta e quaranta, la conoscenza delle correnti esistenzialistiche
francesi e tedesche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera
"Le sorgenti irrazionali del pensiero," Abbagnano esalta l'azione
creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre
alla verità. Erano elementi che egli ritrova soprattutto nella filosofia di
Giovanni Gentile. Fondamentale nell'evoluzione della sua filosofia è il saggio "La struttura
dell'esistenza," pubblicata a Torino, nella quale propose una terza
alternativa alle due correnti appartenenti all'esistenzialismo, quella di
Heidegger e quella di Jaspers. Abbagnano definisce la propria visione
filosofica come esistenzialismo positive. Esso, pur non esplicitamente
formulato in veste sistematica, individua la centralità dell'esistenza come
momento ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come
lo strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore
positivo contro ogni possibile nichilismo. Diversamente rispetto
all'impostazione di Heidegger e di Jaspers, Abbagnano evidenzia l'importanza
della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre
a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo
che lo circonda il pensiero di Abbagnano insiste molto su un chiarimento
dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della
necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo,
fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole
filosofiche. Nello saggio "Possibilità e libertà," l'autore chiarì il
senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica dell'uomo
imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure ottimista al
punto da concedere all'essere una realizzazione certa. In quegli stessi anni
prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo",
nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di
empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Il
movimento, che ha avuto sin dal principio una configurazione culturalmente e
politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una
visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che
al pensiero cattolico. Abbagnano aveva del resto ripetutamente criticato
all'idealismo e al neoidealismo la tendenza a sottostimare il valore della
scienza, da lui invece considerata una disciplina indispensabile per la ricerca
della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una
disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari valore e ad essa
complementare. Abbagnano insistette nei suoi lavori sui concetti di
libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la
seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il
positivismo di stampo ottocentesco fu oggetto di critica tramite la
contrapposizione con le filosofie di Immanuel Kant e Søren Kierkegaard. Nel
suo "esistenzialismo positivo," Abbagnano insiste molto sulla
finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua
costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente
nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere.
Negli ultimi anni questo lucido senso del limite e della problematicità
esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose,
inteso come un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è
proprio questo senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni
(illusoria) infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondaresecondo
l'ultimo Abbagnanola possibilità di un incontro genuino fra credenti e non
credenti. E ciò all'insegna di quella ”umiltà del pensiero” (come la chiamava
il filosofo) che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del
dialogo e del reciproco rispetto». Oltre che autore di saggi su singoli
filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), Abbagnano è stato anche l'autore
di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate intere generazioni
di studenti e di docenti. Egli ha realizzato anche un "Dizionario di
filosofia," considerato tra i migliori a livello internazionale. La Storia
della filosofia (sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia,
sia nella versione universitaria pubblicata dalla Pomba) è stata poi aggiornata
dal suo allievo Giovanni Fornero, in collaborazione con Dario Antiseri e Franco
Restaino, in due volumi sulla filosofia contemporanea. Lo stesso Fornero,
insieme a un'équipe di noti studiosi, ha curato anche l'aggiornamento e l'ampliamento
del "Dizionario di filosofia." Opere: Le sorgenti irrazionali del
pensiero, Genova-Napoli, Perrella. Il problema dell'arte, Genova-Napoli,
Perrella. Il nuovo idealismo, Genova-Napoli, Perrella. La filosofia di E.
Meyerson e la logica dell'identità, Napoli-Città di Castello; La vita di
Ockham, Gubbio, Oderisi. Guglielmo di Ockham, Lanciano. La nozione del tempo
secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una
teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La
struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo,
Milano, Bompiani, 1Storia della filosofia I, Filosofia antica. Filosofia
patristica. Filosofia scolastica, Torino, POMBA, II.1, Filosofia moderna sino
alla fine del secolo XVIII, Torino, POMBA, 1II.2, Filosofia del romanticismo.
Filosofia contemporanea, Torino, POMBA, II, Filosofia del Rinascimento,
la filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, POMBA, La filosofia del
Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e XX, Torino, POMBA, 4ª ed.
aggiorn. e riv. voll. I, II, III, con aggiunta del IV (La filosofia contemporanea): tomo 1 di G.
Fornero, L. Lentini, F. Restaino; tomo 2 di G. Fornero, D. Antiseri, F.
Restaino. POMBA, Torino, Filosofia religione scienza, Torino,
L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario
di filosofia, Torino, POMBA, (aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero). Per o
contro l'uomo, Milano, 1Fra il tutto e il nulla, Milano, (con Aldo
Visalberghi), Linee di storia della pedagogia, 3Torino: Paravia, Questa pazza
filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La
saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti
esistenzialisti, B. Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Protagonisti e testi della filosofia, Milano,
L'esercizio della libertà. Scritti scelti, B. Maiorca, ed. riv. agg. e
integrata, Boni, Bologna, 1Esistenza e metafisica, B. Maiorca, Milella, Lecce,
Scritti neoilluministici, B. Maiorca, introduzione diRossi e C. A. Viano, POMBA,
Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da G. Fornero, Abbagnano tra
limite e mistero, «Avvenire», 28 settembr.
La prima edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che aveva già pubblicato un Sommario di filosofia
per i licei risale agli anni 1945-1947 (per il manuale scolastico) (per il
manuale universitario). Attraverso successive edizioni e aggiornamenti (per
opera di Giovanni Fornero) tale storia continua a essere la più diffusa nelle
nostre scuole. N. Bobbio, Discorso su
Nicola Abbagnano, in: N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino, N. Bobbio,
La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Luigi
Pareyson, Il pensiero di Nicola Abbagnano e i suoi sviluppi recenti in Id.,
Esistenza e persona, Taylor, Torino, Antonio Aliotta, L'esistenzialismo
positivo di N. Abbagnano, in Id., Critica dell'esistenzialismo, Perrella, Roma;
G. Giannini, L'esistenzialismo positivo di Abbagnano, Morcelliana, Brescia, P.
Chiodi, L'esistenzialismo, Loescher, Torino); F. Lombardi, L'esistenzialismo in
Italia, in Id., La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa, Asti, Antonio
Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, Norberto
Bobbio, Discorso su Abbagnano, in N. Abbagnano, Scritti scelti (Giovanni De
Crescenzo e Pietro Laveglia), Taylor, Torino); Giuseppe Semerari, Il
neoilluminismo filosofico italiano, in Id., Esperienze del pensiero moderno,
Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana nelle sue relazioni con altri
campi del sapere, Atti del Convegno di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, 1988.
Giuseppe Semerari, Genesi e formazione dell'esistenzialismo positivo, in Id.,
Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli. Mirella Pasini, Daniele Rolando,
Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Nino
Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. Abbagnano and His
Predecessors, Temple University Press, Philadelphia. G. Cacciatore, G. Cantillo,
Una filosofia dell'uomo, Atti del Convegno in memoria di N. Abbagnano
(Salerno), Comune di Salerno. Marco Delpino, Paolo Riceputi, L'uomo e il
filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di
G. Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure. Silvio
Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici"
di Torino, Pantograf (Cnr), Genova, 1998 Bruno Maiorca, Seam, Roma, Bruno
Miglio, Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Atti del Convegno per il
centenario della nascita (Torino,), Il Mulino, Bologna); Aniello Montano, Il
prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano.
Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma, 2003. Rosanna Panelli Marvulli,
'Tributo ad Abbagnano', in abbagnanofilosofo.,. Rosanna Panelli Marvulli,
Abbagnano. Una vita per la filosofia, con un saggio di Giovanni Fornero, POMBA,
Torino,. Silvio Paolini Merlo, Abbagnano a Napoli. Gli anni della formazione e
le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli, C. Viano, Stagioni
filosofiche. La filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia, Il Mulino,
Bologna, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul
pensiero italiano del Novecento, Il Mulino, Bologna, Giorgio Primerano, La
prospettiva pedagogica, Aracne Editrice, Roma, Silvio Paolini Merlo,
L'esistenza come struttura: Abbagnano e l'esistenzialismo, Editoriale Scientifica,
Napoli, Silvio Paolini Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di
Nicola Abbagnano, in Id., Estetica esistenziale, Mimesis, Milano,. Franco
Ferrarotti, Un greco in via Po. Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano,
Edb, Bologna. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di N. Abbagnano, Sito
dedicato, su abbagnanofilosofo. Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della
filosofia italianiAccademici italiani Professore Salerno
MilanoEsistenzialistiStudenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico
IIProfessori dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Professori
dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di
ToriRefs.: Grice, “Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a
hoot care what the dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. –
Niccola Abbagnano. Abbagnano. Keywords: filosofia latina, filosofia romana,
filosofia italiana, impiegare, implicare, dizionario filosofico. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
#abbagnano https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420041904674437 #griceedabbagnano
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51703112979/in/photolist-2mTsNRZ-2mSUzzj-2mRRj7t-2mQPiYS-2mQiU3r-2mQ81kz-2mPXDFp-2mPNuPp-2mPAuFE-2mPr8cN-2mPmmR4-2mMV4GM-2mMZzKx-2mLLY7G-2mLLZRD-2mLPYcg-2mLLviz-2mLGq3t-2mLR4iH-2mLR4iC-2mLPYbp-2mLLvij-2mLMXvp-2mLR4jj-2mLR4is-2mKFBfD-2mKy4zb-2mKGJPF-2mKFCz2-2mKGJ35-2mKGGuF-2mKGJGG-2mKGJmB-2mKFzRw-2mKygXY-2mKFNT3-2mKHfUW-2mKj2vX-2mKbsp3-2mKfbWa-2mJPC2N-2mFAjs7-2mFiexT-2mFh9gv-2mFiexC-2mKC9pY-2mFmvLR-2mFh9gq-2mFh9gA-2mFmvLW
Grice ed Abbri – i quattro elementi – filosofia
italiana (Agliana). Filosofo. Grice: “I like Abbri; he is the equivalent of
what *I* would be if I present myself as “The Philosopher of Staffordshire” –
for Abbri is obsessed with Toscana – “Toscana e la scienza nuova,” “Filosofia e
scienza nella Toscana del Seicento,” – he has also studied the philosophies
(particelle) of Santi and Volta -- Filosofo. Sii è laureato in filosofia con
Rossi a Firenze con una tesi su Filosofia, chimica e linguaggio; è stato
borsista della Domus Galilaeana di Pisa e successivamente ricercatore
confermato presso il Dipartimento di filosofia dell'Firenze. Dal 1976 collabora
con l'Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, oggi Museo Galileo,
come membro del Comitato scientifico dell'Istituto e, dal 1986, anche come
membro dell'editorial board della rivista Nuncius. Inoltre, negli stessi anni,
è entrato a far parte del comitato editoriale delle riviste Prospettiva EP e
Arkete; è nominato professore straordinario di storia della filosofia moderna e
contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università della
Calabria, Cosenza, dove ha anche insegnato storia della filosofia medievale.
Dal 1990 ha diretto, con Franco Crispini, la collana Storia delle idee della
casa editrice Rubbettino. Professore di storia della filosofia e professore
supplente di storia della musica moderna e contemporanea presso la Facoltà di
lettere e filosofia di Arezzo, Siena; della Facoltà aretina è stato inoltre
preside, nnonché direttore del Dipartimento di studi storico-sociali e
filosofici. Ha ricoperto la carica di segretario della Società Italiana di
storia della scienza. È stato in più occasioni visiting scholar all'Uppsala e
al Centro di storia della scienza dell'Accademia reale svedese delle scienze di
Stoccolma e membro dello steering committee di un progetto europeo sulla storia
della chimica moderna e contemporanea finanziato dalla Fondazione europea per
la scienza di Strasburgo. Attualmente insegna storia della filosofia ad
Arezzo nel Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della
comunicazione interculturale, e storia della filosofia e filosofia morale nel
Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali a Siena. È Presidente del
Comitato della didattica della LM interclasse di storia e filosofia di
Siena-Arezzo. I suoi studi riguardano la storia delle idee filosofiche e
scientifiche, con una particolare attenzione per la storia dell'alchimia dal
Medioevo al Seicento, della prima chimica, da Paracelso a Lavoisier, della
magia e della cultura filosofico-scientifica europea, dal Rinascimento all'Età
dei Lumi, dei rapporti tra religione e scienza e tra musica e filosofia
nell'Età moderna. Si interessa inoltre della filosofia e della cultura
britannica del Novecento, di storia della storiografia filosofica e
scientifica, del rapporto tra femminismo e scienza e tra storia antica e
narrazione cinematografica. I suoi numerosi studi hanno portato alla
pubblicazione di varie opere uscite in Italia e all'estero; i suoi saggi sono
apparsi in riviste italiane e straniere e in volumi editi in Francia, Paesi
Bassi, Svezia, Germania e USA. Si è interessato alla cultura scandinava e
in particolare alle relazioni tra Italia e Svezia nel secolo XVIII e ha curato
la pubblicazione di carteggi inediti di scienziati toscani con scienziati
svedesi e russi. Vari lavori riguardano la letteratura, la filosofia e la
musica nell'Inghilterra del Novecento, con particolare riferimento a McTaggart,
Moore, Bloomsbury Group; il suo libro più recente riguarda la filosofia della
musica nell'800 britannico. Alcuni lavori riguardano la metafisica e la
filosofia della religione di Linneo, Priestley e la tradizione sociniana e
unitariana. In previsione di un lavoro monografico su Priestley e l'apologetica
del cristianesimo, le sue indagini considerano le radici teologiche e
filosofiche dell'unitarismo del chimico e filosofo inglese, soprattutto la sua
lettura delle opere di Fausto Sozzini e della Catechesis Racoviensis. In
altri scritti analizza le vicende delle tradizioni storiografiche, filosofiche
e scientifiche in Italia, con particolare attenzione all'opera di Aldo Mieli
che fu uno dei promotori della moderna storia della scienza nel contesto
internazionale. I suoi lavori più recenti vertono sui dibattiti
contemporanei, nell'ambito delle varie tradizioni cristiane, relativi ai
problemi connessi al gender e gli sviluppi della tradizione sociniana nell'Età
dei Lumi. OPAC del Museo Galileo, su opac.museogalileo. Bernardette Bensaude-Vincent, Ferdinando
Abbri, Lavoisier in European context: negotiating a new language for chemistry,
Canton, Science history publications, Ferdinando Abbri, Un dialogo dimenticato:
mondo nordico e cultura toscana nel Settecento, Milano, Franco Angeli, Un altro
paesaggio: studi sulla musica britannica del Novecento, Firenze, Edifir, Miti,
sogni e storie: filosofia e musica nel Novecento britannico, Milano, Franco
Angeli, F. Abbri, Un paese musicale: filosofie della musica nell'Ottocento
britannico, Milano, Prometheus,, Ferdinando Abbri, Professore, Siena, su
segreteriaonline.unisi. Dipartimento di scienze della formazione, scienze
umane e della comunicazione interculturale, Università degli studi di Siena, su
dsfuci.unisi. Museo Galileo, su museogalileo. Nuncius: Journal of
the material and visual history of science, su museogalileo. Filosofi
italiani del XXI secoloStorici della scienza italiani 1951 12 luglio d Agliana.
socinianesimo Dottrina teologico-morale elaborata e sistematizzata da Lelio e
Fausto Socini. Del s. (i seguaci di questa dottrina si davano il nome di
unitarii o di Fratres Poloni, perdurante fino alla metà del Seicento; mentre la
qualifica di sociniani appare solo sul finire del 17° sec., durante l’esilio
olandese) sono più comunemente noti il razionalismo religioso (nella Scrittura
non ci può essere nulla contro la ragione, anche se ci può essere molto sopra
la ragione; nella deduzione della dottrina cristiana dalla Scrittura si deve
procedere solo secondo ragione, poiché ciò che nella Scrittura è detto sopra la
ragione non può esser commentato; dal che deriva che nessun dogma tradizionale,
e tanto meno quello trinitario, e nessuna istituzione, come i sacramenti,
possono essere accettati, in quanto appaiono irrazionali e non esplicitamente
ed evidentemente dichiarati nella Scrittura), il principio della tolleranza
religiosa (purché la vita da loro praticata corrisponda in pieno ai precetti
evangelici, fra i quali anche la non-violenza, tutte le Chiese o tutti i gruppi
che riconoscono come norma di vita i precetti di Cristo vanno riconosciuti come
cristiani, quindi non vanno perseguitati). Questi motivi sono fondati sulla
concezione della religione cristiana come metodo (via) per raggiungere la
salvezza, rivelatoci con i suoi precetti dall’uomo divino, ma mero uomo, Gesù
Cristo, per volere di Dio che l’aveva ispirato, e quindi sulla riduzione della
religione a eticità fondata sul complesso di norme del Vangelo. Concepita la
religione in funzione esclusivamente etica, essa non poteva essere interpretata
che razionalmente e le divergenze teologiche, dogmatiche, non potevano, di
fronte alla preminenza delle norme etiche, non apparire fantasie speculative.
Tali principi furono elaborati e argomentati con una esegesi sottilissima da F.
Socini, che aveva cominciato con il dimostrare razionalmente, con uno dei primi
esempi di critica filologica in grande stile applicata ai problemi religiosi,
l’autenticità della Sacra Scrittura e la preminenza della religione cristiana;
ma raccolgono nella formulazione estrema motivi diffusi già nel Rinascimento
italiano e negli ambienti ereticali del Cinquecento. I motivi schiettamente
religiosi furono il rinnovamento della pietà proposto da G. Contarini e da I.
Sadoleto, l’ideale della imitatio Christi raccolto in ambiente italiano da C.S.
Curione e S. Castellione; altri motivi, connessi e derivati dai primi, furono
l’indifferenza valdesiana per le questioni dogmatiche e la semplificazione dei
dogmi condotta all’estremo da Aconcio sulle orme di Erasmo. Agirono inoltre
anche elementi di origine filosofica, come la coscienza universalistica e
irenica tratta dal neoplatonismo toscano, l’estensione della critica filologica
di Valla, l’uso di argomentazioni familiari all’aristotelismo padovano. In
Polonia il movimento sociniano ebbe la sua capitale nel centro culturale di
Raków; il periodo più fiorente fu quello degli ultimi decenni del 16° sec. e
dei primi del 17°. Dura la persecuzione in Polonia, culminata con l’espulsione.
Gli esuli andarono parte presso gli unitari transilvani, dei quali condivisero
la sorte di Chiesa a mala pena tollerata sotto la preponderanza calvinista e
poi perseguitata dagli Asburgo cattolici; in parte, attraverso Holstein, in
Olanda, dove già erano conosciuti fin dagli ultimi anni del 16° sec. e
condannati; ma furono accolti nelle riconosciute comunità dei rimostranti, e
poi dei collegianti, e poterono esercitare una vasta attività culturale: i loro
principi furono discussi da Spinoza e da Leibniz, e permearono la cultura
religiosa olandese. Dall’Olanda il s. si diffuse, per mezzo della stampa, in
Inghilterra, dove il terreno era stato preparato da Aconcio e dove, se da un
lato unì in gran parte la sua storia a quella della Chiesa unitaria, dall’altro
penetrò anche, attraverso le università, tra il clero anglicano e nella società
colta inglese: sociniani, benché non unitari, furono W. Chillingworth, R.
Baxter, J. Milton, Newton, W. Penn. La ‘controversia antitrinitaria’ del 1687
costituì lo sfondo storico della Lettera sulla tolleranza (1689) di Locke. Così
il s. cooperò alla preparazione del deismo e della libertà religiosa, e assieme
a essi fu combattuto dal metodismo. In America, dove il s. assunse
definitivamente il nome di unitarianismo, il razionalismo etico di questa
corrente religiosa alimentò figure come T. Parker. Ferdinando Abbri. Abbri.
Keywords: socianesimo, Socini, Sozzini, Fausto Sozzini, catechesis racoviensis,
socini -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abri” – The Swimming-Pool Library. #abbri https://www.facebook.com/media/set?vanity=j.l.speranza&set=a.5258949264117026 #griceedabbri https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702718328/in/photolist-2mLMWS5-2mLR3FA-2mLLuGu-2mLMWRP-2mLR3FW-2mLGptY-2mLR3FL-2mKFE9z-2mKFDTV-2mKDGVQ-2mKFPym-2mHGgw3-2mFzUKN-2mFzUKT-2mFJo9H
Grice ed Accetto – DELLA DISIMVLATIONE HONESTA –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani).
Filosofo. Grice: “I learned so much about Accetto, and I hope it showed in my
talk at Brighton on ‘meaning, revisited.’ For Accetto, unlike Strawson, there
is ‘disimulazione onesta’ and ‘simulazione disonesta.’ Accetto notes that there
is an implicature to the effect that ‘disimulazione’ is disonesta per se and
hence he tried to provoke the duchess of Malfi by his little treatise on ‘Della
simulazione onesta’ – “An oxymoron, if ever there was one --,’ the duchess told
the duke --.” Filosofo. Nativo di Trani, visse ad Andria e fu in relazione con
la cerchia del marchese Giovanni Battista Manso, il mecenate napoletano che fu
biografo di Torquato Tasso nonché fondatore dell'Accademia degli Oziosi. Scrisse varie rime, nelle quali evidenziò la
sua delicata coscienza morale e il breve trattato Della dissimulazione onesta:
nato nel contesto della dominazione spagnola in Italia, fu pubblicato a Napoli e
rapidamente dimenticato. Il libello fu poi riscoperto da Benedetto Croce
all'inizio Professoree ripubblicato da Salvatore S. Nigro. La
"dissimulazione", tematica al centro dei dibattiti all'epoca, non è,
per Accetto, sinonimo di menzogna, ma invito al raccoglimento e alla cautela.
L'analisi di Accetto pone la questione, da un piano di politica spicciola, su
un piano di accurata indagine morale: l'autore, alquanto speciosamente,
differenzia la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni
cattive, dalla dissimulazione, che invece pareva all'Accetto l'unico rimedio
per difendersi da una società pullulante di simulatori e per trionfare delle
proprie passioni. La ricetta però per risultare vincente richiede una onestà di
animo e un buon equilibrio. Opere
Edizioni originali: Rime di Torquato
Accetto, Napoli: nella stampa degli heredi di Tarquinio Longo, Rime del signor Accetto,
divise in amorose, lugubri, morali, sacre, et varie, Napoli: nella stampa di
Giacomo Gaffaro, Della dissimulazione onesta, Napoli, Edizioni moderne: Rime amorose, edizione critica Salvatore S.
Nigro, Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta, edizione critica Salvatore
S. Nigro; presentazione di Giorgio Manganelli, Genova: Costa & Nolan, nuova
edizione Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta Rime, E. Ripari, Milano:
BURRizzoli,. Note "Le Muse",
De Agostini, Novara, B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Eugenio
Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 1966 Rosario Villari, Breve
riflessione sulla Dissimulazione onesta di Torquato Accetto, R. Villari, Elogio
della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, RomaBari, Laterza, sapere,
De Agostini. Torquato Accetto, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Torquato Accetto, su Liber Liber. Opere di Torquato Accetto, su openMLOL,
Horizons U. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si
accompagna con la dissimulazione Io tratterei pur della simulazione, e
spiegherei appie- no l'arte del fingere in cose che per necessità par che la
ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di
meno; e benché molti dicano: “Qui nescit fingere nescit vivere”, anche da molti
altri si af- ferma che sia meglio morire, che viver con questa con- dizione. In
breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so
perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa,
aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera
essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando
imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della
dissimu- lazione, in modo che sia appresa nel suo sincero signifi- cato, non
essendo altro il dissimulare, che un velo com- posto di tenebre oneste e di
rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al
vero, per di- mostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nel- l'ordine
dell'universo sia il giorno e la notte, cosí con- vien che nel giro delle opere
umane sia la luce 16 e l'ombra, dico il proceder manifesto e nascosto,
con- forme al corso della ra- gione, ch'è regola della vita e degli accidenti
che in quella oc- corrono. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a
che termine La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene,
di che quella è abuso; onde nasce ch'è im- possibile di trovar arte alcuna, che
la riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede talor il mutar manto,
per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma
di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si
suol valere della dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto
moderato, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto, in modo che si
elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono alcuni che si trasforma-
no, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta
con prodiga mano in ogni pic- ciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú
bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro cre- da. Questo
è per avventura il piú difficile in tal indu- stria; perché, se in ogni altra
cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario,
poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona
riuscita. È dunque dura impresa il far con arte perfetta quello che non si può
essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che Tiberio fosse molto
accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e ciò considero
perché, dicendo Cornelio Tacito: “Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret,
seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba”; non solo disse
prima: “plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat”, ma conchiude: “At
patres, quibus unus me- tus, si intelligere viderentur”, ecc.; ecco che si
accorgea- no chiaramente della sua intenzion in quelli continui ar- tifici. In
sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far professione,
se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma- schera ogni
giorno, sarebbe piú noto di ogni altro, per la curiosità di tutti; ma degli
eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia alcuna. 1Della
disposizione naturale a poter dissimulare Quelli in chi prevale il sangue o la
malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a dissimu- lare.
Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa facilmente
celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor malinconico,
quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente le na-
sconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de' dispiaceri, è
pronto ad una manifesta tolleran- zia; e la collera, che è fuor di misura, è
troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dun- que è
molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle tempeste
del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo, parer
turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile, se
non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che
sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri,
stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli
che l'hanno e di que' che non vi si sanno ac- commodare; ma piú è certo che gli
uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la
volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in
que' versi: Voi che vivete ogni cagion recate pur suso al cielo, sí come se
tutto movesse seco di necessitate. Se cosí fosse, in voi fora distrutto libero
arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per mal aver lutto. Il cielo
i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto che 'l dica, lume v'è dato
a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie del
ciel dura, poi vince tutto, se ben si nutrica. A maggior forza e a miglior
natura liberi soggiacete; <e> quella cria la mente in voi, che 'l ciel
non ha in sua cura. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare Da chi ha
per non plus ultra le porte delle natie con- trade, o che da' libri non
apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si
viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco
intendente, riesce molto dura questa prati- ca, la qual contiene l'esser
d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è
tanto ri- stretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità
che l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a tempo,
quelle deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi sono per-
niziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di Ulisse,
“qui mores hominum multorum vidit et urbes”, o l'aver letto ed osservati molti
accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno
agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a
guisa di ubbidienti citta- dini, si contentino ad accommodarsi alla necessità,
della quale disse Orazio: Durum, sed levius fit patientia quicquid corrigere
est nefas. Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita
occupata negli affari del mondo, e nella considerazione del tempo passato, per
non contradir al pre- sente e poter far giudicio dell'avvenire. Stando la mente
cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio- ne che le si vada
rappresen- tando, ed in conseguenza dipenderà da lei, e non dal precipizio del
senso, l'espres- sion di quan- to le succede. Che cosa è la dissimulazione Da
poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimu- lare, dirò piú distinto il suo
significato. La dissimulazio- ne è una industria di non far veder le cose come
sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di
Enea: Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem. Questo verso contiene la
simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in
Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi
affanni: ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando
la rabbia di Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne
valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate rui- ne, tutte le
rie venture che lor già davan noia; e col dol- cissimo “meminisse iuvabit”,
conchiude: Per varios casus, per tot discrimina rerum tendimus in Latium, sedes
ubi fata quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae. Durate, et vosmet
rebus servate secundis. Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente,
perché “Talia voce refert curisque
ingentibus aeger.” Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della
fortuna, e prima fu espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore,
quando in altra figura dava di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual
disse: Hac autem <iam> audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem
corpus sicut autem nix liquefit in altis montibus, quam Eurus liquefecit,
postquam Zephyrus defusus est liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes:
sic huius liquefiebant pulchrae genae lachrymantis flentis suum virum
assidentem. At Ulysses animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem. Oculi
autem tanquam cornua stabant vel ferrum. Tacite in palpebris dolo autem hic
lachrymas occultabat. Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle la-
grime, quando era tempo di nasconderle; e la compara- zion di liquefarsi
Penelope, come la neve, mi dà occa- sione di soggiunger quello che sia l'umido
e 'l secco, di- cendo Aristotile: “humidum est quod suo ipsius termino
contineri non potest; facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod
facile suo, difficulter autem ter- mino terminatur alieno”. Da che si può
apprender che il dissimular ha del secco, perché si ritien nel proprio ter-
mine; e questi son gli occhi di Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla
fermezza del corno e del ferro, quando que' di Penelope eran molli e non avean
termine 25 prescritto, conforme a quelle ch'eran versate nell'animo di
Ulisse, tenendo il ciglio asciutto, ed a questo par che corrisponda quella
sentenza di Eraclito: “Lux sicca, anima sapientissi- ma”. 26 IX. Del bene
che si produce dalla dissimulazione Presupposto che nella condizion della vita
mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al
mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di
nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o
perché portan pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene
agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si
conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il
bello de' corpi che stanno soggetti alla mutazio- ne, e veggansi tra questi i
fiori, e tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a
prima vista dis- simula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una sem- plice
superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella
sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par
che disiata avanti fu da mille donzelle e mille amanti; perché la
dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose,
anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché
della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terre- 27 na,
quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato
dal favor dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di
que' colori che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte.
Giova dunque una certa dissimulazion della natu- ra, per quanto si contiene tra
lo spazio degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di
non esser tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde
sempre, perché ivi tutte le cose son bel- le dentro e fuori. Or, passando
all'utile che nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle
cose che piú bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce
nella destrezza di questa medesima dili- genza. E leggendosi quanto ne scrisse
monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina inse- gna
cosí di ristringer i soverchi di- siderii, che son cagion di atti noiosi, come
il mo- strar di non veder gli errori altrui, ac- ciò che la con- versazione
riesca di buon gusto. 28 X. Il diletto ch'è nel dissimulare Onesta ed
util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è
sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto, Fu il vincer sempre mai lodabil
cosa, vincasi per fortuna o per ingegno, è chiaro che 'l vincer per sola forza
d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel vincer se stesso,
ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Que- st'avviene nel dissimulare,
con che, dalla ragione supe- rato il senso, si riceve intiera quiete; ed
ancorché si sen- ta non poco dolor quando si tace quello che si vorrebbe dire,
o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'af- fetto, nondimeno piace
poi grandemente d'aver usata so- brietà di parole e di fatti. A questa
conseguenza di sodi- sfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera di
viver con riposo; e ciascun, che vuol ben accorgersene per gl'interessi suoi,
vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è nostro
quanto è in noi medesi- mi. Non dico che non si han da fidar nel seno
dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è degno di gran
considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se stesso della
vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo
“prudens simplicitas”, dicendo: Vitam quae faciunt beatiorem, iucundissime
Martialis, haec sunt: res non parta labore, sed relicta; non ingratus ager,
focus perennis; lis nunquam, toga rara, mens quieta; vires ingenuae, salubre
corpus, prudens simplicitas, pares amici, convictus facilis, sine arte mensa;
nox non ebria, sed soluta curis; non tristis torus, attamen pudicus; somnus qui
faciat breves tenebras; quod sis esse velis nihilque malis, summum nec metuas
diem nec optes. Il prudente candor dell'animo è dunque il centro della
tranquillità. “Hoc opus, hic labor”. 30 XI. Del dissimulare con li
simulatori Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi
soggett'alla morte, sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di
fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico,
dicendo: “Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At
melius <etiam> quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni
duntaxat es deditus? Ob huius societa- tem declinantes a meliore natura quidam,
lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad nocen- dum
parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac trucu- lenti: maxima vero pars
vulpeculae sumus”. Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel
dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú pronta per la
notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si riscontrano; ma
le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si cono- scono, è
pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto
chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché, mostrando di creder a chi
vuol in- gannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di
grand'intelligenza che si dia 31 a veder di non vedere, quando piú si
vede, già che cosí 'l giuoco è con occhi che pa- ion chiusi e stan- no in se
stessi aperti. Del dissimulare con se stesso Mi par che l'ordine di questo
artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si richiede prudenzia
in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e questo non piú che per
qualche picciolo intervallo e con licenza del “nosce te ipsum”, per pigliar una
certa ri- creazione passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima dunque ciascun
dee procurar non solo di aver nuova di sé e delle cose sue, ma piena notizia,
ed abitar non nella superficie dell'opinione, che spesse volte è fallace, ma
nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e la vera
diffinizione di ciò ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno attend'a
saper il prezzo della roba sua e che pochi abbian cura o curiosità d'intender
il vero valor dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fat- to il possibile
di saperne il vero, conviene che in qual- che giorno colui ch'è misero si
scordi della sua disav- ventura, e cerchi di viver con qualche imagine almeno
di sodisfazzione, sí che sempre non abbia presente l'og- getto delle sue
miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto; poiché è una
moderata oblivio- ne, che serve di riposo agl'infelici: e benché sia scarsa e
pericolosa consolazione, pur non se ne può far di meno, per respirar in questo
modo; e sarà come un sonno de' pensieri stanchi, tenendo un poco chiusi gli
occhi della cognizion della propria fortuna, per meglio a- prirli dopo cosí
breve risto- ro: dico breve, perché fa- cilmente si muterebbe in letargo, se
troppo si praticasse que- sta negligenza. Della dissimulazione che appartiene
alla pietà Quando considero che il vino fu trovato dopo il dilu- vio, conosco
che non bisognava minor quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due
cose: una di Noè, che ne restò ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è mol- to
contrario alla dissimulazione, e quanto questa s'im- piega a coprire, tanto
quello attende a scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la
faccia indietro rico- prirono il padre, dissimulando di vederlo a tal termine,
quando dal lor fratello, già alienato da ogni legge di umanità, era schernito
ignudo colui che l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo che
imitano questa mostruosa ingratitudine, facendo materia da ride- re chi loro
doverebber'esser oggetto d'amore e di reve- renza! Pochi son gl'imitatori di
que' due che seppero tro- var il modo di volger le spalle, per pietà, al padre,
non come molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non
solo que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar
di non averlo ve- duto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a
scusar i disordini, ed in particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno
di loro v'incorre. Altri pietosi uffi- ci mi si rappresentano nell'istoria di
Giuseppe che, ven- duto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di
35 piú riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada
mansuetudine, dissimulava il dono di quegli ele- menti che lor in apparenza
vendeva, perché i medesimi sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto
venir anche l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manife- star a tempo
la sua benignità, “non se poterat ultra cohi- bere Joseph multis coram
adstantibus”. In questo ebbe fine quella sincera ed innocente dissimulazione; e
segue nel Genesi a narrarsi la sua pietà: “unde praecepit ut egrederentur
cuncti foras, et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem
cum fletu, quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit
fratribus suis: - Ego sum Joseph -”. Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e
già chiamato salvator del mondo; con tutto ciò, non tenendo conto dell'offese,
dissimulò d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi
possa ritener le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può
apprender la dolcezza del per- dono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente
quan- do vengon da persone tanto care quanto son i fratelli. Come quest'arte
può star tra gli amanti Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è pic-
ciolo, e come disse Torquato Tasso: Picciola è l'ape, e fa col picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite; ma qual cosa è piú picciola d'Amore, se in
ogni breve spazio entra, e s'asconde?. Nondimeno è pur tanto grande, che non ha
luogo da potersi in tutto nasconder, è quando è giunto al suo cen- tro, ch'è il
cuore, se non si mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual
era infermo Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco: E se non
fosse la discreta aita del fisico gentil, che ben s'accorse, l'età sua in sul
fiorir era fornita. Tacendo, amando, quasi a morte corse; e l'amar forza, e 'l
tacer fu virtute; la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. Quindi si può
considerar come, mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme,
ne fan publica pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peggio,
quando amor prende stanza ne' petti umani, accen- dendogli da dovero, perché i
sospiri, le lagrime, la palli- dezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa
e si fa, tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antio- co,
nell'amor verso Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò
l'incendio nelle vene e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante
Didone, mentre Amor in figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa
mancava, perché già si vedesse accesa, come Virgi- lio va significando:
Praecipue infelix pesti devota futurae expleri mentem nequit, ardescitque
tuendo Phenissa et puero pariter donisque movetur. Ed ancorché andasse velando
gli stimoli della piaga interna, nel progresso del suo affetto, At regina gravi
iamdudum saucia cura vulnus alit venis at caeco carpitur igni, pur, quello che
la lingua non avea publicato, fu espresso nelle strida della piaga ch'ella
stessa disperata si fe', conchiudendo Virgilio: Illa, graves oculos conata
attollere, rursus deficit: infixum stridet sub pectore vulnus. Di Erminia si
ha, da Torquato Tasso, che avea dissi- mulato il suo pensiero, e ch'ella poi
disse a Vafrino: 38 Male amor si nasconde. A te sovente desiosa i' chiedea
del mio signore. Vedendo i segni tu d'inferma mente: - Erminia - mi dicesti -
ardi d'amore. - Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente fu piú verace
testimon del core; e 'n vece forse della lingua, il guardo manifestava il foco
onde tutt'ardo. Il medesimo dolor che tormenta gli amanti, se non ba- st'a far
che dicano i loro affetti, si muta in ambizione amorosa di dimostrarli; e se
gli animi onesti si contenta- no di non manifestarsi, con gran fatica si
riducono a portar intiero il manto che ha da coprir tanti affanni. L'ira è
nimica della dissimulazione Il maggior naufragio della dissimulazione è
nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto, essendo un baleno che, acceso
nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con orribil luce fulmina dagli occhi; e
di piú fa precipitar le parole, quasi con aborto de' concetti che, di forma non
intieri e di materia troppo grossa, manifestano quanto è nell'animo. Molta
prudenza si richiede, per rinchiuder cosí gagliarda alterazione; e di chi è
trascorso a tanto impeto, disse Platone: “tanquam canis a pastore, ita de-
nique revocatus ab ea quae in ipso est ratione mitescat.” Era Achille in questa
passione contra Agamennone, quando “truculento intuens aspectu: - O vir -
inquit - ex dolo totus atque imprudentia factus ac genitus, et quis tibi Graecorum
posthac libens pareat? Ma l'ufficio della ragione, significata per Minerva
scesa dal cielo, va temperando: “ - Non venit - inquit - a caelo, Achilles, ut
te iratum in ultionem iniuriae acceptae erumpere vi- deam, sed ut ira<cundia>m
tuam compescam - Sí che Omero, in questa occasione di Achille, spiega insieme
quanto importi la dissimulazione. Da due potenti stimoli procede tanta licenza
di parole nell'ira, cioè dal dispia- cere e dal piacere, perché ella è
appetito, con dolore, di far vendetta che si dimostri vendetta, per dispregio
che 40 crediamo fatto di noi, o d'alcuno de' nostri, indegnamen- te, come
disse Aristotile; ed a questo dolor segue il di- letto, che nasce dalla
speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto di vendetta: e però
Aristotele soggiun- se: “recte illud de ira dictum est quod, defluente melle
dulcior, in virorum pectoribus gliscit”. Dunque, da cosí fatto misto di amaro e
di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar facilmente turbato, come
sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e tutti quelli che si fan
vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la conside- razione di quanto è
maggior diletto vincer se stesso, in aspettar che passi la procella degli
affetti, e per non deli- berare nella confusione della propria tempesta; ma nel
sere- no dell'animo che, ritirato ogni pensiero nell'altissi- ma parte della
mente, potrà sprezzar molte cose, o non curar di vederle. Chi ha soverchio
concetto di se stesso ha gran difficultà di dissimulare L'error che si può far
nel compasso, il qual si gira nel- l'opinion di noi stessi, suol esser cagion
che trabocchi ciò che si dee ritener ne' termini del petto; perché, chi si
stima piú di quello che in effetto è, si riduce a parlar come maestro, e
parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa del sapere, e dice molte
cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto. Pitagora, sapendo parlare,
insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fati- ca, ancorché paia
d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole, non solo portano l'imagine
di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli mentali (già che non posso dir
carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sa- pere. Questo è il concetto
primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli altri; e se non è con misura,
ne procedono molti e vari ragionamenti, e di necessità però si scopre quanto è
nel pensiero; ma chi di sé fa quella sti- ma che di ragion conviene, non
commette alla lingua maggior giuridizzione di quanto è il lume dell'intelligen-
zia che la dee muovere. 42 XVII. Nella considerazione della divina
giustizia si facilita il tollerar, e però il dissimular le cose che in altri ci
dispiacciono Convien di trattar di alcune cose piú in particolare, che
ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir dissi- mulate, poiché sono
molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo gran teatro del mondo, nel
qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed or non dico di quelle che
son invenzioni de' poeti antichi o mo- derni, ma delle vere mutazioni del mondo
stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli accidenti umani, prende altra
faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa il tutto simigliante a Dio,
che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran mar
dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e disponendo la medesima
regola sopra il merito o demerito delle ope- re umane, si vieta nondimeno alla
debolezza de' nostri pensieri il passar negli abissi de' consigli divini, alli
qua- li si dee infinita riverenza, avendosi da ricever per giu- sto quanto
consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non vediamo nelle cose mortali
quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto del sole, della luna e
dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte si truovano i negozii
di qua giú, non manca però la certezza dell'eter- na legge, che tutto sa
applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non sempre vien pronta, si
aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino, che per tutto va
penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A que- sta verità, ch'è via di
quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò piú distinto il modo
di accom- modarsi a quelle. 44 XVIII. Del dissimular l'altrui fortunata
ignoranzia Gran tormento è di chi ha valore, il veder il favor del- la fortuna,
in alcuni del tutto ignoranti; che senz'altra oc- cupazione, che di attender a
star disoccupati, e senza sa- per che cosa è la terra che han sotto i piedi,
son talora padroni di non picciola parte di quella. Veramente chi si mette a
considerar questa miseria, è in pericolo di perder la quiete, se insieme non
s'accorge che la medesima for- tuna, che talora fa qualche piacere alla turba
degli scioc- chi, suol abbandonar l'impresa, e quando piú luce, si rompe, lasciando
scherniti que' che non son degni della sua grazia; e di piú la gente di questa
qualità, non ha che pretender per l'acquisto di quella gloria, che solamente
appartiene a chi sa da dovero; e se qualche uomo di ec- cellente virtú, alcuna
volta sta quasi sepellito vivo, in ogni modo si ha da udir il grido del suo
merito; e non solo la voce ne dee risonar tra quelli che vivono nel me- desimo
tempo, ma se ne va passando da un secolo all'al- tro; perché il vero valor è
che fa per fama gli uomini immortali, come disse il Petrarca; e prima di lui
Dante: vedi se far si dee l'uomo
eccellente sí ch'altra vita la prima relinqua. Di questa maniera si libera il
nome dalle mani della morte, ed un'anima piena di cosí alta speranza, non sente
noia che a qualche indegno e da poco, per poco tempo, si faccia applauso, es-
sendo un salto di fortuna che se ne passa senza lasciar ve- stigio, come il
fumo nell'aria. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia Orrendi
mostri son que' potenti, che divorano la so- stanza di chi lor soggiace; onde
ciascuno, che sia in pe- ricolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di
ri- mediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da'
sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que'
dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicu-
rando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora
di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non
meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso
è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non
dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e
dell'altrui ti- more. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel
palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di soverchi arnesi e di oziosi
ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco
nella pro- pria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e
forse il tutto. Ma piú dura è la fatica di dover pi- gliare abito allegro nella
presenza de' tiranni, che so- glion metter in nota gli altrui sospiri, come di
Domiziano disse Tacito: “Praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et
aspici, cum suspiria nostra subscribe- rentur, cum denotandis tot hominum
palloribus sufficeret saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore
muniebat”. Sí che non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia
respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo
vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla benignità
della natu- ra son date a' miseri come propria dote, per formar l'onda che in cosí
picciole stille suol portar via ogni grave noia e la- sciar il cuor, se non
sano, al- men non tanto oppresso. Del dissimular l'ingiurie L'ingiuria, che si
può dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta
piú da colui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il
decoro dell'onesta tolleranzia, in che si accordano tutt'i filosofi, che per
altre opinioni, in varie set- te, non son di conforme parere, dicendo
Tertulliano: “tantum illi subsignant, ut cum inter sese variis sectarum
libidinibus et sententiarum aemulationibus discor- dent, solius tamen
patientiae in com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint
pacem: in eam conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione
virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostenta- tionem de patientia
praeferunt. Alcuni, non distinguen- do la forteza dal temerario ardire, son
pronti ad ogni qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor
modo, vogliono penetrar negli altrui pensieri e dolersene come di offese
publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e l'esperienza
dimostra che le picciole in- giurie, se non si lascian passar sotto qualche
destrezza, sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto
piú convien di ritirar la vista da simili occasioni: perché ogni un che possa
poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi a tollerare; ma chi ha
forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi
che stanno in alta fortuna, scordati non solamente di usar perdono, ma della
proporzion della pena, prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avviene
ch'essi pur rimangono in tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio
publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete interna,
ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia. Del cuor che sta nascosto
Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è
collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star
chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star
nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni
esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde,
nell'elezzione, si con- sideri quello che fu detto da Euripide Sapienti
diffidentia non alia res utilior est mortalibus. L'esperienza, che si suol
doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva oscura per
l'incertezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto va- gliasi degli
abissi del cuore, ch'essendo breve giro, è capace d'ogni cosa; anz'il mondo
intiero non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può saziarlo. Si ammira,
come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne' termini de' palagi, ed
ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro
persone e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può
ogni uomo, ancorch'esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella
vasta ed insieme segreta casa del suo cuore, perché ivi soglion esser quei
templi sereni, de' quali cantò Lucrezio: sed nihil dulcius est, bene quam
munita tenere edita doctrina sapientium templa serena, despicere unde queas
alios passimque videre errare atque viam palantes quaerere vitae. Applicando io
però questi versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una
quiete, che con- duce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto
fallace. La dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male Era
tanto stimata da Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di
valersene nel suo regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di
aver fatto assai dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse:
Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi? et venit super me indignatio.
Egli con tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo
fe' volentieri; e però s'era per- suaso che non avesse da seguir mutazione
nelle cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglie- va
dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu
voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una
invitta costan- za e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera
gloria si menò appresso come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina
felicità con duplicate sodisfazzioni; e quella sua giustizia, che nel termine
della sem- plice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per
affermare che i servi di Dio, in ogni condizio- ne, son sempre beati. Dunque
Giob era tale, anche nel tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla
materia 53 di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua
conscienzia, dicea: “Nonne dissimulavi? nonne si- lui? nonne quievi?”, volendo
significar che a questa dili- genza non suol mancar piacer alcuno; e quando
succede qualche accidente che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo
l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli affetti della
terra. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione È tanta la necessità
di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da mancare. Allora
saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi
esposti alla publica notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non
averà che far la dissimulazio- ne tra gli uomini, in qualunque modo si sia,
quando Id- dio, che oggi “est dissimulans peccata hominum”, non dissimulerà
piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de'
mortali, e que' sa- gaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si accorgeranno
come allora non gioverà l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva
quella del leone, che fu consiglio di un re spartano: perché l'onnipotente Leo-
ne, facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e
ciascuno dee saper e dire circumdabor pelle mea, come disse Giob. Quell'aurora
porterà un giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi
sarà arte da far vedere il bianco per lo nero. S'udirà il decreto, che sarà
l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al
piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di
fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e,
con la spada accesa, troncherà il filo d'ogni vano pensiero. Come nel cielo
ogni cosa è chiara Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la
dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime
infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli
orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente felici.
Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca
il suo nome, come osserva Gregorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere,
perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veggono i beati colui
che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è
manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono
a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può
succedere occasion di custodire in- teresse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti
di corruzzio- ne, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissi- mula
per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia one- sto, pur è travaglio; onde
si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo
dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche
per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina
essenza, i beati go- dono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uomo,
essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria
che lo conforta; perch'essendo la divina essenza sopra la condizione
dell'intellet- to creato, può questi vederla, non per forze naturali, ma per
grazia; e come uno ha maggior lume di gloria del- l'altro, cosí può meglio
conoscerla, ancorché sia impos- sibile vederla quanto è visibile, perché il
medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal intelletto, non è infinito.
Or, considerando cosí sodisfatti, cosí felici, ed in eterno sicuri, gli
abitatori del Paradi- so, si vede come non han da nasconder di- fetto alcuno; e
per conseguenza la dissimulazio- ne rimane in ter- ra, dove ha tutti i suoi ne-
gozii. The first stage X produces a screech volunaarity so that the rest of the
world should think that x he is in the state wwhich the NON-voluntary
production would SIGNIFY. Stage 2, produce
X is now supposed not only TO SIMULATE pain-behaviour but also to be recognised
as simulating pain-behaviour. Stage three
X screes so that Y not only recotgnises that the behaviour is voluntary
but also recognises that X intends Y to recognise his behaviour as voluntary.
We have underminded that this is a straightforward piece of DECEPTION.
DECIEVING consists in trying to get a creature to accept certain things as
SIGNS of something or other wihout knowing that this is a FAKED case. Were
would weuld have a sort of PERVERSE faked case in which something is faked but
at the same time a CLEAR thindictation is put in that the faking has been done.Y
can be thought of as initially BAFFLED by this conflicting performance. There
is this creature simulating pain but ANNOUNCING, that this what he is doing.
What on earth can it be up to me. If Y does raise the question of why X should
be doing this, Y might first come up with the idea that X is engagnen in some
form of make believe – a game to which Y is expected to make some appropriate
contribution. This is stage 4. But we may suppose, tthere might be cases which
coud NOT be handled in this way. If Y is to be expected to be a participant
whith X in some form of play, it ought to be possible for Y to recognise what
kind of contribution Y is supposed to make. And we can envisage the possibility
that Y has NO CLUE on which to base such recognition, or again that though some
form of contribution seems to be suggested, when Y obliged by coming up with
it, X instead of producing further play-behaviour geets corss and perhaps
repeats its original and now problematic performance. This is stage 5, at which
U supposes thanot that X is engaged in play that buta what I is doing is trying
to get Y to believe or accept that X is in pain. In relation to the particular
example which I have been using, to reach the position ascribed to in in stage
five, Y would have to solve, bypass, or IGNORE, a possible problem presented by
X/s behaviour. Why SHOULD X produce what is NOT a genuine but a FAKED
expression of pain if what X is trying to get Y to believe is that X IS in
pain? Wy not just let out a natural bellow? Possible answers are not too hard
to come by. For example, it would be UNMANLY, or otherwise uncreaturely, for X
to produce NATURALLY a natural expression of pain, or that X’s NON-NATURAL
faked production of an expression of sincere pain is NOT to be supposed to
INDICATE EVERY feature which WOULD be indicated by a NATURAL production. The
non-natural production or emission, for example, of a LOUD BEELLOW might properly
be taken to indicate pain, not that THAT degree of pain wich would correspond
with the DECIBELS of the particular emission. This problem would not, however,
arise if X’s performance, instead of being something which, in the NATURAL
INVOLUNTARY case, woud be an EXPRESSION of the STATE of X which (in the
non-natural faked case) is is intended to get Y to believe in, were rather
something MORE LOOSELY connecterd with the state of affairs (NOT NECESSARILY A
STATE OF X) which it is intended to conveye to Y. X’s performance, that is,
would be SUGGESTIVE, IMPLICATURAL, in some recognizable way, OF THE STATE of
affairs WITHOUT being a NAUTRAL involuntary response of X to THAT state of
affairs. We reach then stage 6. Where the correlation is meant to be something
other than inconic. A stage in which the communication vehiles do not ave to
be, initially A NATURAL SIGN of what which it is used to communicate. Provided
a bit of behaviour could be expected to be seen by the receiving creature as
having a discernible connection with a particular piece of information, that
bit of bheaviour will be usable by the transmitting creature, provided that the
creature can place a fiar bet on the cconnetion being made by the receiving
creature. Any link will do, proided it is detectable by the receiver, and the
ooser the links creatures are in a position to use, the greater the freedom
they will have as communicators, since they will be less and less restricted by
the need to rely on a proor natural connection. The widest possible range is
given where creatures use for these purposes a ANGE of communication devices
which or gamut of communication devices which have NO ANTECEDENT connection at
all with the things that they communicate or represent, and the connection is
simply made ofbecause the sassupmtion of such an artificial connection is
prearranged and foreknown. Here creatures can simply cash in on the stock of
information built into them. In some cases, the devices might have other
features above the one of being artividial. They might infolve a finite number
of roto devices and a FINITE set of fmodes or forms of combination –
combinaroty operations, which are cableble of being used over and over again.
The creatures whihcll have what some have thought to be characteristic of a
language, a communication system with a finite set of initial devices, together
with semantic provisions for them, and an understanding of what the functions
of those modes of comination are. As a result, they can generate an infinite
set of complex communication devices, together with a correspondingly infinite
set of things to be communicated. This gives a rationale ro communiationThe
muth exhibits the conceptual link Torquato Accetto. Keywords: dissimulazione
onesta, dissimulazione disonesta nell’animali – mimesis – camuffare,
camouflage, laboratorio di mascheramento – vegetato: camuffamento uffiziale
dell’esercito italiano. vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano,
simulation as the key concept to unify the only sense of ‘sign’ x consequentia
y, y seq-uitur x, segno naturale divenne segno artificiale – segno di una
proposizione p – un gesto segna la proposizione p, la correlazione e iconica –
ma se intenzionale, it cannot be ‘natural’. Passage in ‘Meaning revisited’ --. --
Giulio Cesare, Medici – grigio – esercito, bande nere.-- Accetto. Refs. Luigi
Speranza, “Grice ed Accetto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. #accetto https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4587639647914661 #griceedaccetto
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702434246/in/photolist-2mUvuF5-2mTzWxT-2mTdSm7-2mSEtHs-2mPAuFE-2mNzeEc-2mMNvR2-2mLPXhF-2mLR3pP-2mLR3pU-2mLLuq7-2mLPXhv-2mLQ1Vx-2mKy7Ab-2mKCcUt-2mKy8R7-2mKDxM4-2mKDxZ3-2mKCmez-2mKCmXo-2mLMHZZ-2mPrdWj-2mKGVLR-2mKGVCQ-2mKFQLS-2mKG3XG-2mKRpLn-2mKD233-2mKCnei-2mJPC2N-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mKuzCc-2mFHLVW-2mKMfL7-2mKNhgB-Ck9fTK
Grice ed Achillini (Bologna). Filosofo. Grice: “It is
from Achillini that I draw the idea that ‘mean’ is essentially a ‘consequentia’
relation – he speaks of the sillogismo fisiognomico (those spots do not mean
measles, YOU mean that you have measles, since you painted them yourself!” –
but then he was ‘of’ Bologna, and thus a physician, more than a philosopher!
Bless his little heart!” Grice: “The fact that the Loeb Classical Library has
Aristotle’s Physiognomica helped!” -- Grice: “I like Achillini; he is my type
of logician.” “Possibly, his most generalised implicature is his little
philosophical tract on ‘de prima potestate syloogismi,’ translated during the
second world war as “la prima potesta del sillogismo.’ His example: “all men
are mortal, Garibaldi!” -- Filosofo. Essential Italian philosopher. Grice:
“What fascinates me about Achillini is, first, that he belonged to a varsity
older than mine, Bologna; second, that he was a Renaissance occamist, as Matsen
has shown.” Alessandro Achillini (Latina Alexander Achillinus)
filosofo. Achillini è nato a Bologna e ha vissuto la maggior parte della
sua vita. Era il figlio di Claudio Achillini, membro di un'antica famiglia di
Bologna. E 'stato celebrato come docente in filosofia presso Bologna e Padova,
ed è stato designato "il secondo Aristotele." Lui era di natura molto
semplicistico. E 'stato qualificato nelle arti di adulazione e di doppio gioco
a tal punto che i suoi studenti più argute e imprudenti spesso lo consideravano
come un oggetto di ridicolo, anche se lo hanno onorato come insegnante. Egli
possedeva anche un bel carattere vivace. Secondo la descrizione di un collega,
che era bello, alto ma ben proporzionato, allegro, felice, spesso sorridente, e
affabile. Achillini mai sposato. La sua reputazione tra i suoi colleghi era
ammirevole ed era molto rispettato. E anche se era ben Achillini lettura e
formidabile in un dibattito, è stato detto di essere un po 'rigida e rigido
nella sua docenza. Dopo la sua morte, molte persone sono state estremamente
devastati. Le sue opere filosofiche sono state stampate in un volume in
folio, a Venezia, e ristampato con notevoli aggiunte. E 'morto a Bologna e fu
sepolto nella chiesa di San Martino. Tra le sue scoperte notevoli, è conosciuto
come il primo anatomico per descrivere le due ossa tympanal dell'orecchio,
chiamato martello e incudine. Ha mostrato che il tarso (parte centrale del
piede) è costituito da sette ossa, ha riscoperto il fornice e l'infundibolo del
cervello. Inoltre ha descritto i condotti delle ghiandole salivari
sottomascellari. Suo fratello è stato l'autore Giovanni Filoteo Achillini,
e il suo pronipote, Claudio Achillini, era un avvocato. Fu costretto a
lasciare Bologna a causa della espulsione della potente famiglia Bentivoglio di
cui era un partigiano. Poi anda a Padova dove è nominato professore di filosofia. Iniziò
ad insegnare quando aveva 21 anni. Ad eccezione 1506-1508, è stato professore
di filosofia a Bologna. Achillini era un professore presso Padova. Achillini
insegna a Bologna per ventotto anni, che è più lungo di chiunque abbia mai
insegnato a Bologna in la filosofia. Padova ha uno statuto, che se un
professore è riuscito a leggere in qualsiasi giorno assegnato, o non è riuscito
ad avere un certo numero di studenti che sarebbe essere documentati e poi ci
sarebbe stata una diminuzione di stipendio per evento. Achillini non soddisface
il requisito per la lettura, a cui è stato penalizzato 351 lire bolognesi.
Anche riceve due lettere fortemente formulate dal Comune di Bologna, affermando
che la sua assenza non era autorizzata, e se avesse continuato avrebbe
penalizzato severamente (500 ducati d'oro per la prima
infrazione). Partecipa molti comitati di dottorato come membro per l'esame
e l'approvazione dei candidati. Ci sono registrazioni di lui che frequentano
almeno novanta volte al presente procedimento. I procedimenti sono esami di
dottorato o di elezioni dei nuovi membri della compagnia di collegiali medici.
Inoltre, e ben versato in teologia. I suoi disegni iniziali indicano un interesse
ad entrare al sacerdozio. Egli sembra aver iniziato gli studi al seminario. L'anno
in cui è entrata la tonsura nella Cattedrale di Bologna. E anche se poi sposta
la sua attenzione al mondo accademico, rimanne un filosofo attivo per tutta la
sua vita e ha contribuito a due Congressi Generali dell'Ordine Francescano; uno
a Bologna e un altro terrà a Roma.. Mentre in residenza a Bologna, è
accreditato come strumentale nel generare interesse per Guglielmo di Ockham.
L'estensione del riconoscimento alcuno di Achillini è difficile da discernere,
ma si ritiene che i suoi contemporanei e all'università istigato una breve
rinascita Ockhamistica, come evidenziato dagli ultimi lavori dei suoi
studenti. pubblicazioni Le “Note anatomiche del grande Alexander
Achillinus di Bologna” dimostrano una descrizione dettagliata del corpo umano.
Paragona ciò che trov durante i suoi dissezioni a ciò che altri come Galeno e
Avicenna trovano e note le loro somiglianze e differenze. Afferma ci sono sette
caratteristiche in sede di esame del corpo al posto del credeva sei data nel
libro di Galeno sulle sette. Queste caratteristiche sono sette dimensioni: il
numero, la posizione, la forma, la sostanza come in sottili o spessi, sostanza
in polposo o ossea, e carnagione. In questo saggio, dà anche indicazioni come
come procedere con alcune dissezioni e le procedure, come la castrazione,
l'estrazione della pietra, e la rimozione della gabbia toracica di esaminare
ulteriormente il cuore ei polmoni. E 'stato anche distinto come un
anatomista, tra i suoi saggi che sono De humani corporis anatomia (Venezia), e Expliciunt
Annotationes anatomicae in Mundinum Magni Alex. Achilini Boron. Editae per
euius fratrem Philoteum (Bologna) – Achillini Bononiensis opera lima ejusce
actoris repollita et extersa ac denuo maxima cura ac diligentia impressa
(Venezia). Di Achillini Annotationes anatomicae è stato pubblicato da suo
fratello, Giovanni Filoteo, E 'stato
pubblicato in un piccolo formato di diciotto fogli con un paio di poesie di sei
e due righe ciascuna. Ulteriore lettura Franceschini, Pietro Dizionario della
biografia scientifica Herbert Stanley
Matsen -- la sua dottrina di "universali" e
"trascendentali": uno studio in rinascimentale Ockhamism. Bucknell
University Press. Gallerie online, storia della scienza collezioni, University
of Oklahoma Biblioteche immagini ad alta risoluzione delle opere di e / o
ritratti di Alessandro Achillini in e il formato.tiff. INDEX TOTIVS OPERIS
DVBIORVM, ÇAPITVLORVM, ET EORVM QVAE NOTATV DIGNA VIDENTVR. finiti vigoris fit
Deus telligat. Vtrum prima forma quæ estvi tor. Virum quodamordinerecedant
intelligentiæ mediæ àpri. ma. 16 Virum intellectus possibilissubijciatur
accidentibus. Verum incelle&uspossibilis sit formadansesschominé. In libro
dc.Orbibus. Cælum eftingenerabile. Cælum non est calidumnifivirtualiter Cælum
nonindiget Athlante,ncq; animacogente. Cælum eft naturæncutræ, Dubium secundum.
Vtrum specizdifferant stella, & o r Stella est continuasuoorbi. Stella
eftdextrumcæli, Noucm gradus felicitatis secundum Aristotelem & Commé
Intercælosnoncft corpus replensvacuum. rarorem, ibidem. Quid siccopulatio.
Quomodo intelligitur propositio dicens recipiens debetelle Verum quaruncung;
intelligentiarum perfe& ioattendatur ibidem Vtruntalis sit proportiomoventiú,
qualiseftrefiftentiarī. ibi. Omnes diversitas stellarum pene proportionabilem
habet Nonetfellaterræ aliquando propinqua,& aliquandoree Tantum motu diurno
cælum stellarum mouctur. Puncto velocissimo diurni motus non describitur æquino
Aialis. Sufficit Afrologis imaginarium esseorbem, quem putant Infra Solem sunt
Venus& Mercurius. Vtrumtalisfit proportio motus ad motum in velocitate,
Regularis.cftmotuscæli. ibidem Verum apud Thcologá independentia inferat
infinitate. ibid. Dubium quartum. Vtrum intelligentia sit. Solius naturalis est
subftantiaabftra & áelledernóftrare. Dubium sextum.Verum
intelle&usmoucatur. Deus non est condensabilis, ncq;rarcfa&ibilis. Deus
noncftintentionaliter variabilis. Intelligentiæ mediæ sunt ingenerabiles &
incorruptibiles. Incelligentiæ mediæ sunt nonaugmentabiles & non
diminuibiles. Intelligentiæ mediæ non sunt rarefa&ibilcs, autcondensa Intd
qualis cf desidcrijad desiderium. An homo cognoscar infinitatem Dei. Quid per
infinitatem intelligendum sit. ibidem ibidem per se entiores. Vtrum possibile
sit imaginare Deum esse potentiale. ibid. Vtrum Deus conservar intelligentias.
ibidem Vtrum ex maiore de necessario sequatur conclusio de necella ibidem Ve
rum 1. de generatione, tex.com.13. probetur ab Aristotele materiam esse æternam.
ibidem rio in figura prima. -- penes appropinquationem summo. VBIVM
primum.Vtrum in Vtrum tantum Deum Deus in VTRVM in calofirmateria. Cælum est
necessarium & æternum. Vtrum possibile fitcs homo antequam moriatur
intelligat substantias separatas. Dubiumtertium. Vtrůcccentrici, &
epiciclis intponendi. 48 Cælinon sunt perforati. Virum quanto naturæ lune viciniores
materiæ, cantosingim timus finis, sit primus mo Vtrum Deus, liberomoucatcæ
Cælum non est rarefa &ibilcncquecondensabile. 7 Cælum non est
senescibileneque fatigabile. ibidem Dubium quintum.Vtrum Dæmon sit. ibidem Deus
non est alecrabilis. Primus orbis mouet alios. Maxima sphærarum est stellata.
Cælum est incorruptibile. Cælum non est alterabile nisi intentionaliter Aggregatum
omnium cælorum est quasi vnum animal.Vtrum ponenda sir creatio. Vtrum
intelligemtiæmcdiæsint Cælum est cancumadiuum. productz. % Cælum est corpus
spirituale & divinum. Cælum est grave aut leve. 30 Cælum non est
augmentabilencg; diminuibile. Cælum non est sensibile nisi visu.
Stellamoucturad motum sui orbis. Vnum est centrum mundi. in Sole.In libro de
Intelligentijs. Vtrum Deus fic intelle&usagens. Quid intellectus adeptus.
stanci. primum mobile. ncq; per accidens. denudatum à natura recepti. ibidem.
mota. tumpot eft. aliquomodo. Vtrum intelligentiæ inferiores intelligant
superioram. 13 VIRUM intellecus sit VIRTUS materialis. Virum intellectum
possibilem habeat omnis HOMO. Vtrum intellectus possibilis sit pure
pocentialis. bis cius. Vtrum felicitas sit Deus. Nullo motum ouentur corpora cælestia nisi
circulari. Virum latitudo intelle&u ũlitvni formiter difformis. 33 Vtrum
sequatur, Deus est infiniti vigoris, ergo mouetinin Verum valcat hoc
naturalicer mouct: ergo ipsum movet quan Vtrum infinitum sit cognoscibile. Virum
in substantia ponendus sit gradus. ibidem Verum aliquis sit appetitus
inclinationi naturali conformis Deus est ingenerabilis & incorruptibilis.
Deus non est augmentabilis nec diminuibilis. non bonus. Vtrum intelligentiæ se
conservent. Verum intelligentiæ dependcantam phancasmatibus. ibid. Vorum Plato
ponat formam quæ nonc idea. ibidem. biles. Intelligentiz mediz non sunt
alecrabilcs. lum. ibidem Non est intelle&usagens in Deo, nisi identice nec
possibilis Deus non est localicer mobilis neq; persc, ncq; per partem,
Vtrum vniversales itnotius SINGULARI. Intelligentiæ mediæ non sunt
intentionaliter variabiles. Vtrum species prius apprehendatur quam genus.
Inintelligentijs medijs est aliquo modo intellectus agens, & Vtrum formæ
intentionales educantur deporencia materiæ. inrelle& us possibilis.
Intellectus possibilis est generabilis, & corruptibilis. Dubium septimum.
Vtrum cælum recipiat else ab intelligencia. Vtrum vniversale sit innarum
intelle&ui possibili, Vtrum scientia sit ipsum scitum. Vtrum corpus subratione
qua mouetur sit subiectum. Vtrum omnium sensibilium corporum formas philosophus
naturalis quidditatiue consideret. An cælum philosophus naturalis quidditatiuc
consideret. An naturalis scientia pcedat ordinedo&rinæ metaphysicam. Quare
in mathematica non possumus a posteriori demon II2 Quomodo movens primum
consideratur a metaphysico. Dubium uerit. o&auum Vtrum cælum mutationem
termina vndecimum.Vtrum cælum sit sphæricut. 92 duodecimumVcrum cælum sit
luminofum dese. Non est lumen lunæ reflexum tantum. Dubium Dubium Vtrum morus
cæli fuerit æternus. Cælum movetur sine fatigatione & pæna. thematicam,
naturalem, & metaphysicam. VBIVM primum.Vtrum vniversalia ex i Intellectus
agens deus. fant inintelle&u. Vtrum vniversale sit nomen tantum. ios Verum vniuersales
it ens rationis. Vtrum vniversale sit respc&iuum. Vtrum vniversale sit
extra animam in re abstractum. Vtrum vniversalia sint extra animam. Vtrum
vniversalia substantiarum sint substantia. Vtrum vniuersale sit corporale.
Vorum vniuersale sit corruptibile. Vtrum vniversale existat nullo Singulari
illius existente. An felicitas considerat in scientia speculatiua. An felicitas
sit vita. An felicitas sit sempiterna vita. An tanta sit æquiuocatio dicatur de
vivo & lapideo. Vtrum ad felicitatem requiratur scientia moralis. Quomodo
exdi&o speculatiuos equatur practicum. IIS Quid demonstratio SIGNI, causæ
tantum,& causæ & eltc. De quibus causis considerat naturalis,
mathematicus, & dini Verum cuiusq; causati scientia sit per omnes cius causas.
Intelligentiæ mediæ sunt localiter mobiles per accidens ab alio nonå se.
sensatum sit in intellectu. Intellectus possibilis est augmentabilis &
diminuibilis. Vtrum vniuersalia sine obic&uni intelle&us. Vtrum
vniuersalia ina&usinr in intelle&u. Intelle & us est realiter
alterabilis, terminatiue, non subiectiua Intelle&tus possibilis eft
localiter mobilis per accidens, Intellectus possibilis est intentionaliter
variabilis. Vtrum forma inintelle&u habeatesse singulare. Verum vniuersale
verius habeat dscinintelle&uquàm ex Cælum est intelle&iuum, &
appetitivum. bie &tum neq; tali mutationem ut ab ir ura d non esse. Vtrum
coelum sit sub ic & um principale naturalium. Vtrum fubic&um
attributionis in naturalibus sit cælum. Non concederet Aristoteles cælum fuisse
creatum neq annihilabitur. Apud Aristo.non incipit mundus esse neq;desincr. Ad
omnes operationes iniftis inferioribus cælum concurrit. Cælum iftis
inferioribus non imponit necessitatem. naturali neq causæ finalis. Efficiens
duplex. Non est influentia cæli instrumentum diftin&um a motu & primum
efficiens à naturali consideratur. Quomodo corpora cælesia sunt in loco. extra.
Vtrum vniuersale fit idem vel diuersum á singulari. Vtrum vniuersale fit causa
fingularis. Quomodo, materiaà mathematico consideratur. Quomodo naturalis
quatuor causas considerat. Vtrum melius sitponereinrationeformali subiedimobile
1Virum ex nihilo aliquidfiat. quàm moueri. sophianaturali. Vnde Quid ficmoueri
localiter,fecundum forinam,& fecundum materiam. Quæ intelligibilia
cósideranturà mathematico, qàmetaphy. Dubium cercium decimum.Verum quiescente
cæloparient Vtrumvnum& idemfitcaulasubie&i& accidentis. contenta,
Vtrum vniuerfale fic in singulari. Cælum quatuorcausashaber.
Vtrumvniuersaliadeclarentquidditatem fingularium. ErrorGalenidecertitudincMedicinæpra&ticæ.
Vtrumvniuersaliaprædicenturdesingularibus. ftrare. Quomodo ccelum alteratur. In intellectu possibilieftintellc&tusagens.
Ratio formalis subie&I naturalis philosophiæ. Cælum estcffc&iúumhabentiumnacuraniininferioribus.
Nontotumgenuscausæformaliscósideraturàphilosopho Cælum eft conferuatiuumhorum
inferiorum luminc.nus. Coelumestcompofitumexmateria& forma. Cælum
cftviuens,& non eftnegativum, Cælum eftaniinal, & noneftsensibile. TRTM
naturatum sitfubic&um inphilo Cælum eft finaliter, formaliter, &
materialitercausatum. Cælum est esse Aiue conservatum. Vtrum subiectum
contincat omnes veritates ad scientiam pertinentes. Nonestmutatumcælum
adellemutationenonhabentelu Vtrum aliquid quodnonmoucturexsc,sitsubic&uminna
turaliphilosophia Non fuit mundus generatus,neq;corrumpetur.' Vtrum subiectum philosophiæ
sit ampliusquàmcorpus. Dubiumnonum. Vtrum cælunifitfinitæmagnitudinisin
Quidsitordocorporum inphilosophianaturali. adu.
Quidfitordoperfectioniscorporumnaturæ. Dubium decimum.Vtrum coeluitiilicvnum.
Virum motus coelifit naturalis. In intellectum humanum nondire&eagiccælum.
In Tractatúde Vniuerfalibus. Vtrum moralis scientiafitexcludeda
àtrinaphilolophiæ di uisionc pofira ab Arift.6.metaphysicæ tex.com.2.in m a
Vtrùm vniuersaliasinescientiarci. Vtrumvniuersaliafinirforniæ Vtrum vniucrsaleànaturadenominatadifferat:
Vtrum morssequaturadnaturammateriephilosophia naturalis prima ordine doctrinæ præparans
intelle&umad Verum vniuersale quantum eftdescnoneftinintelle&u,nec felicitem.
Medicinam subalternarinaturaliphilosophiæ.
Vtrumvniuersalesensibilium,cuiusnulluinsingularefucrit
Quidmateriaprimaquidfecunda,&quidformasimplex, tra. In Libro de Physico
auditu. Vtrum natura fitfubic&tumlibri phyficorum, Naturalisnonhabetde cælo
perfectissimam cognitionem. Ante sensum ellevegetationem. An homo sit æquivocum.
Vcrumfinitiadinfinitumnullasit proportio. IVnde do &rinaordinaria. Vtruinmagis
vniuersalefit primo cognitum. Vtrum philosophi naturalis sit probaresuaprincipia.
Quæ principiapolsintinscientiaprobari.Virum formaappetatmateriam Vtrūpriuatio fit
causa appetitus materiæ definitiomateriz Quid materia secunda. Duplex
generalissimum substanciae. Deaccidencibuscælinorandum. Vtrūformaantcquagenereturpræcxiftarinmateria.
Vtrum infinitumfitignotum. Vtruminductiofitbonaconsequentia. Vtrum
principiasintcadem. Priuatio,quarcprincipiumperaccidens. Quid generatio fimpliciter
& secundumquid. Sperma propria esse masculi et non feminæ. Et quiddeopi altcrumfcilicetperformamnionc
Galeni. Opinio Alexandri de intelle& u possibili. Dubium verummateriahabcataliquamformasub
Materiacæli,nunquam fincpriuationc. Principium perquodindiuiduuinefthoceftforma.
Trinitasprincipiorumplatonica. Intelle&us possibilis corruptibilis &
generabilis. Quareinconceptudifferentiænoincluditurgenuscuiusest Metaphysicæ,triplex
subicctum. Differentia. Quid fit realiter distingui. Vtrum
materiasinequantitatefirdiuisibilis. Vtrum tresdimensionesfintpassiones quantitatis.
Vtrum compofitum ex materia & formacllcfitacceptum a Vtrum materiafitprodu&aàDco
Vtrum mareria fic forma Propositiones per se notæin philosophia naturali. Vcrum
polsibilesitrotocontinuoquiescentepartemillius Diuisioformæ, & naturæ. De
principiomotus augmentationis, & alterationis. In libris de Elementis TRVM
materiaexistat. Quid sittransmutatiosubstantialisquidac Quomodo ipsaestmediuminterens&
nonens. Dubiumfecundúan SortenonexistenteSortessitho. Dubium tercium quid
cftmateria. Uam. Materia non ch operatiuanisipaciendo. Materianonperfccxistitsedinaliofcilicetcomposito
Sper Quómodo logica considerat de ente reali. Quæ ressintprimaprincipia.
Terminigenerationis& corruptionis. quid. Quomodo materiaeftcns Cogitatiuavlcimatapræparatioadintelle&um.
Andemonstrationesinmathematicaprocedantpercausam.
Quomodomateriamediumdiciturinternihil & ago. Vtrum eadem sintnobisnota
& naturæ. Appetitus duplex materialis & cumfenfu Quomodo materiæ acciditq
fit potentia. Melius eft dicere causas esse notiores natura quàm naturæ. Quæ diffinitio
descriptiua. Demonftrationesin philosophia naturali, quæ a priori. Quomodo
aliquideßin prædicamento ad aliquid. Quomodo homo cognoscitin cognitionenaturæ.
Virum materiasir suapotentia. Quomodo artificinorioreftcaula. Verummateriasitpotentiaomncsformæ.
Formal apidisextraintelle&tumestvniuersaleintentio, aliud Vtrumtria principiaexæquoprincipient
motum à fubicéto. Vtrum vniuersalia sint realia. Quomodo consuctudo
alteranatura. Verum fingulare fit per se intelligibile. Vtrum vniuersalia sint prius
nota singularibus. Primum cognitumà nobis fingulare,& secundocognitum
Quomodo exnonenteperaccidensfitaliquid. Vtrúm cadem proportion materiæ sit potétiæ
oésformæ, Vtrum intelligentiæhabcantmarcriam. Vtrum materiafitminusperfe&aaccidente.
el vniveriale. A b intelle& uagente non datur definitio. Quomodo
intelligentiæ sunt mobiles. Vtrum quantitas realiter diftinguatur à materia.
metaphysico. Vniuerfalia ratione intelle&usinquofunthabent aliquid Vtrum
matcria fit Deus æterni. Quid maximum fit & quid minimum non. Termini
accidentales ex quibus fitaliquid. Quomodo conucniuntq,uomodo differüt. Quid
generatio simpliciter, quid secundum Quomodo ipsacftinprædicamento. Vtrum
transmutatioficripofsitdeindiuidnovniusspeciei Quomodo materia civnumcumpriuatione
ad indiuiduum ciusdem specici. Quomodo priuatio fub forma comprchenditur.
Dubium quartum vtrum materia sit substantia. Virum insubstantial sit contrarictas.
Vtrù philosophu snaturalisdebcatprobaremateriäсssc Quarcmagispriuatiocftidemmateriæquàmformæ
Materiahabctdifferentiam,circunscriptiuam,nonconficuti Vtrum tantum criafint principiarerum
naturalium Vtrum generatio fit subita. Auicennae opinio de forma corporcitatis.
Materia prima consideratur à philosopho naturali. Matcriacftinduobus prædicamentis.
Dubiumquintumvtrummateriafitforma Materiam nonestina&umotiuointellectus torum.
Dubium vtrum materiapossitexisteresincforma Opiniones tres de præ existentia
forma in materia. Philofophi naturalis eft Quarcformasubstantialiscontrarium
probarematcriamesse,formameffe, non habet. compositum effc. An frigiditas aquæ minorsitfrigidicas
terræ. moucri localiter. Vtrum principia sint contraria. Vtrum generatio
accidentalis sequitur alterationcm Sex positionis differentia.
Materianonestcompositum,ncq;aliquodquatuorclemen Vniuersale triplex Conceptü
fpecificădat intelle&us agens, & nó gencricũ. Vtrum incælosirmateria.
Vtrum materia possitellesinc priuatione. Quid requiritur ad hoc vtaliquafintideinfimpliciter.
Concretum principaliterfignificatqualitate,& quare. Vtrummateria Auat. A
Muliere duplicem exire humiditatem. Vtrum priuatio fit principium Quomodo
priuatioprincipiumperaccidens Quomodo cælumvariarlocum secundumformam.
Differentia materiæ eft poccntia, &nona&us nisi negatiuc. Matcria
nonhabetformamabipsainseparabilem, fedquam Scientiæ naturalis duplicia sunt
principia. Virumens ficvniuocum, Vtrùm quanrirastermineturterminisproprijgeneris.
Virum totum fitsuæpartes. Viruni forma fitab agente. Vtrūmctaphysicisit probare
substantia abstractus esse Virum ficdarçminimum. Verum priuatio fit principium
per se. Materia libet perdere poteft. Virum materiaapperat. Materiatertia,&
quarta. stancialem fibi propriam cidentalis Dubium o&auum, vtrum materia
prima sit una numero omnium generabilium,& corruptibilium. nat sint summa.
Verum aërficfrigidus. Remotæ potentiæ numerantur numerarione specierum. Materia
est potentia Cubic&iua ntelle&ui. Dubium vtrum materialitquantitas.
Dubium vtrum quantitatisuccederepossitaliaquantitas Dubium vtrum quantitas
præueniat formam subftantia leminmateria. In Quæstione de subiecto Physionomiæ.
VID princpium cognitionis tantum, & co Principiorum in complexorum
proprietates Principiorum complexorum quærit metaphysicus proprietates
corruptibilitatis Verum ambæ qualitates quasynum elementumsibidetermi Mareria
non cftvnumesseina&u. Potentia describit materiam. Potciitiæ propinquæ materiæ
sunt quatuor. Dubium vtrum essentia sit esse. Subic&um,quomodopersenotuminscientia
Physionomia,& chiromantiascientiæ. SiestElementum, præsupponitur, quiaipsumeftfubic&um
Physionomia &chiromantia naturalisubalternantur considerationi Artic.
Tertio princinalitercósiderandüeltcirca mixta Quomodo
intelle&usfitpra&icus. Quæ operationespraxesdicuntur. Eidem scientiæ
subalternaripra&icam& speculativam. Artic.Quarto principaliter
considerandum circa animatave getaciva, aut sensitiua. Vtrum deturminimum
innaturalibus. Vtrum calidicas, frigiditas, ficcicas,& humiditas, sint
qualita- Cor esse primam fenfusredicem secundum Arist. 264 Quæstio de priina
syllogismi potestace. nobis. Vtrum terrasitvbiq; habitabiles. Cogitativam
virtutem componere. Materia non eftspecies. Dubium nonum vtrum possit
elleqrinco de supposito sint Condensare & rarefacere non perscsequuntur
qualitatespri multæ materiæ mas. Dubium vtrum materia sit per se
intelligibilis. Materia non potest esse &iue neque formaliter mouereintcl
uitare. Materianonestdeseina&uenticaciuo. Dubium vtrummateriasitsuapotentia.
Vtrum terrarespe& ucælifitvtpun &um. Vtrumterrasiessetlucida,&
existeret in cælo videretur á Dubium 18.vtrum quantitas in terminata fit
quantitaster minata nomia. Dubium verum materia primasır causa generabilitatis
& Homo secundum quod natura bonus subiectum in physio Contra Scotum de
subiecti continentia. Materia non eå quidditas nisi improprie. Ens et esse sunt
idem. Essentia et existentia sunt idem. Forma estesseactu. In demostratione
simpliciter passio de subiecto concluditur. Quid subiectum primum per
attributionem. Quarc substantiain metaphysica subiectum eftper attribu Dubium.vtrum
totum sit suæ partes. Dubium vtrum forma ante generationem habeat este
principalitatis. reale in materia. Dubium vtrum privatio sit res Contra Galenum
de numero complexionum. An in compofito substantiali pluressubltantialesformarepe
De via in physionomia & chiromantia. riantur. Scicntiaalterumduorummodorumdiciturpra&ica.
Vtrum cælum componatur ex quiditatibus, & videturelit, Quomodo
theologiatora pra&ica. quialubente continetur, & sub corpore Prudentia
circa quæ. Artic. Quinto principaliter considerandum de homine. anip
Experientia quid. fo animam intellectivam expectet sensitiva. Vrrum
aliquidmoucat se. te. Vtrum figuram aliquam sibi determinet elementum. Vtrum
vnum elementum sit locus naturalis alterius. Vtrum vnum elementum in alterum
immediateta an(mura Vtrum ignis sit primo calidus Vtrum elementa media
æquáliter habeantde grauitatc& lc Homo in quantum lanabileå naturali consideratur.
Ta, & tamen propositioestignora, Quid requiriturad hoc vt subie&um fit
adæquätum Quid requiritur ad hoc vtfubic&um sit primum primitate Aegrotabile
in ratione formalisubie&imedicinæcaderenon Genita ex putrefactione alterius
sunt rationis a generare Dubiū 12.vtrú materia fir generabilis&
corruptibilis Vtrum terrasit frigidior aqua. fitnul. Dubium Is.vtrü materia
fine quantitate habcat partes Dubiumzz.verummateria Solum ponenda sunt
prædicamentorum Quantitasestquod passiocftnota.& idquod est ciuscau sit.
pars quidditatis. & quo aliquid est Quomodo aliquando genera logicalia. nationis
primæ sub antiæ. Dubium vtrum priuatio principium. potest. In in materia.
quæruntur in naturalibus. resprima Quæstio de subiecto medicina, Materia
efteffepotentia. rionem, Dubium vtrum formasubstantialis Quid bonum animi.
sitprincipium indiui Rario formalis subie&i,quid Latitudines in elementis
compleri per contraria. Non cft potentia dc effentiali diffinitione materiz.
Compositum est vtroque participans. ripossit. Subic&ũnon debet prædicari de
principijsfubie&i,& quare. Materia inférior aliquomodo præfcindipoteft.
Quare qualitates elementorum di&tæfunt effc elementisfub Verum
qualitatessymbolæ elementorumsinteiufdemfpe Itantiales ciel Quo mod o intelligiturpriuationem per
secorrumpi. Materiaapudphilosophumestintelle&a Vtrumterrasitcentrummundi. Maceriacælinonpoteftpræscindiàforma.
Lectum. Dubium. vtrummateriasitgenus Anaërfitprimohumidus. Dubium vtrum materia
appetat formam. Dubium vtrum appetitus fit naturalismateriæ Arric. Secundo
principaliter considerandum est composicum Quomodo medicina partim practica,
& partim theorica, lic militer & theologia, similiter & logica.
generabile. Verum tantum quatuor sint elementa. Virum prima qualitates sint
formæ substantiales elemento genitis per propagationem contra Scotum. Run gnitionis
& cffc. Propriumnonageneresolumfluit,sedådifferentia,& gene Genita per
putrefa & ionem non esse eiusdem rationis cuna De elleanabellentia
distinguatur. Caput secundum devno. Error Auer. de necessarij SIGNIFICATIO nci
Caput tertium,de vero Caput quartum, de bono, Ens tripliciter eft quid.
Quidditatiuum de quibus dicitur. Capursextum, dere, pagina. Caput septimum,
decodem subiecto. Quomodo pars formæ fluit. ElTeidemin forma quatuor habet
gradus. Caput nonum, decodem secundum materiam. de eodem difinitione. Quomodo
Deus eftf elicitas modo intelligitur dediftin&ione ex natura rei Verum
distinctio ex natura rei sit accepta ab Arist. Vtrum diffinitio& definitum
ex natura rei distinguatur ra rei non realiter An communicabile, &
prædicabile differant Differentia individualis est ipsa forma in composita ex
materia An Deo accributa propriamhabeant infinitatem. Accidens non realiter
distinguia substantia reis ubic&a Materiam & formam realiter
distinguivult Scotus, & Thomas oppositum, similiter& Aver. rant. liter
ili. Vtrum diftin&tioperdiffinitionemfitdiftin&iopersolum Anomnia quæ
sunt idem realiteralicui, fintilli formaliter de eodem habilitate. Dedifferentiainterpositionemquæeftprædicamentum,&
positioncm quæ estdifferentiaquanti. idem. ter. An fialiqua fintidem
essentialiter, illasint idem realiserant.. Quomodointelle&uspossibilis
& agens sunt vnum, & quo- Ansiali qua sint idem se totis subiective,
illa sint essentiali modo duo. differant. De subiecto & propria passione,
quomodo suntidem. An fiali quasetotisfubic&iuc differant,
illafccotisobie&tiuc differant. Vtrum a&us intellctus possibilis
collatiuusfitin primaope Ansi aliqua fecoisfubic& iuc differant,illafctotisobic&i
dedistin&ionc rationis ratione intellectus. Vtrum fit aliquis
conceptusfi&us. ue idem. obie Aiue. Vtrum omnis diftin&iofitrcalis aut
rationis. Verum conceptus a rebus quarum sunt conceptus, sint ratio Verum omnis
distinctio sit aliquid positiuum. ne distinAi. . In libro de
Distinctionibus. Intellectus & voluntas sunt idem Quid eftaliquidsynonyma.
decncis SIGNIFICATIONIBVS pagina. Quomodo speciesre intelligibilis,
a&usintelligendi,&habi tuis intellectus sunt idem. Cogitatiua,& intellectus
idem materialiter Igncitas, leuitasest simpliciter,& forma ignis
substantialis. Differentia inter hominem metaphysicum, &hominemna Vtrum
prædicatio specicide genere fit pe rse. Anista propofitiofitpersc, homo albus
est homo albus. De sensu communiquid Auer. & Vtrum CONCRETVM & abftractum
formaliterdifferant. Quomodophantalinatasuntintelle&tus speculatiuimate
Vtrum humanitas sit animalitas. Ria de distinctionercali. Caputo & auumdecodem
secundum formam. Aninierdistin&ionesdatasàScoristisfitordo. Vtrum
diftin&io secundum modum differtàdiftin&tionele Vtrum omnis distinctio
ex natuta reisit distinctio ratio cundum esse. Memorativam in medio ventriculo
cerebrimanifeftari. Potentia substantialis prior est accidentali.& de prædicamento
substantiæ. Vtrum fialiquaessentialiterdifferant,realiterdifferant. Vtrum fiali
quarealiterdifferant, illa essentialiter diffe verum ex coq essentialiter
dicitur aliquidcaliquo dicatur Vtrum sialiquas et otisfubic&tiue differant,
illaeffentiali rerdifferant. vniversaliter de codem & femper.
decodemacuvelpotentia An fialiquaessentialiterdifferant, illa
secotisfubic&iucdif Quæ sit maxima identitas. Vtrum seclula operationc
intelle&us possibilis resrationc differant. An si aliquas intsetotis
obicctiucidem, illasintsctotissub ie&iueidem. Qữo genus & differentia ratione
distinguantur,& nonrc. Vtrum prædicamentarcalitedrifferant. An relation
differatà fundamento. De diftin &ione caloris naturalis ab artificiali. Verumcum
Sortesnoneaipsesitens Materiam&formamnondistinguisecundumesse,quomon Entis
diuisio de distinctione modali. Duo modi realis distinctionis. Vtrum fialiqua
realiter differant.illa formaliter differant An si aliqua sint essentialiter
idem, illa sint sctotisfubic&tiuc Quomodo dequo Vtrumintelle&usagens&
possibilisdistinguanturexnatu teria&
forma. Ens,res,autsubatantiagenerasuntanalogicedi&tadeDeo dediftin&ione
formali. Turalem secundum Scorum Intellctum appetere contra Scotum.&
secundum Thomam appetitivam cognoscere Quomodo intelligitur secundam
intelligentiam esse vnam decodem secundum dispositionem. San&tum An
diversitas & differentia coincidant in idem. Vtrum omnia formaliter diftin
&ta realiterdifferant. ter idem Caput de distinctione essentiali. de'eodem secundummodum
dedistin&ionesetorissubie&iue. Vtrum
distinctiosecûdumessesiesufficicnsadhocvt contra dictoria verificentur de
aliquo. formaminsubie&o, &multaindiffinitione. Vtrum omnia quæsuntidem formaliteralicui,
fincidemrca Vtrum elle diffinitioneidem, sit esse idem secundum esse. nis. Vtrum omnia
formaliter distincta ex natura rei diffe de codem secundum else de distin &ioneserorisobic
& iuc. opus intelle& us. Vtrum quælibetconceptus ftinguatur.
abalioconceptu, solaratione di Vtrum omnis diftin &iofitde genere
relationis: decodem inredemonstrata. decodem effentialiter. Vtrum ex
comparatione intelle&uspossibilis, fiantrespe&us, Ansialiquasiti
demserotisfubic&iua, illasintidemsetotis qui sunt genus aut species. rant.
ter. Caput1s. decodem secundum positionem Vtrum sialiqua sintidem rcaliter, illafint
idem essentiali Vtrum distinctio fitrcfpc&iuum fitiones habere possint. Melius
est non videre quædam, quàm videre,quomodo in Proportio maior est, quæ maiorem
habet denominationem. telligitur. Regulæ tres proportionum secundum Ari
Quomodo sensus in prædicamento qualitatis, actionis, palo An deus cognofcatchimeramantaligidfi
um.An incelle&tusina&u, vtintellc&us intelligentiarum propo
Proportionis divisio Vtrum veritas differatàpropofitionevera.
Inintellc&tuardo. pliciterabftra&arum aliquam veritatem videat persuam ftotclem.
Q &uplaquare duplael quadruplz. In
quæstione demotuum propor Voluit Arif.deum cognoscere hæc inferiora, Motys (equitùr
dominium. Alessandro Achillini. Achillini.
Keywords: corpo umano, singulare, individuo. Refs.: Grice, “Achillini’s problem with
transcendentals and universals,” Luigi
Speranza, "Grice ed Achillini," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #achillini https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420043214674306 #griceedachillini#achillini #https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.6933100940035175 #griceedachillini #achillini
#https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.6933100940035175
https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.6934916853186917 #griceedachillini https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51644734661/in/photolist-2mU6TPi-2mN8u25-2mLPWN4-2mLLtU7-2mLLtUc-2mLGoHK-2mLPWN9-2mKDA7K-2mKGNop-2mKy9jM-2mKGM71-2mLQgtW-2mKDJ7x-2mLLNb7-2mKFRhm-2mKNw7A-2mKwuhr-2mKD7QN-2mKbak3-2mKbaAP-2mFELkF-2mFFLJw-2mD7Yvt-BRpkTs
Grice ed Acito – implicatura
corporativa – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuoli). Filosofo. Grice: “Acito, who would have thought it, made me read Cuoco’s brilliant novel
on Plato based on an epigram by Cicero (“You know, Plato was there, in
Taranto!” – Acito has also written on corporations – whatever they are (the mob)
– and on Macchiavele -- Filosofo. Del periodo fascista e attivista del regime. Studiato
a Torino. Iscritto all'Albo degli Avvocati di Milano, divenne direttore della
rivista “Tempo di Mussolini”. Selezionato al Premio San Remo per libro “Machiavelli
contro l'anti-Roma.” Partecipa come rappresentante italiano al Congresso
dell'Unione Europea degli Scrittori a Weimar.
Insegna diritto, storia e dottrina del fascismo a Genova. “Il Popolo
d'Italia,” “L'Oriente arabo”. “Odierne questioni politiche della Siria, Libano,
Palestina, Irak; “Popolo d'Italia”; “Corporazioni e sindacati nello stato, nella
storia, nei partiti politici” (Milano, Trasi); “Il volto della rivoluzione”;
“Storia della rivoluzione”; “La dottrina dello stato”; “Realtà nazionali”; “Il
Fascio e la Verga” (Milano, Morreale); “L'idea unitaria dello stato” (Milano,
Sonzogno); “La idea romana dello stato unitario nell’antitesi delle dottrine
politiche scaturite da diritto naturale”; “La dottrina dello stato in Cuoco”; “Contributo
allo studio del pensiero politico del secolo XVIII” (Milano, Sonzogno); “La
corporazione e lo stato nella storia e nelle dottrine politiche dall'epoca di
Roma all'epoca di Mussolini: introduzione allo studio del diritto corporativo”
(Milano, Pirrola); “Catalogo della mostra di sculture e disegni di Vincenzo Gemito”
(Milano Castello Sforzesco Milano, Orsa; “Il trattato di ben governare: opera
inedita di Tommaso da Ferrara del 1500”; “Tempo di Mussolini”; “L'ordinamento
dello stato corporativo nel pensiero di Mussolini e nelle decisioni del Gran
Consiglio del Fascismo” (Tempo di Mussolini); “Le origini del potere politico:
"Omnis potestas a Deo" nelle discussioni degli scrittori politici del
Trecento” (Tempo di Mussolini); “Machiavelli contro l'Antiroma, Tempo di
Mussolini. “Il concetto di popolo” Tempo di Mussolini, “Il problema morale
della rivoluzione” Tempo di Mussolini”, “La crociata anti-materialistica dell'asse”;
“Tempo di Mussolini”; “Storia e dottrina del Fascismo”, “parte generale:
Nozioni fondamentali” (Milano, Guf). Onorificenze Medaglia di Benemerenza per i
Volontari della Guerra Italo-Austriaca nastrino per uniforme ordinariaMedaglia
di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca (19Medaglia
commemorativa dell'Unità d'Italianastrino per uniforme ordinariaMedaglia
commemorativa dell'Unità d'Italia Medaglia commemorativa delle campagne
d'Africa (1882-1935)nastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa delle
campagne d'Africa, Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia Croce al merito
di guerranastrino per uniforme ordinariaCroce al merito di guerra. Frank-Rutger
Hausmann, Annuario ufficiale delle forze armate del Regno d'Italia, Istituto poligrafico
dello Stato, I professori dell'Pavia, Amedeo Bianchi, Professore all’Università
Bocconi: Notizie sulla famiglia Acìto Filosofia Filosofo Professore Pozzuoli
MilanoStudenti dell'Università degli Studi di Torino Avvocati italiani del XX
secoloProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori
dell'Università degli Studi di Pavia Decorati di sciarpa littoria Personalità
dell'Italia fascistaCavalieri dell'Ordine della Corona d'Italia.. È con
Roma che nasce il diritto e nasce lo stato, perciò lo stato romano è lo stato
giuridico. Infatti, il fondamento giuridico della società e dello stato, impide
che a Roma si sviluppa la demagogia. Persino la repubblica a Roma è aristocratica. Il senato, che impersona lo
stato, è un corpo eminentemente aristocratico e il popolo stesso, inquadrato
negli ordini della milizia, non degenera. Lo stato presso i romani afferma la potenza
del suo carattere unitario, sintesi delle prime gentes rurali e militari.
Questa qualità fa nascere il SENSO DI DIRITO che il genio romano applica nella
formidabile organizzazione politica e sociale dello stato. Questa
organizzazione statale che si reassume nel genio di Giulio Cesare e che detta
l’impalcatura all’impero, altro non è se no la crezione dello stato unitario,
che è una gerarchia di AUTORITÀ, FONDATA SUL DIRITTO, tutelata dalla forza
militare, al quale [diritto] il CIVIS resta subordinato, ma nel quale [diritto]
trovoa la regolazione giuridicamente definita e GARANTITA DEI SUOI RAPPORTI
PRIVATI. SUBORDINAZIONE perciò incondizionata DEL CITTADINO ALLO STATO. IL
PRINCIPIO DI AUTORITÀ domino tutta la COSTITUZIONE POLITICA dello stato romano
e ne regge la potente struttura. Il cittadino romano non conosce l’antitesi ed
ha una morale sua PROPRIA. IL MOS MAJORUM ANIMA I COSTUMI di Roma. Il successive
consolidarsi del capitaismo, se pure di capitalism puo parlarsi nell’epoca
antica, o meglio l’avidita delle richezze, CORRUPPE quello STATO DI
PRIMITIVITA. Mentre il mondo dell’economia a schiavi si estendeva, il
paganesimo non agi come MODERATORE DEGLI ISTINTI INDIVIDUALI. Optimates
and Populares, (Latin: respectively, “Best Ones,” or “Aristocrats”, and
“Demagogues,” or “Populists”), two principal patrician political groups during
the later Roman Republic from about 133 to 27 BC. The members of both groups
belonged to the wealthier classes. Skip in 1s FAST FACTS Facts
& Related Content Date: c. 133 BCE - 27 Areas Of Involvement: Patrician
Related People: Lucius Domitius AhenobarbusQuintus Caecilius Metellus Celer
Marcus Porcius Cato Marcus Aemilius Scaurus Titus Annius Milo...(Show more) See
all facts and data → The Optimates were the dominant group in the Senate. They
blocked the wishes of the others, who were thus forced to seek tribunician
support for their measures in the tribal assembly and hence were labeled
Populares, “demagogues,” by their opponents. The two groups differed,
therefore, chiefly in their methods: the Optimates tried to uphold the
oligarchy; the Populares sought popular support against the dominant oligarchy,
either in the interests of the people themselves or in furtherance of their own
personal ambitions. Finally, it is well to remember that the Senate’s authority
was based on custom and consent rather than upon law. It had no legal control
over the people or magistrates: it gave, but could not enforce, advice. Until
133 BC any challenge to its authority was little more than a pinprick, but
thereafter more deadly blows were struck, first by such Populares as Tiberius
and Gaius Gracchus, then by Gaius Marius, and finally by the army commanders
from the provinces. Gli Ottimati (in latino: Optimates, cioè i migliori)
erano i componenti della fazione aristocraticaconservatrice della tarda
Repubblica romana. Nascita della fazione Modifica In origine
influenzavano la vita politica romana, essendo la gestione della Res Publica
appannaggio soltanto di quella ristretta cerchia di nobili che avevano le
possibilità e la cultura per dedicarsi alla politica. In seguito alla
Secessione dell'Aventino, però, le classi popolari e piccolo e medio
borghesiriuscirono a ritagliarsi una fetta di potere, da esercitare mediante
loro rappresentanti: i tribuni della plebe, magistrati dotati di potere
legislativo (per esempio il diritto di veto su qualsiasi legge o decreto del
Senato), nonché di auctoritas, ovvero l'autorità morale. Inoltre erano
conferiti della sanctitas, ossia la sacra inviolabilità della loro persona, che
rendeva ogni atto sovversivo, finalizzato a danneggiarli materialmente o
fisicamente, un delitto gravissimo. Per rispondere a questa organizzazione
politica del popolo, anche i patrizi romani si allearono tra di loro nel
movimento politico degli "optimates" (it. "ottimi",
"nobili"), cioè il partito aristocratico. Organizzazione del
movimento. Modifica In effetti la fazione aristocratica non era un vero e
proprio partito politico secondo l'accezione moderna del termine (nonostante
sia a volte chiamata Partito Aristocratico). Era bensì una confederazione di
nobili, ciascuno dei quali era politicamente indipendente (o quasi) dagli
altri, grazie ad una diffusa rete di clientele e di alleanze che ciascun nobile
gestiva in modo autonomo. L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però
evidente dall'alleanza di tutti i nobili "optimates" con il Senato,
dal comune interesse a conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla
comune avversione nei confronti dei "Populares" (l'organizzazione
politica dei ceti popolari e borghesi) e dei "Tribuni della Plebe".
Gli Ottimati, infatti, desideravano limitare il potere delle Assemblee della
plebe ed estendere il potere del Senato romano, che era considerato più stabile
e più dedicato al benessere di Roma. Si opponevano anche all'ascesa degli
uomini nuovi (plebei, di solito provinciali, la cui la famiglia non aveva avuto
esperienza politica precedente) nella politica romana. L'ironia era che uno dei
principali campioni degli ottimati, Marco Tullio Cicerone, era egli stesso un
uomo nuovo. Oltre ai loro obiettivi politici, gli ottimati si opposero
all'estensione della cittadinanza romana fuori dall'Italia (e si opposero
perfino ad assegnare la cittadinanza alla maggior parte degli Italici).
Favorirono generalmente alti tassi di interesse, si opposero all'espansione
della cultura ellenisticanella società romana e lavorarono duramente per
fornire la terra ai soldati congedati (erano convinti che soldati felici erano
probabilmente meno disposti a sostenere generali in rivolta). La causa
degli ottimati raggiunse l'apice con la dittatura di Lucio Cornelio Silla (81
a.C.-79 a.C.). Sotto il suo potere, le Assemblee furono private di quasi tutto
il loro potere, il totale dei membri del Senato fu portato da 300 a 600,
migliaia di soldati si stabilirono nell'Italia del Nord e un numero ugualmente
grande di popolari fu giustiziato con le liste di proscrizione. Limitò i poteri
dei tribuni della plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini
della direzione politica e dell'amministrazione della giustizia e vietò di
ricoprire una medesima carica prima che fossero trascorsi dieci anni. Tuttavia,
dopo le dimissioni e la successiva morte di Silla, molti dei suoi provvedimenti
politici furono gradualmente ritirati, ma furono più durature le innovazioni
nel campo del diritto e del processo penale. Appartenevano agli
"optimates" importanti uomini politici quali Lucio Cornelio Silla,
Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense,
il già citato Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a
parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo. Voci correlate. Modifica
Repubblica romana Plebe Patriziato Romano Lucio Cornelio Silla Marco Tullio
Cicerone Gneo Pompeo Marco Licinio Crasso Tito Annio Milone Collegamenti
esterni. Modifica (EN ) Ottimati, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorit GND (DE ) 4172652-2
Antica Roma Portale Antica Roma Diritto Portale Diritto. Alfredo Acito. Acito. Keywords: sindacato, stato
unitario, idea unitaria del stato, Cuoco, storia di Roma, popolo d’Italia,
materia e spirito, anti-materialistico, anti-materialistica, popolo,
popolazione, Peacocke – sistema di comunicazione per una popolazione –
idioletto – procedimento idiosincratico – idioletto, dia-letto – comunita,
immunita.. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Acito,” The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51645020698/in/photolist-2mKDBHk-2mKDBsF-2mLQkSq-2mLGMqJ-2mLQmWz-2mLNgXu-2mLQifX-2mFGenm-2mFEXBy
Aconzio (Trento). Filosofo. Grice: “I like
Aconzio way of LISTING the devil’s strategies – and naming tdhem after abstract
nouns represented by females: superbia, … etc. – He says he philosophised on
‘dialettiica’ but only for his fellow Italians, and writing to Russell (Lord
Bedford) he adds, ‘it would be fastidious to present them to you!” – When
Elizabeth received his copy of ‘Il timore di Dio,’ she asked, alla Hardie, ‘And
what, Mr. Aconzio, is the meaning of ‘of’?” -- Grice: “I like Aconzio, and so
did my mother – a High Anglican! Aconzio’s claim to fame is twofold: his
“Stratagemata” which resembles Speranza’s study of Apel – only that Aconzio is
‘stratagemata satanae’ – and his “De method” which inspired Feyerabend, an
American professor at the newish varsity of Berkeley in the New World, to
philosophise ‘Contro il metodo.’” – Grice: “There is a small passage in “Del
metodo” – and an even smaller in “Stratagemata” – where Aconzio seems to have
invented (but soon disinvented) the idea of a conversational implicature!”
-- Filosofo. essential Italian
philosopher. Grice: “What I like about my fellow Brit, Aconzio, is that unlike
Feyerabend with his ‘Anything goes,’ Aconzio cared to write about ‘method.’ Ora è
noto per il suo contributo alla storia di tolleranza religiosa. E 'stato
tradizionalmente pensato per essere nato a Trento, anche se era probabilmente
Ossana. E 'stato uno degli italiani, come Pietro Martire e Bernardino Ochino,
che ha ripudiato la dottrina papale e, infine, ha trovato rifugio in
Inghilterra. Come loro, la sua rivolta contro romanità ha preso una forma più
estrema di luteranesimo, e dopo un soggiorno temporaneo in Svizzera ed a
Strasburgo arriva in Inghilterra subito dopo Elizabeth adesione s'. Studia
legge e teologia, ma la sua professione era quella di un ingegnere, e in questa
veste trovalavoro con il governo inglese. Al suo arrivo a Londra si une
alla Chiesa riformata olandese a Austin Frati, ma è stato infettato con ana-baptistical
e pareri Arian" ed è stato escluso dal sacramento da Edmund Grindal, vescovo
di Londra. Gli fu concessa la naturalizzazione. E 'stato per qualche tempo
occupati con drenaggio Plumstead paludi, per i quali si oppongono i vari atti
del Parlamento sono stati passati in questo momento. E inviato a riferire in
merito alle fortificazioni di Berwick e sembra che era conosciuto in
Inghilterra sia per il lavoro come ingegnere e di un riformatore religioso e
sostenitore della tolleranza durante l'inizio della Riforma. Prima di raggiungere
l'Inghilterra pubblica un trattato sui metodi di indagine, "De Methodo,
hoc est, de recte investigandarum tradendarumque scientiarum ratione"
(Basilea). Il suo spirito critico lo pone al di fuori tutte le società
religiose riconosciute del suo tempo. La sua eterodossia si rivela nella sua
"Stratagematum Satanae libri octo," talvolta abbreviata in
Stratagemata Satanae. Gli stratagemmi di Satana sono i credi dogmatiche che
affittano la chiesa cristiana. Aconzio cerca di trovare il comune denominatore
dei vari credi. Questa è la dottrina essenziale, il resto e irrilevante. Per arrivare
a questa base comune, dove ridurre il dogma a un livello basso, e il suo
risultato è in generale ripudiato. "Stratagemata Satanae" non è
stato tradotto in inglese fino al 1647, ma in seguito è diventato molto
influente tra i teologi liberali inglesi. John Selden applicata alla
Aconzio l'osservazione, "bene ubi, nil melius; ubi maschio, nemo
pejus" -- "Dove buono, nessuno meglio. Dove male, nessuno
peggio." La dedica di un tale lavoro alla regina Elisabetta illustra la
tolleranza o lassismo religiosa durante i primi anni del suo regno. Aconzio poi
trova un altro patrono in Robert Dudley, primo conte di Leicester. Saggi:
Stratagematum Satanae libri octo, De methodo sive recta investigandarum
tradendariumque artium ac scientarum ratione libello, De methodo e Opuscoli
Religiosi, opuscoli filosofici, Giorgio Radetti, Firenze: Vallecchi) Somma
brevissima della Dottrina Cristiana Una esortazione al timor di Dio; Delle
Osservazioni et avvertimenti che haver si debbono nel legger delle historie
Traduzione in inglese, Tenebre Scoperto (Satana stratagemmi), London
(facsimile ed., Scholars' Facsimiles & ristampe. Trattato Sulle
Fortificazioni, Paola Giacomoni, Giovanni Maria Fara, Renato Giacomelli, e O.
Khalaf (Firenze: LS Olschki). Riferimenti Attribuzione Chisholm, Hugh, ed. " Aconcio, Giacomo
". Enciclopedia Britannica, Note finali: Di Gough Index a Parker Soc.
Publ. Di Strype Grindal, 62, 66
Dictionnaire di Bayle G. Tiraboschi, Storia della letteratua italiana (Firenze,
Smith, Elder & Co. link esterno Allgemeine Deutsche Biographieversione
online a Wikisource Opere di Jacob Acontius a Post-Riforma Digital Library. Molti riformati italiani vedremo cercarvi
rifugio.Colà erasi ricoverato Jacobo Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento,
il quale nel 'opera “De Methodo, sive recta investigandarum tradendarumque
scientiarum ratione (Basilea1558) aveva ripudiata ladialettica ordinaria, propo
nendo un nuovo metodo di giungere al vero collo scomporre e ricomporre più
volte la cosa,ed esaminarla sotto aspetti diversi, passando dal noto al
l'ignoto. Alla divina Elisabetta regina d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute
attestazioni di stima, dedicò "Gli Stratagemmi di Satana in fatto di
religione (Basilea 1565), libro allora molto acclamato, e tradotto in varie lingue,
ov'egli studia di ridurre a pochissimi idogmi essenziali del cristiane simo,
nello scopo d'indurre le sêtte a vicendevole tolleranza. Aveva avuto per
compagno Francesco Betti romano,che al mar In Chap. 3, Caravale
investigates the long publishing success of Acontius’s Satan’s Stratagems in
seventeenth-century England. After reconstructing the popularity of Acontius
among the Dutch Arminians in the 1610s and 1620s, the chapter focuses first on
the religious debates that involved Catholics, Arminians and Latitudinarians in
1630s England and then on the heated controversies which characterized the
English Civil War in the 1640s. Particular attention is given to debates at the
Westminster Assembly of Divines, where the Presbyterian Francis Cheynell
suggested forming a Committee to examine Acontius’s book, which had just been
(partially) translated into English and published by John Goodwin in 1647. The
condemnation of the book issued by Cheynell’s Committee did not stop Acontius’s
supporters from circulating his book widely. Indeed, new editions of Satan’s
Stratagems were published in the early 1650s. This chapter follows this
exciting publishing story as a significant part of the cultural and
intellectual history of Revolutionary England. What was hidden behind the
intriguing title exalting Satan’s Stratagems? This chapter aims to answer this
question in an attempt to understand the extraordinary success of Jacob
Acontius’s masterpiece and contextualize its line of thinking. The reader will
find a careful reconstruction of the author’s intellectual biography (ca
1520–1566) from his early career as a notary in Trent, Italy to his conversion
to Lutheranism in the mid-sixteenth century, his escape from the peninsula and
his sojourn in England as an engineer. Acontius soon became involved in
religious controversies in England in the early 1560s, which is when he wrote
his major work, Satan’s Stratagems, arguing consistently for an extremely broad
and tolerant vision of Christianity. The book is analyzed in detail and
comparisons are made with his previous publications and other major contemporary
books on similar topics. 1565. Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio
authore, accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad
Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. 1565. Jacobi Acontii tridentini de
Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo. 1648.
"Satan's Stratagems, or the Devil's Cabinet-Council discovered,...
together with an epistle written by Mr. John Goodwin and Mr. Durie's letter
concerning the same." London. J. Macock. Sold by J. Hancock. 1648. 4to.
British Museum. George Thomason's copy, now in the British Museum, contains his
correction of the date to 1647, and records its purchase on February 14 of that
year. The translation contains three dedications, one to the Parliament,
one to Fairfax and Cromwell, and one to John Warner, lord mayor. The translator
announces that if his work was well received he would complete it, but only
four of the eight books were published. The stock was then sold apparently to
W. Ley, who reissued it, with a new title, "Darkness Discovered; or, The
Devil's Secret Stratagems laid", London. J. M. 4to. With a doubtfully authentic etching of
the Italian author, ‘James Acontius, a Reverend Diuine.' This translation is an
English version of Jacopo Aconcio's celebrated work, "Satanæ Stratagemata
libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione
edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. Basileæ, ap.
P. Pernam. 1565. 4to. The Dictionary of National Biography says that this is
the genuine first edition, of extreme rarity. Brunet records an
octavo edition of the same year, place, and publisher, but with a variant
title: Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis
negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc.
libri octo. Basilea.P. Perna. 8vo. Reprinted, Basileæ, 8vo; and 'curante
Jac. Grassero,' ib.,, 8vo; ib., ap.Waldkirchium; Amsterdam,1624; Oxon., G.Webb,
1631, sm. 8vo; London, 4to; Oxon., 1650, 12mo; Amsterdam, Jo. Ravenstein,
1652, sm. 8vo; ib., 1674,sm.8vo; Neomagi, A. ab. Hoogenhuyse, 1661,sm.8vo. The
Dedication of the first edition, to Queen Elizabeth, begins,with grandiloquent
flattery, Divæ Elisabethæ, etc. Les Ruzes de Satan receuillies et comprinses en
huit liures. Basle. P. Perne. 4to. Also, Delft, 1611, 8vo, and ib., 1624, 8vo.
Further, Bâle. 1647. sm. 8vo (German translation), and Amsterdam, 12mo (Dutch
translation). The Satanæ Stratagemata is a book which had a considerable
influence in the development of opinion. In all, I record twenty-one editions
of it, five of them of English imprint, and all of them publications of about
one century, 1565–1674, the era of the Reformation. Aconcio's argument was the simplification
of dogmatic theology. In general, he reduces the doctrines of Christianity to a
strictly Scriptural basis. He argues that the numerous confessions of faith of
different de nominations are simply the ruses of the Evil One, the 'Stratagems
of Satan,' to tempt men from the truth. He protests against capital punishment
for heresy, and favours toleration among all Christian sects. Such liberal
theology is distasteful alike to Calvinists, who accused Aconzio of Arianism,
and to Catholics, who index his essay. The Tridentine Index Libb. Prohibb. places
"Satanæ Stratagemata" among anonymous books, but the Roman Index of
1877 describes the essay accurately. Acontius
(Jacobus) -- Jacobi Acontii tridentini de stratagematibus Satanæ in religionis
negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc.,
libri octo. Basileæ, P. Perna, in-8 Première édition d'un ouvrage singulier qui
jadis a fait beaucoup de bruit parmi les théologiens protestants, mais qu'on ne
lit plus guère aujourd'hui. Il doit se trouver dans ce volume un traité du même
auteur, intituli: "De ratione edendorum librorum," qui a paru
égalementent 1565, et qui aétéréim primé dans l'édition des "Stratagemata
Satanis", donnée par Jacq. Grasser, à Basle, chez Conr.Waldhirche, en
1610, in-8, sous un titre qui diffère de celui de la première édition. Les
autres éditions de ce livre n'ont pas de valeur. La plus répandue parmi nous
est celle d'Amsterd., Jo. Rawestein, pet.in-12; celles d'Oxford, 1631 et 1650,
pet, in-12, ne le sont guère moins. LES RUSES de Satan, recueillies et
comprinses en huit livres, p pet. in-4. Cette traduction a été reproduite à
Delft, de l'impr. de B. Schinckel, 1611, et aussi en 1624, in-8.; ce pendant
les exemplaires n'en sont pas communs; celui del'édit., qui était rebé en mar:.,
n'a été vendu que 6 fr. chez La Valliere, mais il serait plus cher aujourd'hui.
L'ouvrage est traduit en Namand, en allemand et aussi en anglais. L'auteur,
nommé Jacobus Acontius sur le titre de ce livre, avait pour nom italien Giacomo
Concio. M. Graesse cite à l'article Acontiues l'ouvrage suivant, qu'il dit
très-rare. UNA essortazione al timor di Dio, con alcune rime italiane, nuov,
messe in luce (da G. B. Castiglione). Londra (senz'anno), in-8. Aconce.De stratagematibus Satanæ in religionis
negotio, per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma,
etc. LibriVIII. auctore Jacobo Aconcio. Basileæ,1565, in-8. et
Amstelodami, 1674, in-8. Cet ouvrage impie a été dédié à Elisabeth, reine
d'Angleterre. Il en aparu une traduction française à Basle en 1565,in-4.; à
Delft, en 1611, et en 1624, in-8. L'auteur s'est proposé, dans cet
ouvrage, de réduire, à un très-petit nombre, les dogmes de la religion
chrétienne, et d'établir une tolérance réciproque entre toutes les
sectes qui divisent le christianisme: c'était le vrai moyen de déplaire
à toutes. Un singolarissimo saggio in favore della tolleranza
apparve nel 1565 per opera del giureconsulto trentino Giacomo Aconzio o
Aconcio, saggio che fu posto erroneamente fra i libri di magia per il suo
strano titolo, "De stratagematis Satane in religionis negotio, per
superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc."
(Basil.). Esso per contro è il primo libro, al dire dell'Hallam (op. cit.
ii, cap. 2, p. 84), in cui, secondo la tendenza sociniana, si sia cercato di
ridurre gli articoli fondamentali della religione cristiana al più piccolo
numero possibile, escludendo, per esempio, quello della trinità e tutti gli
altri non razionali. E ciò allo scopo di trovare un punto di appoggio comune e
di universale consenso per tutte quante le sette, in cui è scisso il
cristianesimo, e quindi una base sicura per la tolleranza reciproca di tutte le
credenze. L'Aconcio si leva vivissimamente non solamente contro la pena di
morte, ma contro qualunque pena inflitta ai pretesi eretici, ed esce in questa
esclamazione. Se il sacerdozio riesce a prendere il disopra, se gli si concede
questo punto, che non appena un uomo avrà aperto la bocca il carnefice dovrà
venire a troncare tutti i nodi col suo coltello, che cosa di venterà lo studio
della Scrittura? Si penserà che essa non vale guari la pena che altri se ne
occupi; e, se mi è permesso di dirlo, si daranno come verità i sogni
dell'immaginazione. O tempi infelici! o infelice posterità, se noi abbandoniamo
le armi con le quali soltanto possiamo vincere il nostro
avversario! (CANTÙ, Op. cit., II, 451). Il saggio ebbe subito
gran voga e fu tradotto in francese, in inglese, in tedesco ed in olandese.
Anzi esso godette nel secolo seguente in Olanda di una immensa popolarità ed
autorità. Aconcio intanto viene citato fra molti altri scrittori del suo secolo
d'autori della tolleranza nel libro di Mino Celso senese, sotto il cui nome si
ritenne per un pezzo si celasse o Lelio Socino od altri, ma di cui invece
consta che fuggì da Siena nel 1559, vagò tra i Grigioni tre anni, e quindi si
ridusse a Basilea, ove cercò sempre di mettere concordia fra i dissidenti (1).
L'opera si intitola: "In haereticis coercendis quatenus progredi liceat,
Celsi Mini Senensis disputatio. Ubi nominatim eos ultimo supplicio afici non
debere, aperte demonstratur, Cristling. Fu ristampata senza indicazione di
luogo, con due lettere di Beza e Dudicio in senso opposto; e inoltre ad
Amsterdam col titolo, "Henoticum Christianorum, seu Disputatio Mini Celsi,
etc. Lemmata potissima recensa a D. 2. (Dom.Zwickero). È una lunga
dissertazione accurata, ove tra l'altro si sostiene bastare abbondantemente
contro gli eretici le ammende e l'esiglio. Loscritto di Gioacchino Cluten: De
Haereticisan sint comburendi? Argent., contiene, oltre alla prefazione del
Castellion alla sua Bibbia latina, una raccolta di passi di più scrittori in
favore della tolleranza (2). Una difesa, piena di giustizia e di moderazione,
della causa della tolleranza è pure quella del teologo sociniano tedesco
Giovanni Crell (1590-1633), intitolata, "Vindiciae pro religionis
libertate. Essa fu tradotta poi dal Le Cene in francese, e riveduta dal
Naigeon, sotto il titolo, "De la tolérance dans la religion. Al dire
dell'Hallam, ancora nel 1760 l'Holbach l'avrebbe tradotta e ripubblicata. Il
SENKENBERG nelle aggiunte alla Bibliotheca realis iuridica del
Lipenius,Lips.,1789,p.187, ricorda una edizione, s. I. 1562. Non ho potuto
vedere il saggio; ma tale indicazione andrebbe poco d'accordo con quanto altri
riferiscono, cioè che Mino Celso citi già l'ACONZIO.Giacomo Aconzio. Aconzio. Keywords: satana, diavolo, implicatura di
satana – stratagemmi -- negozio – religione, per superstizione, errore, eresia,
odio, calunnia, scisma, ecc. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Aconzio," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51645661908/in/photolist-2mKFLGp-2mKyfRQ-2mKCjcP-2mKDEmw-2mKFLtt-2mLGQbZ-2mLNmZZ-2mLNmDP-2mLLVWY-2mKwuhr-2mKiHaD-2mFMJfh-2mFE929-2mFKvYG-2mFJ86C-2mDbqna-2mDbqVp
Acquisto (Monreale). Filosofo. Grice:
“I like Acquisto; he was a priest, but you’d hardly notice it; but then he was
jailed and few priests get that! They must be real bad boys! But blame it on the mess that the Capri area
found itself at that time – In any case, he reminds me of Manser, the Waynflete
professor of metaphysics – Acquisot was very systematic –I would think his
semiotics, strictly, is exposed in a chapter in the second part to his
masterpiece, the ideologia – the first is psicologia, and the third is logica –
in Ideologia, he is a Lockeian – words stand for ideas – and ‘linguaggio’ is
the most effective ‘means of communication’ to transmit them – native or
natural signs, like a ‘grido’ do communicate, but that’s it – ‘I’m in pain,’
but not ‘The cat sat on the mat.’’ – He is hardly original but then neither is
Leibniz, or Locke or Kant, for that matter – His emphasis is on the atural
versus artificial and pours scorns on those philosophers who tried to improve
on the Latin language – created by the Umbrians, he claims --.which is
artificial enough!” “raffaele d'acquisto – n. Monreale -- arcivescovo
della Chiesa cattolica Incarichi ricopertiArcivescovo di Monreale
Nato1º febbraio 1790 a Monreale Ordinato presbitero5 febbraio 1814
Nominato arcivescovo23 dicembre 1858 da papa Pio IX Consacrato arcivescovo2
gennaio 1859 dal cardinale Antonio Maria Cagiano de Azevedo Deceduto7 agosto
1867 (77 anni) a Palermo Filosofo. Fu uno dei principali
esponenti della storia del pensiero filosofico in Sicilia nell'800, fautore di
quella linea ontologista che vide, allora, moltissimi seguaci in Sicilia e che
mise in collegamento la riflessione filosofica siciliana con quella presente
nel resto d'Italia, in particolare con la dottrina ed il pensiero di Vincenzo
Gioberti. Il suo pensiero risulta una sintesi fra la psicologia cartesiana ed
il dinamismo di Leibniz a cui si aggiunge la tradizione teologica e filosofica
cristiana che prende come punti di riferimento sant'Agostino e san Bonaventura
da Bagnoregio. Pubblicò numerose opere i cui contenuti spaziavano dal
pensiero intorno a Dio al creazionismo, dall'onnicentrismo all'analisi
dell'uomo come essere vitale che è insieme Potenza, Sapienza ed Amore.
Indice 1L'età giovanile 2L'età adulta, l'insegnamento universitario e le
opere 3La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali 4Gli ultimi anni 5Il
pensiero filosofico 6Opere principali 7Genealogia episcopale 8 9 10 L'età
giovanile Benedetto D'acquisto nacque come Raffaele D'Acquisto a Monreale il 1º
febbraio 1790 da Niccolò D'Acquisto di professione calzolaio e da Maria Di Meo.
Sin da giovanissimo manifestò uno spiccato interesse verso lo studio e per
questo motivo fu iscritto dai genitori alla scuola del seminario di Monreale.
All'interno del seminario il sacerdote Benedetto Signorelli rimase
favorevolmente colpito dalle grandi doti e dall'ingegno di Raffaele D'Acquisto
e decise di fornirgli i mezzi economici necessari per continuare gli studi in
quanto i genitori non potevano garantirgli l'accesso all'istruzione superiore.
Fu in segno di riconoscenza nei confronti di questo sacerdote che Raffaele
decise di cambiare il suo nome in Benedetto. Da quel momento in poi verrà,
infatti, ricordato come Benedetto D'Acquisto. Nel 1806 all'età di 16 anni
entrò a far parte dell'Ordine dei Frati minori riformati a Palermo dove prima
compì gli studi superiori in filosofia e teologia e poi divenne insegnante
nello stesso convento. Successivamente otterrà anche la laurea in filosofia
presso l'Università degli Studi di Palermo; insegnerà tale disciplina anche in
corsi universitari presso il collegio San Rocco di Palermo sito in via Maqueda
nel centro della città. L'età adulta, l'insegnamento universitario e le
opere. Concorse alla cattedra di filosofia all'Palermo, ma la scelta della
commissione esaminatrice cadde su un altro candidato ed allora anda ad
insegnare filosofia presso il seminario arcivescovile di Palermo. Vinse il
concorso per la cattedra di etica e diritto naturale all'Palermo e venne eletto
arcivescovo, vi dedica le sue energie intellettuali migliori che gli valsero
anche la carica alla vicepresidenza dell'Accademia di scienze, lettere ed arti
di Palermo. Questo è anche il periodo in cui pubblica le sue opere principali
ed in cui il suo pensiero raggiunge una grande fama. Tra gli saggi più
importanti di questo periodo si possono ricordare “Elementi di filosofia
fondamentale”, il “Sistema della scienza universale”; la “Genesi e natura del
diritto di proprietà” (Palermo -- lodata
persino da Napoleone III); “Trattato delle idee o Ideologia” in cui porta a
compimento la costruzione della sua filosofia teoretica e lo studio sulla “Necessità
dell'autorità e della legge” in cui tratta tematiche inerenti al
diritto. Pubblica una delle sue opere più importanti intitolata la “Cognizione
della verità” che rappresenta una sintesi armonica fra la filosofia e la
teologia. In quest'opera sottolinea gli stretti rapporti tra il Creatore e le
sue creature pur nella loro sostanziale ed infinita distinzione e differenza e
presenta un'antropologia filosofico-teologica che concepisce l'uomo sotto un
triplice aspetto (puro, trascendentale, fenomenico), caduto per sua libera
scelta nell'errore e nel male, ma che pure ha in sé la condizione necessaria ma
non sufficiente per la sua elevazione verso la verità e verso il bene,
condizione che soltanto grazie ad una rivelazione esterna diventa sufficiente
ed attuabile. Questo saggio rappresenta il punto massimo del pensiero del
filosofo monrealese. Oltre a questi scritti D'Acquisto ci ha lasciato
anche un trattato di logica dal titolo “Organo dello scibile umano”, pubblicato
postumo a Palermo ed un manoscritto inedito e privo di titolo attualmente
conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo. La carica di
arcivescovo ed i moti insurrezionali Benedetto D'Acquisto fu nominato
arcivescovo di Monreale il 23 dicembre 1858 da papa Pio IX. Appena entrato
nell'arcidiocesi dovette confrontarsi con un periodo turbolento caratterizzato
dalla rivolta di Monreale del 4 aprile 1860, dall'arrivo delle truppe
garibaldine e dal conseguente tramonto del regime borbonico. Con la
costituzione del Regno d'Italia versò una cospicua somma di denaro per
equipaggiare la neonata Guardia Civica. Questo gesto gli meritò l'attenzione e
la gratitudine di re Vittorio Emanuele II che in occasione della sua visita al
duomo di Monreale volle premiare Benedetto D'Acquisto con la commenda
all'Ordine Mauriziano con la motivazione di essersi distinto egregiamente nel
campo della filosofia. Tuttavia nel 1866 scoppiò a Palermo la Rivolta del sette
e mezzo, una violenta insurrezione antigovernativa che in breve tempo si estese
anche ai territori limitrofi in particolare Monreale e Misilmeri. In questo
contesto D'Acquisto fu nominato presidente del Comitato insurrezionale di
Monreale con l'obiettivo di mantenere l'ordine pubblico nella cittadina
normanna, ma non poté fare molto, perché di lì a poco la situazione degenerò ed
i rivoltosi misero a ferro e fuoco la provincia di Palermo, causando la morte
di 21 carabinieri e 10 guardie di pubblica sicurezza. Dopo sette giorni
l'insurrezione fu domata dalle truppe governative ma Benedetto D'Acquisto fu
arrestato. Il generale Raffaele Cadorna, inviato dal governo come regio
commissario con il compito di reprimere la rivolta siciliana, nella sua
relazione al Consiglio dei ministri accusò D'Acquisto di avere incoraggiato il
moto rivoluzionario e lo qualificò come "notissimo e pericoloso
reazionario". Fu rinchiuso in prigione prima a Monreale e poi in altre
località per circa un mese insieme ad altri uomini illustri come Giuseppe de
Spuches, famoso letterato, poeta ed archeologo. Rimesso in libertà
provvisoria nel 1866, ngodette del provvedimento di amnistia e ritornò a
Monreale per continuare la sua missione pastorale. Gli ultimi anni
Ritornato nel suo luogo natìo, si dedicò, dopo la diffusione del colera,
all'assistenza di coloro che avevano contratto tale malattia. Tuttavia si
ammalò anche lui e morì a Palermo. Fu tumulato nella chiesa di Santa Rosalia,
una piccola parrocchia in campagna alla periferia di Monreale, ma dopo una
solenne cerimonia le sue spoglie furono traslate nel duomo di Monreale. Il
suo pensiero filosofico, nell'ambito teoretico e delle relazioni logiche e
dialettiche, si avvicina molto a quello platonico ed agostiniano con vistose
influenze anche del pensiero di Fidanza. Nell'ambito dell'ontologia si rifà
alla scuola metafisica di Monreale, il cui più importante esponente fu Miceli,
di cui Acquisto rappresenta il naturale seguace e studioso. Il nucleo centrale
della sua filosofia consiste nella sintesi fra psicologia ed ontologia.
Egli colloca nella coscienza il fondamento teoretico della conoscenza
scientifica e divide le idee in tre categorie: l’idea sensibile che riguarda il
mondo materiale, l’idea intellettuale concernenti il proprio essere e l’ideea
necessaria relative a Dio. Questi tre tipi di idee co-esistono
contemporaneamente nello spirito umano. A queste tre categorie ne aggiunge una
quarta definita come idee "di rapporto" che permettono all'individuo
di esprimere giudizi e formulare ragionamenti. Nell'analisi del processo
conoscitivo crea la sua nozione di onni-centrismo in cui riesce a trovare un
equilibrio fra due poli apparentemente all'opposto: l'individualità e
l'universalità. Nella sua concezione onni-centrista riesce a far
coesistere l'io individuale con l'io trascendentale sviluppando così un'unità
reale fra intuizione sensibile ed intelletto. Dall'unità tra intuizione
ed intelletto si crea l'intuito intelligente che contiene in un nesso ontologico
tutta l'umana vitalità e che mette in relazione l'individuo con l'intuito
dell'azione creatrice dell'essere assoluto. Questa visione avvicina molto Acquisto
a Rosmini e Gioberti. Il filosofo monrealese tratta anche delle relazioni fra
morale e diritto. L'azione derivante dall'attività dello spirito può rimanere
all'interno dello spirito stesso senza manifestarsi all'esterno e
trasformandosi così in un atto giuridico. Questo atto giuridico costituirà la
legge morale che conduce l'individuo a conformarsi alla natura, alla ragione ed
a Dio. Tutto ciò rappresenta la sintesi perfetta fra l'essere naturale e l'essere
spirituale. Infine nella sua opera Corso di diritto naturale afferma che
il diritto di proprietà è presente in ogni individuo che lo utilizza per raggiungere
il suo scopo naturale. Il diritto, dunque, nella vita dell'individuo
tende essenzialmente alla conservazione, allo sviluppo e al perfezionamento
della natura umana. Il diritto POSITIVO, invece, ha l'obiettivo di far prendere
coscienza all'individuo delle proprie azioni e di creare una perfetta armonia
fra il diritto stesso e la moralità. Ma soltanto l'onnipotenza di Dio puo portare
alla coesistenza perfetta e senza contrasti fra fede e scienza. Opere: “Elementi
di filosofia fondamentale”; “Saggio sulla legge fondamentale del commercio fra
l'anima ed il corpo e su di altre verità che vi hanno rapporto”; “Prolusione
alle lezioni di diritto naturale a Palermo); “Discorso preliminare alle lezioni
di diritto naturale ed etica”; “Memoria estemporanea sul diritto e dovere del
proprio perfezionamento”; “Sistema della scienza universal”; “Corso di
filosofia morale”; “Corso di diritto naturale e filosofia del diritto”;
“Cognizione della verità”; “Trattato delle idee o Ideologia”; “Genesi e natura
del diritto di proprietà”; “Necessità dell'autorità e della legge”; “Teologia
dogmatica e razionale; Ragionamento sulla resurrezione dei corpi”; “Organo dello
scibile umano”. Genealogia episcopale Cardinale Scipione Rebiba Cardinale
Giulio Antonio Santori Cardinale Girolamo Bernerio, O.P. Arcivescovo Galeazzo
Sanvitale Cardinale Ludovico Ludovisi Cardinale Luigi Caetani Cardinale
Ulderico Carpegna Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni Papa
Benedetto XIII Papa Benedetto XIV Papa Clemente XIII Cardinale Giovanni Carlo
Boschi Cardinale Bartolomeo Pacca Papa Gregorio XVI Cardinale Antonio Maria
Cagiano de Azevedo Arcivescovo Benedetto D'Acquisto V. Di Giovanni, D'Acquisto e la filosofia
della creazione in Sicilia, Firenze 1868. V. Mangano, Benedetto D'Acquisto
filosofo monrealese, Palermo 1890. G. Millunzi, Storia del seminario
arcivescovile di Monreale, Siena 1895. F. Lorico, Vita di Benedetto D'Acquisto,
Palermo 1899. V. Mangano, La filosofia sociale di monsignor Benedetto
D'Acquisto, Palermo 1900. G. M. Puglia, L'arresto di mons. Benedetto D'Acquisto
arcivescovo di Monreale, Palermo; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo
1939. Monreale Duomo di Monreale Rivolta
del sette e mezzo Sant'Agostino San Bonaventura da Bagnoregio Antonio Rosmini Benedetto D'Acquisto, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Benedetto D'Acquisto,. David M. Cheney, Benedetto D'Acquisto, in Catholic
Hierarchy. L'ontologismo rivoluzionario
nella Logica di Benedetto D'Acquisto di Antonio Fundarò, dal sito dell'Istituto
siciliano di studi politici ed economiciISSPE. Predecessore Arcivescovo di
Monreale Successore Archbishop Pallium PioM. svg Pier Francesco Brunaccini, Giuseppe
Maria Papardo del Pacco, Arcivescovi di Monreale Fino al 1500Caro Giovanni
Boccamazza Pietro Gerra Ausias Despuig Juan de Borgia Llançol de Romaní XVI
secoloJuan Castellar y de Borja Enrique de Cardona Alessandro Farnese Ludovico
de Torres I Ludovico de Torres II XVII secolo Arcangelo Gualtieri Jerónimo
Venero Leyva Cosimo de Torres Giovanni Torresiglia Francesco Peretti di
Montalto Ludovico Alfonso de Los Cameros Vitaliano Visconti Giovanni Roano e
Corrionero XVIII secolo Francesco del Giudice Juan Álvaro Cienfuegos Villazón
Troiano Acquaviva d'Aragona Giacomo Bonanno Francesco Testa Francesco
Ferdinando Sanseverino Filippo Lopez y Royo XIX secoloMercurio Maria Teresi
Domenico Benedetto Balsamo Pier Francesco Brunaccini Benedetto D'Acquisto
Giuseppe Maria Papardo del Pacco Domenico Gaspare Lancia di Brolo XX secolo Antonio
Augusto Intreccialagli Ernesto Eugenio Filippi Francesco Carpino Corrado Mingo
Salvatore Cassisa Pio Vittorio Vigo XXI secoloCataldo Naro Salvatore Di
Cristina Michele Pennisi. DELLA NATURA DEL LINGUAGGIO, E DELLA SUA
INFLUENZA NELLA FORMAZIONE DELLE IDEE. Per estensione della idea generale
s'intende la sua capacità di applicarsi al numero degli individui; la
comprensione è riposta nel pumero delleideesemplicidellequaliessa
sicompone;perció quanto è maggiore lacomprensione tanto minore è l'estensione,ed
all'inverso. Ritrovare l'origineprimitivadellinguaggio,dopo infinite
vicissitudini ed incalcolabili trasformazioni, oltre di essere fuori del nostro
assunto, sarebbe la cosa più difficile. I fenomeni quanto sono più ovvi e
generali altrettanto la loro radice è sepolta nelle te nebre. Moltissime e
svariate sono state le opinioni dei filosofi intorno all'origine
del linguaggio, e forse an cora la lite non è stata decisa. Varie lingue si
sono parlate,dalla corruzione e dalle trasformazioni di que ste ne sono risorte
delle altre,e da queste ancor del l'altre. Se cosa di certo potrà trovarsi, la
speranza di tal trovamento si deve porre nel fatto, cioè nella co stituzione
dell'uomo e nella natura dello stesso linguaggio. L'uomo è dotato di
sensibilità e di facoltà attive e libere: égli prova sensazioni, è affetto da
piacere e da dolore; in ciò è passivo: egli reagisce sopra le stesse
sensazioni, ed a suo piacere analizza, ricompone, e n e forma de nuovi
prodotti,ed in ciò è attivo e libero; egli ha dunque delle sensazioni e delle
idee e forma giudizi; tutto ciò è effetto del lavoro interno dello spirito
umano, e non v’interviene convenzione per conto alcuno. Dall'altra parte avvi
nel linguaggio ciò che nell'uomo ha anche costituito la natura,evisitrovasempre
lo stesso, propagato in tutle le lingue senza alcun can giamento o alterazione,
e che dovrà per necessità tro varsi in tuttelelingue possibili.L'uomo èstato
for nito degli organi vocali; egli mette per essi natural mente de' suoni;questi
sono o semplici emissioni di fiato, tali sono i suoni detti vocali; altri sono
delle intonazioni che dipendono dall'azione libera di alcuni organi vocali,
tali sono icosi detti suoni consonanti, e questi stessi suoni non possono
prescindere dai suoni vocali perchè o li precedono, o li seguono, non po
tendosi dare esercizio di organi subordinati senza l'esercizio degli organi subordinanti.
I suoni vocali sono la manifestazione de' sentimenti, e le intona
zioni,oconsonantileespressionidelleidee,quelli ac cennano
allapassività,questiall'attività;quellisono comuni all'uomo ed alle bestie,
questi all'uomo sola mente,e mettono la gran differenza fra le une e l'al tro.
Tutto ciò è ancor opera della natura; bisogna in fine riconoscere un legame
ancor formato dalla stessa natura: questo legame è il rapporto fra lo spirito e
gli organi corporali, e fra questi e gli oggetti;la con dizione, che stringe
sempre più e muove questo le game, è il principio d'imitazione che
eminentemente possiede l'uomo; egli per parlare ha un modello n a turale da
imitare,cioè la natura e le idee. Tutto ciò adunque che si ricercava alla
perfezione del linguag gio era stato dato dalla natura;che altro mancava alla
esistenza di una lingua, se non la combinazione vo lontaria dei suoni vocali e
delle intonazioni per for mare la pittura e l'espressionedelleidee.Ma questa
pittura, questa espressione nel linguaggio primitivo (1) Gli organi che
concorrono alla formazione de'suoni articolati sono la trachea o canna della
gola per la quale passa l'aria, e ri passa ne pulmoni; la laringe che è un
canale cilindrico corto alla tesla della trachea; la glotta che consiste in una
piccola fissura fra due membrane circolari dove si forma il suono e la
diversità ed intensilà de'tuoni; la cavità della bocca e delle narici in cui il
suono vieneriflessoerisuona;questiorganisonodestinatiallapro duzione de' suoni
vocali; la lingua colle suc vibrazioni,identi, le labbra coi loro movimenti
sono gli stromenti delle intonazioni,le quali combinate con i suoni rocali
danno in risullalo la voce ar licolala. dovean essere da una parte
corrispondenti ai bisogni ed allo sviluppo dell'uomo, perciò i suoni
articolati, prodotti dalle funzioni naturali degli organie dall'esercizio
libero dei poteri interni moventi gli organi m e desimi,e che esprimeano
isentimenti e leidee,do veano essere in poco numero, che sono le radieali di
tutte le lingue, restando in arbitrio dell'uomo l'in fletterli e modificarli a
sua volontà secondo che cre scevano i bisogni della vita, e s'estendevano i rap
porti e cogli oggetti della natura e cogli altri uomini. Dall'altra parte, come
il tutto era preparato alla per sezione dell'uomo, cioè l'intelligenza, e gli
organi di rapporto col mondo; questi riceveano naturalmente l'azione degli oggetti
esterni e produceano i senti menti, quella trasformava i sentimenti in idee per
effettodeirapporti naturali onde erano connessi;egual mente erano preparati gli
organi onde pingere ed espri mere coi suoni le idee; era quindi necessario, che
la stessanatura,secondo gl'intimirapporti di questior gani, producesse i suoni
in corrispondenza alle prime idee necessario risultato dell'esercizio delle
facoltà. Ciò che ela ha realizzato per un procedimento naturale. È un fatto
costantissimo nella natura dell'uomo cioè che egli per la sua suscettività
prova sentimenti, per la sua intelligenza li trasforma in idee, e per la sua
attività ne determina i movimenti muscolari nel corpo, iquali
sonodirettisopral'oggettorappresentatodalle idee; cosi la stessa attività mette
in funzione im u scoli degli organi vocali per significare agli altricon i
suoni l'idea che gli è presente nello spirito, que L'oggetto esterno
ha una costituzione tutta propria, che forma la sua specifica natura; dalla
specificità di questa natura origina il modo e la legge dalla sua azione sopra
l'organo del corpo umano; quest'organo, per lo stimolo impressovi dall'azione
esterna entra in movimento, il quale, sebbene fosse la continua zione
dell'azione esterna, tuttavia è modificato e spe cificato dalla legge
fisiologica risultante dalla costitu zione dell'organo medesimo: questo
movimento or ganico cosi specificato modifica realmente lo spirito,
eviproduceprimamenteunsentimento,ilqualeper l'azione delle facoltà è seguito da
una idea. Questa idea per l'attività intelligente diviene una norma della sua
determinazione e direzione verso l'oggetto rap presentato dalla idea, onde
prenderlo e mettersene in possesso. La stessa attività sotto la scorta della
stessa idea, mette in esercizio i muscoli degli organi vocali per esprimere
colla voce la idea, e per essa il suo oggetto. La volontà,nello eccitare i
movimenti orga nici del corpo, può avere un doppio motivo prodotto da un
diverso interesse,cioè o immediato, o mediato: è immediato quello per cui
eccita il movimento nei muscoli,per esempio della mano,per prendere l'og getto
rappresentato dalla idea;è mediato quello,per cui mette in azione gli organi
vocali per significare o far nascere negli altri l'idea che è presente al suo
spirito, col fine, sia di simpatizzare con essi,sia per determinare la loro
volontà a proprio vantaggio, e per sto procedimento si effettua nell'uomo
sotto l'influenza delleleggifisiologiche e psicologiche.Eccone ilmodo:
avere da costoro o un'azione, o l'oggetto che desi dera, sia perchè non
gli noceia. La causa dunque del doppio movimento è lastessa,cioè lamedesima
idea, i motivi solamente differiscono, essendo uno il possesso dell'oggetto
rappresentato dall'idea,e l'altro la premura di manifestarla aglialtri;onde lo
stesso èilprocedimentodelmovimentodellamano,ede gli organi vocali eseguito
sotto l'impero delle stesse leggi fisiologichee psicologiche, sebbene perun di
verso riguardo. Perciò se naturale è la presa dell'og
gettosignificatodalleidee,naturale è purelavoceche esteriormente la esprime:ciò
ha bisogno di ulteriore sviluppo. Nella esterna espressione delle idee
dello spirito, cioè nel linguaggio parlato, avvi un processo inverso
aquellocolqualeegliacquistaleidee,ma collastessa legge di continuità. Il
processo, pel quale nello spi rito si forma l'idea,ha il suo principio nella
azione dell'oggetto esterno:questa azione è sempre conforme alla naturale
costituzione dell'oggetto, alla sua rela tiva posizione e stato in rispetto
agli organi esterni; quindi di tante diverse specie e di tante gradazioni nella
stessa specie sono le azioni che gli oggetti esterni esercitano sopra gli
organi. L'azione dell'oggetto, ar rivando all'apparecchioesternodell'organo,lo
stimola e vi produce un movimento rispondente all'indole ed alla forza dell'azione
dell'oggetto agente, ed allo stato di
organizzazionedellostessoapparecchio:questomo vimento cosi modificato si
comunica alla struttura ed al processo nervoso dello stesso organo, nel quale
il movimento riceve un'altra modificazione e qualificazione; il
movimento cosi modificato e qualificato interessa e modifica lo spirito, e
produce in esso il s e n timento,che per l'azione delle facoltà diviene idea,
la quale nello spirito è il segno della esistenza del l'oggetto esterno e della
sua qualità: l'idea devesi considerare come la interna parola, per la quale lo
spirito sente, conosce ed è assicurato dalla esterna realtà e dei suoi modi per
la modificazione reale che egli riceve dalla forza reale del di fuori attuata
nel movimento, e dalla indole dello stesso movimento de terminata e dalla
natura dell'azione dell'oggetto ester no,e dalla struttura dell'apparecchio
esternoedella costituzione interna dell'organo e del cerebro. Dal l'oggetto
esterno fino allo spirito avvi una continua zione di movimento, modifiealo però
in diverse guise una connessa coll'altra fino all'ultima modificazione che
riceve dall'organo centrale del cerebro. Il movimento nella sua essenza non è
che la forza materiale attuata e manifestata sensibilmente per le due forme
primitive del tempo e dello spazio;e per ciò esso è nell'azione dell'oggetto
esterno, nelle at tuosità dell'apparecchio, e nella costituzione del tes suto
nervoso del cerebro: riceve le diverse modifica zioni e specificazioni della
natura dell'oggetto in pri ma, indi dalla organizzazione dell'apparecchio
esterno dell'organo e della tessitura interna dei nervi ed in ultimodel
sensoriocomune; queste modificazioni e specificazioni diverse del movimento si
possono con siderare come tante articolazioni dello stesso movi 202
203 mento, che costituiscono, per cosi dire, la parola fi siologica
cheintendelospirito,perlaqualeconosce e la realtà dell'oggetto esterno nella
forza attuata nel movimento, che è l'elemento generico, e la qualità dello
stesso oggetto nella modificazione e specificazione dello stesso movimento,che
formano l'elemento spe cifico delle idee; questo è il processo naturale nella
formazione delle idee. Volendo poi lo spirito manifestare al di fuori i suoi
sentimenti e le sue idee, si serve dello stesso elemento generico cioè del
movimento, che esso eccita agendo soprailcerebro:questomovimento eccitatonelce
rebro, e da questo propagato ai tessuti nervosi riceve le peculiari
modificazioni dall'esercizio delle facoltà dello spirito in conformità al
sentimento ed alle idee che vuole egli esprimere, per le quali si mette in
azione il sistema dei muscoli e muove gli organi vo cali, e gli apparecchi degli
stessi organi, cioè il pulmone e la trachea per la emissione dell'aria; la
glotta dove l'aria diviene sonora, che è ilmezzo di espres sione del sentimento;
il palato, la lingua, i denti e le labbra, dalla funzione dei quali il suono
riceve le diverse modificazioni, le quali formano le intonazioni o i suoni
consonanti, che servono a manifestare le forme del sentimento cioè le idee e le
loro qualità; quindi nell'aria emessa divenuta suono che in fondo è m o
vimento, si ha l'elemento generico, il quale forma la base del linguaggio, e
l'elemento specifico che consi stenelle modificazioni che
ricevelostessosuono.Onde i suoni vocali sono le prime modificazioni del
suono 204 ܕ generale, indi le intonazioni o le articolazioni dello stesso
suono,le quali si combinano in guise diversis sime con isuoni vocali,edaqueste
combinazioniri sulta il linguaggio articolato; queste intonazioni sono sempre
precedute o seguite da suoni vocali; poiché l'elemento specifico del linguaggio
non può sussistere senza il generico che ne è la base, di cui le intona zioni
sono modificazioni prodotte dall'esercizio delle facoltà.Isuoni, che esprimono
le circostanze e le po sizioni necessarie dell'oggetto che si vuole significa
re, formano le parti elementari che si trovano in ogni lingua delle parti del
discorso:lecombinazioni poi dei suoni vocali con i consonanti per esprimere
l'oggetto e le sue qualità dipendono dalle esterne circostanze in cui possono
trovarsi gli uomini,come sonoilcli ma,ilgeneredi vita,lareligione,ed
altro,lequali come influiscono sopra lo sviluppo della facoltà, cosi
determinano lacombinazione de'suoni vocali con icon sonanti. Nella formazione
delle idee vi sono due estremi,il primo è l'oggetto esterno allo spirito, ed il
secondo è lo stesso spirito che dà esistenza alla idea. L'agente esterno nelle
stesse circostanze sempre agisce allo stesso modo, é cosi gli organi essendo
nello stesso stato, per cui l'idea è sempre la stessa; laddove nella espres
sione esterna della stessa idea, cioè nel linguaggio, essendolospirito,ilprimo
estremoche suscitailmo vimento, secondo le disposizioni da cui egliè affetto
per la influenza delle esterne circostanze, muove gli organi vocali in modi
diversi e combina in diverse guise isuoni vocali con i consonanti, per
cui lo stesso oggettop.e.l'astrodelgiornonelle diverse lingue ha diversi
nomi,come sole,sol,soleil,yacos eco. Perchè poi potesse rendersi stabile la
esterna m a nifestazione dei sentimenti e delle idee, che è fugi tiva nel
linguaggio parlato, lo spirito si serve delle figure; ad alcune delle quali
associa ed attacca in prima i suoni vocali, ad altre i consonanti, quali figure
di vengono SEGNI dei suoni, come leparole lo sono delle idee, e le idee degli
oggetti; e come il punto e le linee possono combinarsi di diverse maniere;
quindi la diversità e la moltiplicità delle figure ossia delle letlere. Dunque
l'elemento di base oggettivo alla for mazione delle idee, della parola, della
scrittura è lo stesso, cioè il movimento: lo specifico, nella formazione della
idea, è il modo di agire dell'oggetto esterno sull'organo e dell'organo sullo
spirito; nella formazione della parola è pure la costituzione degli organi e
l'articolazione dell'aria che si porta al senso degli altri; nella formazione
della scrittura è ancora la costi tuzione degli organi e la loro azione sopra
una m a teria esterna che viene specificata. Lo stesso spirito è il fine del
processo fisico e fisiologico nell'acquisto della idea, ed il principio dello
stesso processo nella espressione esterna della idea;ilegami hanno lastessa
connessione e la medesima continuità si nell'uno che nell'altro processo:lo
spirito nella espressione delle sue idee imita il modo naturale della
loroacquisi zione. In tutti i segni adunque degli oggetti, cioè nelle idee,nelleparole,nellascrittura
vi ha l'elemento generico e lo specifico: il generico in fondo è lo stesso,
cioè il movimento, il quale non è che laesterna m a nifestazione della forza
intrinseca a tutti i corpi, l'e lemento specifico è riposto nella
trasformazione dello stesso movimento secondo la struttura degli organi che sono
in funzione, e la natura dell'oggetto che ve la determina; perciò i movimenti
possono diversificare di tanti modi, quante sono le esterne impressioni, il
loro grado di forza, e la costituzione degli oggetti che le cagionano, la
struttura e lo stato degli organi in ternied
esterni.Nell'essereassicuratolospiritodella esistenza di un oggetto per mezzo
della idea vi sono perciò due condizioni della diversità de' movimenti; una
esteriore, che deriva dal modo di agire dell'og getto esterno allo spirito; e
l'altra interna, che nasce dalla naturale struttura e dallo stato degli organi,
i quali modificano e trasformano ilmovimento ricevuto dall'esterno. Cosi
nel manifestare lo spirito le sue idee, é per esse la cognizione degli oggetti
vi hanno due condi zioni, una è la reazione dello spirito, la quale è da esso
determinata giusta la informazione che egli ha della idea; e l'altra è riposta
nel movimento degli organi interni e nella funzione degli organi vocali che
produconoilsuono,ilqualepuò modificarsiindi versissimi modi ed in tanti suoni
articolati, quante sono le idee e le loro qualità, come è chiaro, della
moltiplicità e delle parole, e delle diverse lingue. Il suono nel linguaggio
risponde ed esprime il sentimento che è la base della idea, e l'articolazione
del suono alle forme del sentimento cioè alle idee ed alle loro proprietà; come
il sentimento nello spirito ri sponde al movimento organico che ve lo cagiona,
e la idea all'indole peculiare dell'armonia del movimento sotto la quale è
prodotto. Questi fatti sono connessi e legati l'uno all'altro in un processo di
continuità tanto nella formazione della idea,quanto nella produ zione del
linguaggio, ma in un ordine inverso ed al terno. Lo spirito legge nelle sue
idee le esistenze degli o g getti col processo che comincia dalla loro azione,
e per un processo inverso, che ha principio dall'azione dello stesso spirito,
egli esterna e manifesta le stesse idee fino alla scrittura, alla pittura, alla
scoltura ec. Uno è il movimento, ed indefinite le modificazioni
chelodiversificano;unoèilsentimento ed indefinito il numero delle idee nelle
quali si trasforma; uno ė il suono, ed indefinito il numero delle parole 'nelle
quali è articolato;unico è ilpunto del flusso dal quale nasce la linea,ed
indefinito il numero delle figure, e le combinazioni che di essi possono farsi,
d'onde le diversità delle lettere nelle diverse lingue: tratti g e nerali hanno
le idee, le parole, le figure. L'unione del pensiero col linguaggio, e di
questo colla scrit tura ha ilcentro e la base nello spirito, il quale,per il
movimento modificato delle leggi fisiche ed orga niche riceve leimpressioni
nellasuaunità,eda que sta riversa il prodotto e lo propaga al di fuori per
mezzo delle stesse leggi.Se le condizioni che formano l'elemento specificodellinguaggiofosserosemplificate
e ridotte a principi non sarebbe difficile la formazione di una lingua
universale. È bensi da osservare che la totalità dell'armonia della
costituzione del corpo umano, ed in essa la spe cialità degli organi che la compongono,
è modificata ed informata negli individui da talune cause esterne ed interne,
le quali, agendo sopra di esso potente mente e perennemente vi determinano un
tempera mento costante ilquale poi,come modifica di un modo speciale i
sentimenti e le idee,cosi modifica diversa mente il movimento degli organi
vocali nella produ zione delle intonazioni, le quali commiste ai suoni vocali
producono una diversa articolazione, e quindi la diversità delle parole che
significano presso diversi individui la stessa idea ed il medesimo oggetto.Qui
si trova la ragione del linguaggio diverso presso le diverse
nazioni,lequali,secondo lediverseposizioni e circostanze morali, politiche,
fisiche e topografiche, parlano diverso linguaggio come hanno diversi costu
mi.La nazione greca,che fucolta,civile e voluttuosa, parlava u n linguaggio
ornato, polito e splendido; R o ma,che parve nata a comandare,ebbe un linguag
gio nobile, robusto, magnifico. Le lingue che ebbero nascita da questa madre
portano tratti differenti non solo della loro madre, ma ancora fradi esse.La
spa gnuola porta il carattere di gravità, di pomposità e di alterezza: la
francese è vivace, spiritosa ed animata: l'italiana molle, gentile ed amena;
l'inglese sobria, sentenziosa e concisa:quelle delsettentrione aspre, Il
linguaggio convenzionale è uno dei più potenti mezzi che contribuiscono al
soddisfacimento di questi bisogni; e mentre il linguaggio si accresce per lo
svi luppo delle facoltà, tende a sempre più perfezionare le facoltà. Ma i segni
convenzionali,che compongono il linguaggio, non possono aversi senza i segni
natu rali;poichènonpuòdarsifragliuomini convenzione alcuna senza che prima
s'intendano, nè possono in tendersi senza i segni naturali, i quali sono a
tutti comuni, perchè prodotti spontaneamente dalla loro n a
tura,eperciòperquestituttigliuomini s'intendono; devono per tanto ammettersi
prima i segni naturali per iquali eglipo s'intendono,ed intendendosi sopra gli
stessi segni naturali fondano il linguaggio con venzionale, il quale è di
quelli una estensione. I segni naturali sono le grida, ed i gesti, i qua li
sono varii come lo sono le grida. Questi segni sono generalmente da tutti
intesi, perchè esprimono in tutti le medesime idee ed i medesimi sentimenti.
Che se al grido si unisce ilgesto, il segno di espres sione diviene più
indicativo e sicuro: infatti questo linguaggio siparla nella vivacità
dellepassioni,quando non ha luogo l'esercizio delle facoltà intellettive. Ora
dure ed austere.La lingua e l'eco del costume, come il costume lo è della
natura e carattere delle idee, le quali sono più o meno perfette, in maggiore o
m i nor numero secondo il maggiore o minor grado di sviluppo e di perfezionamento
delle facollà, ed il maggiore o minor numero dei bisogni che si suscitano
nell'uomo. se il gesto si unisce al grido, ed il movimento de'm u scoli
corporei al movimento de muscoli degli organi vocali per rendere più sicura ed
espressa la manife stazione dell'interno sentimento e della idea,non su
difficile mettere in movimento imuscoli degli organi della lingua de' denti e
delle labbra per rendere più completo e più perfetto il suono per la
manifestazione più esalta più commoda e più espressiva della idea, e surrogare
alle gesla le intonazioni che suppliscono alla loro imperfezione. Si osservi
infatti, quali sono le risorse della natura che ruole esprimere gli interni
sentimenti e le idee. Mentre il bambino ha soli sentimenti e non ha for mato
idee degli oggelli che lo modificano, egli si espri me per ilmezzo delle grida,
iquali diversamente m o difica secondo la diversità de'sentimenti che egli
prova; quando le sue facoltà cominciano a svilupparsi, ed a formare idee, egli
comincia a dare una certa preci sione alle sue gesta, ed insieme una certa
articola suoni vocalileintonazioni, le sue idee, sebbene noi, con che
intende esprimere non sono tura, e per e per opera della l'istinto della
imitazione na uso delle parole comincia a far non l'intendiamo convenzionali;
indi, perchè che ascolta, e che gesto diretto sopra, per il mezzo del attacca
l'oggetto presente al suo allo stesso oggetto sguardo, mente: tutto ciò succede
nel bambino. Questo natural procedimento naturale che si fa per gradi essere
pergradi perfetti imperfettinel bambino, dovelte ed istantanei nell'uomo primiero,ilqualenacqueadulto,colpienosviluppo
delle sue facoltà: egli conobbe i suoi poteri naturali, co nobbe la natura
degli oggetti che lo circondavano, ebbe nette e precise le sue idee, perciò fu
facilissimo per la manifestazione delle sue idee accoppiare le in
tonazionisempliciaisuoni vocaliancorasemplici,d'on de risultò la voce
articolala anche semplice,al prof ferimento della quale uni anche il gesto, e
fu c o m preso. Questa voce divenne il segno radicale che si attaccò alla
idea,ilquale per l'abitudine divenne per-, manente.Formata questa lingua
primitiva;divenne essa il tipo della formazione di tutte le altre. Quesla
teoriaèconformeaciòchesi legge nel Genesi cap.2, v. 19, 20. Formatis igitur,
Dominus Deus, de humo conctis animantibus terrae, et universis volatilibus
coeli, adduxiteaadAdam,utvideretquidvocaretea:omne enim quod vocavit Adam
animae viventis, ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta
animantia et universa volatilia coeli, et omnes bestias terrae. Cosi anch e
impose il nome ad Eva, haec vocabitur virago, perchè,quoniam deviro sumpta
est,e ciò perchè egli conobbe che ella era, os ex ossibus meis, et caro de
carne med. La Divinità in fine dovea dare l'ultimo complemento a tutti gli
elementi della sua opera, ed attualizzare tutti irapporti necessari fra questi
elementi.Ilprimo uomo adunque, come naturalmente provò sentimenti, come per
l'eserciziodellasua intelligenzalitrasformó in idee, come naturalmente per i
primi mise fuori suoni yocali, per la seconda produsse le intonazioni; così
dovette combinare le intonazioni colle vocali e produrre la parola articolata,
imagine e pittura della idea, allo stesso modo come trasformò in idea il sen
timento coll'esercizio delle facoltà della sua intelli genza. Questo lavoro delle
facoltà non fu che istan taneo nell'uomo che nacque sviluppato,ed istantaneo su
il linguaggio. Fu opera della Divinità l'esistenza, e la perfezione dell'uomo
primiero mediante la per fezione e lo sviluppo delle sue facoltà, cosi fu opera
della stessa Divinità l'esistenza del linguaggio m e diante l'esercizio degli
organi vocali dati all'uomo per questo fine. Fuvvi dunque nella lingua
primitiva la base posta dalla natura, e questa base devesi trovare in tutte le
lingue; fuvvi l'opera e l'esercizio delle facoltà, e questo sirinviene in tutte
lelingue;ilprimo elemento è in variabile,esitrasfonde da
generazioneingenerazione senza mutamento o alterazione; il secondo è varia
bile,e cangia coi tempi, secondo i climi, i bisogni, il genere di vita, ed il
progresso dei lumi, ed esso è la causa della moltiplicità delle lingue e della
loro varietà. Dietro tali considerazioni chiaramente si scorge, che il
linguaggio articolato è il segno in fatto della grande differenza che distingue
l'uomo da tutti gli altri viventi, a cui mancano le intonazioni, perchè manca
l'esercizio libero delle facollà della intelligenza, e mancano in conseguenza
la precisione e la perfe zione delle idee,e sono perciò limitati ai semplici
suoni vocali, perchè limitati alle sole sensazioni. Nell'uomo però
in cui sonvi non solo le sensazioni, ma ancora interviene l'esercizio libero
delle facoltà, sonyi e le vocali,e le intonazioni,e la combinazione,ed il con
certo delle une e delle altre, per la espressione delle idee.Ibruti naturalmente,peresprimereleloro
sen sazioni, si servono de'suoni vocali diversamente m o dificati ed espressi,
e tale espressione è intesa dagli individui della stessa specie. Non potrebbe
l'uomo anche fare lo stesso,essendovi in esso gli stessi a p parecchi e le
stesse condizioni? certamente che si, ma l'uomo ha pure idee, ed h a il mezzo
onde esprimerl, cioè le intonazioni; chi impedisce d'impiegarle e c o m binarle
per la espressione delle idee come per le vo caliesprimeisentimenti.Era
forsedifficileilframet tere le intonazioni necessarie alle vocali spontanee?
come non era e non è difficile il combinare il sen timento coll'esercizio delle
sue facoltà ed averne in risultato l'idea, cosi non gli fu difficile combinare
e modificare le vocali necessarie all'espressione del sen timento colle
intonazioni,che potevano contornarle e. precisarle alla esatta pittura della
idea. Si forma un nuovooggetto,unamacchina,p.e.mancailnome, l'espressione; che
sifa, si combinano due o più ter mini che esprimono gli elementi, e se ne forma
un solo.Questo esempio èsensibile,ma infinitiesempi simili si osservano,
sebbene poco considerati in tutte le lingue come nella greca, nella latina ed
in tutte le altre; come dunque in tutte le lingue per l’unione delle voci
radicalisiformarono le derivate;cosi nella lingua primitiva dalla unione delle
vocali e delle intonazioni analoghe si formarono le radicali. Ma come avrebbero
potuto trattenersi a memoria tante voci? come si trattengono a memoria ed
ilvocabolo nuova mente composto, e le voci derivate. L'oggetto che è
presenteallo spirito, gli elementi ed i loro nomi particolari, che si
conservano nella memoria, sono il mezzo di ricordare il vocabolo nuovamente
coniato; cosi le vocali che esprimonoi sentimenti dell'animoiquali sono
presenti allo spirito, le intonazioni corrispon denti all'operazione delle
facoltà,che ancor è presente allo spirito, sono il mezzo di ricordare la voce i
m piegata alla espressione di quel sentimento precisato, di quella idea; si
risovvenga che il linguaggio pri mitivo, per ipochissimi bisogni dell'uomo,per
ipochi rapporti cogli altri uomini, non si componeva che delle sole radicali, e
che le voci composte comincia rono ad accrescersi secondo crescevano e
s'intreccia vano ibisogni ed irapporti. Quindiper dimenticare il suono, che era
un prodotto naturale, bisognava di menticare l'idea;ciò che succede ad ogn'uomo
oggi. giorno. S'aggiunga a ciò, che quanto èpiù forle l'impres sione, quanto è
più vivo il sentimento, tanto è più energicà e pronunziata l'espressione ed il
suono vo cale; quanto più marcata è l'azione dello spirito sul sentimento,tantoèpiùdecisa
l'espressione delle in tonazioniedelleconsonanti,equantoèpiù interes sante e
distinta l'idea, tanto più viva è l'espressione e la parola. Ciò è chiaro e ne
' selvaggi, ed in tutti coloro che sono nell'impegno di trasmettere colle parole
le loro idee ardenti e staccale. La parola è la pit tura e l'immagine della
idea; l'idea è l'immagine dell'oggelto e l'espressione dello spirito; l'oggetto
e lo spirito sono l'espressione dell'assoluto; tanto è chiaro a sé lo spirito,e
tanto luminoso allo spirito l'ogget to, quant'è il grado di luce che comunica
l'assoluto allo spirito ed all'oggello: tanto è vivo il sentimento e distinta
l'idea, quanto è più chiaro a sé lo spirito e luminoso allo spirito l'oggello;
tanto forte è il suono vocale,ed energica l'intonazione, e precisa la parola
quanto più vivo è il sentimento e distinta l'idea. I sentimenti dell'uomo
primiero, che nacque adulto e non bambino, e tale dovea nascere, i prodotti del
l'azione degli oggetti esterni, la percezione del pro prio spirito,ed indi le
sue idee furono vivissimi, di stintissimi, ed al massimo grado di precisione,
tanto per la novità,quanto pel grado di luce, che la Divinità diffuse e nello
spirito dell'uomo di recente for mato e nella natura, che la prima volta espose
al suo sguardo; perciò forte, marcalo,ed espressivo dovette essere,ma
semplice,econcisoilsuolinguaggio,ciò si rende chiaro dalle indole della stessa
lingua, la quale,a giudizio de'più dotti filologi,può conside rarsi come
l'esemplare di tutte le altre: Schlegel in fatti la chiama la più sublime e la
più energica, e per la sua vibrata concisione, e per le vive e frequenti
aspirazioni delle voci, e lo stesso Audisio la dice di vina.Questa è la lingua
ebraica, la quale fu parlata da Adamo e Gli elementi dunque del linguaggio,
che formano il suo tipo originale,furono tutti dati all'uomo dalla natura, e
l'uomo,che trovò in se preparati e pronti questi ele menti, non fece altro che
metterli in opera, ed ebbe immediatamente il prodotto. Per questo tipo il lin
guaggio è mezzo di comunicazione e centro di rap porti fra tutti gli uomini;
perchè in tutti questo tipo è identico,tutti comunicano e fra loro s'intendono,
restando sempre separati per l'arbitrario: infatti il tipo naturale delle
lingue è insegnato es'impara dalla ragione, perchè in tutti gli uomini ella è
uguale e la stessa:e perchè tale, è in tutti gli uomini centro di unità e
condizione identica di comunicazione,per il mezzo degli apparecchi vocali, che
sono uguali e gli stessi in tutti; laddove l'arbitrario s'apprende per l'uso e
per abitudine, perchè introdotto dall'uso e dall'abitudine. Tuttociò come da
lume,e ci rende facilelaco noscenza della natura del linguaggio,cosi riceverà m
a g dai suoi discendenti, ed ebbe questo nome da Eber nella famiglia del quale
si conservò dietro la confusione delle lingue. Ciò fa conoscere l'errore che si
commelle nell'apprendimento delle lingue specialmente antiche,pel quale si
daono tante svariate e moltiplici regole e precetti di che si compongono le
grammatiche specialmente moderne, le quali, gravando la mente non fanno ap
prendere con facilità e perfezione la lingua. In qualunque lingua devesi
imparare colla ragione,cioè colle regole,ciò che è opera della natura e della
ragione, vale a dire,ilfondamento della lingua: la costruzione
perd,ilgenio,iterminidellalingua,leloro inflessioni, e la sua eleganza, essendo
un prodotto dello sviluppo ed esercizie delle facoltà, debboosi imparare
coll'uso. Occupa nel linguaggio il primo luogo quella voce che esprime
l'oggetto dell'idea che o è principio di azione o ne è il termine, o pure
qualche proprietà del medesimo oggetto; questa voce è stata detta nome; che
217 gior luce, e sarà confermato dall'analisi che ne fa remo. Il
linguaggio è un fatto il più noto ed il più generale;analizzandoquestofattosiconoscerà
distin tamente ciò che vi ha posto la natura, e ciò che vi è introdotto dalla
volontàdegli uomini. Tuttigliuo mini sono dotati di sensi pei quali ricevono
impres sioni dagli oggetti esterni e provano sensazioni; tutti hanno una
intelligenza dotata di facoltà, perlequali e possono trasformare i sentimenti
in idee, parago narle, e formare giudizi sopra le idee e gli oggetti
corrispondenti,e preparare in un giudizio la maleria di un altro,e da ciò che
ha conosciuto avanzarsi ad ulteriori conoscenze. Tutti possono cacciar fuori
una massa d'ariadaipulmoni,emettereinazioneglialtri organi vocali che servono a
modificarla, e come non per propria industria ha avuto l'uomo queste facoltà,
cosi non perpropria arte ha conseguito di poter par lare. Infatti prima di
formarsi o la grammatica, o la logica, ciascuna nazione ha ricevuto dalla
natura l'uso della favella e gli elementi necessari e presso tutti si
mili.Chiunquevuoleesprimerelesueidee,emani festare gl’interni giudizi in
qualunque siasiluogo,in qualunque lempo,di tante parti naturalmente fa uso,
quante sono necessarie ad esprimere le idee, ed i giu dizi con tutte le
circostanze, le particolarità, e la gra dazione di colorito e di luce. se
esprime l'oggetto si dice sostantivo, se indica la proprietà si chiama
aggettivo, se però si considerano in astratto, e come separate dai loro
soggetti, rien trano nella classe de'sostantivi come bianchezza, tar
ghezza,solidità,ecc.È però da riflettere,chegliog getticheagiscono
sopraisensi,edicuilospiritopuò formarsi idee sono di un numero incalcolabile;ildare
ad ognuno di essi un nome sarebbe stata una impresa non che difficilissima, ma
si bene impossibile;l'uomo ha superato tale difficoltà,con applicare lo stesso
nome a tutti quegli oggetti che presentano le medesime pro prietà; si è dato il
nome di albero a ciò che hanno d'identico quegli oggelti che sorgono da una
radice, che son nutriti dalla terra, che hanno tronco, rami, foglie ecc.,
quindi tutti i nomi esprimono idee gene rali di classe, di genere,dispecie,tranne
quei nomi che disegnano un solo individuo come Pietro, Paolo ecc., i quali si
dicono nomi propri a differenza dei primi che si chiamano appellativi. Ma
dicendosialbero,uomo,nonsisaprebbediqual albero,di qual uomo volesse
parlarsi;la natura ha suggerito un altro mezzo onde togliersi questa per
plessità, qual'è ilpronome, il quale è una parola che rappresenta
determinatamente il nome dell'oggetto, ed ha nello stesso tempo il vantaggio di
escludere le frequenti ripetizioni dello stesso nome.Il pronome ė anch'esso
generalissimo, potendosi applicare ad oggetti diversissimi e ad ognuno di essi
secondo le circo stanze.Indica in prima la persona che parla io;la persona a
cui si parla, tu; e quella di cui si parla quello, questo, colui ecc.;
attribuisce ancora la pro prietà alla cosa designata, come tuo, nostro; indica
similmente le relazioni degli oggetti con altri di cui si:forma giudizio, come,
il quale, le quali,e nota in fine la presenza, la vicinanza o la lontananza
dell'oggetto designato, come questo, quello, colui. Vi sono altre circostanze
ed altre relazioni che pos sono avere gli oggetti, e che il linguaggio con
precisione esprime; quindi il nome tanto sostantivo c h e aggettivo ha numeri,
generi, e casi. Il numero indica se l’oggetto è uno, o più di uno; il genere
propriamente determina i sessi, o l'analogia che hanno coi sessi; i casi
esprimono le diverse relazioni che un oggetto ha con altri, designate con certe
particelle che si premettono ai nomi,tali sono isegnacasi come il, del, al ecc.
come nelle lingue moderne;o da certe infles sioninellesillabefinalidello
stessonome,comepater, patris,patriecc.,yxws,4x8,qxw ecc.,nellelingue an tiche
per la più parte. Il nominativo indica o semplicemente la cosa che è, o pure
che agisce. Il genitivo esprime il possessore; il dativo la persona o la cosa a
cui si reca utile,danno,o qualunque altra attribuzione; l'accusativo la cosa su
cui passa o cade l'azione; il vocativo mostra l'oggetto a cui si diri gono le
parole; l'ablativo finalmente che si trova in molte lingue, serve ad esprimere
tutte quelle altre p o sizioni che non si potevano commodamente espressare
cogli altri casi. Un oggetto può solamente esistere,può essere in azione, e può
ricevere in sè l'azione di un altro; era perciò necessaria una voce che
esprimesse questi stali;questa voce è detta particolarmente verbo, il quale
esprime ciò che è di più essenziale nel discorso, cioè o l'esistenza, o
l'azione, o la passione coi progressi del tempo, e le circostanze delle cose, e
contiene in sè un completo giudizio intorno alla natura delle cose
medesime.Essoindicailtempo dell'esistenza,del l'azione e della passione e le
sue gradazioni, cioè il presente,ilpassatoel'avvenire;ammette anche imodi,
l'indicativo che esprime lacosa assolutamente; l'imperativo che chiede o
comanda, il soggiuntivo che esprime il giudizio sotto la condizione o la
subordinazione di qualche cosa a cui si riferisce. Esso finalmente ha numeri e
persone. È prossimol'avverbiochesiuniscetantoainomi quanto ai verbi, e serve a
determinare il particolar luogo,modo,e grado o ad una cosa,oall'esistenza, o
all'azione, o alla passione; esso ha una vastissima estensione sul riguardo che
può modificare le circo stanze della cosa o esistente o in azione,ed è una
maniera abbreviata di espressione come hic qui vale in questo luogo ecc. Il
verbo in ogni lingua genera un'altra voce, che vien detto participio, in quanto
serba la significazione del verbo da cui ha origine, ed acquista insieme la
forma del nome,con che un giudizio viene incluso in un altro, e richiama con un
sol segno alla m e moriaciòcheèstatodetto,osisuppone conosciuto, con designare
nello stesso mentre la persona, il n u mero, l'azione ed il tempo,come amans
amante, co luicheama,amava,oamando. Sebbene sembra che queste parti
avessero potuto bastare ad esprimere inostri pensieri, purnondimeno affinchè il
linguaggio riuscisse a copiare perfettamente i nostri interni sentimenti con
supplire all'espressione degli accidenti e de'siti lasciati e non indicati
dalle parti antecedenti, si sono aggiunte altre voci di gran dissimo uso,che si
dicono preposizioni come super so pra, circum intorno; alcune altre che
servissero a se parare o a congiungere le idee secondo il bisogno, tali sono le
congiuntive e le disgiuntive come et e, aut o,ecc. Altreinfine,chesebbenenon
abbiano segnatamente attaccata alcuna idea,indicano però i movimenti del nostro
animo, che le facoltà non hanno potuto, a causa della loro istantaneità
analizzare e sviluppare in idee, e che possono considerarsi come l'espressioni
naturali dell'uomo affetto di dolore o di piacere, o di qualunque altra forte e
subitanea affezione heu, oimè ecc.Quindi colla frequente ricorrenza, e colla
combinazione di otto voci riusciamo ad immettere nel l'animo altrui le nostre
idee, i nostri giudizi, e le nostre affezioni con tutte le loro particolarità,
cioè l'oggetto del nostropensiero,lesue proprietà,igradi delle medesime
proprietà,tuttigliaggiunti, l'esisten za, l'azione, la passione con i loro rispetlivi
tempi, modi e numero degli agenti o pazienti; gli ordini delle cose adiacenti
nella natura, la loro successione nell'animo, il graduato calore degli
affetti.Di queste parti alcune sono invariabili e sempre le stesse nella loro
espressione; altre sono soggette a certi cambia menti, tuttavia
però nello stesso cambiamento serbano una certa costanza, la quale forma il
principio e la natura della grammatica delle lingue. Tutte queste parti,che
devono riguardarsi come il fondamento del linguaggio, si trovano in tutte le
lingue si antiche che moderne;in esse si scorge l'o pera della natura sempre
stabile e costante in mezzo alle incalcolabili varietà che subiscono le lingue;tutto
ciò che cangia è opera dell'uomo, ciò che è costante èl'effettodiuna causa superiore,laqualecomeman
tiene costantemente nell'uomo gli organi e le facoltà, conserva egualmente le
parti essenziali del linguaggio. Non è però lo stesso nelle lingue ciò che è
opera del l’uomo; questa viene modificata da varie circostanze, tali sono il genere
di vita, i temperamenti diversi, la religione, il costume, la temperatura
dell'aere, la qualità de' luoghi, le gradazioni di sviluppo e tante
altre,che,come influiscono sopra la maniera di pen sare, influiscono nella
maniera di esprimersi, da ciò ladiversitàdellelingue.Sidissepiùsopra cheisuoni
vocali sono l'espressione della sensibilità,e le into nazioni,e i consonanti il
prodotto delle facoltà dello spirito; la sensibilità ed i prodotti diessa sono
quasi simili in tutti gli uomini, perchè in tutti esistono gli stessi
sensietutti sono capaci di piacereedidolore; iprodotti però delle facoltà
libere dello spirito variano esimodificano diversamenteintuttigliuomini;onde è
che possono darsi alla stessa voce varie intonazioni, cioè possono i suoni
vocali essere combinati con di verse e varie intonazioni, d'onde risulta la
diversità delle voci articolate e la moltiplicità delle parole. Ma la
stessa temperatura dell'aria, la medesima educa zione, la religione, lo stesso
suolo, i medesimi co stumi come influiscono nell'esercizio e sviluppo delle
facoltà,influiscono cosi nello stesso modo d'intonare, perciò la stessa lingua
presso lo stesso popolo,ed in questo più o meno perfetta, più o meno
elegante,più o meno estesa a seconda lo sviluppo e la collura degli individui
dello stesso popolo,della medesima nazione. Oltrediqueste cagioni
intrinseche,avvene un'altra estrinseca che produce la varietà delle lingue,
vale a dire la mistione di altre lingue, e da questa mistione hanno origine
altre lingue che sorgono nuove. Tale sappiamo l'origine di tutte quelle lingue,
e di quei popoli fin dove si estende l'istruzione dataci dalla sto ria, e con
particolarità di quelle a noi più vicine e le piùfamose,come
lagreca,elalatina;tanto l'una che l'altraebbero originefraipiratiemasnadieri,ecreb
berosottoibarbari. i Fenici, i Frigi, i Macedoni, gli Illirici, i Galati, gli
Sciti,e l'eventuale concorso degli errabondi, e degli esuli diedero origine
alla greca nazione,e furono i primi legislatoridella lingua.Gli Umbri, i Galli,
gli Etruschi, i Sabini, i Campani, i Sanniti diedero origine alla LOQUELA DEL
LAZIO O LATINA, ognuno de' quali da parte sua,introducendoi propri
termini,elapro pria maniera d'inflettere, concorse alla formazione di una nuova
lingua non prima parlata, che fu il pro dotto di vari e diversi dialetti, quale
indi,le vicende delle nazioni,ilprogresso nelle arti,nellescienze,e nella
civilizzazione portarono a quello stato di perfe zione che tanto in esse
ammiriamo. L'opera dell'uomo non è mai stabile,come l'uomo stesso; ha
egli la sua nascita, la puerizia, l'adolo scenza,lavirilità,la
decrepitezza,efinalmente muore per rinascere la materia sua corporea sotto di
altre forme; cosi è delle lingue: infatti dalla Greca nacquero altre lingue;e
di sotto le rovine dell'impero e della lingua del Lazio sorsero l'italiana, la
francese, e la spagnuola.Ma perquantigradivisipervenne?quante mutazioni,e
quante vicissitudini non bisognarono su bire prima di arrivare al grado di
perfezione in cui sonoalpresente?Variecauseviconcorseroesicom binarono; gli
improvisi eventi degli affari politici, il sito, l'amenità de' luoghi,
l'asprezza delle contrade, l'aspetto più o meno ridente di un altro cielo,la
lem peratura diversa dell'aria, lalontananzaolavicinanza de'mari,delle
selve,de'monti, la diversa indole degli uomini che si unirono, le forme diverse
di governo e di religione, la coltura delle arti, e delle scienze, egualmente
che i vari dialetti che si resero familiari per lafrequenza de'negozi diedero
all'antico linguag gio forme affatto diverse. Cacciati gli Ismaeliti da
tutta l'Europa,ove aveano per qualchetempofattodimora,restòl'articoloarabo,
checominciòaprefiggersiainomi;quindinonsicu rarono le desinenze de'suoni
finali, l'introduzione di questo articolo fu la cagione primaria del mutamento
dellalingua liberaepittricedelLazio nellelinguem o derne servili. Abbandonando
gli Arabi la Gallia m e ridionale, la Spagna, le coste di Salerno e della
Italia meridionale, lasciarono tuttavia la desinenza de'versi
puerile,senon vogliam dire,sonante.Non possiam però negare che dobbiamo
loro le brevissime note dei numeri, i calcoli algebrici, vari nomi di
astronomia e stromenti di gnomonica, con alcune notizie di bo tanica e di
medicina. Vari nomi di fioried erbe, in cogniti ai nostri, furono recati
dall'oriente dai cro cigeri; intanto le arti e le scienze che 'mano mano
siavanzavano,lenuove scoperlechesifacevano,ap portavano nuovi soccorsi e nuovi
nomi alle lingue. Varie maniere di costruire addussero prre gli inglesi ed i
francesi nell'italiano linguaggio,e varie pure di
questoneintrodusseronelloro;cosisiaggiunse sem pre novità a novità, varie leggi
di costruire, diverse maniere d'inflettere, originate in prima dalla negli
genza della pronunzia, anche molto spesso tronca vansi non che le lettere, ma
ben anco le intere sillabe: dal che ne avvenne che gli uomini domiciliati nello
stesso suolo, degenti sotto lo stesso cielo,e sotto la stessa forma di governo
cominciarono per effetto d'imitazione a adottare comunemente tal forma di
pronunziare,checoll'andardeltempo divenneunuso, una legge. La natura ha sempre
prodotto degli uomini di genio, i quali e per la finezza del giudizio, e per la
vivacità della immaginazione si sollevarono sopra degli altri; ciò che dal
volgo era enunciato di una maniera bassa e triviale, da quelli profferivasi con
scelta, con dignità ed eleganza;furonoessiimitati perchè piace vano, e cosi
discesero e si propagarono nel volgo le maniere più dignitose e più culte di
espressioni, gli ornamenti della lingua cominciarono a mostrarsi in tutto
il loro splendore; si cercò d'imitare ipoeti, gli oratori, e si seguirono ne'
loro vari stili. Questa fatica e questo diletto che prima s'ignorava in mezzo
al fragore ed allo strepito delle armi, e fra gli in commodi de viaggi e delle
emigrazioni, cominciò a seguirsi, a perfezionarsi dai filosofi nel libero ozio
delle lettere, nel calmo silenzio della meditazione, nella tranquilla diligenza
di scrivere. Cosi il linguaggio dapprima rozzo ed incolto per la tanta
confluenza delle discordi locuzioni, cominciò a tingersi dello stesso colore,a
vestirsi della stessa for ma,amostrarsiunasolalingua,chesottolalima degli
uomini di genio e degli eruditi apparve finita e perfetta; ove isuoni
sembravano aspri,furono con sultate le orecchie, si adottarono sillabe più
scorre voli e sonanti; ciò che pareva meno adatto ad espri mere una cosa si
corresse e si rese più preciso. Da ciò chiaro appare che ogni lingua ha le sue
parti essenziali esprimenti le idee ed i giudizi del nostro spirito, cioè i
suoni articolati secondo idiversi offici che ognuna,nella espressione de'nostri
pensieri,deve adempiere,edinciòconsisteilfondamento della lin gua che è opera
della natura. Avvi un modo parti colare di costruzione e di combinazione di
queste parti, una diversità di suoni e d'inflessioni che costituisce la
differenza delle lingue, ed il diverso loro genio, e ciò dipende dall'opera
degli uomini e dalle circostanze nelle quali si trovano.Ha finalmente ciascuna
lingua de celebri scrittori,de'grandi parlatori,che altri Il primo
carattere della lingua, cioè il fondamento, forma l'oggettodioccupazione della
filosofia,laquale ricerca ciò che avvi di naturale nelle lingue; il se condo
appartiene ai grammalici, che si occupano delle forme e della proprietà delle
stesselingue; il terzo si tratta dai retori che ne considerano l'eleganza, lo
stile e gli ornamenti. La prima svolge gli elementi naturali e sempre costanti
del linguaggio,la loro unione relativa all'ordine, alla successione, ai
tempi,ed alle circostanze delle idee e de' pensieri che si succedono nel nostro
spirito, ed a questo riguardo illinguaggio è una pittura fedele delle nostre
idee;questi elementi, che sogliono chiamarsi parti del discorso,si ritrovano
identici in ogni lingua.La seconda riguarda la varia desinenza de' suoni, la
loro inflessione, il modo di verso di costruire i medesimi suoni; questa varia
se condo le diverse lingue, o piuttosto forma la varietà delle lingue, perchè
essa è opera dell'uomo non mica della natura. La terza rintraccia l'ornamento
delle lingue,l'uso dellefigure,ele maniere vezzose,eper cosi dire voluttuose
delle medesime; essa è il risul tato della coltura e del genio.
6.Eglièverocheunuomo,ilqualeèdotatodi organi sani che funzionano normalmente,e
di un'anima ragionevole, può formarsi idee degli oggetti che agi scono
sopraimedesimi organi,puòimprimereleidee nella memoria, può richiamarle quando
l'esige il bi 227 proccurano e si studiano d'imitare; in essi trovasi e
deve ricercarsilaproprietàdellalingua,perchèessila recarono allo stato di perfezione
e di pulitezza. sogno,può riflettereedastrarre,tuttaviasenzaillin guaggio
la nostra condizione sarebbe troppo degradata; e quantunque i bisogni comuni ed
i vantaggi della vita avvicinassero gli uomini e li mantenessero fra loro uniti,
purnondimeno, senza la facoltà di manifestarci scambievolmente gli interni
sentimenti e le idee, le società reslerebbero stazionarie'ó molto imperfette.
Potrebbero i gesti in certo modo esserci utili,essendo l'espressione energica
della natura:ma di qual aiuto sarebbero in distanza o nelle tenebre? come
potreb bero indicare le cose passate ed a lungo intervallo da noi? in qual
maniera esprimerebbero tante varie m o dificazioni si dell'animo nostro, quanto
degli esseri fuori di noi con tutte le gradazioni delle varie loro tinte e
colori, con quella esattezza e precisione con cui sono espressedaisuoni
articolati?igestinon po trebbero mai indicare inostri interni sentimenti,iloro
gradi d'intensità, e certe oscure e delicate affezioni di cui l'animo è affetto.
È opera del linguaggio ar ticolato il delineare e pingere con esattezza,con
precisione e nella sua totale adequatezza tutto ciò che sentiamo,che
sperimentiamo e che vogliamo trasmet tere nell'altrui animo;esso analizza e
scompone nelle sue parti i sentimenti, e dà ad ognuna di esse un segno
preciso.Egli è vero che noi possiamo avere idee sensibilideglioggetti
esterni,elepossiamo trattenere a memoria senza l'uso de' segni, che anzi non
può prodursi un segno prima di averne formato l'idea che deve attacarsi a
questo segno.Ma tante idee sono di tal carattere, che tosto formate
sparirebbero senza al taccarle al segno che le rende permanenti, e noi sa
remmo nella dura fatica di sempre formarle di nuovo,
talisonoperlapiùparteleideecomplesse necessarie, intellettuali, e tutte le
nozioni astralte di virtù,vizio, giustizia, bellezza, deformità, differenza,
uguaglianza. Senza l'uso delle parole le scienze non avrebbero p o tulo avere
esistenza;poichè non avvi scienza pura mente empirica,cioè,che non abbia principi
generali: l'individuale,essendo mutabile,non avendo necessità, non può esser
base e fondamento di scienza; or le nozionigenerali,iprincipi necessari non
avrebbero potuto aver permanenza nello spirito senza i segni; i segni li
rendono stabili e pronti all'uso,ed isegni hanno servito d'occasione alla loro
formazione, a tanti ritrovati,a tante ricerche:leparoleperchè?come? onde?da
chi?quando?essenza,relazione,causa,at tributo sono fonti fecondi onde lo
spirito possa met tersi in movimento e scoprire delle nuove vedute. Tutte le
scienze sono nate,si sono accresciute ed hanno acquistato quel grado di
estensioneediperfezione in cui le troviamo per aver ricercato ilperchè ed
ilcome di un effetto, e tutti i passi e le idee, cominciando dal perchè e dal
come sino all'ultimo risultato,sono state segnate dalle parole e
permanentemente registrate nel linguaggio. Tante riflessioni potrebbero addursi
intorno all'in fluenza del linguaggio sopra le idee ed il perfeziona mento
delle nostre facoltà; ma non volendo esagerare nė deprimere i vantaggi dello
stesso linguaggio ci li mitiamo a ciò che è della massima
importanza. Quasi tutte le operazioni riflesse del nostro spirito
sonocomplesseerisultanodavarielementi;ma questi elementi sono cosi connessi
nella unità del sentimento, che sembranoessereunsoloesempliceelemento;vero è
che l'altività dell'analisi,penetrando nel seno dello stesso sentimento,ne
distingue glielementi confusi;ma questa distinzionenon sarebbe
permanente,durevole, e lucida senza il linguaggio e le parole, ognuna delle
quali disegna ciascuno degli elementi distinti,non che i rapporti che si
scovrono fra essi elementi. Un sol fatto sembra la sensazione, il giudizio, il
raziocinio: l'analisi li decompone, ed il linguaggio nola e dise gna ciascuna
parte della decomposizione, e presenta successivamente e distintamente il
tutto;onde volen dosi replicare e riconoscere l'operazione, basta repli care e
ripetere le parole. Il linguaggio in generale deve considerarsi come il più
possente aiuto della memoria, anzi esso costituisce una memoria artificiale. In
vero, lo sviluppo e la coltura dell'uomo non con siste precisamente nella
prontezza ed esaltezza del giu dicare, nella sola faciltà di ragionare,ma nella
pron tezza di aver nuovamente le idee, le operazioni pas sate che possono servire
al bisogno presente;per ri produrre con prontezza le idee è necessario che fos
sero nette e scolpite, e tali si rendono per il linguag
gio;illinguaggio,agevolando lamemoria,contribuisce moltissimo allo sviluppo ed
alla coltura dell'uomo; infatti sono in ragione direttalacivilizzazionede'po
poli, e la perfezione del linguaggio. Le paroledelle quali si compone
illinguaggio non sono che suoni articolati: esse per questo riguardo sono
oggetto proprio ad agire sopra il senso dell'u dito, e produrre modificazioni
ed idee nello spirito, i suoni articolati considerati in se stessi nulla espri
mono, sollanto producono sensazioni, modificano a loro modo lo spirito, e tante
sono le modificazioni quanti sono i suoni articolati che agiscono sopra l'u
dito: di tutte queste modificazioni e di queste idee lo spirito ne ha
coscienza, e ne ha memoria.Noi sap piamo che l'esperienza diviene più
tenace,più solida, più infallibile quando è comparata: infatti acquistiamo le
idee precise ed esatte delle distanze, quando si c o m bina l'esperienza della
vista con quella del tatto. Or ogni idea di qualunque natura ella sia, a
qualunque classe essa appartenga è una esperienza, è un sentimento distinto che
si deposita nella memoria;intanto questa idea,questa interna esperienza non
riceve l’ul tima perfezione, l'ultima mano d'opera, siccome non si figge nella
memoria onde possa a piacere richia marsi, che allorquando si combina colla
esperienza dell'udito, colsuono articolato,quando all'idea, che abbiamo
attualmente nello spirito e nella coscienza, si attacca la modificazione che
produce il suono articolato; questo suono tanto per essere giudicato iden tico
alla idea a cui si attacca, quanto per essere si multaneamente presente allo
spirito, diviene rappre sentativo dell'idea,come l'idealodiviene del suono, e
fa sì che l'idea sia compresa tulta e ristretta dentro la capacità e la
periferia del suono,ed acquista m a g giore sensibilità per la sensibilità del
suono in cui è ristretta ed a cui è attaccata, e cosi riceve
l'ultimo contornamento, l'ultima precisione e finitura. Cosi le parole
cielo,mare,monte,temperanza,giustizia ecc. Questo vantaggio è comune a tutte le
idee ed in questo influisce più potentemente il linguaggio sopra le idee. Ciò è
chiaro non solo nelle idee sensibili, ma ancora nelle intellettuali, nelle necessarie,
siano sem plici,siano complesse,e con particolarità nelle idee de' numeri, e
nelle idee universali. Il numero non è che l'aggregato di molte unità omogenee;
esso si forma col ripetere ed aggiungere l'unità a sè stessa. Noi non possiamo,
sotto il m e desimo atto di conoscenza,abbracciare più di quattro ocinqueunità
insieme;ma illimitede'numeri non si arresta al quattro o al cinque, esso è
indefinito. Supponghiamo di avere coll'idea il termine dell'unità ed il segno
dell'addizione, cioè uno e più, e proce dendo progressivamente uno più uno più
uno più uno, ciascuna di queste addizioni, ed indi il numero che ne
risulterebbe sarebbe cosi confuso che noi non po tremmo affallo determinarlo,e
molto meno potremmo formarne idea onde poterla distinguere da un'altra; come
infattipotremmo senza isegni avere l'idea 2000 e distinguerla da 1999? in
questi numeri come ogni parola si affigge ad ogni passo della progressione,la parola
ne determina e precisa il numero e l'idea, e per mezzo de' segni noi
distinguiamo l'una dall'al tra, e le mettiamo in combinazione ed in rapporto,
ene formiamo la scienza; queste scienze dunque, la necessità e l'utile che ne
deriva si devono al linguaggio. Le ideegeneralinonhannoalcunmodellonellana
tura a cui corrispondano, ma sono il prodotto della azione dello spirito sopra
le idee individue. Noi non possiamo numerare tutti gli oggetti della natura,
che sono o possono essere in rapporto con noi, perchè non possiamo tutti colle
loro differenze e proprietà trattenerli nella memoria, e riprodurli
distintamente quando vogliamo, per la stessa ragione non possiamo dare ad
ognuno un nome proprio, essendo essi di un numero indefinito; questa impresa è
superiore alle nostre forze. Ma lo spirito dell'uomo, che ha nella sua
attivitàdellepotentirisorse,paragonandogliog getti, ed interponendo fra essi la
identica sua cogni zione, conosce ciò che l'uno è all'altro, e questi ad un
altro,ecosidiseguito,evedendolesomiglianzee le analogie da una parte, e le
differenze e dissomi glianze dall'altra, per effetto della sua identica ve duta
ed indivisa interposizione fra questi oggetti e le loro qualità, riunisce
quanto in essi trova d'identico, l'astrae da ciò che li diversifica, ne forma
una concezione di tal natura che tutti gli contiene e li rappresenta; tale
concezione non è che una veduta reale dellospirito,ma
chenonhaalcunarealtànellanatura; essa è più o meno estesa nellasua
compreensione, d'on de nascono le idee generali di specie, generi, classi,
ordini, famiglie. Or tali idee, non avendo originale nella natura, perchè
semplici vedute dello spirito,senza un segno che le rappresenta svanirebbero,
nè potreb bero aversipresenti al bisogno; laddove laparola rende permanente
l'idea generale, tutta, per cosi dire, la chjude nel suo ambito, e
rappresentando tutta l'idea generale, rappresenta tuttele idee identiche
contratle in un solo gruppo, ed identificate in una sola idea, a questo
riguardo ogni termine generale è l'espres sione concisa di un completo e
perfelto metodo; poiché contiene ed esprime confronti, giudizi, astrazioni e
maniere di generalizzare; e siccome il termine gene rale si considera come
unico e semplice in sè stesso, cosi circoscrive e fissa i limiti della
idea,eledà l'ul timo grado di precisione. Le parole adunque non solo associano
le idee in dividuali in un modo indipendente dall'ordine di acquisizione, onde
poterleconfaciltàrichiamare,ma sono ancora necessarie per fissare irapportide'con
fronti, i termini de' giudizi, per dividere gli oggelti della natura e le loro
proprietà, per astrarre, per g e neralizzare,e per rendere facile in fine le
scienze tutte. Ogni idea dunque ha bisogno di una parola che la rappresenti; se
è concreta per renderla indipendente dalla sua sensazione,e per tenere raccolte
in una m a niera permanente tutte le idee semplici di cui si compone, e per
richiamarla tosto alla memoria: se è astratta per tenere riunite in un solo
gruppo le idee astratte di cui è composta, e formarne un modello distinto e
durevole nella memoria. Il vantaggio però più generale e proprio del lin
guaggio si è quello, per cui tutti gli uomini mettono in comunicazione
tutteleloro idee,iloro sentimenti, ilorobisogni ed imutui soccorsi;poichè
essendo co muni i segni che l'indicano, ne segue che colui che ascolta
esegue le stesse operazioni interne di colui che parla,cioèeccitainsè,edunisce
successivamente nel suo spirito quelle idee che si sono eccitate successi
vamente in colui che parla,con questa sola differenza, che questi analizza il
proprio pensiero ed attacca ad ogni elementoun termine,laddovequello
sintesizza, riunendo cioè le idee con quell'ordine con cui ven gono
indicatedalleparole.Questo vantaggioperònon ha egualmente in tuttiilsuo pieno
effetto, perchè le parole presso tutti non hanno lo stesso grado di pro prietà,
di precisione e di analogia, quindi variano i modi d'intendersi come variano i
mezzi di comuni carsi. L'influenza del linguaggio su questo rapporto è di una
utilità indefinita,poichè,colla comunicazione delle idee e de sentimenti, lega
fra loro gli uomini, e consolidà le basi della umana società. Coltivato e
diretto dall'arte, applicato ai vari oggetti si trasforma e veste vario
stile;ma ciòmerita l'attenzionede're tori, e degli oratori. Sebbene
igeroglifici,lecifrealgebriche,isegni te legrafici, gli emblemi ed altri segni
convenzionali pos sano rappresentare le nostre idee,tuttavia il sistema de'
suoni articolati è da preferirsi a qualunque altro mezzo di espressione, tanto
per la facilità, pel numero, quanto perché può adattarsi a tutti i luoghi, a
tutti i tempi, ed a tutte le circostanze per la portentosa varietà
dell'articolazione ed inflessione de' suoni.La
scritturaèunaespressionedellinguaggiocome questo laèdelleidee;essaperciòèsempre
relativaedinra gione diretta del linguaggio, talchè la perfezione di quella
dipende dalla perfezione di questo; poiché,come
laparolarappresental'idea,lascrillurarappresenta le parole. l'autore non ebbe
più tempo a pubblicarla, sì che restò inedita con l'altro trattato teologico
su'sacramenti. La dottrina intanto di que st'altra opera che titolava Organo
dello scibile umano o Lo gica, scritta forse più che quindici anni fa, è sempre
con forme al sistema dell'autore, e benchè sembri non uscir dalle vie segnate
alla logica da Aristotile e dagli scolastici, trovi tuttavia nell'Introduzione
quanto oggi si richiede da un trat tato di logica che non voglia la nota di
logica formale, sic come si dice. La logica, vi è scritto, ha la sua derivazione
dal greco “lógos” che in latino si traduce “verbum,” cioè parola, discorso, perchè
essa nella sua essenza non è che l'atto vivo che prorompe dalla virtù
ragionevole « dello spirito umano, che colla sua unità abbraccia e trascorre
dalla potenza dalla quale emana all'obbietto che lo fa nascere; essa primamente
distingue ed unisce questi « due termini, i quali possono considerarsi come due
sil « labe fondamentali che connette l'atto logico, e risulta la parola feconda
è che senza dividersi in sè si protende, abbraccia, e s'interpone fra tutti gli
esseri che esistono e « che possono esistere; ne conosce i rapporti e le
relazioni, li distingue e li riunisce in un sistema vastissimo e comprensivo.
Questa forza logica ripassa sopra la fecondità a dell'atto creatore e
conservatore della Causa prima, il quale senza scindersi produce la immensa
varietà degli esseri e li coordina in un sistema portentoso; lo riflette e lo
riverbera in sè, e per le relazioni che tra essi scorge li rias ime in unico
sistema cosmico. Questa forza che si annunzia nella parola vivente ed operosa,
con la penetrante Questo m s. porta il titolo: Elementi di Filosofia
fondamentale. Organodelloscibileumano,oLogicadelP.BenedettoD'Acquisto da Mon
reale professore di Diritto Naturale e di Etica nella R. Università degli studj
di Palermo.Consta di quaderni 6,tutto di mano dell'autore,e disposto per la
stampa: oggi è presso i fratelli Matteo e Filippo L o rico di Monreale,nipoti
del D'Acquisto,insieme all'altro ms. su’Sacramenti, di carte, e contenente 18
capitoli. sua luce scorta e dirige le operazioni delle altre facoltà dello
spirito al trovamento del vero che è l'obbietto natu « rale della intelligenza
dello spirito; e trovatolo dà il modo onde poterlo convenientemente mostrarlo
agli altri ». Così il nostro filosofo dà a fondamento della logica formale una
logica che oggi è detta reale, e all'arte logicale prepone la scienza del
pensiero.Ilquale appunto secondo che congiunge diversi estremi piglia
nell'esercizio logico diversi stati o gradi progressivi come son detti
dall'autore. Chè, « il primo grado « si trova, ci dice il nostro, nella nascita
dell'atto logico e « nel primo è radicale, nel quale esiste la potenza,
l'oggetto e l'atto, il quale separando nel primo istante la potenza «
dall'oggetto, congiunge indi l'uno all'altra ed emerge l'è, a prima parola
logica che esprime la nascita dell'individuo « umano; il quale è ciò ch'egli
è,ma sebbene è ciò che è, non dice però sono; allora dice sono, quando intende
il SIGNIFICATO (SEGNATO) della parola vivente è: e ciò succede in virtù del «
secondo atto, il quale comprende ed abbraccia il primo, che coll'interporsi
distingue la potenza e l'oggetto contenuti « cell’atto,e dice sono;ciò che
costituisce il secondo sviluppo « logico; il quale forma il piano generale in
cui la potenza « conoscendo ed affermando sè stessa, conosce in sè ed af «
ferma tutte le modificazioni ed in esse tutti gli oggetti m o « dificanti,
pe'quali la potenza si manifesta in diverse guise. « L'atto logico adunque s'interpone
tra le sostanze degli oggetti, le distingue e le congiunge, ed il risultato è l'idea
generale dell' essere; terzosviluppo. L'atto logicos'interpone tra l’essere ed
il suo modo, li distingue e li congiunge; ed il resultato è l'oggetto qualificato.
L'atto logico s'interpone tra la qualità di un oggetto e quella di un altro, le
di stingue e le congiunge, ed il resultato è l'idea specifica « della qualità.
L'atto logico s'interpone tra l'azione di un essere e quella di un altro, le
distingue e le congiunge, e il resultato è l'idea di causalità.Infine, l'atto
logico s'interpone tra tutti questi resultati dello sviluppo graduato dello
stesso atto logico,ed il resultato è l'idea comprensiva del sistema. L'alto
logico adunque ha una capacità univer- « sale ed una forza comprensiva che si
estende ed abbraccia tuttociò che è. L'atto di ogni facoltà si limita alla
individualità; l'atto logico trapassa la individualità, e si eleva alla massima
generalità. Ho voluto riferire, o Signori, questo lungo passo, si perchè è già
di un'opera inedita, e sì perchè si abbia come il nostro appuntava nelle
altissime ra gioni della scienza quella che comunemente si crede non e s sere
che solo disciplina pratica, e spesso vanamente sottile, del discorso umano. È
sempre, intanto, la stessa dottrina che va ripetuta per più capi, e che si ha
spiegata poi in tutta la sua sintesi stupenda nel Sistema della Scienza
Universale. Nella quale opera il D'Acquisto ha lasciato un bel monumento,come
al trove ebbi a dire, della filosofia in Sicilia a metà del secolo XIX. Questo
sistema della scienza universale ha il suo perno nell'atto infinito che
sostiene come creativo, conserva tore e imperativo, l'universale ordine delle
cose, in cui l'au tore trova che tutto è vita, tutto forza e movimento di
un'immensa armonia ($ 544);tanto che esso sistema è lo specchio di tanta universale
armonia, metafisica, fisica, m o rale,naturale esovrannaturale,laquale ha
principio nelDio che concepisce, produce e accorda il concetto e il prodotto
della creazione primaria e secondaria, e ha termine nel Dio della rivelazione,
della grazia e della redenzione. Vero è che il nostro filosofo, fedele al suo
metodo, non va sulle prime alle alte regioni della ontologia; ma è vero
eziandio che non si chiude mai, secondo l'uso de'psicologi, negli stretti
limiti della psicologia e della ideologia: e però il suo libro dà un vero
sistema comprensivo delle universali ragioni della Ved. il nostro libretto
Sullo stato attuale e su'bisogni degli studi filosofici in Sicilia, p. 52 e
segg. Palermo. Saprà bene il lettore che il Contı, nella sua lettera al pro
fessorNaville sulla filosofia contemporanea in Italia (ved.Appendice alla Storia
della Filosof.), poneilD'Acquistotra’seguaci del metodo comprensivo scienza,
esposto seccamente e quasi con metodo geometrico, ma sempre con la medesima
profondità di speculazione e logico rigore. Che se poi quest'opera del nostro
senta forse più che altra dell'odore delle dottrine del Miceli, basta ri
cordare l'occasione sopra notata ond'essa nacque, perchè si abbia pronta
spiegazione delle molte reminiscenze miceliane che occorrono frequenti al
lettore. In quanto adunque a n a tura della nostra cognizione e a quel che in
essa si accolga e scopra la riflessione, il sistema ripete le dottrine stesse e
l'analisi minuta che si hanno nella Psicologia, nel Saggio sulla legge
fondamentale del commercio tra l'anima e il corpo dell'uomo, e nella Ideologia;
m a per quel che concerne la ontologia, qui si ha tutta la teorica
compiutadella creazione e dell'ordinamento idealo e reale, metafisico, fisico e
morale delle cose, con le « investigazioni altissime dell'umano sa pere »:
tanto da chiamare appunto per questa ragione Si stema della Scienza Universale
il sistema di cui l'autore non tirava, a suo dire, che brevi linee, ma
cosiffatte « da som « ministrare dal punto supremo della sua altezza le vedute
« anticipate indicanti i nessi essenziali e le vere tendenze « della
scienza,che poi illavoro dello spirito umano potrebbe « condurre ad effetto »
(p. 14 ). L'ideale e il reale vanno iBenedetto D’Acquisto. D’Acquisto.
Acquisto. Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Acquisto” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria.
Grice ed Acri – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Catanzaro). Filosofo. Grice: “Acri has
explored quite a few topics – all in the good Lit. Hum. Oxon. tradition – and
since he tutored at an even older varsity, kudos! He has explored ‘Amore’ and
he expands on the Athenian dialettica – he in fact distinguishes between turbo
and sereno – He left his notes on sereno as an unpublication, but a tutee cared
to publish them ‘Unpublication’ – There is turbo, and there is turbato – as
applied to ‘colloquenza’ qua conversational dyad, Acri speaks of the colloquenza itself as
being ‘turbata’ – he relishes on that – if there is no ardimento, and the
Romans loved one – what’s the good to argue? The second phase of the dialettica
is ‘serena’ – I find the distinction genial and in a way corresponds to my
epagoge/diagoge distinction – the ‘turbo’ is dyadic – say A wants to influence
B (turbo 1), B gets influenced and expresses it in a second conversational move
(turbo 2). – Dialettica turbata – they reach the principle of conversational
helpfulness and they arrive at the ‘sereno’ – dialettica serena’ – until the
next turbo arises, that is1” - Grice: “I like Acri – he is a platonist, and he
is explicitly against the positivists, whom he contrasts to the ‘filosofi sobri.’
His own theory of ideas is hardly platonic, but finds its base on Vico, which
is nice – since, if an Italian does not understand Vico, no one will! –Acri
explores the connection between ‘idea’ and ‘expression,’ and considers the
‘radice’ (root or stem) of expressions – he has commented extensively on
‘Cratilo.’ In any case, he is a sensualist, so at the root of it all is what he
calls, after Aristotle (“De Interpretatione”) ‘il fantasma’ and the ‘imagine.’ Italian philosopher, author
of an essay on Plato’s and Vico’s theory of ideas. “Abbozzo” essential Italian philosopher. Grice: “I love Acri’s
rendition of the Cratilo into the vernacular!” Filosofo. Opere: “Del sistema in genere”;
“Prose; “Abbozzo d'una teorica delle idee”
(Palermo: Stab. tip. Lao, -- In memoria di Alfonso della Valle di Casanova);
“Sulla natura della storia della filosofia” (Bologna: Nicola Zanichelli successore
alli Mrsigli e Rocchi); “Cratilo – Menone – Apologia di Socrate, Critone -- Dizionario
Biografico degli Italiani. IL CRATILO. Due
solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone
in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor
propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa
qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda.
Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le
confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di
Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or
potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un
nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni
nome da chiunque posto Due solenni questioni intorno all'origine della lingua
toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi
abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome
che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza:
Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben
apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla
seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome
parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che
sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di
Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto a qualunque cosa sia
retto, deriverebbe che tutti i nomi, sì veri che falsi, sarebbono del pari
retti, e che la cosa medesima potrebbe aver nomi altrettanti, quanti
individualmente dagli uomini le fossimo posti, e che tosto anzi gli avesse, che
quel sopressa li pronunciassero. Inoltre, se le cose non han già sol esse una
stabilità lor propria da natura (contro il dir di Protagora, esser elle a mo'
ch'a noi paiono; giacchè se così fosse, non potrebb'esser uno più sapiente di
un altro); ma stabilità pari ad esse han pure le azioni loro, per modo che, se
unoe ha da tagliare una cosa, per ret tamente ciò fare, ei non la dee tagliare
a ca priccio suo, ma nel modo che la natura della medesima richiede di
tagliarla e che taglisi e con quello con che debbe tagliarsi; così pur segue
che il nominare le cose, send'un'azione, noi non le dobbiamo nominare a libito
nostro, ma nel modo che la lor natura richiede di nominarle e che nomininosi e
con che deb bonsi nominare. Arroge, che se il giudicare poi di quello con che
fassi una cosa, cioè del suo stromento, se sia ben fatto, non pertiene al
l'artefice che lo fa, ma a colui che ne usa a modo (giacchè il giudicar di un
pettine se sia ben fatto e acconcio al tessere, non per tiene a falegname, ma a
tessitore, e il giu dicar di una nave, di una cetra, se sian ben ſatte, non
pertiene ai loro fabbricatori, ma a piloto e a citarista); così pur segue, che
il giudicare del nome di cosa qualunque, se sia ben fatto, cioè se la indichi
ed insegni vera mente, non pertenga a chiunque nè a chi lo pone, ma a colui che
a modo ne usa, al dia lettico; e per conseguenza rimane chiaro che il porlo non
è opra di chiunque, ma di solo colui, che ragguardando al nome che in ispezie a
ciascuna cosa da natura conviene, colle let tere e colle sillabe è in grado di
render l'idea del medesimo. A questo discorso non sapendo Ermogene che
rispondere, prega Socrate, che voglia spie gargli e fargli conoscere cotesta
ragione, che il nome ha in sè da propria natura; e quindi soggiugnendogli ch'ei
non ammettendo la sen tenza di Protagora, esser le cose come paiono a ciascuno,
non poteva tener vero quello che in virtù di tal opinione Protagora affermava
dei nomi, Socrate allora il conforta a ricorrere ad Omero, il quale distingue
nelle cose stesse i nomi ad esse dati dagli Dei da quelli dati dagli uomini;
avvegnachè gli Dei chiamino le cose con nomi, che ad esse rettamente
convengono. E così movendosi a spiegare Socrate, secondo Omero, come ad
Astianatte, Ettore, Oreste, Agamemnone, Atreo, Pelope e Tantalo bene stieno que
nomi ch'hanno, dalla menzione di quest'ultimo naturalmente viene condotto a
spiegar la ragione del nome pur del suo padre, cioè di Giove, e quindi sale a
quello di Saturno e di Urano. Intanto rispetto ai nomi che sono posti agli
uomini ed agli eroi, egli avverte di non doversene troppo fidare, perchè molti
di essi, dicegli, sono stati presi da que de pro pri progenitori, o sono stati
posti secondo gli auspici e voti per loro, come Eutichide, for tunato, Sosia,
salvato, ecc., e per ciò dando l'addio a tali nomi, passa a spiegare quelli
delle cose che sono sempre nello stesso modo ed immutabili, vale a dire ai nomi
Dii, demoni, eroi, uomini, ed al nome corpo ed anima, dai quali l'uomo è
composto. Ma desideroso Ermogene, nel modo che aveva inteso la ra gione del
nome di Giove, di saper anche quella del nome degli altri Dei, Socrate, dopo
aver formalmente protestato, che per riguardo agli Dei, affatto nulla di loro
ei sapeva nè con quai nomi tra loro si chiamassero, nondimeno dice, che si
accingeva a dar la spiegazione di tai nomi, secondo l'opinione ch'ei credeva
avere avuto gli uomini nel porre i nomi ai medesimi; e così fra questi pel
primo comincia da quello di Vesta.Il nome per esser retto, come si disse, bi
sogna ch'esso abbia una certa natural conve nevolezza con quello ch'ei nomina;
per dunque conoscere se un nome sia retto e stia bene colla cosa da esso
nominata, bisogna pur conoscere l'essere della cosa medesima. Or intorno all'es
tempi di Socrate e di Platone; l'una degli Eraclitiani, che credevano le cose
esser sempre in moto; l'altra degli Eleatici, i quali opinavano, che fossero
sempre in riposo. Secondo il proprio sistema ciascuno spiegava pure i nomi;
onde Socrate, nel dar l'etimologia del nome Vesta, riferisce anche la sentenza
di queste due scuole filosofiche dicendo, che gli Eleatici il nome di Vesta,
Eatix (Hestia), perchè, second'essi, in antico in vece di obaix (ousia),
essenza, en tezza, si diceva anche aix, esia, il derivavano da siva (einai),
essere, mentre gli Eraclitiani, prendendolo per sinonimo di oaix, osia, il de
rivavano da 33siv (othein), cacciare, spingere. Dopo questo passa ai nomi degli
altri Dei, e quindi a quello del sole, della luna, delle stelle, della terra,
dell'aria, delle stagioni e dell'anno; e quantunque la maggior parte di questi
paia spiegarli secondo il sistema di Eraclito; tuttavia havvene alcuno, la cui
spiegazione può anche convenire al sistema degli Eleatici; finchè ve nendo ai
nomi della prudenza, scienza, sa pienza, giustizia, fortezza, virtù, vizio,
ecc., e a quelli della tristezza, del diletto e a tanti altri, quasi tutti ei
li spiega un po' lepidamente ed ironicamente, ridendosi degli Eraclitiani, col
riferire tutto al loro modo, come se le cose fossero sempre in moto. Ma questo
modo di dichiarar la ragione del nomi, come facevano gli Eraclitiani, semplice
mente per mezzo di una superficiale e succes siva decomposizione del medesimi
in altri nomi, non appagava intieramente Socrate. Impercioc chè, dice egli, se
uno interroga intorno alle parole, da cui è composto un nome, e poi di nuovo
intorno a quelle, da cui sono composte queste medesime, e così continua sempre
oltre ad interrogare, è necessario venire alla fine ad una parola, la quale non
si può più decom porre, e di cui nulla più sappia quegli che ha a rispondere.
D'altra parte però se uno non sa dar la ragione dei primi nomi, non sa certo
darla del derivati, che si debbono spiegare per mezzo del primi. Per la qual
cosa a rintracciar la ragione del primi nomi ei si fa nel seguente modo. I nomi
tutti, sì primi che derivati, deb bon dichiarare come veramente ciascuna cosa
è. Ora se noi non avessimo nè voce nè lingua, e dovessimo indicare le cose,
certo, come i muti, colle mani e col capo e con tutto l'altro del corpo noi
tenteremmo di significarle, elevando le mani verso del cielo per indicar quel
che è alto e leggiero, e per l'opposito abbassandole verso terra per indicar
quel che è basso e grave. Dal che rettamente ei conchiude che il nome per esser
retto, cioè per poter indicare come vera mente una cosa è, dee pur anco essere
un'imi tazione, che la voce fa di quella cosa, ch'uno per mezzo della voce
toglie ad imitare onde fi gura e il color delle cose, la musica il loro suono,
così l'arte del nominare imita la loro es senza per mezzo di sillabe e lettere.
E per di mostrare poi come per mezzo di sillabe e let tere uno possa ciò fare,
oltre al distinguere egli le lettere in consonanti e vocali e semi vocali ecc.,
ei fa pur osservare in molte di esse un valor loro proprio, facendo avvertire
nel l'elemento r il valore d'indicare il moto e ciò che è aspro e duro,
nell'elemento l quello d'in dicar ciò ch'è liscio e molle, e così un proprio
valore dà egli a molte altre lettere. E di que sta cognizione pertanto intorno
al valor delle lettere, come anche della cognizione della na tura delle cose
fornito lo istitutore dei nomi, afferma Socrate, che in quel modo, che i pit
tori per render l'immagine che vogliono effi giare, or adoprano un colore or un
altro ed or ne mescolano molti insieme, così egli nel far ciascun nome per
ciascuna cosa, adope rando l'elemento or di una lettera or di un'al tra ed or
mescolandone più insieme, secondo che l'immagine della cosa ch'ei voleva
nominare pareva richiedere, abbia formato i primi nomi; e quindi da questi
primi, sempre coll'imita zione per mezzo di sillabe e lettere, abbia pur
composti tutti gli altri, e che questa sia la vera ragion de nomi. Secondo un
tale ragionamento pare che Socrate, che è quanto dir Platone, propenda per la
sentenza di Cratilo, il quale affermava, avere gli esseri in sè da natura la
ragion del loro nome. Nondimeno non esser tutti i nomi retta mente posti conforme
alla natura delle cose, che nominano, il dimostra poi nel seguente modo. Il
nome, dice egli, è uno stromento, il qual si fa per indicar e insegnar le cose
come veracemente sono. Or ogni stromento sup pone un artefice; e buono essendo
quello che è fatto da un buon artefice, e cattivo quel che è fatto da un
cattivo, ne segue che anche i nomi saranno altri bene, altri mal fatti. Cratilo
pretende che tutti i nomi, come tali, cioè in quanto son nomi, son tutti ben
fatti e retti; per modo che se uno dà a qualcuno il nome che non gli conviene,
costui parrà sì ben averlo, ma esso appartiene propriamente a colui, la cui
natura viene dichiarata dal nome. Dun que se tutti i nomi sono retti, ripiglia
Socrate, non più anco si potrà dire il falso. No, non si può dire il falso,
soggiugne Cratilo, perchè dire il falso è dir quel che non è; or quel che non
è, non si può pensare nè dire. E che dunque, replica Socrate, fa colui che ti
chia masse o ti salutasse col nome di Ermogene, mentre che tu sei Cratilo?
costui non chiame rebbe, non saluterebbe te, ma un altro? di rebbe egli qualche
cosa o direbbe nulla? Costui, risponde Cratilo, non farebbe altro, ch'un van
un'altra prova. Il nome, dice egli, secondo quel che da noi si è ammesso, è una
imitazione, la quale si fa per mezzo delle lettere e delle sillabe, come la
pittura imita coi colori; e per ciò in quel modo che la pittura, se, nello
effigiare le cose, vi adatta i convenienti colori, effettua bene e belle le
loro immagini; così pure l'arte del nominare, se per mezzo delle lettere e
delle sillabe imitando l'essenza delle cose, saprà ad esse adattare tutto
quello che conviene e che loro è simile, bella ne effettuerà l'immagine; che se
no, effettuerà sì bene un'immagine, ma non già bella, per conseguenza i nomi
ch'essa fa, gli uni saranno ben fatti, e gli altri no. Cratilo a questo
energicamente si oppone, di cendo che se in un nome si muta, si traspone, o si
toglie o si aggiugne una lettera, non so lamente non iscriviam bene tal nome,
ma non lo scriviamo affatto, anzi esso diventa subito un'altra cosa che il
nome. Socrate concede ciò aver luogo ne numeri, a quali se uno toglie od
aggiugne un'unità, subito diventan essi un altro numero da quel che eran prima,
ma non già nelle qualità e nelle immagini delle cose; poichè se le immagini
dovesser aver tutto quello che ha la cosa di cui son immagini, non sa rebbero
più immagini, ma rimarrebbero la cosa stessa di cui elle appunto sono le
immagini; e per ciò neanco i nomi debbono aver tutto quel che ha la cosa di cui
sono nomi, nè es serle in tutto e per tutto simili; perchè, se così fosse, ne
avverrebbe, che gli esseri sarebbero tutti doppi, e non si saprebbe più dire
qual fosse proprio la cosa e qual solo il nome. Per la qual cosa a giudicare se
un nome sia ben fatto, basta che in esso si trovi il tipo della cosa di cui
esso è nome; e quantunque si debba concedere, che più retti e belli sian que
nomi, che per la gran parte son composti di lettere convenienti; tuttavia non
si può sostenere, che un nome, il quale non abbia le lettere simili alla cosa
che nomina, non possa indicare la medesima. Ed in conferma di questo Socrate
adduce il nome azXood:ng (sclerotes), durezza, nella cui composizione in vece
di entrarvi ilr, il cui valore è appunto d'indicare ciò che è duro e aspro,
v'entra anzi il X, l, che indica tutto il contrario, ciò che è molle e liscio;
nondimeno quand'uno il pronuncia, tutti sanno quello ch'ei vuole dire e quello
ch'egli ha in mente; così che fa pur d'uopo conchiudere, che le cose s'indicano
non solo per mezzo dell'imi tazione delle medesime, che si fa colle lettere e
colle sillabe, ma ancora per mezzo dell'uso e della convenzione. Che se dunque
tutti i nomi non son posti convenientemente secondo la natura della cosa che
nominano, ei si vede quanto senza fonda somi glianza tra essi e quelle, che chi
conosce i nomi conosce anche le cose. Del resto, anche dato, continua Socrate,
che per mezzo del nomi si possano conoscere le cose; tuttavia essendo essi,
anche quelli che rettamente conforme la natura delle cose sono posti, solamente
imma gini delle medesime, il miglior modo di cono scerle sarà investigarle per
esse, una per l'altra a vicenda, se a sorte cognate sono, e ciasche duna per sè,
e così venirle a contemplare nella verità loro, e non solo nelle loro immagini.
Intanto come questa verità, questa cognizione si possa conseguire lasciando ad
investigare un'altra volta, pel presente ei si contenta di far vedere, che
qualcosa di stabile e fermo è nelle cose, e che oltre ad esservie un viso
bello, ei v'ha poi un bello in sè, che non è passeggiero nè soggetto a
movimento o flusso, ma immu tabile e sempre lo stesso; pel che rettamente
conchiude dicendo, che non retta gli pareva la sentenza di Eraclito, il quale
voleva che tutto fosse in centinuo flusso. Cratilo però alle ra gioni di lui
non si acqueta, onde Socrate il prega, che più attentamente volesse ancora
esaminare la cosa, e, quando gli venisse fatto di trovare la verità, si
piacesse di fargliene partecipe.Così termina il dialogo, dal quale si vede,
come già in principio di questo argomento dicevamo, che Socrate, e nella sua
persona Pla tone, quantunque confuti la sentenza di Ermo gene e quella di
Cratilo, nondimeno, ancorchè espressamente nol dica, molto di vero ei rico
nosce in amendue, anzi le rettifica. In fatti, se concede a Ermogene esser
lecito agli uomini porre nomi alle cose; non gli concede però ciò essere lecito
a tutti, com'ei pretendeva, ed afº ferma non potersi porre a capriccio, se
hanno ad essere ben posti, ma richiedersi un'arte, e per ciò esser opra di solo
colui, che è in istato di rendere per mezzo del nome l'idea della cosa che vuol
nominare; come dall'altra parte, se ammette con Cratilo avere i nomi da natura
lor ragione, non conviene però che tutti sieno rettamente posti e stieno a
capello; e se pur gli concede migliori essere i nomi che per mezzo di lettere e
di sillabe esprimono la na tura delle cose che nominano; tuttavia non gli
consente, che assolutamente non abbiansi a chiamare nomi quelli che non sono
così for mati; giacchè l'esperienza ci dimostra esservi nomi, i quali, senza
che abbiano alcuna lettera simile o corrispondente alla natura della cosa da
lor nominata, per via del solo uso noi ve niamo posti in grado di ottimamente
intenderli e riferirli a cose, che non hanno punto di si mile col medesimi. Chi
è versato nella lettura delle opere di Pla tone facilmente si persuaderà, che
questo divino oltre all'addurre le prove dell'immortalità dell'anima umana, scopo
suo fu pur anco di rappresen tarci il quadro del filosofo morente; nel Gorgia,
oltre lo scopo di far vedere i difetti dell'oratoria politica e sofistica, ebbe
pur anco quello di far la difesa di se stesso, perchè non si fosse dato alla
vita pubblica; noi dunque ora nel Cratilo dobbiamo pure investigare, se egli
oltre al di mostrare, che la vera origine e ragion de nomi non si dee derivare
nè dalla stessa natura sola nè dal solo arbitrio umano, abbia pur avuto
intenzione di dimostrare ancora qualch'altra cosa pratica. Erano ai tempi di
Platone intorno allo essere delle cose, come abbiam già detto, due sentenze,
l'una degli Eraclitiani, i quai credevano ch'esse fossero in un continuo flusso
o moto; e l'altra degli Eleatici, i quali opina vano, che fossero sempre in
riposo. Ciascuna di queste due scuole (come tutti in ogni tempo, e come anche
vediamo aver fatto il nostro Vico), per confermare le loro dottrine, i loro
sistemi, ricorrevano all'etimologie delle parole, credendo in queste trovare la
ragione di quelli. Ma, quantunque lo studio delle etimologie talora conduca
alla cognizione delle cose, Platone tut tavia non vi aveva molta fede, sì
perchè ne nomi stabiliti a sorte dall'uso e dalla consue tudine, di rado e
forse quasi mai è possibile trovar la loro ragione e la verità di quello che
nominano; sì perchè nemmanco sulla strada più vera e più sicura ci mettono
quelli, che dall'in gegno e dalla potenza umana fur posti. Imper ciocchè chi
pose i primi nomi alle cose, com'egli dice, li pose, quali credeva che queste
fossero; or sei non aveva una retta opinione delle cose, e ad esse pose i nomi
secondo l'opinione ch'ei n'aveva, noi rimarremo ingannati, se il se guiremo.
Per far vedere adunque in che vano e fragile fondamento si appoggiassero le
scuole filosofiche che così facevano, e metter in chiaro l'insufficienza di
questo loro metodo per venire alla cognizione delle cose, Platone in questo
dialogo facendo una lunga esposizione di etimologie, sebben acute ma strane, di
cui molte forse raccolse da vari libri, mise in ridi colo l'abuso di tale
studio, validamente dimo strando, che le cose debbonsi piuttosto cono scere per
mezzo d'esse medesime, che per mezzo de' nomi, che sono soltanto una loro
adombra zione; e così, come metodo a ciò acconcio ed efficace, colloca poi egli
alla fine del dialogo, come opposta diametralmente alle opinioni degli
l'iraclitiani, la sua dottrina delle idee. Che se a questo avessero badato
certi eru diti (!), non mai avrebbero creduto che Platone (1) Proclo
spezialmente fra gli antichi, e fra i moderni il Menagio, ad Diogen. Laert.,
pag. 149, e il Tiedemann, Argum. dialogg. Plat., pag. 84 e seguente.
etimologie, che espone in questo dialogo. E nel vero, an corchè sia difficile
il distinguere dappertutto quello ch'ei dice per gioco e quello che dice da
senno; tuttavia al veder, che nello spiegar la ragione de nomi di Teti, di
Poseidone (Nettuno), di Demetra (Cerere) e d'altri, ei lascia le etimologie
prossime e ovvie, e in vece ne arreca delle rimote, anzi talvolta ne inventa
delle strane e bizzarre, spezialmente quando adduce quella oltremodo ridicola
di Dioniso (Bacco), niun certo può disconoscere ch'ei non ischerzi. Arroge, che
il protestaregli, per bocca di Socrate, che quello che per riguardo all'eti
mologia de nomi dichiarava, il diceva non come cosa sua propria e che sapesse,
ma come cosa che teneva per ispirazione della musa di Euti frone, ognuno
avrebbe dovuto accorgersi o al men sospettare, che Platone non poteva far buono
tutto quello che per ispirazione della musa di questo sciocco e superstizioso
fanatico ei diceva. Per la qual cosa lo Schleiermacher è di parere che Platone
avesse in mira di bef farsi in questo dialogo di Antistene; ma, oltre che molte
cose in esso occorrono che mala mente si potrebbero attribuire a questo filosofo
Socratico, come rettamente osserva lo Stallbaum, ei si dee ancora avvertire che
gli studi di An tistene erano piuttosto dialettici e retorici, che grammatici,
e non si trova documento veruno, il qual ne accerti ch'ei si occupasse anche
della ragione de nomi. E se poi non si può assolu tamente negare, che nelle sue
giocose etimologie abbia pur egli avuto in mira Prodico, perchè questi nel dar
la ragione della differenza de nomi, di necessità spesso doveva anche spie
garne le etimologie; scopo suo però fu piut tosto di beffarsi di tutti quel
filosofi, che, come abbiam detto, nelle etimologie de nomi cre devan trovar
confermati i loro sistemi, e spe zialmente di mettere in canzone i sofisti, che
in coteste arguzie ponevano molto studio e tanto si dilettavano, i quali
appunto egli dileggia, quando ironicamente spiegando il loro nome, afferma che
significa eroi. E in fatti che Protagora molto attendesse anche
all'interpretazione degli scrit tori spezialmente poeti, abbiam già veduto nel
dialogo del Protagora, intitolato dal suo nome, nel quale insieme con Prodico
ed Ippia ed altri espone a Socrate il suo sentimento intorno ad un passo oscuro
d una canzone di Simonide. E che, oltre all'aver lasciato precetti intorno alla
retorica, come ci attesta Cicerone nel Bruto. i 2: « scriptae fuerunt et
paratae a Protagora rerum illustrium disputationes, quae nunc com munes
appellantur loci, º molto pure si occu passe intorno alla proprietà dei nomi e
della collocazione delle parole per rendere bella l'elo cuzione, lo aſſerma lo
stesso Platone nel Fedro, pag. 267, C, ed Aristotele nclla Retorica, lib, ini,
ori gine e ragione de nomi abbia pure disputato. Questo pare chiaramente
indicato nel Cratilo, alla pag. 295 (Stef 391. C), anzi da quel, che ivi dice
Ermogene, sembra che tal questione facesse parte del suo libro della Verità,
reo A), 3sizg, come vedremo. I seguaci di cotesto sofista adunque sono quelli,
contro dei quali è diretta spezialmente l'ironia e lo scherzo di que sto
dialogo, poichè cotesti sono quelli, che, come il loro maestro Protagora,
approvando la sentenza di Eraclito, il quale stabiliva, che tutte le cose
perpetuamente scorressero, come un fiume, avevano ad essa accoppiata la loro,
cioè che l'uomo fosse la misura di tutto e che le cose fossero come a lui appariscono;
e per ciò credendo che tutto continuamente fluisse e che i nostri sensi a
questa mutazione delle cose si accomodassero in guisa, che sempre esse fos sero
come a loro apparivano, venivano pur a credere tali essere i nomi delle cose,
quali dal senso e dall'intelligenza di ciascheduno venivano percepiti, cioè
naturali. Da questo si vede che in cotesti Eraclitiani-Protagoristi non si deb
bono comprendere, gli antichi e veri seguaci di Eraclito, ma solo i posteriori,
che, material mente intendendo Eraclito, facevano una cattiva e falsa
applicazione dei suoi principii. E se dum que di tutte le sette filosofiche,
come sappiamo, era anticamente costume di riferire i loro sistemi ai sapienti
più antichi e spezialmente ad Omero, non dee dunque far maraviglia, se i detti
nuovi Eraclitiani-Protagoristi, chiamati appunto Omeriani da Platone nel
Teeteto (pag. 179. E), tentassero pur di derivare le loro spie gazioni e
interpretazioni de nomi da Omero ed anche da Esiodo, e se in questo dialogo
conforti poi Socrate Ermogene, se non ammet teva la verità di Protagora, a
ricorrere ad Omero, e se quindi egli pure, secondo questo poeta, gli faccia
parecchie spiegazioni del nomi. Il Cratilo, interlocutore di questo dialogo e
da cui anzi lo stesso dialogo s'intitola, Aristotele (Metaph. 1, 6), Apuleio
(de dogm. Plat.2), e Diogene Laerzio (III, 6), narrano essere stato, prima di
Socrate, maestro di Platone, e che gli abbia insegnato le opinioni e dottrine
di Eraclito. L'Ast però (Platons Leben und Schri ſten, pag. 19) opina, che il
Cratilo interlocu tore del presente dialogo sia diverso dal Cratilo che fu
maestro di Platone, affermando non altro potersi raccogliere dallo stesso
dialogo, se non che il Cratilo, ivi interlocutore, era se guace di Eraclito, e
non già che sia stato mae stro di filosofia e che abbia avuto Platone per
discepolo; e per ciò pretende non esser pro babile, se così fosse, che Platone
l'avesse messo così in canzone senza riguardo veruno. Questa sentenza a noi non
pare di gran momento; poichè hoi non abbiamo sufficienti argomenti Cratili,
amendue filosofi e della scuola di Eraclito, onde poter dubitare qual di loro
sia stato maestro di Platone. D'altra parte, Aristotele, Apuleio e Diogene
Laerzio avevan certo notizia e del Cratilo maestro di Platone, e del Cratilo
inter locutore di questo dialogo; non avendogli essi di stinti, rimane chiaro
che sì quello che questo sono il medesimo Cratilo. Per riguardo poi a quello,
ch'ei dice non esser probabile, che Platone abbia messo in canzone così
ingratamente il suo maestro, noi facciamo osservare, che Pla tone non gli fa
dire da Socrate alcuna cosa dura, anzi l'ironia, che regna nella esposizione
delle etimologie, è pur così coperta, che può anche sfuggire a non mediocri
ingegni. Volendo Platone render conto, perchè si fosse scostato dalle opinioni
eraclitiane del suo primo mae stro Cratilo, ed avesse poi seguito quelle di
Socrate, ei non poteva più giurare in verbo del suo primo maestro Cratilo, nè
rappresen tarcelo superiore a Socrate nelle ricerche e di scussioni didattiche,
ma sì bene rappresentar celo, come veramente egli era, e cercar, per quanto
poteva, di farci conoscere il modo di verso dell'esposizione scientifica
d'amendue, come anche intieramente il loro carattere. Per questo appunto
Platone non si contenta già di far abbattere da Socrate in questo dialogo le
opinioni, che Cratilo aveva intorno alla ragion de nomi, ma il fa udire ancora
una lunga ſi lastrocca di spinose etimologie, che Socrate espone ad Ermogene,
la quale se par essere un dileggio verso coloro a cui viene fatta, non è però
fuor di proposito, perchè Cratilo era così dato alle dottrine di Eraclito, che
tutto contento ed incantato beccava qualunque cosa gli fosse detta in
confermazione di quelle, e tanta era la sua ostinatezza in quel che soste neva,
che dicendogli Socrate alla fine del dia logo migliore essere il metodo di
conoscere le cose per mezzo di esse stesse nella verità loro, che solamente per
mezzo delle loro immagini, cioè per mezzo dei loro nomi, a tal patente ragione
ei non si arrende ancora. L'altro interlocutore del dialogo, anzi il primo che
entra in discorso con Socrate, è Ermogene, figliuolo d'Ipponico e fratello di
Callia. Anche questo afferma Diogene Laerzio (nel luogo ci tato) essere stato
maestro di Platone nelle dot trine della scuola di Elea. Ma questa asser zione
viene rigettata dall'Ast (nell'opera citata, pag. 2o), e dal Groen Van
Prinsterer (Pro sopographia Platonica, pag. 225), il qual ul timo crede, e con
lui concorda lo Stallbaum, che il testo di Diogene Laerzio sia stato cor rotto
da un ignorante, il quale abbia intruso il nome di Ermogene dopo quello di
Cratilo, nell'opinione, che siccome dei due rappresen Platone, così il fosse
anche stato quello dell'Eleatica, Ermogene. A questo aggiungasi ancora, che
Aristotele ed Apuleio, i quali affermano essere stato Cratilo istitutor di
Platone, ciò non di cono più di Ermogene. Altro è che questi fosse seguace
delle dottrine degli Eleatici, altro è che in esse abbia pure istruito Platone;
giacchè trattandosi di un fatto, sì per istabilire la sua verità, come per
abbatterla, è del tutto neces saria una prova positiva, la quale, quando manca,
è nullo tutto ciò, che pro o contrada qualunque si dice. Per la qual cosa, se
l'unica e dubbia autorità di Diogene Laerzio non si dee tenere da tanto per
farci credere vero tal fatto, neanco per negarlo pare a noi esser suf ficiente
la prova negativa dello Stallbaum e del Groen Van Prinsterer, i quai dicono, il
poco ingegno e la poca dottrina di Ermogene essere un argomento bastante a far
sì, che niuno il possa creder essere stato maestro di Platone. Imperciocchè
come veramente stesse di dottrina Ermogene, non è poi cosa facile a dichiarare,
stante che il merito scientifico degl'interlocu tori, che Platone mette ne suoi
dialoghi in iscena, non si dee giudicare dal grado, in cui egli ce li
rappresenta e ce li fa parlare; giac chè quando si tratta di coloro ch'ei vuol
con futare, ei fa da loro anche dire cose strane ed assurde, le quali essi mai
non sognarono, ma ch'egli però dalle loro dottrine deduce, per sempre far
maggiormente spiccare il contrasto della verità, ch'ei difende. D'altra parte
poi, se si dovesse giudicare da questo dialogo, pare che per niuna parte
Ermogene la ceda a Cra tilo. E nel vero, per non dire che la discus sione,
fatta in principio tra Ermogene e So crate, è sottile anzi che no, e suppone in
Ermogene un non mediocre ingegno, bisogna avvertire che la lunga esposizione
delle etimo logie secondo il sistema di Eraclito, è diretta a mettere in
canzone non altri, che coloro che tal sistema seguivano; e per ciò pare anzi
che d'in gegno un po' tardo ben si potrebbe tacciare Cratilo, che non mai in
udirle di tal corbelleria s'accorga, ma non Ermogene, il quale, udendole,
scorgendo per mezzo di esse beffarsi Socrate dei seguaci delle dottrine di
Eraclito, veniva sempre più confermato in quelle contrarie degli Eleatici,
ch'ei sosteneva. Del resto ch'Ermogene non pigliasse tutte per vere le
etimologie di Socrate, non solo si vede da quello, che in udirle non mai egli
fa alcun segno d'ammira zione o di contentezza, come se fosse giunto alla
cognizione di qualcosa grande e nuova, ma nemmanco di piena approvazione;
giacchè, appena che ha udito l'etimologia di un nome, senza più, quasi sempre
passa subito a inter rogar Socrate di quella di un altro, e se talor mostra
d'averne per buona alcuna, la sua con a Socrate, Pare che un po' ci tocchi o ci
cogli ecc., daivet, xtvòvvsústg o doxsig rt Xéyetv. Ma, che ancora? Che
Ermogene più per curiosità e diletto che per altro, se ne stesse ad ascoltar
l'espo sizione delle etimologie di Socrate, argomento certo n'è, ch'ei pure
celia collo stesso Socrate, come (per non citar altri luoghi) quando udita
l'etimologia del nome ivtavróg, anno, ironica mente gli dice, che aveva già
fatto molti passi nella sapienza, e spezialmente quando Socrate, nello spiegare
il vocabolo 3) aſºspdv (blaberon), nocevole, dicendogli che propriamente si do
vrebbe chiamare 3ov) arrrepoijv, boulapteroun, ei gli soggiugne che all'udirlo
pronunziar così bel nome, gli pareva veramente che zufolasse il preludio
dell'aria di Minerva. Il timore e la superstizione, che dà a dive dere Socrate
in questo dialogo, nel protestare che per riguardo agli Dei e ai loro nomi, ei
punto non ne sapeva, ma che solo diceva quello che ebbero in opinione gli uomini
in porre loro i nomi, indicano manifestamente, che l'Euti frone, per
ispirazione della cui musa, ei dice tenere le spiegazioni, che dà dei nomi, è
quello, da cui è pure intitolato un dialogo di Platone. Così appunto opinano
l'Ast e lo Stallbaum. Quest'uomo è il tipo della leggerezza e della
superstizione; ei si vantava di saper meglio che alcun altro le cose divine, e
tanto era il suo entusiasmo, come dice egli stesso (!), quando di esse parlava
e mandava fuori i suoi oracoli, che eccitava il riso e pareva maniaco.
Verisimil mente dunque nell'interpretare la mitologia degli antichi poeti e
spezialmente di Omero, e nel cercar la ragion de nomi degli Dei e nel darne la
spiegazione, vi poneva molto studio e vi met teva pur lo stesso entusiasmo e
furore, come nel mandar fuori gli oracoli. Forse sarà anche stato della scuola
di Eraclito. Onde piacevole e grazioso pare lo scherzo di Platone, in far per
bocca di Socrate dar l'etimologia de nomi a Cratilo, il qual non era men
entusiasta e maniaco in beccar ciò, che parevagli confer mare le sue dottrine
eraclitiane (giacchè, quanto a Ermogene, egli stava, come abbiam veduto, a
udirle più per curiosità e diletto, che per altro); mentre così facendo
Platone, a chi era di perspicace ingegno dava, per mezzo dell'ironia, a
divedere, che a lui non andava a grado, anzi disapprovava il poco ragionevol
modo degli Eraclitiani, nello spiegare i nomi e nel pretendere di trovare quasi
in ciascun verso di Omero qualche cosa di oscuro e mi sterioso, togliendovi
quel suo proprio colore, semplice e naturale. In qual tempo sia stato composto
questo dia logo da Platone, e qual loco gli si debba as ri mane ancora a
vedere. Lo Schleiermacher il pone dopo il Teeteto, il Menone e l'Eutidemo, e
pretende che debba servire di compimento a quel primo; ma ognun vede che
l'argomento della scienza, che trattasi nel Teeteto, non viene ampliato nè
discusso nel Cratilo; anzi tutto il contrario, quel che affatto alla fine del
Cra tilo è appena indicato, viene poi diffusamente discusso nel Teeteto; chiaro
dunque egli è, che questo il dee seguire e non precedere. L'Ast il colloca non
solo dopo il Teeteto, ma anche dopo il Sofista, il Politico e il Parmenide;
anzi crede che il Cratilo faccia parte ed appartenga ad una trilogia o
tetralogia, che non fu da Platone compiuta; e per prova ne adduce le prime
parole del dialogo: Brami tu dunque che in cotesta questione anche qui Socrate
c'entri' le quali ei dice essere del tutto nude, secche e immotivate. Inoltre
che quest'opera non sia un lavoro compiuto, seguita egli, si vede da quello,
che nell'ultima sua parte i passaggi da una cosa all'altra sono scuciti e duri,
e molto, che non ista in immediata relazione con quel che precede, vien posto
senza alcuno appa recchio e introduzione, mentre le ricerche, che si connettono
coll'argomento principale e che eccitano un grande interesse, vengono al
l'improvviso abbandonate. Ma checchè ne voglia dire l'Ast, quantunque le prime
parole del dialogo indichino a precedente discussione tra Er mogene e Cratilo,
tuttavia di questa trilogia o tetralogia incompiuta, ch'ei pretende, non s'in
contra indizio veruno nelle opere di Platone, nè si trova che l'argomento del
Cratilo venga da lui trattato in qualche altro suo dialogo. Questo scritto può
stare da sè, ed io non veggo la ragione, perchè l'Ast il voglia far seguire al
Sofista, al Politico e al Parmenide, e non anzi a tutti questi precedere. E nel
vero, per non dire, che l'irrisione, che domina nell'espo sizione delle
etimologie nel Cratilo, non troppo acconciamente può stare vicina alle gravità
e serietà, con cui sono trattati il Sofista, il Po litico e il Parmenide,
l'argomento del Cratilo non ha che fare con quello di questi; nè si ravvisano
ancor in esso vestigia della scuola pitagorica, come nel Parmenide, ma appena
si fa menzione in un suo luogo dell'armonia de corpi celesti; nè appare ch'ei
segua il me todo dell'investigazione tenuto dai filosofi Me garici, i quali
erano versatissimi in trattare le quistioni di questo genere, come lo segue nel
Sofista, nel Politico e nel Parmenide; nè fi nalmente si vede ch'egli molto
insista sulla sua dottrina delle idee, ma appena ne fa cenno alla fine del
dialogo, e la dà soltanto ancora come un suo sogno. Per l'opposito, niuno può
disconoscere, che tra il Protagora, l'Eu tidemo e il Cratilo vi regni
un'affinità quasi irri sione drammaticamente ci rappresenta Platone il vano
fasto di Protagora e di tutti que sofisti che si millantavano essere maestri di
virtù, e se nell'Eutidemo poi egli si beffa delle meschi nità delle arguzie e
de lacciuoli dialettici pur de' seguaci di Protagora, anche nel Cratilo, come
abbiam veduto, con ischerzo e con ironia viene egli a dimostrare l'inutile
sforzo de' Protagoristi-Eraclitiani, che per mezzo dell'inter pretazione del
vocaboli tentavano di venire alla cognizione delle cose e di stabilire i loro
sistemi. Per la qual cosa, sebben l'autore in quest'opera sia lungi dal comico
che domina nel Protagora e nell'Ippia Maggiore, l'andamento però e la condotta
della medesima, come anche la molti plicità degli esempi e le minutezze, con
cui, secondo il metodo di Socrate, procede Platone in principio di essa, e
finalmente ancora lo scherzo e l'ironia che si scorge nell'esposizione delle
etimologie, danno a bastanza a divedere, ch'ella moltissimo si approssima ai
dialoghi po polari Socratici, ch'egli scrisse i primi, e che da lui sia stata
composta in una età, in cui egli non era ancora del tutto scevro da pro tervia
e petulanza giovanile. Non pertanto, quan tunque da solo quello, che si fa
menzione in questo dialogo delle vocali a ed o, le quali furono introdotte in
Atene, sotto l'arcontato di Euclide (l'anno 2 della 94 olimpiade, 4o3 prima
dell'era volgare, e 26 dell'età di Platone), non si possa di certo conchiudere,
che dopo tal anno sia stato questo scritto composto, per la ra gione, come
ottimamente osserva lo Stallbaum, che queste vocali potevano già essere in
vigore in uso privato, prima che pubblicamente fos sero sancite e passate ne'
monumenti pubblici (ved. il Matthiae Gramm. Ampl., tom. 1, pag. 22, annot.); tuttavia
non si può dubitare, che questo dialogo da Platone sia stato disteso in quel
tempo, in cui egli aveva già concepito i principii della sua dottrina delle
idee e deter minato con essa di confutare i Protagorei e gli Eraclitiani. Or
tanto le cognizioni richiedentisi per poter ciò ben fare, quanto le sottili
inve stigazioni circa la ragion de nomi, che in que st'opera si ravvisano,
paiono indicare esserelle un lavoro di Platone non così giovane, ma sì bene di
lui d'alquanto già più maturo. Che se poi tra il Protagora e il Cratilo, che
hanno tra di loro un'affinità che non si può disconoscere, noi abbiamo inserito
l'Ippia Maggiore ed il Gorgia, non è già che crediamo il Gorgia essere
anteriore al Cratilo (anzi la di fesa che nel Gorgia fa Platone di se stesso,
perchè non si fosse dato alla vita pubblica, ma alla filosofica, indica
chiaramente che tale scritto è un lavoro di un uomo più che maturo), ma non per
altro così ci parve di fare, se non perchè abbiam voluto far seguire l'un dopo
celebri sofisti della Grecia, Protagora, Ippia e Gorgia, ne quali Platone
graziosamente smaschera il loro vano sapere ed acremente li frusta. Però se uno
bada, che i Protagoristi-Eraclitiani, che Platone dileggia in questo dialogo
canzonando le loro etimologie, questi medesimi poi con con cludenti ragioni
validamente egli confuta nel Teeteto, facilmente ei si persuaderà, che il
Cratilo a questo dee stare unito e precederlo, anzi che susseguirlo; e per
conseguenza che noi, nell'assegnargli il posto che gli assegniamo, nel suo vero
l'abbiam collocato. Three sections on Plato in Acri’s essay on ideas: Plato’s
Parmenide, Plato’s Sofista, Plato ed Anselmo. Gl’Intelligibili e il
Parmenide di Platone. L'uno quale Platone lo disamina nel principio della
seconda parte del Parmenide è un intelligi bile, e la contraddizione in cui lo
involge è tale per colui che lo considera come idea contro l'in tenzione di
Platone medesimo.Ecco,se tu fissi l'uno nel nome suo,se tu appunti l'occhio
nell'uno come uno, esso non è più uno, cioè non è idea. Impe rocchè all'uno
fissato nell'uno,contratto in sé,sen za espansion di sorta, non compete
relazione alle idee di parte e di tutto, di principio, mezzo, fine, cioè
all'idea di quantità, e neanco all'idea di quan tità parvente come a dire la figura,
e neppure al l'idea di luogo nè a quelle di moto o di stato,nè a quella di
qualità,né a quella di relazione di si miglianza, di egualità,di medesimezza e
dell'idee contrarie,nè a quella di tempo,nè a quella di es sere o divenire,né
da ultimo all'idea di senso,di opinione, di scienza. Adunque l'uno irrelativo
non è quanto,nè quale,né in luogo,nè in tempo,non ė medesimo, nè simile, né
eguale a sè e neanco il contrario, non è, non diventa, non si sente,
non s'opina, non si sa. Dunque l'uno irrelativo non é uno: cioè a dire
l'uno elemento dell'idea uno non è l'idea uno che si componë e di quello
elemento e di molti altri. Gl'intelligibili e il Sofista di Platone. Nel
Sofista Platone tratta della comunione delle specie, come se le specie
precedessero la comu nione,pigliandoa esempio l'essere,ilmoto,lostato, il
medesimo e il diverso. Ma la comunione precede le specie; imperocchè l'essere
non è tale senza pri ma comunicare col medesimo, nè ilmedesimo è tale senza
prima comunicare con l'essere, nè il medesimo è ciò ch'è senza il diverso,nè
questo è ciò ch'è senza quello. Alla mente di Platone certo la comunione delle
specie si mostra come necessa ria; tuttavia le si pasconde che le specie prima
di essere specie sono elementi le une delle altre, e la comunione è per lei
esteriore e di specie già in tiere e fatte. Più giusto sarebbe stato lo
affermare ed esaminare la comunione degl'intelligibili, cioè di quei semi che
pe'loro congiugnimenti diventa no specie o speciose o spettabili se cosi dire
si vo glia. Aosta nel capitolo primo del Monologio or meggiando i passi di
s.Agostino per provare Dio dice: tutti beni son beni per una qualche cosa ch'è
bene per se stessa; e nel secondo dice: tutte quelle cose che sono grandi per
alcun che sono gran di, il quale è grande per se stesso; e nel terzo a g giugne
che tuttociò che è, per un qualcosa pare che sia, la quale è per se stessa; e
nel quarto aggiugne: se le nature delle cose si distinguono per disuguaglianza
di gradi,e alcune nature si re putano migliori di altre conviene che ci sia
alcuna tra quelle cosi eminente da non averne altra a sė
superiore. Imperocchè,se,tale distinzione di gradi è cosi infinita che non sia
alcun grado superiore di cui altro superiore non si rinvenga; la ragione
conduce a questo, che la moltitudine di esse n a tare non sia chiusa da alcun
termine.Ma ciò diuno reputa non assurdo se non chi è affatto privo di r a
gione. È dunque di necessità alcuna natura,la quale é talmente superiore ad
alcuna od alcune,che al tra non ve n'abbia, a cui sia ordinata come inferiore. Queste
argomen tazioni si posson paragonare a quelle che fa Platone per provare le
specie per sé. Egli dice: Ne' sen sibili c'è meschianza e confusione di
contrarie no te; imperocchè una cosa è bella e brutta, giusta e ingiusta,
grande e piccola, e via via; bella, giusta, grande per un rispetto,e per un
altro brutta, iugiu sta,piccola;dunque ci dev'essere un bello che per nessun
rispetto sia brutto, un giusto per nessun rispetto ingiusto, un grande per
nessun rispetto piccolo,e viceversa;delle quali specie contrarie par tecipa il
sensibile. La differenza è in ciò, che Pla tone si fonda più su la contrarietà
delle note che apparisce ne'sensibili,e Anselmo più su la grada zione di esse
note;e dovechéPlatone a filodilo gica è necessitato a dare a tutte il valore m
e d e simo di specie, Anselmo lo dà ad alcune, come alla grandezza e non già
alla picciolezza, all'essere e non già al non essere,al bene e non già al male;
e da ultimo Platone vuol provare una moltitudine inconfondibile di enti
per sè,e Anselmo di un solo. Ma di quest'argomento suo che ci conviene pen sare?
Ecco, premettiamo che al tempo dei Dottori si vedeva nelle idee una certa
costituzione già fer ma; esse aveavo fatto presa;e che poi per istinto
dubitativo generato dalla riforma o meglio gene ratore di essa parve che si
disciogliessero,e si cer cò rifare la loro sostanza medesima. E l'argomen
tazione propria alla filosofia medievale è nell'espli care ciò ch'è implicato;
e dimostrare un'idea vale dischiuderla da un'altra dove giaceva intiera e for
mata, da un'altra della quale non si dubita. E, stando a questa filosofia, il
contenuto di un'idea è quasi indipendente da quello delle altre, e ai sil.
logismi come esplicativi si dee assegnare un gran valore anche pigliati singolarmente.
Ma non c'è, si può dire, componimento e accordo e universa lità mirabile nella
Somma di S. Tommaso? Si, ma l'universalità dalla religione è data alla
filosofia, la quale assume l'ufficio di sconnetterla,scomporla e verificarla a
parte a parte. E il contrapposto dell'u niversalità della materia con la
singularità e la di. visione e lo spezzamento della forma è notabilissima nel
libro mentovato, che recapitola maravigliosa mente il pensiero del suo tempo.
Per un'altra filoso fia al contrario l'argomentazione non sta ne' sillo gismi
netti,che anzi li ha a sdegno,ma nella gene razione dialettica e necessaria,in
guisa che tanto vale per essa dimostrare un'idea quanto farla con cepire nelle
viscere d'un'altra e poi evocarla alla luce. Però avvertisco io che il suo
generare, la sciando da parte le frasi nuove,è in fatti un porre una serie di
equazioni facendo si che l'ultimo ter mine che si vuol generare appaja eguale
al primo termine che si risguarda come generatore,in virtù di molti medii che
celano graduatamente la reale dissagguaglianza. Ecco uno schema dell'argomen
tare suo:a è vicino a m,perchè vicino a b,e o vicino a C, e c vicino a d, e d
vicino a e, cd e v i cino a f; col divario che dov'io dico vicino essa dice
eguale.Da ultimo c'è un'altra filosofia,non ne mica a quella dei Dottori, anzi
benevola,anzi re verente come a madre figligola, la quale non sup pone l'idea
intera e formata, e neanco vuol rifarla da capo o generarla come dice l'altra,a
cui è ni micissima perchè quella é superba, m a la costi tuisce di principii
che già preesistono,la compo ne.In breve una è esplicativa ovvero
resolutiva,l'al tra generativa, almeno di nome e in apparenza, e l’nltima è
costitutiva o compositiva. E inoltre questa il contenuto di un'idea costituisce
per modo che si colleghi a quello di tutte l'altre,ond'essa è deside rosa
d'universaleggiare e procedere alla larga c01 tra la prima che singulareggia e
procede per or dini distinti, minuti, sottili; e, contro alla seconda che vuol
generar le idee una dall'altra, ella crede che vivano insieme ciascuna della
vita dell'altre, e risplendano insieme ciascuna dello splendore del l'altre. E
la sua argomentazione sta non già nello esplicare o nel generare, bensi nel
bene allogare; inguisachè un'idea è dimostrata quando posta in mezzo alle
altre con esse fa buon accordo. Onde il sillogismo, non già come esplicativo o
come e guagliativo, sibbene come dispositivo è l'argomento suo, e non ha valore
da solo ma insieme ai mol tissini altri per efficacia reciproca. Ma tornando
ora lá d'onde ci siamo mossi di ciamo che si può dir buono, grande, giusto
tutto ciò che partecipa alla grandezza, alla bontà, alla giustizia, e che
altresi pare si possa dire che la grandezza, la giustizia, la bontà c'è perchè
ci sono cose grandi,giuste,buone;esenza dir quale delle apparenze risponda al
vero, affermiamo che ricorre qua la questione de'generi,cioè se son reali fuori
noi o son concezioni astratte, e che l'argo mento di sant'Anselino come quello
che presuppone un intricatissimo viluppo di ragionamenti da solo non può avere
piena evidenza. Acri. Keywords: la colloquenza
turbata di Socrate e Cratilo, l’enigma del numero in Platone, abbozzo d’una
teorica delle idee. Refs: Platone in Italia. Luigi Speranza, "Grice ed
Acri," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice,
Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714373873/in/photolist-2mUztEY-2mUvToR-2mTdg92-2mSQAsN-2mRV5s7-2mPZ2Vc-2mN9ZxJ-2mMPFDK-2mMJh5e-2mKFrQ6-2mLKdDg-2mKJpEg-2mKxDSr-2mKMcL9-2mKAhh3-2mKj1Jg-2mKfutu-2mKjPhh-2mJWMoD-2mFVDb9-2mFM2pY-2mFM2r6-2mFUCxX-2mFVDaT-2mFUCxG-2mFSoA1-2mFSozE-2mFUu9N
Grice ed Addiego
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Turi). Filosofo. Grice: “I like Addiego;
his obituary looks fine, ‘amateeur mathematician and professional philosopher;’
of course he was a priest and priests tend to get the nicest obituaries written
by members of their respective orders! Henry
VIII once said, “I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond
necessity!’ Some say he went a bit too further! My St. John’s used to be a
Cistercian monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying
to prove the immortality of the soul, or the existence of God – “These are
Strawsonian presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic
numbers and geometries! His mathematical explorations caught the attention of
the Pope who invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and
beyond!” -- Vincenzo maria d’addiego (n. Turi), filosofo italiano, nominato
Preposto Generale dei Padri Scolopi. Entra
giovanissimo nell'ordine degli scolopi.
Papa Leone XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina
preposto generale dei padri scolopi.
Alla sua morte il Pio VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa
di S Pantaleo. D. Resta, Turi. La perdita del loro Preposi to Generale P.
Vincenzo Maria D'Addiego, rapito ai vivi in pochi istanti nella notte dei 31
del p.sp.. marzo, ha immerso in grandissima costernazione I Religiosi delle
Scuole Pie. Nativo egli di Turi nella Puglia, vesti giovinetto le divise del
Calasanzio, e fatti con somma lode isuoi studj nel Collegio Reale di Napoli,
diretto dai religio si suddetti ivi professa per lo spazio di quaranta e più
anni prima le belle lettere, e poscia la Filosofia e le Matematiche,
nell'insegnamento d'entrambi accoppið sempre la pietà, lo studio l'amorevolezza
el'industria alla precisione de'metodi. Fu due vol te Provinciale; e dopo
lepassate luttuose vicende nominato Delegato Generale pel riordinainento delle
Scuole Pie nel regno delle due Sicilie, ebbe la consolazione di veder coronate
le sue fatiche da un esito felicissimo. Chiamato Breve di Leone XII, di
gloriosa ricordanza, al Governo Hi
tiftta la sua Religione, la regole con dolcezza e prudenza, si mostrò padre con
tutti, e a tutti su specchio einodello di quelle rel giose virtù, che più belle
appariscono in chi tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo ogorevole
incarico, stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala, dalla quale
la sola Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di premiare
(come speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva procacciati
nella crislis na e religiosa carrier. Domani sicelebrerà la Stazio De rrella
Chiesa di S. Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che D. D. D.
NECESSITA DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I Giuseppe
GIUSEPPE DE GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE SOTTO LA
VINCENZO D'ADDIEGO. FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE DIREZIONE DEL
MARIA MARTINO BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI Matematica
FISICO ZNALED COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE, NELLA
STAMPERIA MINISTRO FLAUTINA. DELLA POLIZIA. S u m a t quisque, quod suum credit,
nihil mihi vindico, Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit, suum cuique
habuisse honorem, Dalham in Præfat. I chierici regolari poveri della Madre di
Dio delle scuole pie (in latino Ordo Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei
Scholarum Piarum) sono un istituto religioso maschile di diritto pontificio: i
membri di questo ordine, detti comunemente scolopi o piaristi, pospongono al
loro nome le sigle S.P. o Sch. P. Lo stemma dell'ordine reca il monogramma
coronato di Maria e le lettere greche MP e ΘY, abbreviazioni per μήτηρ θεοῦ
(madre di dio) Le origini dell'ordine risalgono alle scuole popolari gratuite
(scuole pie) fondate da san Giuseppe Calasanzio a Roma. Calasanzio e i suoi
compagni diedero inizio a una congregazione di religiosi per l'insegnamento:
papa Gregorio XV elevò la compagnia a ordine regolare con breve. Gli scolopi si
dedicano principalmente all'istruzione e all'educazione cristiana di giovani e
fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine, Giuseppe Calasanzio, giunse a Roma nel
1592 e venne nominato Teologo e precettore dei nipoti del cardinale Marco
Antonio Colonna. Si iscrisse alla Confraternita dei Santi Apostoli. Nel
mese di maggio cominciò le visite ai rioni di Roma, portando aiuto ai poveri.
Un giorno, mentre passava in una piazza, fu colpito in modo insolito dallo
spettacolo di una turba di sudici e malvestiti ragazzi che giocavano tra grida
scomposte, atti sconci, litigi e bestemmie. Di colpo comprese qual era la
missione per la quale era giunto a Roma dalla sua patria lontana: la scuola.
Così, in un ambiente di ristrettezze e povertà, sul finire dell'autunno
dell'anno 1597, in due povere stanze attigue alla sagrestia e messegli a
disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa di Santa Dorotea in
Trastevere, aprì "la prima scuola popolare gratuita in Europa", come
riconobbe anche Ludwig von Pastor, che nella sua monumentale opera Storia dei Papi
scrisse ebbe origine la prima scuola popolare gratuita d'Europa. E lì, in tempi
in cui l'istruzione era privilegio delle classi più abbienti, sviluppò il suo
progetto della scuola come strumento di promozione umana e salvezza educativa
per i ragazzi di strada (metodo preventivo, attinto da san Filippo Neri). Nel
1602 fondò la "Congregazione secolare delle Scuole Pie". Vincenzo Maria d’Addiego.
Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690279730/in/photolist-2mKGciu-2mFSG47-2mFMjWm-2mFMjW1-2mFMjVQ-2mFMjVV-2mFVWWK-2mFUQMr
Grice ed Adorno – il
gusto degl’antici per gl’antici – filosofia siciliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Siracusa).
Filosofo. Grice: “I like Adorno; he more than anyobody else I know UNDERSTANDS
the change of mind set from the Hellenic embassy at Rome and the ‘gravitas’ of
the Romans who found that relativistic talk on justice ‘sophistical’! Scipione
and the Roman aristocracy – just to be different – enjoyed it and embraced it –
and it turned out that, as antiquities became more popular with the Romans,
they recovered the many schools of philosophy that have thrived in the
provinces: Velia, Crotone, Girgenti.” Filosofo. Laureato in Filosofia a Firenze
e professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato presidente dell'Accademia
Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria", del Museo e istituto
fiorentino di preistoria e dell'Accademia delle Arti del Disegno. Ha diretto la
pubblicazione del Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Ha studiato il rapporto tra l'insegnamento
socratico e la sofistica, estendendo i suoi interessi a Platone, allo stoicismo
e all'epicureismo; inoltre ha approfondito aspetti della cultura greco-latina e
cristiana tra il primo secolo a.C. e il sesto secolo d.C., nonché del pensiero
tardomedievale e umanistico. Utilizza il metodo filologico per la descrizione
degli autori del pensiero antico della scuola ionica, di Socrate, di Platone,
della prima Accademia, delle scuole ellenistiche, di Epicuro, di Seneca,
ecc. La sua formazione culturale affonda
le radici negli ambienti intellettuali e politici fiorentini e in particolare
risente dell'influenza crociana nell'interpretazione della filosofia come
riflessione teorica mai disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di
questa concretezza antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del
pensiero filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del
linguaggio facendo sì che i testi classici vengano interpretati nel loro autentico
e concreto sottofondo politico e culturale.
Opere: “I sofisti e Socrate”; “La filosofia antica”; “Studi sul pensiero
greco”; “Socrate”; “Dialettica e politica in Platone”; “Platone”; “I sofisti e
la sofistica nel 5°-4° sec. a.C.”; “Pensare storicamente”. “Pitagora di Samo. I suoi
viaggi, la permanenza in Magna Grecia. Le suggestioni e la polymathia di Pitagora”. Esigenze e problemi in Magna
Grecia e ad Velia dal VI secolo all'inizio del V l. su RAIEnciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche. l'11 dicembre 22 dicembre ). Adórno, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche alla voce corrispondente.
Maria Serena Funghi, Hodoi dizēsios. Le vie della ricerca: studi in
onore di Francesco Adorno, Firenze, Olschki, Francesco Adorno, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Adorno, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Francesco Adorno, su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Filosofia Filosofo del XX secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici
della filosofia italiani Accademici italiani del XX secolo Accademici italiani Professore Siracusa Firenze Studenti dell'Università
degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori
dell'Università degli Studi di Firenze. E interessante
sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia
Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) circa nel 5~0, dopo aver fatti
molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le
piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo
alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi
contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate,
che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che
e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora
abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato
là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora,
testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene
Laerzio, IX, l) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora.
Evidentemente il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse,
ormai acquisita. Erodoto riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un
tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che,
poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove
insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli
era stato narrato dai greci abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto, IV,
95). La vita e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai
tempi piu antichi. Con una certa sicurezza si può dire ch'egli nacque a Samo,
da Mnesarco, irù torno al 570 circa. Emigra da Samo nella Magna Grecia nel 530 per
un dissidio sorto con Policrate tiranno di Samo. Muore sul principio del V
secolo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in particolare
quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale probabilmente a
Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge una vita pitagorica,
cui partecipano sia gli uomini sia le donne. Fama di dotto e di enciclopedico e
fama di uomo superiore Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo
viaggio che lo trasporta a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le
testimonianze di Eraclito, Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza
reale di Pitagora. Pitagora a Crotone, fondatore di una setta, di quella vita
pitagorica di cui parla anche Platone (Repubblica, 600b), scienziato e sacerdote
a un tempo, sacerdote e medico di anime, si perde nella leggenda, o meglio
nelle ricostruzioni dei tardi filosofi neo-platonici e neo-pitagorici. “La
Vita di Pitagora,” del neo-platonico Porfirio e la “Vita pitagorica” del neo-platonico
Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai neo-pitagorici Apollonio di
Tiana, Moderato di Gada e Nicomaco di Gerasa. Solo che il neo-pitagorismo puo
sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e
continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla
leggenda pitagorica e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e
a una certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di
tappa in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie
stratificazioni, si può risalire sino a Filolao, pitagorico di cui possediamo
alcuni frammenti. Risalire oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli
stessi scritti andati sotto il nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su
educazione, politica, e fisica -- sono composti da pitagorici che rivivano il
sacro verbo del divino Pitagora. Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad
interpretare posizioni diverse in funzione del proprio pensiero, non cita mai
direttamente Pitagora, ma parla sempre di coloro che vengono detti PITAGOR-ici (Metaf.,
I, 5, 985b). – cf. Speranza non cita direttamente Grice, ma parla sempre di coloro
che vengono ditti GRICE-iani. D'altra parte di quello che può essere stato il
Pitagora storico - anche il nome ha destato sospetto, ché ‘Pitagora’ significa
l'annunciatore del Pizio, e la leggenda vuole ch'egli fosse figlio di Apollo pizio
o di Mercurio - non sappiamo altro dalle fonti piu antiche se non ch'egli,
figlio di Mnesarco, nativo di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di studi,"
(Lct&I Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato spinto da un
largo desiderio di sapere. Forse di qui la fama di Pit-agora, l’annunciatore
del pizio, che per primo usa il termine ‘filosofo’, desideroso, filos, appunto,
di sapienza, sofia, che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione
delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa.
Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre
che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono
numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora la fisica pitagorica. Si
pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in
Eraclito (fr. 41), nel greco significa solo studio, apprendimento, e che nelle
fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero”
(&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni
frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a
divulgare la sapienza pitagorica, tradendo quello che è stato detto il
"silenzio pitagorico" cioè l'assunto che la setta doveva mantenere il
segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il
silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, pitagorico piu antico di Filolao, da Archippo,
da Liside e cosi via. E costruita nei circoli pitagorici la leggenda di
Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di
Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei pitagorici del IV secolo, austerità che
ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per il pitagorismo
suscita il desiderio di conoscere quale era stata la sua storia. Si scoprono
nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di pitagorici anteriori
a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce
l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto pitagorico
(Maddalena, I pitagorici, Bari, p. 90, n. 32). Aristotele, poi, sostiene che al
tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo
studio delle matematiche e lo fecero progredire. Essi, dunque, nutriti nello
studio delle matematiche, credeno che i principii delle matematiche sono i
principii delle cose (Meta/., l, 5, 985b, 23-26). Evidentemente qui Aristotele
si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba
mecanica. Dunque il pitagorismo, fondato sulla scienza dei numeri e della geometria,
dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso l'influenza di
Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai primi immediati
suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può chiarire il complesso
problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici, ne pone altri. Altri pitagorici
però dicono che dieci sono i principii, ordinati in serie: limite/illimitato,
dispari/pari, uno/molteplice, destroy/sinistro, maschio/femmina,
in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo, luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo.
In modo simile pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo
da loro, sia ch'essi l'abbiano appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b).
ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone
fu Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire il motivo delle
opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi opponentisi. Forse
di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nella lonia, di Anassimandro e di
Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora conosce gli studi
(!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione geometrica della realtà
scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni entro la linea
dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura quantità,
incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè numerata, onde
dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve, come facile è
l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente tale e la tesi
dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita. Piu tardi, sia da
Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale tesi della realtà
scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto per l'implicita
opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle altre unità
(molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei contrari,
del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e, sottesa, una
discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente con Filolao
che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero,
“cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose,
il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nel pitagorismo
due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di Pitagora,
in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di Anassimene.
Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu strettamente
matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori (Filolao ed
ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi pitagorici, recuperando certi “!L«&~!LCX't'CX”
di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente l'aspetto religioso-magico
di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta d'iniziati che fonda a
Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e il leggendario Abari,
sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e l'irrazionale”, Firenze, pp. 171
sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la scuola medica di Crotone. Ancora
durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora e famoso per la sua multi-scienza,
ma anche per il suo atteggiamento di uomo attraverso cui parla il divino, per
il suo atteggiamento magico-religioso. Si dice che tale suo fascino suscita
nella Ionia meraviglia e forse anche diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici;
test. e framm.,” I, Firenze, p. 4) ed si sostenne che Pitagora e un
aristocratico che si trova in contrasto con il mondo ionico e milesio,
razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi fenomeni (O. Gigon, “Der
Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis Parmenides”, Basilea, pp. 120
sgg.). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il contrasto con
Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte lussuosa, e
dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata
aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in
via ipotetica si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora
benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo
dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal
demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che
oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una
incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti
egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e
nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro,
e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne
nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc.,
1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone
(“Carmide”, 156d-e) -abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora,
un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso
incantatore, ch'era tipica pratica dei medici di Crotone, tra cui non va
dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i
primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della
compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci
in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di
Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il
vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o
“apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature,
essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”,
IV, 6, 213b 22-27). Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è
criticata in un frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19),
non del tutto aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del
primissimo pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei
contrari per la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed
immissione, costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia
pitagorica. La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal
soffio vitale (anima). L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò, nell'uomo,
il venir meno dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi morte dei
singoli, non del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo muoe, perché non puo ricongiungere il principio con
la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4). Qui, forse,
anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della trasmigrazione,
è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere accompagnata dalla
cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo l'equilibrio, cosi
l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola mediante
un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento consiste
nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante· cosmo,
l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio pitagorico a
Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il
maestro iniziava ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta,;a
prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tendeva alla cura
dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita
del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo
e de.i misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee,
sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per
altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire,
probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme
dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di
Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il
verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del
sodalizio uomini e donne, e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione
tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e
matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono
probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A
Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei
dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e
musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione
dell'immortalità dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e
forse a questo allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità
dell'anima e la trasmigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si
narra che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora
impietosito pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio
amico: l'ho riconosciuto udendone la voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice
dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia
meridionale, e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora
si costituisce in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che
giuocano in senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia
pure in via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo
tempo, e accolto con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO,
di Pitagora dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora
giunse a Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e
combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu
vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge
che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici
hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si
siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai
primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica un'eccessiva
chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che l'aristocratico CILONE
DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il sodalizio
pitagagorico, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a molti altri,
la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che sfuggirono
alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra fonda un
circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi Simmia e
Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone. Archippo si
rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e il pitagorico
ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due versioni, l'una risalente
a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno. Secondo la versione di
Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani che porta all'incendio
della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da Crotone. Pitagora si
recato a Metapmto dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo la versione
di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al massacro, perché
non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare, infine, a
Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit., 56). Data
l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento, eopportuno
delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa effettivamente far
risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a motivi molteplici e a
interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la via della legislazione,
dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della medicina), e che hanno
profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda di certe esigenze o
di altre, sulla cultura italic meridionale, costituendo, nella circolazione
delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. l primi pitagorici.
lppaso. Il medico Alcmeone. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che
Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CRONOTE, sono quei pitagorici che
stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i
discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come rapporto e
armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche
l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E.
Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino, p. 83). Proprio questo disaccordo o
opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro, impegna la
discussione di Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica di
Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non troviamo
accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi
pitagorici si tratta-nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il
contorno di una cose, di un disegno, costituito di punti. In altri termini, i
pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla
geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire,
appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la
forma, la de-limitazione è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un
insieme di piani. Una linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza
di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza
delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde
una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della
realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si
capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione
uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le opposizioni
pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento,
diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E poiché il dis-pari è in-divisibile, e
cioè riferibile all'unità, il dispari e anche bene e luce, mentre, all'opposto,
poiché il pari è divisibile, riferibile alla molteplicità, il pari r anche *male*
e tenebre. Nella tavola pitagorica delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti
dispari e una figura-punti pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra
facessero i primi pitagorici, con una squadra (gnomone), si de-terminano in
modo che i lati della squadra resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i
lati resultano disuguali, e quindi mentre i primi sono sempre rapportabili
all'unità, i secondi sono rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito
di gnomoni dispari, il rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*,
il rettangolo molteplicità, e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero
quadrato e di un numeri oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che
assume significato la famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto
poi, i pitagorici giurano, dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva
dal fatto che la rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da
10 punti messi in forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui
somma 1 + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero
perfetto, poiché racchiude in sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione
ottava 2:l, proporzione quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro
specie di enti geometrici -- punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4)
cioè di ogni cosa (cfr. Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo
storico” Firenze, p. 676). E questa un'interpretazione piu tarda.
Unità-molteplicità resta, dunque, l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità,
la misura, l'armonia, rimane incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il
calcolabile (razionale) e l'incalcolabile (irrazionale, incommensurabile). Oppure
gli uni rimaneno accanto agli uni e, dunque, ai molti dell'indefinito spazio
(quantità), che fu forse il respiro di cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto
cui accenna Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di
punti, è il contorno di cose che tuttavia si scandisce come pari e dispari,
come infinito e finito, come comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente
dell'infinito (respiro), e quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile,
irrazionale. Di qui prende le mosse la critica di Parmenide di Velia, che, senza
dubbio, ha rapporti coi primi pitagorici, anche se può essere leggendario
ch'egli sia stato avviato alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia,
figlio di Diocete, pitagorico (IX, 21). Ma di qui, crediamo, anche le due facce
dello stesso Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione,
alle tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu
tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e
dell'infinito, del pari e del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema
armonia. Da questo, comunque, discende anche il significato medico
dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come particolarmente si
rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a Pitagora avendo già
una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto attraverso il
motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare parte dell'insegnamento
pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega probabilmente la primitiva
dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente
Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui
potenze constata nella pratica della medicina, e che introduce in questa
corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp. 119- 20). Dice cosi Alcmeone che
la salute si mantenne dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del
caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca
la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il
principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici
siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e
maestro di GINNASTICA. Ed è probabilmente
entro questa cerchia di interessi e di problemi, anche se discussa n'è la
datazione, che rientra l'anonimo trattatello cosmologico-medico “Sul numero
sette” (m:pl ~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse piu antichi)
descrivono il dominio del numero sette nell'universo, mentre i capitoli ultimi
(XII-LIII) discutono le malattie partendo dalla premessa che gli animali e le
piante che vivono sulla terra hanno una natura simile a quella del cosmo, i piu
piccoli come i piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e medico, nei
primi pitagorici sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di Pitagora,
interessi piu particolari e tecnici, o per la medicina, o per la traduzione di
una cosa in punto-figura, dai quali si
venne poi formando quella che sarà la cosmologia pitagorica (come può darsi sia
il caso di Petrone d'Imera che ha una visione del cosmo in forma triangolare; o
di Cercope, o di Brotino, o di Xuto, di cui in effetto non sappiamo quasi niente);
o per la mnemotecnica (Parone) o la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza
segreta, gli acusmatici con a capo Ippaso di Metaponto si ribellano contro i
matematici, divenendo tali essi stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori
matematici del primo pitagorismo, egli che divulga il dodecaedro, iniziando le
ricerche sugl'irrazionali.o incommensurabili,
poi proseguite da Teodoro e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di
lui sono molto discordanti e in discussione è anche il periodo storico in cui
sarebbe vissuto. Ssecondo E. Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi
contemporaneo di Archita. Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle
testimonianze (tutte molto tarde, aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche)
sappiamo ch'egli trova gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica
(di qui l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi
dei periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è
stato avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes," pp. 180
sgg.; M. Timpanaro, cit., pp. 105 e 78-83). La circolazione delle idee
Epicarmo, commediografo, vissuto tra il 550 e il 460, nato forse a Cos,
nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e
particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra,
conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti, pochi
purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha rintracciato
motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo
(l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che,
parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento
delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere pietruzze
- fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi senofanei. Originario
di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a Siracusa, fin da bambino,
alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo grande poeta della
commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un trecento frammenti e
molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie mette in parodia la
mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse naufrago), o si diletta
di rappresentare figurine umane, tipizzandone i caratteri (Il contadino, Il
megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca di delineare ora uno ora
altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar rintracdando una filosofia
di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato, sottolineare il
significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi motivi propri del
primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per rendersi conto di come
circolasno le idee e di come tali idee dovessero far presa ed essere discusse
non in un certo ristretto mondo di intellettualima in piu vasti strati,
costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va scordato, a questo
proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente uno dei primissimi.
Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della festa orgiastica) come
la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri) hanno origine da feste e
riti collegati con il culto di Dioniso, e che il dionisismo e all'inizio,
religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle p6leis, e che via via s'imposne
con la caduta dell’aristocrazie. La commedia sempre mantene il suo carattere
popolare e, almeno piu tardi, popolare e politico, tanto che in effetto non
poté mantenersi che in Atene democratica, ivi compreso il caso limite del
conservatore Aristofane che, appunto, liberamente pone sulla scena la sua
polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi rivoluzionari. Probabilmente
Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone (“Teeteto”, 152 d. c.)
dica che nel genere della commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad
avere collegato e ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente
sono canti fallici e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri.
Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a
un certo pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che
quelli che distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili
"sistemi " autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili
a tutti, rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un
piu largo mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto,
Epicarmo non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu, pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei
stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una
riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di
fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà,
dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui
l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di
assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea
o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del
metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo
a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con
l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro
alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge
dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti
di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la
polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le
genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e
il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra
cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di
queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni,
l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche
stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia
nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei
culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e
sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di
Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite
dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e
in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non
sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e
Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in
sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in
Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia
sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e
politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento
di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del
tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in
questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre
persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi
preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli
uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a
loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno,
ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni
azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la
fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni
azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si
difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov
aocpLa!LiiT(I)V), trova per essi, e le
combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv.
442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali
potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali
ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di
come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi
problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è
appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica
contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via,
dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide,
cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il
520 e il 440 (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide”
(127b), narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone
vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre
Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando
sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva
avere allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69,
l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per
cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto
Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto,
183e; Sofista, 2l7c). Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide
sarebbe nato nel 544/400. Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua
cronologia da Apollodoro e dalla tradizione che s'era sforzata di far
coincidere le date di Parmenide con quelle di Eraclito e di Senofane (Diogene
L., IX, l, 20). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa di
politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco,.Adv.
Colot., 32). Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla
Natura” (sembra si dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta,
la seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41
mente indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno
che tutto comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver
fatto tesoro dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta
Eraclito e polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con
l'opposizione unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu
esseri il non essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio
dall'insegnamento e dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide
fosse stato iniziato alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto
in Parmenide il problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e
comprensibile il reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda
della presa di posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o
altro dei motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo
quindi di una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio
questo, tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o
portare a estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca,
nella molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere,
nella diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture
che rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio
punto di vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni.
Alcuni frammenti che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati
in testi piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso
ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale.
Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi
imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le
opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto
dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come
siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto
precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da
un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse,
e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende
possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di
opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc).
Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema
fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che,
scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica
via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere
e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema,"
perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il
punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca
senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la
verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura.
Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32
versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due
parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo
che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato
detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di
tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano
l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore,
anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto
famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv.
1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide
sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie
il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai
tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere,
perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del
proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva
- naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e
Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro
topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai
veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle
tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle
contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la
porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la
chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere,
grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno
uso (fr. l, vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe
Parmenide, perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare),
onde, appunto, la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via
(che~ invero lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la
giustizia, “dike” (fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana
dall'uomo comune (tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”).
Ma ora - prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema
della ben rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza.
Ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché
possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr.
l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare
all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione;
la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità
opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere.
Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd
(mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una
continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa
realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto
erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che
pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno.
Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che
nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e
disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto
a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità
comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè
pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma
guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della
mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione
con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un
certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito
sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione
totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra,
né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide,
dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma
di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano
le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre,
ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là
dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del
tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e
non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua
compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella
sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner.
Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò... quali sono le vie di
ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto
in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il
reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre
dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON
DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né
conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e
se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere
(fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia:
solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché
il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso,
cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il
pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta
(finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque
punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e
dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che
non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che
persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione,
poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di
fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è
necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr.
l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre
("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una
delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della
verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che
solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può
non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a
lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di
due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e
che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui
l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza
origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi
nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando
i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto
essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte
dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se
stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in
un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv.
1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e
immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e
aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza
contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non
contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi
persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non
si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può
non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto
intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni
parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel
punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso,
urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede
cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione
unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice.
Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini
a due teste... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e
non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa
in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica
ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito.
Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il
perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano
contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta
nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri,
cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose.
Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose,
mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette
le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che
puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto,
convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di
luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato
che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica
cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la
contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel
contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio
·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali
nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo
è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni
assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce,
e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso, ma non
uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza
luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione
Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da
seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè,
bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio
lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le
cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione,
illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà
definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre
l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per
cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare,
il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro
valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza
debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il
tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della
Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte
dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale
conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e
di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e
intendere il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è.
Solo ora, solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due
mondi, il mondo della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di
cogliere l'unica realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e,
dall'altro lato, còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola
per eccellenza, è. Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore
ipotetico delle opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà
verosimile. Di qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di
Parmenide su come sia costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che
oscuri accenni in Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo
concepito come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola
circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della
Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo
cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per
non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza
il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto,
l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e
delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa.
Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva
giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie,
che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le
antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni
eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si
precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e
difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è
e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio
del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide
e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto
bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone
si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo
(Parmenide, 127b). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un
saggio che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli
compose per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto,
per cui, Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se
fosse o no il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla
sua discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si
riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con
Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono
discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene
insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per
ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa
sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato
effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa, e che sia nato tra il 500 e
il 490. Discepolo di Parmenide, Zenone nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone
(Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa Zenone, venuto con Parmenide ad
Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano come uomo
prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita politica
della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno Ncarco,
quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la lingua con i
denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura originaria del
saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro punto
sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto circolare
senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che Platone, in
effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella finzione del
dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che dei punti
salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità
di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé l'altrettanta
impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di Parmenide, risulta
impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non interessa ora la
soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare l'Essere come dialetticità
corrispondente alla dialetticità del pensiero, per cui si rendeva possibile
porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e misura su cui scandire,
attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine politico. È tuttavia
importante sottolineare che nei confronti dell'uno di Parmenide e delle opere
di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e anche accettando che l'uno
di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo, vuoi dimostrare che
altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i pitagorici, quando si
ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi), la polemica di Platone
chiarifica quella che storicamente dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui
doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone
nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol essere in certo modo una
difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che cercano di metterla in
ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno va incontro a molte
conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio
quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche
di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va
incontro a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare
in fondo alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima
affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite
su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere
la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con
questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello
che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone,
quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il
moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo
chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro, 26ltl). ] dunque, sarebbe
parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti
alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero
- dell'Uno stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve
tener presente che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti,
come enti reali, si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone
non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti,
sul piano logico i molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i
molti in quanto tali, in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa,
dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose,
bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha
una grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e
quindi ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha
gradezza, poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione
dei punti, come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a
grandezze? n punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora:
ammesse piu cose costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito
e infi.t;lito, il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non
possono essere piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra
ve ne sarà un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito
(fr. 3). Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna
ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella
continuità, che, essendo divisibile all'infinito, è costituita di infiniti
punti a loro volta divisibili all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni
cosa, limitando l'altra, occupa uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno
spazio: ma allora ogni spazio in quanto luogo implica un altro luogo e cosi
all'infinito, sino all'unico luogo cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele,
Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica, 140, 34, 562, 1). Entro questa linea
rientra anche il cosiddetto argomento del grano di miglio. Un grano o la
decimillesima parte di un grano di miglio fa rumore: ora se fra un grano di
miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà proporzione anche tra i suoni, per
cui se un medimmo di miglio fa rumore lo farà anche un solo grano (Aristotele,
Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica, 1108, 18), ma ciò non avviene.
Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei termini dei primi. Se l'uno, o
la totalità, è impensabile irrelativamente, altrettanto impensabili sono i
molti qualora si pongano quali realtà accanto a realtà. Nessuna parte del
molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà senza una relazione con
un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli, se non. determinati
come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL CONTINUO si può rappresentare
come retta all'infinito, fino al nulla, i molti, se posti come realtà per sé,
non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile se non in quanto estensione
ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile è il moto, o meglio
la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a punto, ché, dato,
ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A', necessariamente tra A
e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito – eis apeiron -- (argomento
della dicotomia, cioè della divisione in due: Aristotele, Fisica, 233a, 239b,
263a; Simplido, Fisica, 1013; 4). Evidentemente non vi è allora passaggio tra
un ipotetico primo punto A e il punto della linea accanto ad A, onde si può
dire che Achille piè veloce" (in A) non raggiungerà mai la tartarugà che
sia un passo avanti (in A"), ché, in effetto, logicamente, né l'uno né
l'altra si muovono (argomento dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica, 239b;
Simplicio 1013, 31), tanto piu che la linea, essendo costituita d'infiniti punti,
è divisibile all'infinito, e quindi, all'infinito, si annulla. Analogamente LA
FRECCIA non raggiungerà mai il bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo
sempre ferma al punto di partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele,
Fisica, 239b; Simplicio, Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio,
Fisica, 199, 4). Infine, dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone
avrebbe dimostrato la contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o
la definizione dei dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo
l'argomento detto dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che
va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà,
ad esempio, a dieci chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un
altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello
stesso mobile va a venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice
Aristotele - è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario
nello stadio, lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla fine dello
stadio, le altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è, secondo
Zenone, che la metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr. anche
Simplicio, Fisica, 1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con cui,
accettata la premessa che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di
deduzione in deduzione, si dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi,
non si possa se non negare il moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio,
VIII, 57, nel “Sofista” andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre
della DIALETTICA, come arte del confutare), ci sono rimasti attraverso le
discussioni e le critiche di Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti
fossero proprii del saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso
Platone (che fa intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della
molteplicità), ne tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere
conseguenza di quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità
della fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO
SPAZIALE, portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale
su cui si determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di
movimento divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili
o contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i
punti- cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri
interi delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri
irrazionali, sia contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita,
della mutevolezza, alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri
nomi quella stessa vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone,
tenendo presenti certe posizioni a lui contemporanee o immediatamente
posteriori - lasciando da parte le implicazioni che vi hanno veduto certi
storici, riferendo le tesi di Zenone ad alcune delle concezioni della
matematica e della fisica moderna, - sembrano potersi indicare nei seguenti
punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in termini matematici; 2. conseguente
impossibilità di pensare, e quindi di definire, sia l'Essere come totalità, sia
la molteplicità; 3. consapevolezza che ogni ricostruzione matematica è valida,
in quanto ipotetica e che altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica.
Sul piano storico si determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale
aspetto della problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito
sul continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come
determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo
stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un
piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie,
né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che
nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi
fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del
continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito,
ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni
punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti
punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno
all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie
di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè
un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito).
Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare
l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale
stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella
consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della
Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i
termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia).
Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici (111) del poema di
Empedocle di Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò
che pare potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita
di quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era
donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di
vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico
detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli
elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot),
l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la
realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina
la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte
aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno
sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella
lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad
Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie
sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap-
porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide,
durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G.,
p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle
abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i
titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura
(ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi
frammenti. 62 sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa
a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro
radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto
il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in
questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle
radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre
quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le due
forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai l'infinito
tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa dell'acqua,
o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita, ciascuna,
d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel momento
d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio si
distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano nell'acqua,
quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di aria
nell'aria. Aristotele poteva cos(sostenere che Empedocle cadeva in
contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti,
per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco
si.raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti; quando,
al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è necessario
che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro (Metaf., l, 4,
985a m). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe-
docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra,
di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su
cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per
la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è
appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma,
appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un
ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I
dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è
riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi
(aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che
è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità
ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo,
oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e
di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che
ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo
frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo
una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono
rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a
caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto.
Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate
dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto
la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a
un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un
lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero
(fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è
piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli
occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi
al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto,
proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli
elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e
distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e
l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr.
2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è
dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di
forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia,
supplico, di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno.
Tu, dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu
fidando all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara
fede del gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di
conoscenza, nega fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E
poiché, appunto, la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è
la via dell'esperienza diretta (fr. 193), è questa che pone l'uomo di fronte
alla realtà costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa
Empedocle richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato
ho commesso qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi.
Guarda, dunque, il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le
costellazioni infuse di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e
nuvole ovunque, e la terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto
(fr. 21). Non solo, dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e
della terra per via puramente sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria,
cioè dello spazio come pienezza corporea, escludente il vuoto che è non essere
inconcepibile, mediante la prova famosa della clessidra. Empedocle descrivendo
il processo respiratorio, dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo
una clessidra nell'acqua. Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di
lucente rame, ne copre il foro con la sua mano ben modellata, e la immerge
nella cedevole argentea pozza, il volume dell'aria che preme dall'interno
dell'orifizio impedisce all'acqua di entrare, finché la fanciulla non libera la
corrente d'aria compressa. Allora, non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra
in quantità uguale (fr. 100, 8-21). E, cosi, sperimentabili sono le due forze
(amore e odio) dalla cui tensione nascono e muoiono tutte le cose, senza che
gli elementi subi- scano variazione. E manifesta è la lotta tra Amore e Odio
anche nell'insieme del corpo umano. Quando sotto l'azione di Amore, gli
elementi si riuniscono in una sola massa, allora i corpi fioriscono di
crescente vita; quando sono disgiunti dalla funesta Discordia, allora le membra
errano separatamente verso le prode estreme della vita (fr. 20). L'uomo,
dunque, in quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare del tutto,
trovandosi come al momento culminante della tensione su cui la realtà tutta si
scandisce, avendo in sé gli elementi e le forze su cui si struttura la realtà,
può conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture coincidono con le stesse
strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione di Empedocle che il
simile conosce il simile, che fra le parti vi è un'attrazione simpatetica. Si
pone cosi in maniera consapevole il problema del conoscere, possibile in quanto
le strutture della realtà coincidono con le strutture del soggetto, in una
identificazione delle parti del soggetto alle parti dell'oggetto (con la terra
vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con l'etere l'etere divino, e col
fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore l'Amore e con la funesta Discordia la
Discordia (fr. 109), ch'entrano in comunicazione mediante effluvi emananti
dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di pori. t evidente in Empedocle
una forte preoccupazione metodologica, per spiegare il ritmo della realtà tutta,
una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza totale, si
rende verosimile l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti, idealmente
dati (la fusione di tutti gli elementi, la separazione degli elementi accanto
agli elementi), diano conto di quella che è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente
son cosi concepibili i due estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e
la disgiunzione della situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via
via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono
teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi
soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero con doppie facce e
petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e
forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose (fr. 61). Per
giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale unificazione e
disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una, dunque, la realtà,
e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi elementi, mobile nello
svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze
opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur nelle sue facce
molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni antropomorfismo,
come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il
mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello alla natura sia-
un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un appello
all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita
che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo.
Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in
tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste
cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu
dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa
(fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico
Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare
nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per
richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama
serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito
puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e
molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna
secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di
esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse,
l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola
in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica
con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi
vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati
venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i
coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la
pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda
acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e
da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle
mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora,
che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle
fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento
di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la
pioggia, che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo
moltiplicare gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a
sostegno di proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e
certi testi di Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando
Empedocle nel suo tempo (nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua
città, Girgenti, in un'epoca di grande attività economica e politica, in una
Sicilia in cui sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della
scuola medica di Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità
di Empedocle non hanno nulla di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso
una serie di esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di
Eraclito e la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di
quattro elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si
distinguono ed. esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di
Parmenide e uno metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco
e razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e
uomo che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura
stessa e la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto
la fisica di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso
l'indicazione del metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la
maggioranza dei cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni
che Empedocle, conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente
invecchiati e falsi. Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti
dell'altro suo carme, “Le purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la
consapevolezza precisa di trovarci di fronte a un uomo vissuto in un certo
ambiente, che ha la coscienza di respirare una nuova atmosfera culturale,
effettivamente civile, e in questo senso purificatoria, di avere. contribuito a
fare avanzare la scienza, che non può essere solo patrimonio di alcuni, ma che
diviene davvero operante in quanto si divulghi, formi una diversa coscienza
critica, un diverso equilibrio e rapporto umano che diviene, dunque, azione
politica, naturalmente entro i termini di una certa situazione storica. In
quanto rivolta ai piu, ai concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la sua
lezione può apparire come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare,
non diremmo Empedocle taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il
suo discorso ai piu, il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro
nella sua genesi, quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto
essere. Il discorso di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa,
senza dubbio arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al
quale egli appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una
nuova religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice,
indicando ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia,
la strada dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e
politica. Amici, che abitate la grande città che declina al biondo Acragante,
sul sommo della cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di
ospiti, che non conoscono la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non
piu· mortale, ma un dio, mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro-
nato di bende e di fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in
grandissimo numero, chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni
vogliono oracoli, altri di malattie innumeri domandano la parola che sana,
lungamente da aspre doglie trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la
parola che sana. Aristotele dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista”
perduto) che come Zenone di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA
RETORICA, l'arte del dire. E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un
medico, e discepolo di Empedocle, e che Empedocle scrive anche un trattato di
medicina, e che ha contatti con i medici di Crotone, con i medici pitagorici e
con i medici agrigentini Pausania e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza
di queste notizie, ma sono sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme
Purificatorio (ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una
specie di discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea
dei discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di
Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a
coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico
delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle.
Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere
sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere
con.certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle,
tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e
d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove
nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo
sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso
dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle,
cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito
dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo
all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere
Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche
se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché
uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di
Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe
quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle sarà
cantato da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo:
poiché Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse,
compiutosi il tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per
ampio giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115.
V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti:
se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue
membra di sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre
volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte
le forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza
dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra
nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li
riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco
dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche
amore, amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione,
onde se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica,
dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di
discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran
parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di
morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio,
che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone,
accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a
Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi
attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta
avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per
disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che lo riveste, per tornare
(ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione
orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere
dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo
(cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII, 70; Suda, s.v.). Ma altrettanto
sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una
donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo
a un immane bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino,
tra i numi del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67
sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica
la portata. Non preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere,
tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è
lo stesso, perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci
crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo umano,
che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo e
ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di
Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza
dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette
chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come
Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola
domina tutta quanta la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti.
La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella
istituzione della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento
con sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione
di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la
passione di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a
volta, l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio
del come accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non.1 caso
Gorgia nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica
e la poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e
particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il
discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità
di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e
opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e
costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere
le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini,
in Sicilia, probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di Empedocle
ed abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella pitagorica.
Con sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di Leontini,
per chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e determina un
notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in Tessaglia, in
Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni. Senza dubbio e
altre volte ad Atene e qui tenne un famoso Epita/io. Muore vecchissimo - quasi
tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in Tessaglia presso Giasone,
tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc tessalo, Licofrone, Isocrate,
Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia, Polo di Girgenti, Licimnio,
Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu famose sono: “Intorno al non
ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”; “L'apologia di Palamede”;
“Epitafio”; “Discorso olimpico”; “Discorso pizio”. Forse è di Gorgia anche un
trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa sia la Virtu con il V grande.
Sotto questo aspetto estremamente importante, proprio per rendersi conto
dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare il fatto che Gorgia, ad
esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma, a chi gli chiedeva cosa
è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino, dell’uomo virile, o del vecchio?
della donna o dell'uomo? (cfr. Platone, Menone, 71e; Aristotele, Politica, I,
1260a, 17). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le indagini matematiche.
Ippocrate di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione della casa dei
pitagorici a Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si sarebbe
rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe fondato un circolo pitagorico di cui un
prosecutore sarebbe stato Filolao, fiorito nella seconda metà del V se- colo,
che sul finire del 400 sarebbe andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece,
rifugiato in Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a
sua volta da Archita di Taranto, uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico
di Platone. In realtà di Filolao e di Archita sappiamo molto poco.1 Non ~enza
una qualche ragione, anzi, particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si
è giunti a dubitare che gli stessi frammenti che si ritengono proprii
dell'opera (Sulla natura) di lui, siano in effetto rielaborazione, se non
falsificazione, di Speusippo, il nipote di Platone e suo succes- sore nella
direzione dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto Sui numeri dei
Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone nel Fedon pur
discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo, soprattutto per
quel che riguarda il mo- tivo dell'armonia dei contrari, e cosi:, in piu passi
degli altri dialoghi l in particolare nel Filebo e nel Timeo, sembra
riallacciarsi a certi mo- tivi che paiono tipici di. Filolao (armonia del
limite e del non limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali).
Ad ogni modo l'ac- cenno che nel Pedone Platone fa direttamente a Filolao è
molto so- spetto: O come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di
questi argo- menti, voi che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di
preciso, Socrate. Anch'io, veramente, solo per averne udito parlare di queste
cose (Fedone, 61tl). Chi abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che
generalmente Platone usa questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli
attenti in- torno a certe dottrine. Nel caso preciso Platone avverte che la
tesi che sta per esporre, appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge
at- traverso l'analisi di se stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla
ragion d'essere del tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao, ma
interpretazione personale, volta a certi scopi precisi e diversi. Tal- volta,
effettivamente, dietro alcune tesi platoniche si nascondono mo- tivi esistenti,
ma che in realtà avevano storicamente tutt'altro signifi- 1 Scarsissime sono le
notizie sicure su Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo che visse nella
seconda metà del V secolo: fu senza dubbio contemporaneo di Socrate (dr.
Feàone, ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao).
"Demetrio negli Omonimi dice che Filolao fu il primo a pubblicare i libri
dci Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L., VIII, 84-85). Su
questo e sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto discusso e la
questione è ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo
tra il V e il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto,
amico di Platone (cfr. VII lettera, 338b, 339a) che riusci a far partire
Platone da Siracusa, quando Platone nel 361/60 si trova in quella città semi-prigioniero
del tiranno Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo Aristosseno (fr. 48 Wehrli)
Acchita, quando fu stratega, non fu mai sconfita~: ritiratosi dal comando,
cedendo all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato. Questo, con tutte
le cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto un certo aspetto,
di Archita: Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le conclusioni
dell'Uno massiccio di Parmenide, rielabo- rato un pitagorismo a modo suo, pur
rifacendosi a certi motivi che po- tevano scaturire dalla discussione di
Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare
da certe pagine del Par- mmide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che
sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno
molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es-
sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare
a sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di
Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu
probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di
piu altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in
effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di
Aristotele. Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se-
condo pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza
contro coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di
teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati
al primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul
piano delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e
aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di
Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del
tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai
pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi
frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i
pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli
atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo,
facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo
meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere
aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome
generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che
si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato della
testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli
atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle
scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello
studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero
i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono,
naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco,
nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono
(Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del
tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e
i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in
particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come
scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a
numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la
tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il
secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita
di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf.,
986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde
vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di
risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri
termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte
aritmetiche e àltre musicali abbiano -portato a impostare il pro- blema della
pensabilità del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a
quantità il pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e
misurabilità resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu
uno o altro punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti
(finiti e infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come " parimpari,"
per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade)
e diade. L'unità e la molte- plicità si conciliano cosi in una serie infinita
di numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia
dei contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è
unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti
(Filolao, fr. 10). Il che non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza
ultima della realtà: la causa o le cause prime - saranno questi i problemi di
Platone e di Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità
di pensare il reale: la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa
richiedono conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e
noi conosciamo 106 sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la
sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate
(fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non
sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si
potessero ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la
numerabilità e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili
(pari) e indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti
di misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è
condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice
Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né
conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e
il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte
forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr.
5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di
cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la
condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la
scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno
tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole
cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma
questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co-
noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar
corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di
quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte
le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste
nell'armonia, nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna
menzogna accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la
menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e
dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria
della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico,
per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e indefinito,
illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in quanto ciò che
si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra qualità, ma è
traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite di piani, di
linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari punti, o ciottoli
dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti uguali l'uno
all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva, che dunque non
è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi ad un tempo
pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose sono
necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e
illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in
Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia
oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3);
cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla
constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si
colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune,
viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi
illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le
sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le
figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret-
tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si
determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi
e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che
tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta
fondamento delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali.
La natura del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono...
anche in tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle
attività tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo
ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile
che ci sia sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per
esso infatti ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri
ricevono dai ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli
altri di avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i
torti (fr. 3). Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione
del- l'universo ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un
lato può darsi che Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e
forse risalenti allo stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della
sfericità della terra, del moto dei punti, costituenti le figure, del moto
inteso come respiro dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in
figure piane e solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può
essere sospetto, soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti,
“sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che
ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel
Tim~o, fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio
alquanto posteriore a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una
rico- struzione a posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo
primo e secondo (l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di
matematizzare l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui
sono presenti anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i
frammenti che si dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del
tempo o anche anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo
posteriori per giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria
di Filolao, sia una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court.
Non solo, ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione
pitagorica solo attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di
Simplicio che non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da
Aristotele, e da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco,
intorno al quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato
alla decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che
non ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato
da un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che
sembra risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in-
determinato spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con
distanze uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano
sopra la 109 parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a
quelle che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto
alla parte centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte
(Filolao, fr. 17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da
esso si generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono
o la torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato,
l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si
determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la
realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente
intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo:
la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché
ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti
(Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao
dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che
è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna
e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi,
sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la
parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro
purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in
cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare
dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo
Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi
celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la
dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là
dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la
tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è
quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia,
trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr.
Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra,
infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina dell'armonia
delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita direttamente i
pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una posteriore
interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento degli astri
nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi sono
consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi grandi, ne nasca
un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiu, i
quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non
nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna
e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità.
Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle
distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono armonico il
suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che questo suono non
lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre dal nostro nascere;
manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo
distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in
contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che accade ai
fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu (De coelo,
II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco, che è al
centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del tutto, cosi:
sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo musicale. L'anima,
in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come l'uno centrale, il
focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra gli elementi
contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce, essendone la
condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto questo
aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima, ché
l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la
condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che
è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche
se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei,
dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le dottrine
cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha fatto
risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del primo
e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e sistemazioni
posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe conce- zioni
proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da Teeteto (cfr.
la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale icosaedro, aria
uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale dodecaedro), sono state
piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao (cfr. E. Sachs, Die
fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette pitagoriche sono in
realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono interpretazioni che,
comunque, rispondono;~ problemi e ad esi- genze di altri pensatori in altre
situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei secondi pitagorici, o
almeno dei 111 matematici della seconda metà del V secolo, è il
valore dat~ all'i(lotesi, intesa etimologicamente come il presupposto che
permette un. certo ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di
pensare e che hanno estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi-
lolao. Di qui la critica di Platone a coloro che si sono occupati di geo-
metria, di aritmetica, di astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da
queste non sono giunti ai fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste.non
son giunti dalla suprema ragion d'essere (cfr. Ref1., 510c); e la critica di
Aristotele secondo cui i pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il sensibile
e l'intelligibile (Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione Abel Rey (La science dans
l'antiquité, Parigi) quando sostiene che i pita- gorici hanno insistito sui
" primi principii della scienza che non sono però i primi principii in se
stessi assolutamente parlando." Entro questi termini può essere opportuno
ricordare che a Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio della
proporzione o medietà ar- monica (di quarta, di quinta, di ottava), accanto
alla proporzione arilm~ tica (le cui proprietà furono formulate da.Archita) e
a quella geometrica. Queste ricerche e studi appaiono come l'aspetto piu
saliente del secondo pitagorismo, insieme a un altro problema che si presentava
loro, e che, forse, entrava in contrasto con la teoria dei punti-unità dei
primi pi- tagorici, il problema degli incommensurabili o numeri irrazionali
(detti prima indicibili, 4ppYjTat; poi irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia
po- neva le basi di nuovi rapporti e misure, la possibilità del passaggio dalle
figure piane (geometria), alle solide (stereometria). Di qui da un lato il
problema della duplicazione del quadrato e dall'altro il problema della
duplicazione del cubo, che vennero spostando il problema da un'inda- gine piu
strettamente aritmetica a una indagine che divenne sempre piu strettamente
geometrica. Non sappiamo con precisione a chi risalga la teoria delle grandezze
irrazionali. Probabilmente si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare
il teorema detto di Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo
rettangolo isoscele, ci si accorse ch'era impossibile misurare e indicare con
un numero la diagonale del quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli
irrazionali fu poi approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come
risulta chiaramente da Platone. Quanto alla duplicazione del cubo, o problema
di Delo (cosi detto perché secondo la leggenda, conservataci da Eutocio,
l'oracolo di Odo avrebbe richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli
al- tari del tempio, clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si 112
sia dedicato il matematico Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene
per ragioni di commercio vi si stabill insegnando matematica tra il 450 e il 430,
scrivendo i primi elementi di geometria ed entrando in rap- porto coi maggiori
esponenti della cùltura ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione del cubo
il metodo, da lui stesso scoperto, detto apagogico, che consiste nel ridurre un
problema a un altro problema, di modo che, se il secondo è risolto, o
dimostrato, lo è ugualmente il primo. Egli stabilisce cosi che il problema
della duplicazione del cubo era di trovare due medie proporzionali fra due
numeri dati e non una sola media come per la duplicazione del quadrato (cfr. P.
H. Michel, La science hellène, in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p.
236). Sempre a Ippocrate di Chio sembra si debba l'impostazioné del problema
della quadratura del circolo, cui credette di poter giungere mediante lo stu-
dio dell'area delle lunule, che, se non risolse la quadratura del circolo,
servi a formulare nuovi teoremi. In questa epoca il problema della quadratura
del circolo fu ripreso e discusso anche da lppia di Elide, che mediante la
curva la lui detta di Ippia o
quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della
trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando
indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un
cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV
secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non
a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a
questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si
era formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come
inesistente, ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo
di ricerche (volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la
realtà, o delle condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle
che esplicano il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da
costituire una ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende
ciò che allora s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto
(come avverrà con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in
senso gene- rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu
la matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare
e di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti,
di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo
di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal
proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II
secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e
particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il
significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della
Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si recò a
ROMA per l'AMBASCERIA DEL 155, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si
formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333.
Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre
Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative
alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten),
delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere
generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono
essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella
giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in
Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce
come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole,
o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi
stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche,
indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui
il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per
prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo
dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un
ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e
strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in
modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre
sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica
crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in
un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che
piu forte- mente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che
si vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta
l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti
con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra
difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di
quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui
esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili
a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e
sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze,
che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua
logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati,
e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato,
dall'e·sposi- zione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di
Ze- none, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante
e a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo
cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi
in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per
analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e
la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un
atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul
probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla
logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno
o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto
ba- sate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale
diamo quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente
ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella
consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si
libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le
mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e
volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date
una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la
spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di
girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in
nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli
stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e
delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno
e l'indole degli animi (Cicerone, De fato, 41-43; Aulo Gellio, Notti Attiche,
VII, 2). Altro di Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili
discussioni sugli indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente
certi sviluppi relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli uomini
sono uguali e, idealmente almeno, hanno quindi
tutti gli stessi diritti da natura (il giusto è per natura e non per convenzione,
come anche la legge e la retta ragione, secondo dice Crisippo ": Diogene
L., VII, 128), le interpretazioni allegoriche degli dèi, alcune affermazioni
paradossali, sono certo posteriori a Crisippo, e se prestiamo fede alle
ricostruzioni di Cicerone, furono proprii della Scuo- la e in particolare di
Diogene di Seleucia o di Babilonia e di Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone
di T arso, successero nello scolarcato della Stoà durante il II secolo. Secondo
Antipatro si deve rivelare ogni cosa, perché il compratore non ignori nulla di
ciò che conosce il venditore: e per Diogene il venditore deve dire i difetti di
ciò che vende, fin quanto vuole la legge; per il resto agisca senza inganno e,
poiché vendè, venda nel modo migliore... E mentre Antipatro dice: " M a
come? Mentre devi provvedere agli uomini e ren- derti utile al consorzio umano,
a tale scopo sei nato, e riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo
è inseparabile dall'utile comune e vice- versa, terrai nascosto agli uomini
quel vantaggio che può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro
è tacere. (Cicerone, De officiis, III, 51-52). In effetto sembra che se da un
lato molte delle discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di
esercitazioni dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali
esercitazioni ponevano il problema della eticità su di un piano casistico, che
venne, non poco, spostando la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo
una maggiore duttilità nei confronti delle singole situazioni politiche, mentre
il motivo dell'ugua- glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione
naturale assu- meva significato polemico di fronte alle sempre piu gravi
sperequa- zioni sociali, anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove
tutto si dispone in ben precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva
giustificare proprio quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento
polemico, invece, tanto meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III
secolo (Bione di Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli,
Telete), che, mantenendo il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo
di società, nelle loro satire e diatribe e meliambi, forme letterarie
propriamente popolari e rivolte al popolo, vennero puntando l'accento sulla
sperequazione tra ricchi e poveri: Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non
toglie ai ricchi la loro maialesca ricchezza? A quali signori, dunque, a quali
celesti dovremo rivolgerei, per avere il giusto compenso, quando il Cronide,
che tutti ci ha generati, che anche a noi ha dato la vita, degli uni si
mostra padre [dei ricchi], degli altri patrigno [dei poveri]? (Meliambo I, v.
9, w. 23-27). Alla morte di Crisippo, avvenuta ad Atene tra il 208 e il 204,
sco- larca dell'Accademia era Telecle, successo a Lacide di Cirene, ch'era
stato a capo della Scuola dalla morte di Arcesilao (240 circa) al 223. Di
Lacide, ch'ebbe notevole fama di maestro, che fu circondato da molti discepoli
venuti ad Atene da· tutte le parti del mondo greco, sappiamo solo che espose
per scritto il pensiero del maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle,
morto verso il 178, e meno ancora del suo successore Evandro, che lasciò la
direzione dell'Accademia a Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo
Carneade. Di altri Ac- cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi,
Aristippo di Cirene e Pitodoro, che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle
argomentazio- ni di Arcesilao (si cfr. Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc.,
XXVII, 9; Cicerone, Lucullus, VI, 16; Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro
importanza sembra, dunque, soprattutto dovuta all'avere costituito una
tradizione arcesilea, prendendo le mosse dalla quale Car- neade,1 in un
approfondimento delle argomentazioni di Arcesilao, serratamente discusse gli
scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non fosse sta- to, neppure io sarei:
Diog. L., IV, 62) e le tesi stoiche elaborate dai discepoli di Crisippo,
Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade (Cicerone, Lucullus, XXX,
98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di Carneade, del quale si dice che
mai osò attaccare Carneade nella scuola o in piazza, preferendo difendere lo
stoicismo attraverso gli scritti (Numenio, fr. 5). Nato a Cirene nel 219 circa
o nel 214, in una città ricca di tradizioni scientifiche e culturali - da dove
erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene tra il 219 e il 214, Carnéade venne
ad Atene in un'epoca che non è dato precisare. Ad Atene si preoccupò
soprattutto di rendersi conto delle varie com- ponenti culturali: ascoltò
Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene di Ba- bilonia, scolarca della
Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di vastissima cultura, dia- lettico
sottile, buon parlatore. Successe nello scolarcato dell'Accademia a Egesino di
Per- gamo. Probabilmente fu proprio la sua fama di dialettico e di buon
parlatore che fece decidere gli ateniesi ad inviare a Roma Carneade insieme
allo scolarca della Stoà Dio- gene di Babilonia, e allo scolarca del Peripato,
Critolao, in qualità di·ambasciatore presso il senato romano (155 a.C.). Gli
ateniesi, condannati da Roma a pagare una·forte multa per avere saccheggiato
Oropo, inviarono Carneade, Diogene di Babilonia e Critolao, a Roma perché
cercassero di far ritirare il provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati
subito dal senato, i tre ambasciatori presero contatto coi giovani romani,
discutendo con loro di filosofia. Chi fece la massima impressione, per la sua
arte dialettica, per avere un giorno esaltato la giustizia e il giorno dopo,
con altrettanti argomenti convincenti, sostenuto che la giustizia è stoltezza,
fu Carneade. gli accademici Aristippo e
Lacide, - Carnel).de, ad Atene, ascoltò le lezioni e le discussioni dei
maggiori maestri, dallo scolarca dell'Accade- mia Egesino di Pergamo a Diogene
di Babilonia, scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”, VI, 16; XXX, 98).
Studioso e lettore attento di scritti filosofici di ogni provenienza dice
Cicerone che Carneade co- nosceva a fondo ogni parte della filosofia:
Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e sottile dialettico, sembra che per
queste sue doti sia stato scelto da Egesino a succedergli nello scolarcato
dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non abbia scritto nulla, indica
chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della filosofia come
sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non tanto un
atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un continuo
richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibi- lità umane
verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la
discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa lo- gica dello
stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra conce- zione, sia pur
rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una " filo- sofia," ma
egli, riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti
del discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e
dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e
implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione
umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del
passaggio dal discorso umano ad un presun- to discorso della realtà. E,
soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse fino al 129 circa.
Intorno al 137, vecchio e ammalato, aveva lasciato la direzione dell'Accademia,
che passò al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al maesto (131). Lo
scolarcato dell'Accademia fu quindi tenuto da Cratete di Tarso, al quale, morto
nel 129, successe Clitomaco di Cartagine. Carneade non lasciò scritti. Su di
lui e sul suo modo di pensare scrisse Clitomaco, che, probabilmente, fu la
maggior fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi
dell'Accademia furono: Speu- sippo (347·339), Senocrate (339-314), Polemone
(314-270), Cratete di Atene (270-268), Arcesilao (268-240), Lacide (240-223),
Tclecle (223-178), Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di
Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma nel 155, sappiamo
molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, successe nello scolarcato
della Stoà a Zenone di Tarso: soprattutto si occupò di dialettica e di
retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante (264-232),
Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di
Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui.
Successe nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrisse una “Storia
del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi
predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele:
Teofrasto (322-288/86), Stratone di Lampsaco (288/86-27-2/68), Licone di Troade
(272/68-228/25), Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di
Tiro. 274 logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di
affidarsi a una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la
possibilità che una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui,
di contro ad ogni tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi
o del divino, l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle
proprie possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo
tipo di filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della
serietà dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di
scienza delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per
volta il limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la
consapevolezza dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero.
Carneade, certo, non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda
i limiti della logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e
della Legge, e senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della
libertà e della umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di
Carneade alla consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al
significato e alla funzione che ha il fi- losofare, non è un vuoto appello, ma
una concretissima presa di po- sizione, nei confronti di tesi che finivano per
alienare- l'uomo, in una situazione storica particolarmente favorevole a simili
evasioni ed evi- tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto
alla discus- sione svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica,
della veracità o meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capa-
cità di discernere i ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della ne-
cessità della epoché (discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto
simile a quella svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la
precisa problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di
porre da un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là
dove dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una
legge universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per
cui almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si
decide né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre
l'inconciliabilità tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire
il proprio mondo e d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è
legge. Ma nel sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguen-
za ed a consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran
parte del pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel
quale si vede bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce
e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono
dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della
scuola aristotelica, che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle cause
prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine
delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per
altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche
ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone,
con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'u-
niverso. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a
Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale,
che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte
degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove
giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe
proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di
implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non
è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter
affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto
impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi
l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio
perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro
(antilogia), ogni di- scorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità -
la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le
impres- sioni e i relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come
scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun
criterio assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela
il criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro
cosmologia, la loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano
l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione
umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i
termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa
giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio
utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e,
nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto
alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile
proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste
affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della
stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa
(Lattanzio, Div. inst., V, 276 16, 2-3). C'è, dunque, un diritto
civile, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la
giustizia in due parti, chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade
le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera
giustizia, e la seconda è 1..erto naturale giustizia, ma non saggezza
(Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto
negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia,
ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di
là dall'uma- no discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del
tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia
Cicerone, confutò la giust1z1a, non già perché pensasse che essa dovesse essere
ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla
giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo
stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la co- smologia, la
provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi
stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni
stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia
ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all"' ironia"
socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone,
Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De
finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte,
infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che
sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce
il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la
condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la
sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro,
allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non·
contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere
assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o
cre- dibile (7tr.&«vov- pithan6n ). Molto si è discusso sul significato che
ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il
Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16}, di considerare
del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithan6n, che darebbe fondamenmente
si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che
dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno
della scuola aristotelica, che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle
cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare
nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole
scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma
pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la
dialettica di Platone, con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la
matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi stoici, in
particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici,
alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico -
non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali,
particolarmente semitiche, ove giovani si formano - poteva aver quell'esito,
che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si
costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna
delle quali non è, presa in sé1 né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio
per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto
impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi
l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio
perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro
(antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità -
la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni
e i relativi ricordi, per cui la stessa DIALETTICA, intesa come scienza che
dovrebbe distinguere il vero dal falso nel discorso o dialogo, non ha alcun
criterio assoluto e quindi è vana, si come vano sul piano ontologico si rivela
il criterio dell'analogia con cui gli stoici hanno costruito la loro
cosmologia, la loro concezione del divino, della provvidenza, con cui provano
l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Cotruzione umana,
le umani discorsi e l’umane verità, le une e gli altri validi entro i termini
della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è
storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal
momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di
una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto
naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio,
sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la
giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in
servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V,
276 16, 2-3)... C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto
naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti,
chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue,
dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda
è terto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il
che, ancora una volta, non significa affatto negare la giust1z1a o opporre alla
tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di
cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'uma- no discorso e dalle
situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su
cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giusUZla, non già
perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i
suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento
certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che
riguarda gli dèi, la co- smologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale
e naturale) e cos1 via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire
fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia
ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia
all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto,
Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII,
XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim).
D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e
di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui
si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a
porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso
tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un
possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra
chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non·
contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere
assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o
credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul significato che ha
in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal
Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16) di considerare del
tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon, che darebbe fondameoto al
suo probabilismo, come anche di considerare il probabilismo del tutto a parte
rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per con- tro, un attento esame della
questione porta a concludere che, anche a proposito del problema dell'azione e
del motivo della probabilità, Carneade non ha fatto che attenersi al classico
metodo della ritorsio- ne polemica nei confronti dello stoicismo. Crisippo
sostenne che il probabile conduce all'assenso, ma non certo all'assenso della
rap- presentazione comprensiva; mentre tale assenso infatti è criterio di
verità, la probabilità è causa permanente di errore; ci si potrà difen- dere da
esso percorrendo interamente ogni enunciazione, evitando che il conflitto delle
ragioni in pro ed in contro ci distolga dalla rappre- sentazione comprensiva,
evitando soprattutto che l'indebolimento del- l'assenso ci porti a !asciarci
sfuggire la rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade rispondeva
all'incirca nei termini seguenti: il vostro criterio, o stoici, della
rappresentazione comprensiva non è in fondo che un pithan6n, ossia una di
quelle probabilità che voi considerate come perenne fonte di errori; la vostra
dialettica, che è tutta la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla
probabilità diviene una pura e semplice arte di persuadere, una retorica; la
vostra pretesa di costi- tuire, partendo dalla sensibilità, una scienza del
vero e del falso, è vana; per l'azione è sufficiente la persuasione, come
mostra lo stesso sapiente stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza
compren- siva; la vostra teoria della conoscenza non ha dunque oggetto; pro-
prio e solo alla persuasione voi siete costretti a ridurvi; il pithanon è
l'unico punto che vi resta di tutta la vostra filosofia." La rappresentazione
ha due aspetti, uno relativo all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto
all'oggetto essa vera o falsa... Rispetto al soggetto ap- pare vera o faisa: e
quella che appare vera si chiama persuasive, “pithane”. Ora, quella
rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza chiaro, è per Carneade
criterio di verità... per la. condotta della vita e l'acquisto della
felicità... Talvolta accade anche che una tal rappresenta· zione sia falsa. Ma
siccome questo capita di rado, si pu~ prestar fede a quella che per lo piu è
vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in conformità di
ci~ che è il piu consueto (Sesto Empirico, Atlv. math., VII, 166-173). Il
criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione
persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come
una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio
sarà la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”.
Come alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO,
ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni
giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la
contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu
della rappresentazione non con- traddetta è persuasiva e perfetta generatrice
di giudizio quella che ag- giunga al non esser contraddetta anche l'esser
esaminata in ogni parte (" diexodeuméne "), per esempio, per quel che
riguarda il giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la
distanza e l'intervallo,. il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e
cosi via. Nelle contingenze comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola
rappresentazione persua- siva; in quelle un po' importanti la non contraddetta;
in quelle poi che in- fluiscono sulla felicità, quella esamimta in ogni parte
(Sesto Empirico, Adv. math., VII, 176 sgg.). Cicerone e Sesto sono le uniche
fonti per avvicinarsi alla pos1z10ne di Carneade. Cicerone sembra attingesse -
ma personalmente li rielabora, agli scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco
di Cartagine, che fedelmente espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo,
comunque s'intenda o s'interpreti la tesi del pithan6n, sia pur attraver- so la
ricostruzione che dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che
del cosiddetto scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente
emerge è il continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo
umano, ad assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o
venerabile che sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee,
rende conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un
accantona- mento delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma di-
struggitrici di quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed
entro i termini delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto
dell'impressione che fece in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in
cui, dopo aver sostenuto il valo- re della giustizia con argomenti convincenti,
con altrettanti convin- centi argomenti ne dimostrò l'assurdità. Ma ci rendiamo
conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade,
e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene
di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA (156-155),
per convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a
pagare una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e
se ne andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA NEL 155 è un
episodio, ma è un episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela,
può indicare un termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica
propria del pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a
situazioni diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due
culture diverse di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a
culture orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo
greco attraverso Roma. Certo non fu all'indomani del 155 che tutto divenne
diverso. Ma è sicuro che già coi primi discepoli di Carneade (dei quali
peraltro sappiamo pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio
Carneade, che venne meno nel 129 erica, Cratete di Tarso, Clitomaco che
fedelmente espose il pensiero del maestro), e particolarmente con Carmada e
Metrodoro dai quali deriva Filone di Larissa (160-79), che fu a Roma e del
quale Cicerone ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona (130-68), si puo
determinare una problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni
diverse e a diverse richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica
modificazioni e compromessi che dettero luogo alla cosiddetta media stoa,
indicativi anch'essi di situazioni diverse e di diversi controlli umani e
politici, ove in nome dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto
naturale e della legge universale, si puo riconoscere Roma la capitale del
mondo, caput mundi), recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche
dei caldei, sia certi aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma
non è un caso che proprio in questi tempi, tra la fine del II e l'inizio del I
secolo, vi sia un rifiorire dell'epicureismo e si diffonda un epicureismo
romano che già condannato dal senato romano, nel 173 o nel 154, con
l'espulsione degli epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi
licenziosi (Ateneo, XII, 547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un
appello alla plebe, fino all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in
Epicuro piu che una dottrina un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere
LUCREZIO e l'epicureismo romano se non si tengono presenti proprio quelle
situazioni di cui parlavamo, e senza di cui è difficile rendersi conto del
delinearsi di una nuova civiltà, frutto di un incontro, di uno scontro e di un
dialogo, diversi da quelli da cui si generò il complesso delle compo- nenti
della cultura greca: la quale, a sua volta, offri i suoi elaborati strumenti,
ma in una modificazione dei suoi contenuti. Roma si assicurò il dominio
dell'Egeo nel 190, nel 188 (pace di Apamea) conquista l'Asia Minore fino al
Tauro, nel 168, con la battaglia di Pidna, la Macedonia fu definitivamente
sconfitta, e, nel 148, con la seconda battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA
ROMANA. Nel 146, a causa di un'ultima rivolta della lega greca, Roma, dopo
avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le città greche, trann~ Atene e
Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone, nato verso il 170, cosi canta la
distruzione di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua ammirata bellezza, dove
le tue corone di torri e le ricchezze antiche? Dove i templi degli immortali e
le case? Dove le spose sisifee e le miriadi di folla? Nessun VESTIGIO è
rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato la guerra. Noi
sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare il tuo
dolore (Ant. Pal., VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano essere, si come
tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e tormentata
storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro significato
simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu il primo
poeta greco che volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è la
vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo la
battaglia di Pidna (168) tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A
Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo,
descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto
un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si
richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oserò avanzare
l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] de- ride è il fondamento
della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato
introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e pri- vata con ogni
artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne
potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stu- piranno
nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le
masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero
filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato
le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni.
Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile
e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion.veduta, gli antichi
insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La
folha. ~ la.incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt dtsperdere
tah liluswni (VI, 56). E non è, forse, senza interesse ricordare che proprio IL
CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera (Scritto sacro)
di Evemero di Messana (vissuto tra il 340 e il 260 a. C.), in cui Evemero,
rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita degli
dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in vita,
che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la
morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a
Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra la seconda
metà del secondo secolo e la prima metà del primo a. C., tra l'ambasceria dei tre
filosofi a Roma (155) e la morte di Cicerone (43), si trova di fronte a un
insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo
non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il
termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21)
nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia
critica philosophiae, Il, Lipsia, p. 193) e da allora adottato da tutta la
storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio dell'ultimo secolo
avanti Cristo e di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato
di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone (morto nel 119 circa), per gli
stoici Panezio (180-109) e Posidonio (135-51), per Mnesarco (1 sec. a.C.)
successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di
Larissa (160-79) e Antioco di Ascalona (1.30-&1), successi nello scolarcato
dell'Accademia a Clitomaco (187-110), per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al
di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone
di Sidone, Fedro, Filodemo, Patròne, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro
(98/95-54/51), mentre con Enesidemo (di cui non si sa con certezza il secolo in
cui visse, ma sembra il 1 a.C.) si avrebbe un ritorno all'originario
scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza
di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione
storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per
Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è
Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia
assunto un diver~ significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo
di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che
Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del
significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i
termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento
drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di
quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove
richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di
Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua
formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a
guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e
culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare
con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE
ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale
(168 a.C.), a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio
che furono Cuma e L’ETRURIA prima (fin dall'viii secolo a.C.), TARANTO, la
MAGNA GRECIA (282-266) – Crotone, Velia --; la SICILIA (264-210) poi. A tal
proposito Cicerone (106-43 a.C.) è piuttosto preciso nel dichia-rare
l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che
avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo
della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una
determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di
vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente
determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un
tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE,
dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche
terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia –
Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di
"pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione
ARISTOCRATICO-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive
Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri
connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi,
trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime
origini di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le
leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le
assemblee popolari, gli appelli al popolo; il consesso dei senatori, la
ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare. Però,
quando lo stato lazio o romano e liberato dal regime monarchico, si verifica un
progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni specie di primato.
Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei
nostri ante-nati né della costituzione e del governo dello stato lazio o stato
romano. Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti
fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano
state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri ante- nati
avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e
rinomanza, Pltagora, che visse in Italia al tempo in cui liberò la patria Lucio
BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere
penetra anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile,
ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti le grandi e potenti città dell'Italia
meridionale – Crotone, Taranto, Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia,
sono al culmine del loro splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di
Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali
siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per
ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA che regna tra il 714 e il 671,
molto prima del tempo di Pitagora, e stimato dai posteri un pitagorico. Essi
infatti conoscevano le teorie e le massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori
avevano avuto notizia della equità e della saggezza di quel re. Ma, facendo una
confusione cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perdeva nella lontananza
del tempo, credeno che colui che primeggia per sapienza e un alunno di
Pitagora. E questo basti per la congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici,
benché se ne possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è
questo l'argomento della presente discussione, Si dice che essi solevano
esporre in poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità
le loro menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica. E CATONE,
scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini” che presso i nostri ante-nati
vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero,
accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta
da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto applicato ai suoni musicali e
la poesia. Per quanto anche Le Dodici Tavole rivelano che già allora si
coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che non e lecita la
diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è
che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono
della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica
di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO, console nel
307 e nel, 296, che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone, di
cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di
Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi,
è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti
particolari che risalgono ai pitagorici. Ma li tralascio, affinché non appaia
che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi. Lo
studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi,
però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a LELIO, detto
sapiens, oratore, stoico, console nel 140, e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi
erano giovani, mi risulta che furono mandati dagli Ateniesi come ambasciatori
presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico Carneade (155 a. C.)
(Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3). Sembra, questa, una pagina abbastanza
indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente mostrata
l'UNILATERITà della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia qui un
giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica
AUSTERITà romana, cui puo servire il topos della vita pitagorica, e dall'altro
lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da
fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la
stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente
politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della
cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei
problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si
presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al
suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di
interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le
aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un
mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa
anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente
distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di
retorica, dall'~atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali,
com'è chiaramente dimostrato dal “De inventione”, un manuale di retorica, al
“De Oratore”), non può concretamente agire, determinare una certa condotta
piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non
avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal
riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge
rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura
stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando
le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si
tenga conto delle varie situazioni storiche dall'85 al 44, per ricostruire, piu
che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui
si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la
trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova
atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo
si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga
la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche
e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir
bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi
in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella
società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si
capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e di
società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl
come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i
vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle
concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare
gli uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria
esposti da Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di
CRASSO e di ANTONIO, a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i
fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini
politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De
Oratore”, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica
ha da trasformarsi in ORATORIA, cioè in filosofia, nel senso che la verace
persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA)
istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un
complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri,
di ciò che ragionevolmente anche del- l'ordine del tutto e della realtà e del
divino può essere accettato (consensus gentium), donde, nel conflitto tra
"filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone
alla psicagogia del Fedro platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un
tempo, accanto alle ipotesi (discussione giuridica di casi particolari), alle
tesi (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e
delle concezioni degli stoici la cui casistica e discussione scolastica, offre
larga mèsse per le tesi" -, ma anche alla duttilità discussiva di un
Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione
e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per
cui, appunto, Cicerone verrà criticando e esclu- dendo sia il fato sia la
divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante espositore
di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme
dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto con- trasto e
conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole:
vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi;
ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere
di probabilità, senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali
ubbidire di necessità. (Tusc. disp., IV, 4). Vi è piuttosto, in Cicerone, una
sottile noia nei contronti delle di- spute di scuola, l'esigenza di ricondurre
sul piano di un concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica
morale sia la problema- tica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di
usare le tecniche retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione
etica o religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia
salvazione della libertà romana, della cQflcordia di Roma, lacerata nei conflitti.
Tale consapevolezza portava Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro
della cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di
retorica, pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando con- cetti e
motivi elaborati dai greci, aveva cercato di dare una consapevo- lezza critica
(filosofica) al popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse
piu né greca né meramente precettistica e sco- lastica: Magnifica e gloriosa
cosa è per i Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per
certo, adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1).
Stando cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone,
ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Pane- zio, Posidonio,
Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cos(via), ché, sempre, anche quando
Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di
quegli autori, egli usa quelle fonti in fun- zione di un suo fine, in funzione
del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e,
nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile,
attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è
ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la
stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il
senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una
problema- tica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e,
dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e
correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla compo-
sizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure,
appaiono evidenti quattro punti fondamentali. La cultura greca, in senso
stretto, a parte i contatti con il mondo greco prima del 168 a.C., penetra in
Roma sotto forma di inse- gnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai
liberti greci, soprat- tutto per ciò che riguarda la retorica. 2) Quella stessa
retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente ~recierano richiesti dai
romani delle classi superiori, m quanto strumento per una formazione culturale
che servisse alla vita politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di
Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro
culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro
lato entrarono in rapporto con personalità ro- mane, furono a Roma, insegnarono
a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente
e in occidente. 4) Nes- sun romano, discepolo di piu di un maestro greco e
attento a correnti diverse, fu, tra il secondo e il primo secolo a.C., filosofo
di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo,
oratore, finché pro- prio in questo, in questo saper governare, consisterà per
essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium,
ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente
dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della vita
contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato
negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica"
romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas,"
attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i
problemi e gli ideali di vita con l'av- vento del principato e dell'Impero. Filosofia,
retorica, politica e diritto. Da Catone a Cicerone. Rispetto al primo punto sembra
ora non poco suggestivo riportare un testo del De Oratore, in cui Cicerone
riferendosi ai tempi immedia- tamente posteriori alla conquista del mondo
greco, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il suo
dominio su tutte le genti - assicurò un certo otium, non vi fu giovinetto
posse- duto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i
suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne
della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un
qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere
col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli
oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei maestri
greci, fu veramente con incredibile studio che i ro- mani s'infiammarono per
l'eloquenza... (De Oratore, l, 4, 14). I romani delle classi aperte al governo
si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) aveva la
retorica, e poiché incon- trarono presso i greci e le scuole gr.eche la piu
ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei greci,
trovand6 numeroso per- sonale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano
le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto ('Zl2),
quando da Taranto·fu condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne
poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron.,
Chron., 187a). Con Andronico, accanto all'insegna- mento privato del greco,
ebbe inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegnava
Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui
ricordare - ebbe anche inizio, in Roma, sul calco della scuola
greca,'l'insegnamento secondario. L'inse- gnamento primario, cioè
l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al
periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degli
etruschi e il metodo di insegnameoto della scrittura, derivato agli etruschi dai
greci (cfr. I. Marrou, Storia dell'èducazione nell'antic/Utà, Roma, p. 333).
L'insegnamento secondario latino appare molto piu tardi, verso la metà del m
secolo a. C.. Questo ritardo non deve. meravigliare; l'insegnamento secondario
classico si basava in Grecia sulla spiegazione dei grandi poeti e prima di
tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale
studio dal momento che non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il
paradosso, che non è forse stato abba- stanza messo in rilievo, che la poesia
latina è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi
all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo
romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente data
in greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche il primo professore di
letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio Andronico di TARANTO, segnalato
come il primo in data dei maestri di gr.eco che hanno insegnato in Roma. Egli
tradusse IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia o la loquela dei lazini l'Odissea,
servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio. Tale traduzione e per Andronico
un testo che egli spiega, praelegehat, parallelamente ai classici nella
‘loquela graii’ (Svet., Gram., 1, 1).
Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia nella loquella dei lazii,
ma per molto tempo conservò il carattere, per noi strano, d'essere intimamente
vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario:
due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, ac- canto ad autori greci,
continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango
di.classici" (Marrou, cit., p. 334). Quando Roma conquistò definitivamente
la Grecia, i romani delle classi superiori conoscevano benissimo il greco e già
lo usavano come lingua diplomatica, per cui non ebbero· piu bisogno di
traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e insegnata per tutto il
secondo secolo e il primo a. C., in greco. Ma i! discorso, sul piano del conte-
16 nuto, è lo stesso di quello fatto per l'insegnamento
secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto fondamentale dell'insegnamento
supe- riore, servi ai romani, che avevano possibilità di fare carriera poli-
tica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione,.s1 come per
l'insegnamento secondario serviva la grammatica e l'esegesi dei testi poetici.
E perciò essi, almeno in principio, si rifecero, indi~ scriminatamente, ai
retori greci e ai manuali di retorica, indipenden- temente dai possibili
contenuti di pensiero che pur erano dietro quelle tecniche. Questo spiega come
l'insegnamento della retorica si svolgesse me- diante esercitazioni, mediante
svolgimenti di discorsi fittizi, che toc- cavano o le tecniche persuasive,
rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si
discuteva il pro e il contro di casi parti- colari in relazione a testi di.
legge, in modo astratto e precettistico; ma questo spiega anche come il
contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si
ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in
Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Erma- gora di Temno) si potesse
assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in
discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla
dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagli accademici.
L'entusiasmo che nel 155, a Roma, suscitò Carneade presso i giovani colti, col
suo doppio discorso sulla giustizia (cfr. I vol.), rientra in questo quadro, sL
come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo
stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo studio della retorica,
dunque, non presentava soltanto l'insegna- mento di una precettistica, ma
implicava un piu vasto sapere: discus- sioni sulla dialettica e sulle fonti del
sapere, su problemi morali, giuri- dici, di psicologia, e, quindi, alla fine,
discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il materiale poteva
essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie greche, e usato,
poi, a seconda del- l'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa
o relativa a controversie. Proprio questa neutralità della retorica, nei
confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima grande sofistica,
dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani. Polibio (XXXI, 24)
testimonia che nel 167 circa era in Roma grandissimo numero di maestri greci.
Del 161 è il Senato consulto che proibisce la residenza in Roma ai retori e ai
filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un conservatore DELLA RAZZA
DEL CELEBRE CATONE il Censore (234-149)1 si preoccupasse del- 1 [Nato nella
Sabina, a Tuscolo, nel 234, Marco Porcio Catone, di una famiglia 17 ] l'introduzione in Roma delle
tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche e
scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della
cultura greca, si preoccupava dei Greci e probabilmente dei Greci del suo
tempo, ch'egli considera dei degenerati. t sf bene - scrive nei celebri “Praecepta
ad filium” avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA
CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei greci, e
fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. Se, quando che sia, codesta
gente ci darà la sua scienza, manderà tutto in rovina; e peggio ancora, se
verranno qua i suoi medici. Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti
i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e
possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi,
anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur.
hist., 29, 7). Ad ogni modo lo stesso Catone fu grande oratore e si rese tanto
conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le
possibili applicazioni. I conservatori romani paventarono, ora, certi di
agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua
lunga. vita. Vita parca, dura, laboriosa, dice egli stesso, vissi sin da
principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando,
seminando le selci (p. 69, Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse,
contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di
Publio Scipione Africano nel 204, edile nel 199, pretore nd 1::18, console e
comandante di eserciti in Spagna nel 195, e nominato censore 'nel 184 e
soprattutto il suo nome fu legato alla durezza della sua censura, tanto che fu
detto, )><'r distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore. Inviato nel
153 a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione che
gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine: "Delenda
Carthago" divenne il suo slogan. Muore nel 149, a ottantacinque anni.
Plutarco riferisce un epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura
fisica e morale di Catone. Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è
Catone, e Persèfone teme ancora d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di
enciclopedia dove essere il suo “Praecepta ad filium” (vi si trattava di
medicina, di agricoltura, di retorica, di giurisprudenza e di arte militare),
un vero e proprio trattato di arte agraria è il “De agr'icoltura”, il primo
libro in prosa nella locuzione dei lazini giunto fino a noi (dalla classe degli
agricoltori provengono gli uomini migliori e i piu valorosi soldati. Meno in
balla di cattivi )><'nsieri sono coloro che attendono al lavoro dei
campi. Non altro che pochi frammenti possediamo della sua grande opera storica
·in 7 libri, le “Origines” (I libro: storia di Roma sotto i re; II e III libro:
storia delle primitive città. italiche; IV e V libro: storia della prima e della
seconda guerra punica; VI e VII libro: storia degli avvenimenti fino al 149).
Orazioni Catone scrisse (ben quarantaquattro volte dovette difendere se stesso)
durante tutta la sua vita (delle 150 che compose, di un'ottantina leggiamo oggi
scarsi frammenti). Celebri sono rimaste certe sue lapidarie sentenze. “Orator
est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI PERITUS” “Rem tene, verba sequentur"
(dai Praecepta ad filium). Tutto cose, fatti, conti, come risulta dalle
biografie antiche (Livio, 39, 40; Cornelio Nepote; Plutarco), la sua durezza,
il suo talento, il suo buon senso da contadino, il suo utilitarismo, il suo
ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua stessa dirittura, hanno servito a
creare la figura del ROMANO O LAZINO per eccellenza (a parte la sua ambizione,
e il non troppo bello episodio del suo essersi dato all'usura)] aspetti della
cultura greca, si come nel v-Iv secolo i conservatori ateniesi dello stampo di
un Aristofane e di un Senofonte, o del piu grande Platone, temettero la
sofistica. Non a caso, anzi, Catone s'ispira piu volte a Senofonte e si senti
vicino al Socrate, moralista e predicatpre, presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia”
e nel “Convito” (il principio delle Origines di Catone, fr. 2, è una traduzione
del principio del “Convito” di Senofonte). Non solo, ma è interessante a tal
proposito ricordare che le opere di Senofonte, che Cicerone testimonia essere
sempre state in mano di Scipione Emiliano (in particolare i ·Memorabili e la
Ciropedia) e lette da Catone (cfr. Tusc., Il, 26, 62; Ad Quint. frat., l, l,
23; Gato maior, 59, 79-81), fano parte della Biblioteca dei re di Macedonia,
messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e che, dopo il
168, Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e
posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. Il Socrate
senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il.grosso della
biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di
Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e
ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone
rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di
Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari, pp.
314 sgg.). Ad ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciarono a
circolare a Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei
contenuti, quella necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda della
situazione politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. D'altra
parte, per rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere
assunti passi o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e,
piu tardi, di Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i
loro modi di intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la
classe cui appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P.
Cornelio Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e
Silla, a Cicerone. Non va, intanto, scordato che nella seconda metà del secondo
secolo cominciò a circolare la grande sistemazione della retorica dovuta a
Ermagora di Temno, vissuto a metà del 11 secolo. Il manuale di Ermagora duo
essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei vari
aspetti in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli
stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della
retorica. Egli, dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi,
dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni',"
scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il genus definitum.
Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia,
causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo chiamare pro-posito (Cic.
Top., 21, 79), imposta la distinzione dei discorsi retorici sullo stato della
causa. Ermagora divide a sua volta lo stato della causa in due grandi aspetti,
l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v, genus rationale) e l'aspetto legale
(yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes,
Lipsia, i fragmm. 6-23). Ermagora cosi teorizza da un lato una retorica
razionalistica e filosofica, dall'altro invece una retorica spiccatamente
giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla stessa pratica giuridica. Da
un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al vero, dall'altro al GIUSTO: ai
due massimi valori, cioè, della filosofia stessa, nella sua parte teoretica e
nella sua parte morale (A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milàno, p.
114). Accanto alle altre conoscenze, offerte dai testi del pensiero greco, e
dai maestri greci che venivano a Roma o alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si
recava, prese sempre piu piede, sulla fine del II secolo, l'esigenza di una
sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO, tanto che sulla fine del 1 secolo,
anche per l'impulso dato da Cicerone, sorsero, accanto alle scuole di retorica,
scuole vere e proprie di DIRITTO in cui insegnarono magistri iuris, iuris
periti. La conoscenza delle leggi e del complesso delle leggi, come insegna
Ermagora di Temno, sirve non poco alla retorica ed all'azione politica.
Materiale per tale sistemazione, soprattutto quando si pensi che il significato
della legge giusta e universale era discusso e studiato in particolare da
uomini che tende- vano al potere politico e che per nascita e censo ne avevano
la possibi- lità, era offerto dalle varie elaborazioqi e approfondimenti che
della Legge e del diritto avevano dato e davano gli Stoici, risalendo poi,
attraverso essi, alle testimonianze di Platone, di Aristotele, di Dicearco. Quasi
tutte le nozioni - scrive Cicerone - le cui parti sono riunite ora in corpi
dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un tempo erano disperse e non
formavano un insieme. Cosi, in musica, il ritmo, i toni, la melodia; in
geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze; in astronomia, le
rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare, i movimenti degli astri; in
grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza della storia, il significato
delle parole, la pronuncia; nella stessa retorica, l'invenzione, l'elocuzione,
la disposizione, la memoria, l'azione. Il rapporto di questi elementi fra loro
era ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si è coscer- cato al di fuori,
in un altro campo, di cui i filosofi si attribuiscono l'intiera proprietà, un
metodo che in qualche maniera cementasse questi materiali sparsi e li
costringesse a entrare in un sistema razionale. Poniamo dunque l'oggetto del
diritto civile: mantenere, sulla base delle leggi e dei costumi, i principi di
giustizia che regolano gli interessi dei cittadini nelle loro reciproche
relazioni. Distingueremo, quindi, i generi, riducendoli a un certo numero, il
piu piceolo possibile. Il genere è ciò che racchiude due specie o piu, simili
tra loro per un carattere comune, ma separate per una differenza propria. Le
specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono sotto il genere di cui
sono formate. E tutti i termini che servono a desi- gnare generi o specie,
avremo cura di definirli con il loro esatto valore. La definizione, infatti, è
una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono propri dell'oggetto che
vogliamo definire... Si tratta, insomma, di ricondurre il complesso del diritto
civile a un piccolissimo numero di ge- neri, dividere poi.ciascuno di questi
generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con una definizione, il
valore proprio di ogni termine: avremo cosi una teoria completa del diritto
civile, ed una scienza t:stesa e feconda invece che difficile e oscura (De
Oratore, I, 42, 187-190). Se cos{, per il yhoç ÀO')"x6v, il genere
razionale, e per le "tesi" si cercava il materiale negli aspetti piu
vari del pensiero greco e nei modi con cui esso poteva essere usato -
retoricamente si potevano benissimo accostare tesi diverse, e, soprattutto,
frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç VOIL'x6v, il genere
legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica, dalla dialettica, e,
per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;, che
impostato da Platone (cfr.. Leggi, 957c), poteva essere interpretato secondo il
"diritto naturale" approfondito da alcune posizioni stoiche.
L'esegesi del diritto e delle leggi, l'esegesi delle tecniche retoriche, la
loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze politiche,
implicavano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e sistemazioni -
come chiaramente si vede attraverso Cicerone - atte ad essere usate di volta in
volta. Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo processo, svoltosi
dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole tentativo, egli homo
novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI con l'oratoria dei
"populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che mossero il
popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che fosse terreno
comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace, non
solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra aristocrazia e
popolo: naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di questo,
attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dal- l'alto. Ma di qui, per Cicerone,
l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua
degl’abitanti del lazio, perché fosse possibile costituire nel mondo romano o
del lazio una consapevolezza critica (filosofia), che doveva, nel suo ideale, determinare upa misura e un
rapporto tra le classi, che fa davvero dello stato una res publica. Tale
prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei
lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi
a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di
politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni
almeno, come nell'Emiliano, trovò la sua espres- sione, il suo linguaggio,
nello stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu
il modello aristocratico del vir bonus, del salvatore della patria, dell'uomo
misurato, che si sacrifica per lo Stato e la sua unità, e la cui eloquenza riflette,
appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, ad Antonio, a Crasso,
a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si tratta di muovere e
commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e allora altro è il tipo
di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa ricorso. Si pensi
all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo aspetto sembra
chiaro perché nel 99 Crasso, allora censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola
di retorica in la loquela dei lazini, creata l'anno prima da Plozio Gallo, su
ispirazione di Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico,
come ora Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si
erano formata una vasta cultura, mediante cui tendevano a persuadere della
propria concezione non solo la propria classe, bens(tutto IL POPOLO ROMANO o il
popolo del LAZIO. Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per
l'oratoria ha la cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per quella
cultura stessa (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, l, 4), consapevoli del pericolo
che l'oratoria venisse insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la
fondazione di una scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da
Mario, un "popolare," che Cicerone dice essere sné eloquente né colto
(Cic., Pro Fonteio, 19, 43). L'arte del ben dire, in quanto insegnata in quello
ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata da lunghi studi, divenne
patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia. Plozio Gallo, attraverso la
sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le stesse armi piu che ai populares
allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione dell'anonima “Retorica ad
Erennio”, composta, sembra, tra 1'86 è 1'82. È un trattato di retorica in la loquela
dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni, di recente, l'hanno ritenuta
di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di tipo molto
moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole della loquela
‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora, in cui si
reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per avvicinare
l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla reale
vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e dibattiti
agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità,
I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge
frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere
l'uccisore del tribuno P. Sulpicio, ucciso nel1'88 per ordine di Silla (Ret. ad
Er., l, 25)? Il Senato delibera, durante la guerra sociale, 91-88, sulla
questione di accordare il diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono
lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er., IV,
55). Naturalmente non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante,
e l'argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso favorevole ai
populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia non c'è
dubbio che l'atmosfera generale della scuola risentiva della posizione politica
del fondatore (Marrou, cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie
chez Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei
Gracchi, gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini,
per accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o
lazini. Già Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), aveva composto
un trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De
Oratore, Il, 24, 199 sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette
in primo piano i populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario,
è altrettanto vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso
evoca la politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano
(Ret. ad Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta
contro Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non
pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17;
15, 25; 16, 26). Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore
della “Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra
populares e OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia
politica di Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si
ispira ad Aristotele, a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta,
sull'esempio, appunto, di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire,
in una sistemazione dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente,
facendo uso nelle esemplificazioni, non solo degli esempi oratori greci, ma,
SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, per romani, anche dei mggiori esempi dell'oratoria
romana. Si vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La
teoria dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai
contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella
classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo,
deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea,
in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece
dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria,
che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del
discorso, exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per
la casistica e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di
orazione dei grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande
Antonio, quanto dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad
Ermnio è il primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in
realtà, le fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso
Cicerone, il quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla
Retorica ad Erennio, di dare una base meno precettistica e piu
culturale-filosofica alla retorica, discutendo poi della funzione e della
cultura necessaria all'orator, che deve svincolarsi dall'assumere
unilateralmente una o altra precisa concezione, dall'accettare una o altra
posizione, ha classificato e opposto tipi di retorica, cui corrispondeno tipi
di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un lato, l'indice chiaro
dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai lazini del Lazio di una
sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario del sapere
retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del CON-VIVERE civile,
si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e, dall'altro lato,· è
l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia senatoriale
nella quale si era sviluppato l'ideale del “vir bonus” subisce la concorrenza
delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu democratico,
penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui il nuovo
aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che perora per un
magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere un grande
dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console, risponde
alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa defensionale
che scandalizza Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo del popolo (Cic.,
De Oratore, l, 52,. 226). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei dibattiti
aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora sempre se
l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce adulandolo
(Michel, cit., p. 45). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione,
oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento
politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo
fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini
entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa,
del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo
novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che
alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una contemperanza
dell'antico ideale del vir bonus senatoriale, il cui modello e la figura di Scipione
l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il raggiungimento
di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine, attraverso
la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto Cicerone
non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente
impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una
moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il
Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno
senza dubbio giuocato mo.):ivi di'lersi, concezioni e dottrine diverse, che, se
prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con
l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i
contesti ciceroniani. Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e
aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla,
o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta
drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto
quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda
conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane
esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione
dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce
quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose
future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e
preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale,
mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza
che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis, l, 4,
11-12). Cosi, sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire
gli Accademici, e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi
all'uso fatto da Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti
dell'analisi aristotelica per la formalità delle definizioni; sul piano della
condotta forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia
aristoteliche, sia stoiche, potevano servire le tecniche retoriche elaborate da
Aristotele, da Crisippo, da Ermagora; sul piano piu strettamente umano, della
possibile comunione umana, poteva servire la delineazione di una humanitas il
cui incontro è la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio,
che sembra fosse l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di
Panezio, in cui, certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di
Aristotele e il motivo accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu
alto piano politico si ricercava una legge universale, un diritto naturale che
giustificasse un certo ordine sociale, una certa legalità, per cui potevano
servire altre tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad
una quiete ultra mondana, soprattutto dovuta a:situazioni immediate e tristi
della vita, poteva benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone
sull'immortalità dell'anima o alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di
Aristotele, accanto a una visione del divino la cui fonte può essere Cleante,
insieme al topos della filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via
Cicerone e poche testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione
ciceroniana, poco o nulla resta delle opere dei pensatori greci tra il secondo
e il primo secolo. Di qui, per le ragioni dette sopra, la difficoltà di
ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e posizioni compiute, storicamente
esatte. Si pensi, ad esem- pio, al caso di Platone. Se le opere di Platone
fossero andate perdute e si dovesse ricostruire Platone mediante Cicerone, non
avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che usa frasi e motivi di Platone. Lo
stesso dobbiamo dire per gli accademici da Clitomaco a Filone di Larissa ad
Antioco di Ascalona, gli ultimi due direttamente ascoltati da Cicerone e per
gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro, Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato
da Cicerone, e per tutti gli altri cui si riferisce Cicerone. Non è,
evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio, la dottrina e una compiuta e
sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone, per poi, con un Panezio
cosi ricostruito, spiegare Cicerone. Ciò che possiamo è, invece, renderei conto
delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione della sua problematica, dai
pensatori greci da lui citati e discussi, i quali, a loro volta, hanno senza
dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle esigenze, ai problemi,
alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di Carneade e di Polibio,
in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche geografici, per cui se è
vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto vero che il cosiddetto
mondo greco si romanizzò, o meglio si venne determinando tutta una nuova e
diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur rimanendo le
stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO DISCORSO SULLA
GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma nel 155, era ancora riportato e discusso
da Cicerone circa un secolo dopo. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita
la fama e l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti
fondamentali della riflessione romana s'era venuto a imperniare sul motivo
delle condizioni che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno
dimenticate da un lato la storia di Roma e delle sue conquiste dal 200 in poi e
dall'altro lato la problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le
capacità del potere. A parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI
CARNEADE, la sua forza filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che
di quel discorso rimaneva piu crudo e scottante era, non solo la sottile negazione
della dottrina stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non
va ricercata né in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale,
ma l'esito di quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza
della giustizia nel senso comune sottolinea ch'essa è sempre, soprattutto nei
rapporti tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della
parola. Se Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire
ciò che, con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata
prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è possibile
vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta inazione. Se lo
stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di giustizia. Lo
stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade poté suonare come un
richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla
consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla
verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le
cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile
romano e dell'utile di una certa classe dirigente venivano ammantate
dell'orpello del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna il vecchio Catone,
particolarmente per la verità pericolosa ch'era implicita nel discorso di Carneade
non va scordato che Polibio scrive che la grandezza romana sta nell'avere
imposto un certo ordine e una certa legge giuocando sulla superstizione, tenendo
a freno le masse mediante il timore dell'invisibile: Polibio, VI, 56, tutto
questo impone, d'altra parte, una piu approfondita discussione e
giustificazione. Carneade, è stato detto, non condanna l'impero romano: mette solo
in rilievo il fatto che esso non ha alcuna base etica; e questo stimola altri a
cercarne una (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari). Non solo,
ma va aggiunto che se al tempo di Carneade il concetto di impero non esiste, se
non nella sua figura giuridica, e proprio la riflessione sulla giustificazione
del comando di un singolo o di un gruppo in Roma, nella delineazione di un
modello di uomo giusto, e del potere di Roma sugli stati e le città
conquistate, che venne a costruire, appunto, il concetto di principato e di
impero. Entro questa linea,· nei termini di questa esigenza di rendere
giustificabile e, per ciò stesso, razionale e, dunque, convincente, l'azione
della classe, che ha possibilità politiche, e l'azione di Roma, sembrano
chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti e dagli Stoici, e dagli stessi
Accademici, i quali tutti, nel corso del n secolo e della prima metà del 1,
ebbero contatti diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe
dirigente romana, a cominciare da Polibio e da Panezio: Mentre, per altro
verso, la deli- neazione di un ordine razionale e universale cui adeguarsi,
fondamento e giustificazione dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe
possibilità di carriera si allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei
nuovi ricchi o dei cavalieri, mise in crisi il monopolio del potere dei nobili,
giustificando, appunto, in nome della comune ragione, le possibilità
dell'inserimento politico da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione
universalistica e imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine
politico basato su quella razionale uni- versalità, di cui il "princeps"
- l'"orinor" in principio - è il depo- sitario e il propagandista,
non poco poteva servire la tesi del giusna- turalismo stoico, qualora se ne
giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da Carneade, che
cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva a negare
l'azione e gli atti giusti. Ora tale giustificazione imponeva una revisione,
entro i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica, che fu
tentata da Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di Scipione
Africano, s1 come da parte degli Accademici (da Carmada e Metrodoro a Filone di
Larissa e Antioco di Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia- lettica e
la discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno delle
modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu niente a
che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte, va
scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera intorno
alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu tardi,
Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma visse e scrive Filone di Larissa. Chi
tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del
pensiero tra il 150 circa e Cicerone, non può non tener conto della storia
interna di Roma, soffermandosi in primo luogo dapprima sull'esigenza da parte
senatoriale di giustificare il proprio operato e la propria virtuosità fino a
giungere a costruirsi con Scipione Emiliano minore l'ideale modello del vir
bonus, salvatore della patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio
è dato alla potcstas (all'esecutivo), piu che con la parola, con la propria
figura morale e la propria condotta, divenendo princeps della città. In secondo
luogo, tenendo presente il conflitto tra la classe senatoriale e l'impoverita
borghesia italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso Scipione e
Tiberio Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi
tra Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione, improvvisamente,
nel 129, la notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare un discorso
in senato contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu chi disse che
Scipione venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembrò potersi attuare la
rivoluzione in virtu di Gaio Gracco (nel 122), rivoluzione però stroncata dalla
oligarchia senatoriale; e, in terzo luogo, tenendo presente il celebre
conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo triumvirato.
Entro questi termini sembra chiarirsi perché il problema fondamentale - quali
che di volta in volta ne siano state le soluzioni - fosse il problema delle
condizioni che permettono la vita politica: o in una negazione delle tecniche
retoriche - particolarmente da parte senatoriale, - puntando sul retorico
modello di una figura esemplare, e, per la sua esemplarità, convincente;
oppure, via via negata la retorica come arte a sé, neutra, in un'affermazione
della retorica filosofica, psicagogica - onde piu volte l'uso di Platone e di
Aristotele, - che, ricorrendo a tecniche diverse, caso per caso, seducesse ad
una razionalità, istituente ordine e misura, entro i termini della legge,
specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui, anche, la sempre piu
accentuata importanza data alla conoscenza del diritto e alla sua sistemazione.
Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il conflitto dapprima tra contenuti
e retorica e poi tra retorica degli affetti e retorica filosofica, la
problematica tra il porre una virtuosità in assoluto, che alla fine nega ogni
possibilità di azione, e, quindi, anche ogni possibilità di convin- cere a
quella virtuosità stessa, e il porre una possibilità di rapporto umano, fondato
solo di volta in volta sul giuoco degli affetti, il riflesso di tutto ciò,
anche nella sua aderenza, caso per caso, a precise esigenze politiche, è molto
chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi, sembrano particolarmente illuminanti
certi passi di Cicerone, in cui egli condanna l'insegnamento retorico di Cleante
e di Crisippo. È vero che Cleante scrisse un trattato di retorica e anche
Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera diventar muto, non deve leggere
niente altro (De fin., IV, 3, 7). Troppo rigida ed esclusiva la loro logica per
divenire eloquentia (De Oratore, Il, 38, 157 sgg.), essi non hanno possibilità
di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano di inventio
(Topici, 2, 6). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e pura
che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il caso
dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del popolo,
per non scendere dinanzi ai giu- dici ad usare la tecnica del pathos, non fu
capace di difendersi: De Oratore, I, 53, 227-54, 231). Sotto questo aspetto
sembrerebbe aver ragione Carneade, dimostrando che sul piano umano lo stoico
non può che contraddirsi, ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando
con ciò stesso la propria tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun
passaggio tra il saggio e virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per
Cicerone i paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla
fine a sostenere che nessun uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra
parte, non hanno possibilità di convincere gli altri per lo stesso fatto che
gli altri sono non saggi, per cui il saggio stoico resta in conclusione
assolutamente avulso da ogni tipo di vita politica, rinnegando con questo lo
stesso proprio concetto di giustizia e di razionalità. In realtà vi sono negli
stoici cose troppo incompatibili con l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad
esempio: ad ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi sono schiavi, nemici
pubblici, folli; d'altra parte non v'è uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque,
una grande assurdità affidare la cura di guidare il popolo, il senato,
qualsivoglia assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi ascoltatori non vi è
uomo sensato, non un cittadino, non un uomo libero (De Oratore, III, 18, 65).
Tale impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone, non ha
permesso agli Stoici piu antichi di scrivere intorno allo stato (De legibus,
III, 5-6, 13-14). Solo Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione
stoico non sappiamo a meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che
secondo Ateneo, XII, 526, scrisse De legibus, e, insieme a lui, Panezio di
Rodi. Su questo argomento dei magistrati, alcune questioni furono studiate
molto sottilmente prima da Teofrasto, poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche
dagli stoici fu trattato questo? Non proprio, salvo da colui che ho ricordato,
e poi da quel grande e coltissimo uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto
astrattamente e pur con acutezza hanno trattato dello Stato, ma non in questa
maniera pratica per l'utilità del popolo e dello stato (De legibus, III, 5-6,
13-14). È vero. Lo stato che potremmo delineare attraverso i frammenti di
Cleante e dì Crisippo sarebbe lino Stato universale, fondato sul motivo del
diritto naturale, razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della
legge del tutto, del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggi
e non saggi e la incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo
saggio ché tutti i saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non
saggi, i quali soli, alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita
sociale, che sarebbe però ingiusta, asociale, apolitica, dove non potrebbe non
avere il sopravvento che la retorica degli affetti e delle passioni.
L'abbiezione di Cicerone avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa
di Carneade nei confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone
tende a rendere convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in
quanto utili a un certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di
lui sappiamo, non seppe rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di
Tarso. Si dice che Antipatro non ebbe mai il coraggio di scendere in
discussione con Carneade direttamente e ch'egli tentasse di difendere le
posizioni dello stoicismo ortodosso per scritto (cfr. Numenio, in Eusebio,
Praep. ev., XIV, 8, 6), limitandosi ad approfondire gl'indifferenti tra cui
avrebbe posto il dovere e la fama validi entro l'ambito umano (cfr. Cicerone,
De fin., III, 17; anche Seneca, Ad Lucil., 92, 5; 87, 38), mentre Diogene di
Babilonia, il collega di Carneade al tempo dell'ambasceria a Roma, discepolo di
Crisippo, avrebbe particolarmente approfondito alcuni aspetti della dottrina
stoica, in forma precettistica e tecnica (la dialettica, la retorica, la
musica), ma in modo tale che, ponendosi su di un piano piu logico che
ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo rinnovare i contenuti stessi
dello stoicismo. Panezio avrebbe poi tentato il recupero di tutte quelle tesi
stoiche che, utili per un tipo di politica e di giustificazione di una certa
azione, avrebbero potuto assumere, entro una precisa visione del tutto, una
loro forza sul piano umano. In realtà, dietro l'atteggiamento piu pratico -
come sottolinea Cicerone - piu umanistico di Panezio, che puo esattamente servire
ai fini dell'azione di Scipione Emiliano, v'era la possibilità di svi-luppare
la logica e la dialettica di Crisippo, indipendentemente da corrispondenti
strutture ontiche, battendo l'accento sull'aspetto ipotetico del discorso e
sulla retorica nel modo in cui, attraverso Zenone e poi' Crisippo, s'e delineata
in Diogene di Babilonia. Studi recenti (cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene
di B., Filosofia) hanno messo in chiaro la stretta relazione posta da Diogene
tra filosofia e retorica. Se la filosofia viene ad essere stoicamente 2 [Di
Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo molto poco. Discepolo di Crisippo,
successe nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. Fu il quarto scolarca
della Stoà dopo Zenone: Cleante (264-232), Crisippo (232-208), Zenone di Tarso,
Diogene di Babilonia. A Diogene di Babilonia successe nella direzione.della
scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro, nel 129, Panezio. la scienza del ben pensare, attraverso cui si
determinano le condizioni senza le quali non v'è discorso cioè i dati e
l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un discorso sintattico e
proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui anzi consiste l'esperienza
si capisce come l'arte del dire, in quanto espressione dell'arte del pensare,
possa avviare gli altri a ben pensare, costituendo un· ordine. sintattico e
armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine razionale cui si giunge
attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del pensiero a se medesimo.
Ipotetiche le premesse, anapodittici i sillogismi, formalmente il di- scorso è
necessario e può costituire, sul piano umano, un ordine altrettanto necessario
e perciò stesso razionale, a cui serve la retorica, valida qualora, appunto,
sia introduzione e avviamento al ben pensare e per ciò al ben vivere,
insignificante, anzi da respingere, qualora resti su di un piano neutro di
contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il contra.sto tra retorica pura e
retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza, e il parallelo, posto da
Diogene, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim), per cui la vera retorica
è terapeutica ed è psicagogica. Di qui, formalmente e per la sua funzione
terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra retorica e musica (fr.
92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in quanto seducente in vista
del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali, si fonda su tecniche
precise che potevano essere benissimo riprese dalle analisi sulla retorica e
dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei caratteri umani (Gorgia,
Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche l'accorgimento dell'inganno o
dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III Arnim), sapendo con opportunità
(eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr. 122, III Arnim), prende un suo
carattere preciso in quanto serva a porre ordine e composizione (croveaL(i,
syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot, cuagoghia) politica, cioè
sociale (fr. 102, III Arnim). Retorica e politica venneno, in tal modo, a coincidere
in funzione della costituzione di un rapporto umano che fosse rapporto
razionale, simile all'ordinarsi necessario di un discorso, in una misura per
cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia, come lè parole in una strut- tura
grammaticale e sintattica. Non a caso, cos(, sembra che tra i pen- satori
greci, suoi contemporanei, Catone il Censore avesse, accanto all'ideale del
Socrate senofonteo, una qualche simpatia per Diogene di Babilonia, che, d'altra
parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare, era stato a Roma già prima
della CELEBRE AMBASCIATA DEL 155 (cfr. Cicerone, De senectute, 7, 23). La medit
Stoà. Panezio. Polibio. Il diritto naturale. La ncostruzione di Cicerone. Le lodi
che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento che Panezio avrebbe
reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della virtu e della
giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà, molto poco.
Sappiamo ch'egli nacque nel 180 circa, a Rodi, città in quel tempo
culturalmente attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non
vincolato fin dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene,
sappiamo che Panezio visse a Roma parecchi anni, ch'entrò in dimestichezza con
Scipione Emiliano, che ne fu consigliere ed amico, che fu con lui ad
Alessandria e durante le campagne d'Africa, dal 146 al 142, e che divenne, in
Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, nel 129, proprio
all'in- domani dell'improvvisa morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è un
caso che può far pensare. Panezio lasciò lo scolarcato (non si sa se anche in
quell'anno sia morto) nel 109. In effetto Panezio non fu uno stoico di scuola,
né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto giuocare su di
lui il pensiero dello stoico eretico [Nato nel 180 circa a Rodi, Panezio, amico
e discepolo di Diogene di Babilonia, visse a Roma parecchi anni, entrando in
dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo segui in
Africa e in Asia tra il 146 e il 138. Nel 129 fu nominato scolarca della Stoà,
succedendo ad Antipatro di Tarso (su Antipatro cfr. vol. 1). Lascia lo
scolarcato nel l09 e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue opere,
andate perdute, si ricordano soprattutto una Sul dovere! (ITcpl wii x~o~), che
sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una Sulla
provvidenza (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De olficiis di Cicerone.
Si conoscono inoltre i seguenti titoli: Sulla tranquillità dell’animo (ITcpl
IÒ&u!l-(«ç); Sul,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl
atlp~m:(J)'\1); Di Socrate dei socratici (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II
E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a
Panezio successe Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui
pedissequamente il maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che
seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno
il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupò in particolare di problemi morali e
i cui manuali divulgativi ebbero larga diffusione. In essi si discuteva
soprattutto il pro- blema dei conflitti dei doveri, in una delineazione della
piu rigida morale stoiea e in una distinzione tra virtU teoretiche e virtU non
teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata certo
quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli
Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtU e il vizio. Come un legno
deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto... Ecatone,
nel secondo libro Sui beni, sostiene che la virtU è sufficiente alla
felicità... non dando alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla.
Panezio e Posidonio invece sostengono che la virtU non è sufficiente, ma
occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza"
(Diogene L., VII, 127-128). Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII,
passim. Ci sono stati tramandati i titoli delle seguenti opere di Ecatone: Sui
fini (ITcpl T&ÀW'IIi; Sui beni (ITcprciyat.&wv); Sullt! virtu (ITepl cip&:Twv);
Sul dovert! (ITcpl xat&ljxo~; Sulle passioni (ITcpl ncx&ciiv); Sui
paradossi (ITcpl natpct36~(J)'II); Sentt!nze (xpc't«'). Boeto di Sidone, del
quale, di fatto, non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus of Sidon,
"Classica! Quarterly," pp. 88-90), se non che avrebbe fatto un
commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio, VII, 54, 143,
148, 149). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e indipendentemente dalle
dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio avrebbe risposto a Carneade,
rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso "probabilismo"
di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a suo contenuto - se non vi
fosse una presunta verità, neppure si potrebbe parlare di probabilità, di
capacità d'assu- merne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro a sé o innanzi a
sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui ciascuno, a seconda
della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso del cosiddetto pla-
tonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge del tutto - niente
affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine di realizzazione,
come dovere, cui l'uomo ~onoscendo sé, entro i limiti della propria natura,
deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu genuina natura
umana, l'istintr proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che Cicerone (sembrano
ispirati a Panezio parti- colarmente il De natura deorum e il De otficiis) e
anche altre testimo- nianze. (sia pur assai frammentarie) sottolineano come i
piu appariscenti di Panezio: da un lato un rigoroso immanentismo naturalistico,
dall'altro lato - entl'Ò i termini di quella che è la natura nella sua totalità
- il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a quella natura stessa, ciascuno a
seconda della propria natura. Sembra cos' interessante ricordare che Diogene
Laerzio (VII, 41), su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio, sottolinea
che mentre Zenone e Crisippo ponevano per prima la logica e per seconda la
fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla
fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v rpuatxwv
clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione della
fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le testimonianze
sottolineano avere Panezio ne- gato rispetto alle posizioni degli stoici
precedenti. Panezio avrebbe so- stenuto che il cosmo non muore e non invecchia,
ch'esso è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un
principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis)
periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza
(rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino:
l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept.&eou Myov (Epifanio, De
fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone,
De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo,
Ecl., I, 20 e Il, 7). Sembre- rebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se
non direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel De natura
deorum secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divno è la
stessa ragion d'essere (L6gos) del tutto, forza vitale e organizzatrice
(egemonica), non separata dagli esseri individuali, esistente.anzi nel
costituirsi di quegli esseri, che quanto piu realizzano e conservano se stessi
(la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo mede- simo,
ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura. L'ordine,
quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una "sim- patia"
delle cose tra loro né alla necessità del fato, bens1 ad una ra- zionalità che
rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi molteplici aspetti,
e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il motivo dell'anima
immortale, separata dai corpi (cfr. Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De
divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42, 87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80;
Diogene L., VII, 149). Piu di questo non possiamo dire della fisica di Panezio.
D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi hanno veduto nella
concezione fisica di Panezio una diretta influenza della concezione platonica
(va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione
che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti
delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filoplatone
ma anche filoaristotele (Stoic.lnder Herc., col. 61, Com- paretti 534), avendo
Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima
e corpo, portano a pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei
suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva,
comprensibile in quanto ricondotta ad una sua universale razionalità,
rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria
razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è
là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la
propria natura, cioè la propria ragione, secondo le risorse che la natura ha
dato. Poiché, d'altra parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di
ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima differenza; la bestia, solo in
quanto è stimolata dal senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e
presente, non curandosi affatto del passato e del futuro; l'uomo, invece,
poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella vede la concatenazione dei
fatti, le cause efficienti di esse e le cause occa- sionali, e ne conosce quasi
i precedenti, confronta le cose simili e con- giunge intimamente le cose future
alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita -- Cic., De
off., I, 4, 11), tale consapevolezza e comprensione è ciò che Panezio chiama
ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e alla natura
propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi impulsi e
natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali dell'animo: l'uno
è posto nell'istinto, 35
detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo qua e là;
l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare
ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I
movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e
nell'appetito: il pensiero si applica soprat- tutto alla ricerca del vero;
l'appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero
alle cose piu grandi e di far sentire all'appetito il peso della ragione..."
(Cic., De off., I, 28, 101; l, 36, 132). Di qui, evidentemente, l'affermazione
di Diogene Laerzio che secondo Panezio due sono le virtu: virtu teoretica e
virtu pratica (VII, 92). In altri termini, insomma, l'istinto, l'impulso sono
tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e l'impulso cessano di essere
irrazionali, onde la razionalità - e ciò è dato all'uomo consiste nello stesso
impulso qualora sia ordinato nella consapevolezza di quelle che sono, appunto,
le risorse che la natura ci ha dato (•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv
xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot;
d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve
conservare le proprie tendenze... Perché si possa pm facilmente conseguire quel
decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la
natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di
quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva
l'onesto e il decoro ed alla quale risale la cono- scenza del dovere":
Cic., De off., l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria
natura ("come nei corpi ci sono grandi dUie- renze... cosi negli animi vi
sono varietà anche maggiori": Cic., De off., I, 30, 107), cosi che anche
se le altre ci sembrano migliori e piu impor- tanti, misuriamo alla sua regola
le nostre attitudini; non ~ opportuno in- fatti andare contro la natura e
cercare di ottenere quello che non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia
il decoro, perché non ~ lecito far nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di
Minerva, ci~ quando la natura ~ contraria. Ma non v'è cosa piu decente della
coerenza e di tutta la vita e delle singole azioni, e non si può conservarla
se, per imitare l'altrui, trascuriamo la nostra natura... Tanta questa
differenza fra le nature umane, che talvolta per gli stessi motivi uno è
costretto a darsi la morte ~ un altro no... (Cicerone, De off., l, 31,
110-112). Concepita la realtà come razionalmente.strutturata, strutturato ra-
zionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò per
cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio
impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'or- ganismo quanto piu
ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in
atto nei suoi organi), ne consegue che 36 l'uomo scoprendo sé come
ragione, quanto p1u vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio
dell'uomo, che ordina e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a seconda
delle proprie possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo "natura,"
secondo la propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur nell'interpretazione
che ne dà Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di Panezio sia stato quello
di insistere sul fatto che nell'ordine razionale del tutto ciascuno ha il suo
giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per cui da un lato ne deriva
che ciascuno deve rea- lizzare sé razionalmente, cioè misuratamente, entro i
propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato ne deriva anche che
ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura gli ha dato. Non a
caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi alla idea-
lizzata figura di Scipione, svilupperà particolarmente proprio questo motivo, fino
a giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa della proprietà
privata. Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti uguali, perché
partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21 sgg.) e che per ciò, formalmente, non
esistono cose private per natura, è altret- tanto vero che, in concreto, come
ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine del tutto è distribuito al suo posto, cosi
ciascuno ha il diritto a ciò che gli è toccato in sorte. Come il primo dovere
della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria,
cosf dovere della giustizia è di usare delle cose comuni e delle cose private
come proprie. Non vi sono però cose private per natura, ma per antico
possesso... Tuttavia, poiché quei beni comuni per natura diventano di proprietà
privata, ognuno si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcuno desidererà per
sé l'altrui, violerà il diritto ddl'umana società (Cicerone, De officiis, l, 7,
20-21). L'uomo di Stato dovrà soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e
che la pro- prietà pri\>ata non sia diminuita da parte dello Stato..._,
L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. Gli Stati furono
costituiti e le comunità cittadine furono ordinate appunto perché ciascuno
mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per
istinto natu- rale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città nella
speranza di conservare i loro beni (Cic., De off., Il, 21, 73). Certo, nel
motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto sia
entro le società specchio della politéia cosmica (l'argo- mento platonico anche
se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi:
"Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi
ed agli uomi~i": Leggi, I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del
rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel
tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé,
un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la
comune ra- gione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si
pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e,
dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf
che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un
ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli
uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel
linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore
verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi
motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla
vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i
figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere... Né invero è
piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa cono- scere
cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non
v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose
visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro- prietà
dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la
bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano
atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia
o si pensi a capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto,
sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della
società come ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come
rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida,
realizzante la universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello
Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente
attua il dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte,
se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che
idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo
posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi
il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli
compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a
quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione
con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso
che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci.lo chiamano
xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano
xcx&;jxov. E cosf 38 definiscono questi doveri, in modo da
stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere
comune.quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo
Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una
deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella
quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare
poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no
le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e
il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale
deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando
ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci
trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro
animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti
pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva
seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo
mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1
(cognitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov,
prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era
possibile, nella realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso
ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre ilcomplesso
·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in
cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura,
di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito
civile, che va dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione, dal
modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37),
al decoro delle abitazioni (1, 39) e
cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel
supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere,
estetica- mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi-
sura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste
il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27,
93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore
aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire
benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e
di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas,
cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto
di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto
dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è
anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che
spiegare. Qualunque 39 cosa
infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si
manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che
costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assen- natezza e
prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero...
La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime
sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le
parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di
astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che
si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in
teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un
decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo
subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi
definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in
quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi,
invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è
consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e
temperanza ed una certa nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una
parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò,
dalla natura stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza, della
moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di
comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione
del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti
là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra attira gli
sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra
armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di
quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti
e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini
migliori, ma anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal decoro,
deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla
conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non
potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza...
(Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato,
di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un
organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate
e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei
confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto
volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale
modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici,
particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del
Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della
Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione
40 di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di
realiz- zazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quel-
l'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il
proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza mo- rale di certo
stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del
conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un
loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con
temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è
povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato
i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle
classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della
temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma
anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le
sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si
potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu
etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come
un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale negli
ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar significato,
una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo stoico· del diritto
naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui tutto si scandisce: la
legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di uguaglianza, ove per
natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di cia- scuno è di
seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in tutto e in ciascuno.
Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o classi diverse,
uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola Città, una sola
patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della
legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e alla legge universali, in
nome della comune umanità razio- nale, per cui tutti gli uomini sono uguali,
quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia,
rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere politicamente
rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali delle
Città-Stato, quali in par- ticolare si erano venute determinando dopo la morte
di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva avuto
l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in quanto
costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione della loro
natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello formulato da
alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini, invece, in cui
viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione universale, che non
esistono a sé, ma nel co- 41
stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto
ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale assume una
venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per natura tutti gli
uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro
l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso dall'altro, in
funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura, in
un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può non
restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove deve
essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel
rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto
dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la
conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A
tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio,
dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella
Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo,
costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le
altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico
Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione
politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi
paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo
nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa,
sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni
religiose (come malinconica- mente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle
singole situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile
realizzazione dell'ar- monia delle genti ed internamente ad ogni stato
dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto
Panezio abbiano esal- tato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e
che Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della "politèia"
mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica
romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da
Sci- pione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e
della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome
della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno
dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd
168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della
casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e
consigliere di lui, Polibio accom- pagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie
spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine
(146), sia in quella contro Numanzio (134). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per
una caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua
Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI,
5, 58), libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua
parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu
in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli
Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio
della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende
umane e sui fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto
stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma
di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza
precedenti ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I,
l). Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto
piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte
rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e
tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico
raccolga per i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con
cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). E nel VI libro si
legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma
sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si
inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani
è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi ba- stano a provare
la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo
ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il
loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che neppure i Romani avrebbero
potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico,
democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il
potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica,
valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno
inqne avesse consi- derato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo
Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi
della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora.ai nOstri
giorni, sono le stesse (VI, 11). Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben
congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella
romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i
Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere,
che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi,
cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione
razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda
conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia. 43 necessario e i provvedimenti
non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e
collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono
insuperabili e che la. loro costituzione è per- fetta sotto tutti i riguardi.
Quando poi, liberati dai timori esterni, essi go- dono del benessere seguito ai
loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità,
come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia,
subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se
difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in
confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente
come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e
controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di
propria iniziativa... (VI, 18). Non va ora scordato che questi testi del VI
libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio
alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e
ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10).
Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della
naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos
("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri
filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia
la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge
l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa
avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella
oclocrazia (potere della plebe). La moltitudine, abituata a consumare i beni
altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e
ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la
violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a
quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca"
(VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v
dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si
trasformano, deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista
sembra che la costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri
in nessuna delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in
essa la piu alta forma di demo- crazia, la possibilità di salvare la libertà
nell'ordine dello stato costi- tuito come armonia dei poteri e come armonia tra
gii Stati, sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda
l'esaltazione in XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per
un certo tempo, salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a
gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre,
ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da Scipione con-
tro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e
tiranniche, attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il
loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una
sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe
romana) giustificava la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di
Carneade sulla giustizia. La repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione
è cosa del popolo (res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato
di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata
per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima
causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di
istinto associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ
nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di
abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1.
Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa
natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché
rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la
società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di
gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato
che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente,
onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa
è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere
il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello
popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che
già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e
delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo
conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al
governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà,
questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento
pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento,
moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho
men- zionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29). Il circolo sembra cosr
chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di
motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la
visione di un tutto razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve
essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di
un'azione politica, il tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il
suo fondamento e la sua giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine
universale, nell'ordine natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la
comune razionalità, se for- malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto,
in nome del diritto naturale, del vinculum iuris e della
giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per
natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte
romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che
il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la
sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di
modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto
coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine
costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al
diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e
della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. "Il
consolidamento del territorio o della giurisdizione di una na- zione,
specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far
sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e
legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere rimandata a
lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa
pratica necessità, e il contenuto effet- tuale di questo sistema dipenderà in
ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare... Roma incontrò
questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica,
quando l'in- fluenza della filosofia politica greca era forte e il diritto
romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne di
quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e
fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva
necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi
romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci
con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente
sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente
·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium -
un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma.e
delle vicine tribu da ultime assogget- tate - con lo ius naturale che la
filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare come un sistema 'comune' a
tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai
Greci al tardo Medioevo, trad. it., Venezia, 1959, pp. 136-37). Il motivo del
diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da giustificazione
per l'azione politica della classe diri- gente senatoriale e, piu tardi,
attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale si rivela
anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone,
quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi,
e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge razionale su cui
si scan- disce il tutto) a giustificare la conservazione
dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine,
fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone.
Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della concezione
paneziana, retori- camente espressa volta a volta a seconda di certe
situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della
"res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi
platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per
Cesare e la sua avversione per gli epi- curei, la cui filosofia, egli arriva a
dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge
(De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto
aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava
non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un
ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è
conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del
concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il
motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante,
Crisippo, Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima
formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di
discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una
precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che
non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente,
non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che
non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno
(Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma
solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un
accordo di non recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). L'ingiustizia
non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non
poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass.
Cap., XXXIV). Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti,
poiché rap- presenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista
delle parti- colarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali
segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI).
Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e con-
venzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e
storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato
costituito, che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla
propria politica universalistica, dice. Vi è certo una vera legge, la retta
ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo
comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode; ma essa non
comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o
col vietare. A questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere
alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal
senato né dal popolo...; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al
domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in
ogni tempo, e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che
ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se
stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi
pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono con-
siderati supplizi (Cic., De rep., III, 33). Ancora una volta, sia pur
nell'affermata uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di
posizione da parte di un preciso partito politico. Assumono anzi un valore non
poco indicativo certe battute iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si
dice: Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a
quella legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai
stata scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito... Dal momento,
dunque, che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello
Stato, la cui forma Scipione ci insegnò essere la migliore... e poiché tutte le
leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occor- rendo
anche inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa.per scritto, trarrò
fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere
tutta questa discussione... (Leggi, l, 19-20). Non solo, ma altrettanto
indicativo è che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è
governato dalla potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal
volere, o con qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib.,
21), donde discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso
contrapponga la tesi epi- curea, secondo la quale il "dio di nullà si cura
né delle cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo:
"Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e
risonare di acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - "non
temo che mi senta al- cuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto
l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali,
onde la giustizia è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza
relativa, ché già in partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è
dovuta alla comune ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro
il motivo stoico, infatti, la comune ragione è la Ragione universale
che realizza se stessa me- diante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella
società deve man- tenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è
conoscenza e sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di
questa visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione
politica e la funzione cosmica (ordi- natrice) della classe senatoriale,
dall'altro lato si delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che
si concretava in quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana,
in quel vivere conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia
parlato Panezio, e che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre
posizioni politiche, ri- spetto della res-publica e dovere di lavorare per
essa. Di qui, anche, entro quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del
diritto, della formulazione della parola"della legge e della sua
interpretazione, in quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della
universale giusti- zia, o, meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella
formulazione stessa della legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra
giu- stizia formale e giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il
fon- damento medesimo della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e,
per·altro verso, studio delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che
fin dal principio le persone che ruo- tarono intorno a Scipione Emiliano e che
ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine
allo " stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche,
militari, oratori e giuristi, a co- minciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C.
circa), avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica,
amico di Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli
amico di Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di
concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici;
Blossio di Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Au- gure
(174 circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C.
Gracco, Sp. Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q.
Elio Stilone (154-dopo il 90), maestro di Varrone e di Cicerone; per giungere a
Q. Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle
lotte civili, celebre per la sua giu- stizia, giurista di grande valore, autore
di libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e
di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di
concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli
giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al
quale Cice- rone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le conce-
zioni stoiche sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti-
giano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Vale- rio
Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro
Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e
Antipatro di Tiro. Cicerone definl Catone stoico com- piuto, soprattutto per la
sua dirittura e constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva
l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C.,
si tolse la vita. II suo suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica
e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi,
sembra abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55
sgg.). 4. Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran
merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51
a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la
massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una
forma singolare ed elo-.quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con
una.pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra
cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa
ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di
filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la
fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio,
nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria,
dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città
greco- siriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da
Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò
Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal
95 a.C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre per la sua
cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e storiche, fu
fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la pritania.
Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne visitato
dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone
si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa. Delle
moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli traman-
dati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli dèi
(IIe:pt &t:wvl; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl
à(XLI'6116l\ll; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione”
(IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin-
guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; Contro Ermagora {Upòt;
'Epi'(Xy6p(X11 l; Srtl cri- terio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl
7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle
virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci
(IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di
Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l; Sulle meteore (IIe:pl
!.I.ETC6lp6l11 l; Strlla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou
l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul;Oltre
Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l; Lettere
('E7rLCJTOì.r&t l- 50 univa i vantaggi di uno stile attraente
e colorito a quelli di una enci- clopedia" (E. Bevan, Stoics and Sceptics,
Oxford, 1913}. D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli
scritti di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle
credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di
attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui
posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a questi
scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). Senza dubbio
dietro molte cogni- zioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone
l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche
quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che
sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi
comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire
attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché
a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso
dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è
possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a
raccogliere dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a
rendere conto di quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli
anormali all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni
cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una
spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere
l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si
traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da
Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi
molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da
informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. Chi si
limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni
morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di
fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad
Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici,
astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a
Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo,
particolarmente in fisica. Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui
opere è possi- bile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai
indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana
e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o
ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe
fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta
tra un 51 principio positivo
e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo
presente l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un
mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti,"
che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe
inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come
starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo
stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico,
negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non
sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono
stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché
"scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando
precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione
di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale,
dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro
Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il
pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~nLV ot1Y.(j).ro
niv cfr. Arnim, II, fr. 473). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe
ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi,
sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che
si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale
(aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e
mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane -
nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello
Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare
l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre
da un lato.sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza
orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio,
al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica
dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione
platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una conseguente
ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che Posidonio abbia
scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza e Necessità.
Posido- nio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due principi attivo
l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò paschon), in quanto
materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L., VII, 134). "La
materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza qualità e senza forma,
non avente né una forma distinta per sé né una qualità in sé" (Doxographi
Graeci, p. 458, 811). L'altro principio, il principio attivo o divino, è alito
caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza forma, si diffonde e dà
forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti una ragione, una propria
ragion d'essere. "Dice Posidonio:.&&6c; la-rL 7tV&:U(.Lot
vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio è alito razionale
diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H. Husener, ad. v.
578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle sue
qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dalla
tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che va
dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino, inesistente
in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico, dal razionale
(di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite, al corpo, come
termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui la distinzione
tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo, cor- ruttibile,
già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio che il fato è
terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il fato"
(Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto mancanza di
organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim- patia") è
propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto corpo,
impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo aspetto
dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un errore di
giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto altrettanto reale
dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità (anima razionale),
mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò facendosi specchio
di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma che si dif- fonde e
si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il tutto per la
razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il tutto si diffonde
sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come nesso tra
l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio divino,
vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari. Secondo certi
stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta piena di anime,
venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini sogni e
presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da Cicerone (De
divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo
posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il
significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi,
attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario
Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati
Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza
dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio, 53 si capisce d'altra parte
com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo
primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene
Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la
fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica,"
soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni,
dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad
essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle
passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di
chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani caratteri,
un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento delle
passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come
armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli
altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo
(dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia, Galeno,
De plac. Hipp. 6t Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la funzione del
filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò stesso, socialmente
e politicamente impegnato. Molti piu frammenti e testimonianze abbiamo
relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche di Posidonio. Innanzi
tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di fenomeni, dei suoi
cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni dirette, a minuziose
raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo catalogati. Sap- piamo
altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città greca sull'Oronte,
fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita), abbandonò ancora
giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra città e città,
nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della oramai distrutta
casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del suo disprezzo per
la vita molle delle città grcco- siriache e per la "miserabile farsa delle
loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.). Da Apamea Posidonio venne ad
Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel 115 a. C. Dopo la morte di
Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa settentrionale fino alle colonne
d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi proprt occhi calare il sole di
là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5, 138; che vide alberi popolati di
scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi
barbari vide teste umane appese alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5,
198); e, sempre spinto dalla sua curio- sità e dall'esigenza delle sue
ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden- tale conquistato e ordinato da Roma.
Da circa il 95 a. C. in poi fissò la sua dimora in Rodi, la patria di Panezio,
ove scrisse le sue opere, insegnò, divenne celebre, cittadino onorario di Rodi,
di cui occupò 54 anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a
Roma, visitato dai romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o
che da lui veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone.
Sono tutti dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era
scolarca della Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di
professione, non fu scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò
molto, raccolse u n notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con
un partito, né fu cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città
rimasta piu libera del mondo dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche
e delle sue osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un
materiale di prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia,
meteorologia, geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali
per ulteriori ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo
proprio dei precedenti grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia,
Posidonio, riallacciandosi alla misurazione del diametro del sole ottenuta da
Aristarco e migliorata da lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di
Archimede, giunse a dare la misura del diametro del sole e della distanza di
esso dalla terra che piu si approssima alle misure calcolate oggi, spiegando
anche perché il sole appare piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel
cielo aperto (cfr. Plinio, Nat. ·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il
fenomeno della rifrazione atmo- sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei
corpi celesti), Posidonio poi, rifacendosi all'analisi che delle maree avevano
dato Eratostene e Seleuco di Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte
dalle coste della Spagna atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli
sposta- menti della luna, descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree:
alta e bassa marea quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea
annuale. Il fenomeno è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e
degli altri astri sulla terra, entro l'ambito della simpatia universale.
Celebri furono anche le descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate
da Posidonio, dei fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante
l'ipotesi che i movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle
cavità sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto,
infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In
effetto, Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da
Polibio, alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi
ippocratici, mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i caratteri
fisici e i tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale rapporto
psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente distinto ·i
popoli europei del nord 55
dai popoli europei del bacino mediterraneo. Ha sottolineato che i popoli
del nord e quelli delle zone tropicali, gli uni per il troppo freddo, gli altri
per il troppo caldo, hanno intelligenza ottusa, mentre i popoli che vivono in
clima temperato hanno intelligenza vivace, e in loro prende il sopravvento il
l6gos, la razionalità, fonte di civiltà e di equilibrio. Ogni natura (piante,
animali, uomini) si determina qual è nel suo luogo naturale, ma quando viene
trasportata in altra regione si adatta poco a poco ai caratteri del nuovo
ambiente, finché ne assume la natura propria. Abbiamo, non a caso, citato il
nome di Archimede (cfr. sopra, I vol.) e il nome di Ipparco. Ipparco di Nicea,
in Bitinia, nacque intorno al 180, mori nel 125, visse ad Alessandria e a Rodi,
dove compf la maggior parte delle sue osservazioni. Non è qui il luogo per
descri- vere le scoperte di Ipparco e i suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli
ottenne la possibilità di determinare la posizione delle stelle (calcolò la
posizione di circa 800 stelle) e di farne un catalogo, appurandone la grandezza
a seconda della loro luminosità, calcolando la loro longi- tudine e latitudine,
mediante processi matematici, per i quali, usando pratiche babilonesi,
determinò i fondamenti della trigonometria. Posto un circolo, egli lo divise in
36 gradi, ogni grado in 60 minuti e cia- scun minuto in sessanta secondi.
" Dividendo poi il diametro in 120 parti, Ipparco cercò di calcolare, con
procedimenti teorici, di cui troviamo l'applicazione in Tolomeo, e non con
semplici approssima- zioni pratiche, il valore delle corde in rapporto a queste
parti del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e piu rapidi i calcoli
astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi valori delle corde,
ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una metà dì grado e
successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva
essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento
trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni
astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la
Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). Su questa base scaturisce il
tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà
concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta.osservazione del
movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo,
per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti
nuovi (per la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno
stru- mento migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito
oltre che di un punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con
esattezza si otteneva il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare
alla costruzione geometrica che renda ragione delle apparenze. 56
Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine-
guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter-
minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a
formulare la celebre teoria della "precessione degli equinozi."
Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò
l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate
geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole
geometriche mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della
terra. Sembra che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una
proiezione stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica
(cfr. Brunet, cit., p. 273). A parte i risulçati di Ipparco, ciò che
soprattutto interessa sotto- lineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul
piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la
ricerca propria dei "filosofi" di Alessandria"',
indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da costruzioni già date
"a priori," si fonda sull'osservazione sperimentale, e, attraverso
questa, senza rimanere preso dalla pura enumerazione dei fenomeni, vien
determinando una teoria, che serva a rendere ragione dei fenomeni osservati,
attraverso il calcolo e la misura- zione matematica (che assumono il valore di
strumento, si come gli strumenti veri e propri che servono per quelle
misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è esempio il nuovo astrolabio
inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come abbiamo detto, colpisce
particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze dei primi
"filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un Archimede, un
lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione diretta e allo
studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca, che diviene
scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse limitazioni,
dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni medesime, è l'allon-
tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati discepoli di
Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per il peri- colo
sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone si era
mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia
intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati,
sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere.
Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente
Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla
catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso
la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano concretamente
a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò, naturalmente, era pio
facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna scienza di trovare 57 le condizioni dell'una e
dell'altra. Piu difficile lo fu per ·la fisica e particolarmente per
l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso la fisica, dopo Platone - si
pensi in special modo alla soluzione del Timeo, delle Leggi e dell'Epinomide, e
all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione - andò ·a cozzare
contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del movimento circolare
e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in quanto movimento perfetto e razio-
nale, veniva identificato con la divinità, entrava in contrasto il rispetto dei
fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione della fisica e
dell'astronomia a teologia, ché la soluzione geometrico-matematica dei fenomeni
(la "salvazione dei fenomeni") correva il rischio di passare da
strumento esplicativo a costruzione per sé stante entro cui, poi, dovevano essere
costretti i fenomeni. I termini del contrasto si vedono bene quando si pensi
all'accanto- namento della teologia operato in Alessandria dagli
"istorici" e poi, andando oltre essi, dai "filosofi" che
usarono la matematica e la geo- metria come strumenti esplicativi dei dati
Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta in altri ambienti (sempre per
sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi geometrico-matematiche tornarono
ad avere la funzione che avevano assunto in Platone e in Aristotele, definitiva-
mente teologizzando la filosofia. Per altro verso, tale contrasto si vede bene
allorché si dia il debito peso alla polemica di Epicuro e all'ipotesi della
struttura dell'universo costituito di atomi e di semi vitali, e al
"casuale" incontro di quegli atomi, ove la razionalità non è piu un
dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur giungendo a solu- zioni
diverse - a parte la componente del primo scetticismo.e della seconda
Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il motivo della
"simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi- tuzione di una
fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe esperienze
religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in ambienti
popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora, una
piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo
d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni,
uso.di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione
dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze
irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori
dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di
rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo
stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è
possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi
non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma": da un lato
urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla
tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde
l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si
costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la
misura e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e
la saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere
dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle
tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare,
mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa
razio- nalità. Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos,
che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella
con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi
dell'una e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le
reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad
esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le
anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi,
chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti
della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto
consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è
possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un
tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare
all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una
testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). Seneca discute e
critica la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver
"portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7),
non può ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività,
che mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche,
che naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere
umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle
tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case
riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso
concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non
delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet,
animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). Nella polemica di
Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito
liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla contemplazione
del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi l'atteggiamento
proprio di Posi- 59 donio,
anche nel campo piu strettamente politico, ché, appunto, anche la politica è
saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè capacità da parte del saggio di
costituire, di creare un ordine tra le passioni, in un equilibrio che è
conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad un tempo, giustizia. Sappiamo,
ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato Posidonio a Rodi e che con
Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da inviar- gli la Storia del
proprio consolato, perché il grande storico la usasse per la sua opera (può
essere abbastanza sintomatico che la richiesta di Cicerone sia rimasta senza
risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati, delle singole dottrine
scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana relativa
all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della cultura
enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione dell'oratore (cfr.
particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57, 61, 87 sgg.). Anche; tale
deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come lo è il fattiféhe, appunto,
il successo che ebbe Posi- donio nel futuro della cultura fu dovuto
essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie, che si sono
ritrovate in lui, usato soprat- tutto come una specie di enciclopedia del
sapere. Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i rapporti intercorrenti
degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due principi nell'or-
ganarsi delle cose sotto la spinta del l6gos, del pneuma, abbia da un lato
giustificato sul piano di un'ipotesi le possibili influenze dell'una stella
sull'altra e delle stelle e degli astri sulla terra e sulle cose della terra,
ivi compreso l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che per gradi di
affievolimento, non giungendo il 16gos a tutto, vi è una zona che rimane come
abbandonata a sé, pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non solo le
passioni e il caso, ma anche indicato la possibilicl di operare, mediante.il
16gos umano, su quella zona, qualificando certe cose, cioè trasformando il loro
primigenio aspetto in altro. Posi- donio, pare, giustificava cosf tutta una
serie di esperienze che aveva determinato la tradizione astrologica (di
provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di esperienze che, pur rifacendosi
all'astrologia, si era delineata per un verso nella fiducia di costituire delle
tecniche mediante cui con la natura trasformare la natura (alchimia, magia), e
per altro verso operando su certe cose, in rapporto diretto con una o altra
influenza stellare, influire sulle stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli
dèi (magia astrologica). Anche se, indirettamente, alcune testimonianze hanno
fatto pen- sare che Posidonio abbia raccolto del materiale intorno alla storia
della magia e abbia descritto esperienze magiche, e abbia inoltre composto una
specie di storia dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto
60 distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale,
cÒmunque, sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli
"astro- logorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in
merito, di fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece,
una sua importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca
nella citata Lettera a Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le
invenzioni siano frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto
Posidonio, Seneca cita Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga
l'avorio, come un sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo,
come anche oggi, cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf
colorati. Ora, anche se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché
era un saggio (Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). Cultura e politica
nell'ultima fase della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di Augusto l.
La Nuova Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica a Filone di
Larissa e Antioco di Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una volta, bisogna
rifarsi a Cicerone per rico- struire, molto approssimativamente, quello che fu
il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per
un certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone dal 110
all'88 a. C. circa; Antioco sembra dall'87 al 68); e come, in effetto, sia la
posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro, si
possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue intenzioni.
Secondo l'Academicorum index herculanensis (XXV, l, 36; XXIV, 28; XXIX, 39.;
XXX, 5), a Carneade, ritiratosi per vecchiaia e malattia nel 137, successero
nello scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, morto nel131, poi
Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe un altro discepolo di
Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine riel 187 circa. Carneade
di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.1 Dello stesso
Clitomaco" sappiamo pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita di Carneade
cfr. I volume. Dci primi successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà
solo i nomi: Carneade d i Polcmarco, scolarca dal 137 al 131; Cratctc di Tarso,
scolarca dal 131 al 129; Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca dal 129 al
11o. Sembra che Clitomaco, per un qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato
nel 187 circa a Cartagine, aveva allora 47 anni - abbia aperto una scuola per
conto suo. Ciò renderebbe conto del perché Carneade ritiratosi
dall'insegnamento nel 137, piuttosto che Clitomaco abbia designato alla sua
successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cra- tcte di Tarso. Solo dopo la
morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto il piu fedele interprete
del pensiero di Carneade, poté essere nominato scolarca dell'Accademia. Delle
sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio, IV, 67) non abbiamo che notizie.
La piu celebre è una storia della dottrina sulla sospensione dell'assenso, in 4
lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle sètte. Per il resto si veda sopra,
s{ come a veda sopra ciò che riguarda le varie correnti determinatesi in seno
all'Accademia al tempo di Clitomaco.
95 su1 ventiquattro anni (cosi secondo l'lndex
herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67, sui quaranta),
aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e approfondi le
tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr. Diogene L., IV, 67
- Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i quali divulgò il
pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone
evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva
scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a Clitomaco,
di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che
diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco
(circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative
all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un
suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un
suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione
della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre
la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due
dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda
sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi
disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a
Larissa, in Tessaglia, nel 160/159 circa, Filone fin da giovane potE _ascol-
tare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una
diramazione dell'Accademia. Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad
Atene, entrando nell'Acca- demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco,
mono nel 110 a.C. circa, suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse
l'Accademia fino all'88. Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si
recò a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al
79. Nulla·~ rimasto dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e
testimonianze di un suo scritto Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro,
composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea Carneade-Clitomaco-Carmada
seguita da Filone finchE sog· giornò ad Atene. Antioco nacque ad Ascalona, in
Palestina, tra il 140 e il 130 a. C.:Venuto ad Atene da giovane, segui per
molti anni l'insegnamento di Filone. Nell'88 quando Filone si trasferl a Roma,
Antioco si recò ad Alessandria, passando prima per Roma dove conobbe Lucullo.
Nell'86 era sicuramente ad Alessandria con Lucullo. Nel 79 era ceno ad Atene,
scolarca dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella spedizione di Siria, durante
la seconda guerra mitridatica, assistendo alla battaglia di Tigranocerta (69 a.
C.). Mori nel 68 circa. Delle molte opere di Antioco.non possediamo nulla se
non ciò che riferisce Cicerone, in panicolare di una, il Sosus. Il Sosus fu
composto da Antioco, al tempo del suo sog· giorno ad Alessandria, per
controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro Filone giuntagli da
Roma e che lo aveva indignato. Si veda nel testo i termini e il significato
della polemica Filone-Antioco. Se già Filone.aveva dato un nuovo indirizzo
all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli era stato il fondatore di una quana
Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu dogmatico fu l'indirizzo dato
da Antioco per ciò detto il fondatore della quinta Accademia ("Di
Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre: la prima e piu antica fu
quella di Platone, la seconda, o media, quella di Areesilao, uditore di
Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e Clitomaco. Alcuni ne aggiun·
gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e altri ne contano una quinta,
quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr. hypoth., l, 220). 96
ampia intitolata, appunto, Sospmsione del giudizio, in quattro libri, nei
quali venivano esposte e discusse le tesi di Arcesilao e di Carneade. Non dirò
nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa sospettare che sia una mia
invenzione: riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto con Car- neade fino alla
vecchiaia, uomo di acutezza veramente cartaginese, c so- prattutto accurato e
zelante. Abbiamo di lui quattro libri sulla sospensione dell'assenso (de
sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra, sull'autorità di Clitomaco,
come Carneade spiegasse il suo probabilismo. Ascoltate ora come tale problema
sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro da lui dedicato al poeta Lucilio,
dopo averne dedicato un altro, sullo stesso argo- mento, a L. Ccnsorino, che fu
console con M. Manilio (Cic., Lucullus, XXXI, 98; XXXI1, 102). A quanto sembra
Cicerone riteneva che Clitomaco fosse stato un espositore accurato e fedele di
Carneade (del suo zelo analitico e della sua prolissità parla anche Sesto
Empirico, Adv. math., IX, l, che, d'altra parte, accomuna sempre il nome di
Clitomaco a quello di Carneade, Pyrrh. hypot., l, 220, 230), soprattutto per
ciò che riguarda quello che dovètte essere il motivo piu discusso nella scuola,
in polemica con i fondamenti della logica stoica, e cioè il motivo dell'assenso
cui si accom- pagnava la possibilità o meno del criterio del probabile, che a
sua volta coinvolgeva la possibilità o meno della fiducia nell'azione. In due
modi, aggiunge Clitomaco, si può intendere l'affermazione: il sapiente sospende
l'assenso; l) che il sapiente non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si
trattiene dal rispondere, senza dichiarare se approva o no, senza negare, senza
affermare. Clitomaco ammette la prima inter- pretazione, c non dà mai il suo
assenso: adotta anche la seconda c, tenendo ferma la sola probabilità, risponde
si o no, a seconda che ciò che si presenta sia piu o meno probabile..., ma solo
per quelle appercezioni che spingono all'azione, e per quelle, mediante cui
possiamo, quando si venga inte~ro gati, rispondere in uno o altro senso, non
seguendo che le apparenze, dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso
(Cic., Lucullus, XXXII, 104). Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data
da Clitomaco della posizione di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostrava
anche come tutte le tesi che sostengono la possibilità di un sapere assoluto
siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risol-
vesse sul piano della totale sospensione, allorché si tratta del vero in
assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare alcuna verità, ma,
conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione: se tutto è
opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opi- 97 nione già si distinguerebbe
tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo coerentemente su questa
via, sarebbe impossibile il criterio del "probabile," sia pur sul
piano dell'azione (dice Sesto che "gli Acca- demici assentiscono a
qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con simpatia, accompagnata da un
forte volere": Pyrrh. hypot., l, 230). Se l'una rapppresentazione vale
l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del volere, sia da preferire
all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò verrebbe a cadere anche la
retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv. math., II, 20 sgg.), che di
contro alla dannosità della retorica comune, basata sofisticamente sulla
possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera retorica
consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la discussione
delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale l'altra, l'un
giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o pensare male, ed altro
non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le obbiezioni che in seno alla
scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli di Carneade, i quali tesero
a dare del mae- stro un'interpretazione piu temperata e meno esclusiva. Su
questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si mossero particolarmente Carmada
e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte discussioni che fiorirono intorno
al modo di interpretare il genuino pensiero di Carneade poco o nulla sappiamo,
se non, appunto, che l'Accademia sembrò un "uni- verso coro" (Sesto
Emp., Adv. math., IX, 1). Cosi, di Callide che diresse una diramazione
dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne diresse una ad
Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro i retori, di Melanzio
di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie esteriori (cfr., per
Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8; XXIII, 2; per Hagnone,
Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed Eschine, Cicerone,
Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II, 64). Tutti, comunque,
appaiono impegnati intorno alla questione della "sospensione
dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di contro a certa
verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa impostazione logico-empiristica,
che non poteva non condurre al silenzio, dall'altro lato di contro al peri-
colo, portando ad estrema conseguenza la "sospensione del giudizio"
sul piano teoretico, di rimanere in silenzio, cioè nell'assoluta impossi-
bilità di pensare e di agire. Entro i termini di tali discussioni si mossero
Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di Carmada si dice che fosse bravissimo
oratore, che celebre fosse la sua memoria (cfr. Cicerone, Tusc. disp., l, 24,
59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo di Carneade
(ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator, XVI, 51), ne seguisse
il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore, I, 18, 84), discutendo le varie
opi- nioni, non tanto per far prevalere l'una o l'altra, quanto per richiamare
sempre chiunque ad un controllato atteggiamento critico, in cui, d'altra parte,
consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la retorica da opporre alla
cosiddetta "retorica comune." Ma proprio perché fosse possibile la
riduzione dell'atteggiamento carneadiano a tecnica retorica, mediante cui,
dalla discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni passaggio dall'opinione
al vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano pratico, una certa opinione
che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia nellfl spinta all'azione,
era necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta propugnata da Clitomaco.
Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica - sottolinea il Dal Pra -
" sia stato del parere che conveniva senz'altro riconoscere
l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche posizione; lo
scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed alcuna
posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un valore
ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per
mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza
tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia
una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la
condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). In
effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene
- sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica,
scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla
cosa significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che
corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri
delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti
realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale
(in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la
rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e
che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba
sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa
di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la
negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano,
probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del
discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno
all'afasia di Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallaccian- dosi al tipo di
logica scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza
necessaria di Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi
ipotetici di Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone Megarico),,che
il discorso si fondi su rappresenta-
99 zioni (già esse giudizi e proposizioni, e non soggetti e
predicati), non perciò analizzabili, sulla cui veracità ed esistenzialità
assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di altre, ne deriva che il
discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi, la cui
implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. Perciò verace
o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendente- mente
dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i sillogismi
ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della realtà);
se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e della
esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappre- sentata, parlare di
sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del discorso si può
parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa, assumendo quel
discorso che appare come il meno con- traddittorio, cioè il piu probabile, il
piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In altri termini, se sul piano del vero non
c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le cose sono
comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può parlare
né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni, quali si
presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno alla
cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò che appare, di verità e di falsità.
Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può darsi
che in sé sia spezzato o diritto: perciò su questo sospendiamo il giudizio;
solo che è vero che ai sensi appare··spezzato ed è vero che ai sensi appare
diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impres- sione stessa,
ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è spezzato, e
perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per quello del
colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus,
XXV-XXVI). Tale, sembra, la posizione di Fi- lone di Larissa che, discepolo
diretto di Clitomaco, al quale successe nella direzione dell'Accademia, alla
morte di Clitomaco, avvenuta nel 110/109 a. C., fu piu vicino alla
interpretazione che di Carneade ave- vano dato Carmada (di cui furono scolari
Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che i nomi: cfr. lndex
herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio, Nat. hist., VII,
24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari Metrodoro di Pitane e
Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i nomi: cfr. lndex
herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh. hyp., I, 235),
brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive: "Filone afferma
che relativamente al criterio stoico, cioè la rappresentazione catalettica, le.
cose sono in- comprensibili; ma relativamente alla natura delle cose, esse sono
com- prensibili." Il criterio stoico non garantirebbe cioè se le cose
siano o no 100 comprensibili. Ma proprio questo, appunto perché
non si· può dire quando una cosa sia o non sia compresa, non esclude che le
cose in quanto tali siano comprensibili. "Noi," sottolinea Cicerone,
che in questo passo, su sua testimonianza, si riferisce a Filone, "non
neghiamo quello che ·si presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle
stesse cose che voi stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi
sembrano probabili" (Le~cullus, XXXII, 105). Di qui deriverebbe la sottile
distinzione posta da Filone tra evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte
le cose in quanto presenti alla mente in modo piu o meno forte, ciò non
significa ch'esse siano di per sé percepite e non percepite (cfr. Cicerone,
Lucullus, X, 32; Xl, 34). E cosi, all'abbiezione che Antioco di Ascalona -
discepolo dapprima di Filone, ma poi deci- samente volto a uno stoicismo del
tipo di quello di Cleante - avrebbe mosso a Filone: se assumiamo la
proposizione alcune rappresentazioni sono false, e quindi affermiamo esse non
differiscono in nulla dalle vere, si cade in contraddizione, perché, accordata
la prima e riconosciuta dunque una qualche differenza tra le rappresentazioni,
la prima viene negata dalla seconda che dichiara le rappresentazioni false
simili alle vere; Filone avrebbe risposto: "l'abbiezione sarebbe giusta se
toglies- simo del tutto la verità: ma non lo facciamo; noi discerniamo tanto il
vero quanto il falso, solo ch'essi si presentano sotto l'aspetto della
probabilità, poiché non abbiamo alcun segno che indichi la perce- zione"
(Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). Sembra, dunque, che Filone svolgesse la
propria discussione su due piani diversi. Da un lato, egli, riallacciandosi ad
una certa tradizione (da Democrito a Carneade), negava la possibilità (sia coi
sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle che sono le strutture proprie
della realtà, che resta di là dalle possibilità umane, e intorno a cui si
sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi; dall'altro lato, perciò,
entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la possibilità di costituire discorsi
piu o meno probabili. Di qui la funzione della esperienza e della ragionata
esperienza e della ragione che, se rimane sospesa sul piano dell'essere, è
valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca, la discussione delle opinioni,
dei pro e dei contra, sul piano umano: " p e r navigare, seminare,
sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le quali la sola
probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus, XXXIV, 109). • Si
capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella storia del pensiero
greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica si dovesse
rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la
possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e
prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la 101 pensabilità del reale, onde
la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste
l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o,
per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò
Filone poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo
platonismo e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato
sul piano dei dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi
della maturità di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul
mito e sul verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della
vita pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era
stata una prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre
l'intento. Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla
sua stessa bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo
irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova
quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone,
nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro,
interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia,
si chiami pure, se si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e
nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di
Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao
diresse i propd.attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione
di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto
Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito,
Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può
conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli
gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel
profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può
esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre.
Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate
s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche
Lucullus, XXIII, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle,
Socrate, Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono,
Alexino, i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle
discussioni dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di
altre, in una continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si
costituisca come regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve
(male) alla vita, al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la testimonianza
di Stobeo (Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo libro sulla funzione della
filosofia, paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo al medico, che
sostenesse che la f).Inzione della filosofia consiste nell'av- 102
viare a purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false (I
libro), determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa essere il
fine - cioè la felicità - cui l'uomo deve tendere (III libro), quali le varie
forme di vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini della
convivenza politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per chi
non è sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). Pur- troppo il
rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici di Cicerone -
nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone -
non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una
verosimile ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone
abbia proposto l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed
entro cui ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra
l'interpretazione di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino
(Contra Ac., III, 18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico
giurato degli stoici, sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo
lo stoicismo a platonismo (Agostino). Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus),
discorrendo dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco di
Ascalona, fa intravedere questo passaggio di Filone. Ad ogni modo, interessante
sembra la notizia (Cicerone) che Filone avrebbe particolarmente sottolineato
l'utilità pratica della piu generale tési stoica dell'ordine, quando da Atene
(nell'88. circa, all'epoca della prima guerra Mitrìdatica) passò a Roma (da
dove non si sarebbe piu mosso, e dove forse mori nel 79 circa), entrando in
diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la politica
romana. Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrisse un'opera
in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di Ascalona
che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò grande indignazione. Mentre
ero proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone a Lucullo, che fu appunto ad
Alessandria come proquestore nell'87, - con me era Antioco, egià prima di noi
era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di Antioco, che per parecchi
anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu uomo di valore e celebre
in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna oggi alla ribalta. Spesso ho
ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre, dall'una e dall'altra parte
con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di Filone, recentemente portati
ad Alessandria, per- vennero per la prima volta, tra le mani di Antioco.
Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe potuto essere piu mite di
lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché fino ad allora non l'avevo
mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla memoria di Eraclito, gli
domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o se ma:i avesse ascoltato
aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche altro accademico. Eraclito
diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né era possibile dubitarne. Erano
presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e Tetrilio Rogo, uomini dotti, i
quali assicuravano di avere ascoltato a Roma sostenere quegli stessi prin- cipi
da Filone, e che avevano copiato i due libri dal manoscritto dell'autore.
Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla fine non poté tenersi dal
pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato Sosus (Cicerone, Lucullus,
IV, 11-12). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina (cfr. Strabone, XVI, 2, 29),
tra il 140 e il 130 (di circa venticinque anni piu giovane di Filone), venuto
ad Atene in gioventu, segu(per molti anni l'insegnamento di Filone, facendo
parte dell'Accademia di cui difese con zelo le tesi fondamentali, discutendo
particolarmente contro la posizione stoica di Mnesarco (successo nel 110 a
Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano. Circa al tempo in cui Filone
lasciò Atene (88 a. C.) per andare a Roma, Antioco lasciò Atene per recarsi ad
Alessandria. Forse era passato prima per Roma. Certo si legò di amicizia con
Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca dell'Accademia, e là lo ascoltll
Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della dittatura di Silla. Nel 74, quando
Lucullo fu nominato console e condusse le truppe durante la seconda guerra
mitridatica, che vittoriosamente per Roma si concluse con la battaglia di
Tigranocerta (69 a. C.), Antioco segu(Lucullo in Siria. Mod nel 68 a. C. Senza
dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di Cicerone - in cui da un lato per
bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco, IV-XIX; e dall'altro lato si
difende, per bocca di Cicerone stesso, la posizione di Filone e dell'Accademia
in genere, XX-XLVII, - era passato da un atteggiamento piu strettamente
critico, da una posizione vicina a quella di Carneade, di Clitomaco e di Filone
(del Filone almeno del periodo di Atene) ad una posizione piu dogmatica,
avvici- nandosi decisamente a tesi stoiche: anch'egli, sembra, al tempo in cui
entrò in piu stretti contatti con l'ambiente romano e particolarmente con un
uomo come Lucullo. La malignità di Cicerone, secondo cui alcuni avrebbero
sostenuto che Antioco aveva abbandonati i suoi an- tichi amori e le tesi di
Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi in futuro sarebbero
stati detti "antiocheni," è una malignità assai indicativa quando si
pensi che i discepoli di Antioco erano soprat- tutto romani (cfr. Lucullus,
XXII, 69-70). Curiosa sembra allora la rot- tura tra Antioco e Filone, se essa
è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco provò per il passaggio da
parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato dall'opera di Filone, scritta
a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad Alessandria. Antioco scrisse
allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo quanto riferisce Cicerone, cerca
di demo- lire il motivo del "probabilismo" e
della"sospensione." Gli argomenti contro la tesi del
"probabile" e contro la "sospensione" ricalcano la linea
con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sostenevano la
"fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel
T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone,
Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco,
il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un
certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a
vivere secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi
tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse
sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione
degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la
saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità.
Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando
donde viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche
severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede
alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della
sua azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un
prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se
non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa
ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza?
E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna
idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non
sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che
bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad
agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza
(traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci
è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la
rappresentazione che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta
vera, il che sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser
distinta da una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a ricercare
un oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme o estraneo
alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe interamente la
ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è la ragione che
offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché la virtU non
è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. Desiderio di
conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si scoprono
cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si parla di
scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in chiaro.
Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la 105 percezione e la comprensione.
La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che
conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone,
Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica
di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui sembrerebbe
che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba es- sere
rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in Filone,
come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento, scientificamente
determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato dagli Stoici.
Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo primitivo
atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco, dello
stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva dire
che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu il
vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma ipotetica e
probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo essere altrettanto
probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o l'una o l'altra,
potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in discussione
particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di mostrare la
contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione catalettica ad un
tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che impressiona e come
assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la rappresentazione è di oggetti,
la rappresentazione stessa non può essere giudizio, ché il giudizio si ha solo
nella proposizione, e se la rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante,
evidentemente essa non è una proposizione, se mai un termine della
proposizione. Impossibile l'assenso relativamente a ogni rappresentazione, ogni
rappresentazione (non giudizio) si presenta vera tanto quanto ogni altra
rappresentazione, per cui lo stesso giudizio che si determinerà nel costituire
i nessi e le implicazioni tra le rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu
avvicinato a Diodoro Crono e ai megarici), non potrà mai esser volto alle
strutture e ai nessi in sé dd reale. Sul piano della verità, dunque, lo stesso
stoico, se non vuol ca· dere in contraddizione è costretto a sospendere il
giudizio, o a rima· nere in silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo
morale, sul conveniente, sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e,
poi, Carneade (polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni
sull'epoché per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza
di contro avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c
con Filone si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei
confronti dello stoicismo, al "probabile" carnea- 106
diano, assumendo, perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E
qui Antioco aveva buon giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po-
sitiva e non piu critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della
sospensione del giudizio e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen-
tazioni, per cui si poteva ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come
gli stoici dovevano rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e
inattivi dovevano rimanere gli Accademici. Per venir meno all'una e all'altra
accusa, Antioco, riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia
catalettica di Zenone aveva dato Cleante, e cioè che la rap- presentazione
coincide esattamente con il rappresentato e che perciò i nessi tra le
rappresentazioni ripercorrono i nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra
terminologia (con terminologia stoica), a rifar sua la logica di tipo
aristotelico, e, non rendendosi conto che, in effetto, la logica degli stoici
era una logica "proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto
benissimo Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla
realtà in discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva
interpretare Platone in chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che
diciamo percepite dai sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice
che sono direttamente percepite dai sensi, ma:he in un certo qual modo lo sono:
"questa cosa è bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è
odorosa, altra ancora è aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di
comprensione dell'anima, non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un
cane." Poi si passa, per il resto, ad una serie ~he collega insieme i
caratteri piu salienti, come quelle proposizioni che abbracciano una percezione
completa di realtà: "se è uomo, è animale mor- tale partecipe di
ragione." Di questo genere sono le nozioni delle realtà impresse in noi e
senza di cui ogni intelligenza, ogni discussione, ogni problema sono
impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz) fossero false o impresse in noi
in rappresentazioni tali che le vere non potessero essere distinte dalle false,
come potremmo usarne? Come potremmo vedere quel che si accorda e quel che non
si accorda con una cosa? E alcun luogo sarebbe lasciato alla memoria, che
tuttavia è di fondamento, a un tempo, non solo della filosofia, ma di tutta la
vita e di tutte le arti..Come potrebbe esserci, infatti, memoria di cose false?
Ci si ricorda di ciò che non si è \'eracemente afferrato con l'anima?...
(Cicerone, Lucullus, VII, 21-22). Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava,
secondo lui, la coincidenza tra strutture della ragione e strutture della
realtà, cui si giunge mediante le percezioni, sosteneva che, in effetto, gli
stoici ave- vano servito, approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a
dar conto della tesi platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e
coincidente con le strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Ac- 107 cademia da Arcesilao prima
(media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino
pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici,
voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non
a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro,
di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e
dell'"anima mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta
in atto, nel suo scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di
Zenone-Cleante, accantonando, d'altra parte, in questa, a sua volta, interpretazione
dello stoicismo in chiave platonico-aristo- telica, certe tesi piu propriamente
stoiche, come quella della confliJgra- zione, probabilmente anche per influenza
degli stoici Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia (la stessa
attività divina che farebbe dopo la conflagrazione? E ammessa la
conflagrazione, non ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile divinità?: cfr.
Filone l'Ebreo, De aeternitate mundi, 54), ma derivandone, attraverso le
conces- sioni fatte proprio dagli ultimi stoici al rigidismo morale primo, una
propria interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi secondo
natura." E ora, entro il quadro che siamo venuti delineando, assume un suo
particolare significato l'esposizione che per bocca di Varrone, Cicerone (Varro)
fa della posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta- zione che
·Antioco dava della vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici. Per
influenza di Platone, vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di filosofia
una e identica sotto una doppia denominazione, cioè la filosofia degli
accademici e quella dei peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle cose, non
differiscono che per il nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{ dire,
l'eredità della sua filosofia a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi
discepoli piu brillanti per il sapere e per la dottrina furono Senocrate di
Calcedonia e Aristotele di Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe-
condità di Platone, formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad
un tempo. Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la
consuetudine di Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò
che Socrate non approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane,
in un ordine delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae).
In principio tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era
alcuna differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la
stessa distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice
fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita
e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del
ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da
quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. 108
Nella prima parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla
natura, ci si raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella
natura, va ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre
azioni~ Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei
beni, consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario
all'anima, al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel
complesso, gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la
bellezza; nelle parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna
delle parti del corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la
chiarezza per la voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano
beni dell'anima tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e
riferivano gli uni alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano
proprie la prontezza nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù
dall'attività della mente e dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri
interessi, e, per cos{ dire, le nostre consuetudini, le quali in parte si for-
mano con un assiduo esercizio, in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i
beni dell'anima. Quelli della vita (terza specie) consistono in certe ag-
giunte che possono facilitare la praùca della virtu. Infatti la virtu (del-
l'anima e del corpo) si mostra anche ill" alcuni vantaggi che non
dipendono tanto dalla natura, quanto da una vita felice. Affermavano perciò che
l'uomo è membro della città e del genere umano, è cioè unito ai suoi simili
mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò che pensavano del sommo e naturale
bene, cui riferivano tutti gli altri beni che servono ad accrescerlo o a
conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza, la gloria, la grazia. In tal
modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria comprendeva l'ob- bligQ di
condurre una vita attiva e la fonte del dovere stesso: in altri ter- mini,
raccomandava di obbedire ai precetti della natura... Della natura poi (questo
seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due principi: l'uno efficiente,
l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione modifi- catrice del primo.
Nella causa efficiente, vedevano una forza; l'oggetto sot- tomesso alla sua
azione era una specie di materia. Ad ogni modo non concepivano l'una senza
l'altra, ché le parti della materia non sarebbero coerenù se non fossero
trattenute da una qualche forza, e la forza non può trovarsi fuori della materia,
poiché tutto ciò che è deve essere in qualche parte. Tale unione dei due
principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste qualità le une sono
primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie sono uniformi e
semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi. Cosi l'aria...,
il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse sono scaturite le
forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce. Per ciò si
chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne sono due,
l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le altre, cioè
l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo l'azione di
questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano formati gli
astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle quattro di cui
sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa materia
non 109 avente alcuna specie
e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione, di cui tutte
sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere modificata in tutti i
modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa, perire non è affatto
annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono essere tagliate e divise
all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo che non possa essere
diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono intervalli ugualmente
divisibili all'infinito. Da tal moto e dalla materia sorgono i fenomeni che
abbiamo chiamati qualità], che, nella natura giustapposta e continua, hanno
formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori del mondo non v'è alcuna
particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti del mondo tutti gli
esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla natura senziente, in
cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla vi è di pio forte
che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del mondo, essa
stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa specie di
prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che ha
particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende
umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere
altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{
dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano
fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità
delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e
accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per
oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di
verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose:
la consideravano come la sola degna d'essere cre- duta, perché solo essa
contempla ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi
chiamavano idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo
esattamente tradurlo con spedes) La scienza, secondo questi filosofi, non
riposa che sulle nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. L'opinione sulle
sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni
delle cose, e le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche
le spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato
applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo
per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla
prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. In questo consisteva
tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce
conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano
progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di
un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate
da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il
nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera
riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina (Cicerone,
Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco,
o chi per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se
considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione
che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole
discussioni delle scuole. su singoli argomenti ed aspetti, assume significato
in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza
generale e ge- nerica (divinità, ordine.dei cieli, mondo nella sua totalità,
uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della
vita) che serva da prima ed elementare cultura. Si capisce come qui giuo-
cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al
Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della
fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie
di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita,
proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale
religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene
comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia"
greca: "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico"
(Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non
poco in- dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si
riflette l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la
presentazione per argomenti) siano state compilate dai loro autori quando,
usciti dai propri diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in
contatto con la classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo
evidentemente a ben precise richieste e.dando ad esse. chiarificazione e
consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. Per
altro verso, invece, in seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia,
Stoà), si discutevano singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle
scuole stesse, di manuali in cui - ad esempio per la scuola stoica - si
elencavano questioni di morale, modi diversi di vita a seconda delle singole
situazioni, sistemazioni delle ricerche della scuola sul linguaggio e sulle
tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di
Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni generali alla. stessa dottrina
(cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per l'Accademia e ad uso delle
discussioni - si elencavano le opinioni diverse intorno alle piu varie
questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae cos1 via (si cfr., ad
esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori dalle singole scuole,
fuori da precise problematiche che rispondevano a specifica preparaziOne, as-
"sunse entro l'àmbito della cultura romana, la funzione da un lato di lll introduzioni generali,
dall'altro di manuali utili alla preparazione sulle singole materie. E quando
si pensa alla classe che in Roma aveva in mano le redini del governo e al modo
di funzionare della politica romana (non si scordi l'importanza che ebbero
anche i processi), ci rendiamo conto del perché la maggioranza di questi
manuali, di cui è rimasta me- moria, o siano manuali d'introduzione (dacxyoylj,
eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione culturale generale) o manuali
di retorica, di dialettica, o esposizioni di una certa· serie di opinioni o
sentenze su singoli problemi (non a caso in quest'epoca, 1 a.C., si formarono i
cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in sei libri delle Opinioni dei fisici
di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla scuola di Posidonio), o manuali di
morale e di casistica morale (si vedano sopra i titoli delle opere di Ecatone
di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i termini di una preparazione generale,
manuali divulgativi intorno alle singole scienze (particolarmente di
astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale), cui potevano servire i clo~ti
acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien- ziati del m e del u secolo. E
se è vero che tali Introduzioni e Manuali servivano già per i giovani greci,
che venendo alle scuole di Atene, di Alessandria o di Pergamo, non aspiravano
certo a loro volta alla professione dei loro maestri, ma a formarsi, appunto,
una cultura ge- nerale che servisse poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che
offriva l'amministrazione dei singoli regni, ciò è tanto piu vero per i giovani
romani avviati alla carriera politica, nel disfacimento di quei regni stessi.
Le discussioni svoltesi in seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in
quest'ultima, per ciò che riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio,
di Posidonio, di Filone e di Antioco, le introduzioni e i manuali, le
dossografie e le esposizioni di singole questioni, si ri- flettono in
Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso gli aspetti piu 2 Di antica famiglia
di possidenti, appartenente all'ordine dci cavalieri, Marco Tullio Cicerone
nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi antenati, il 3 gennaio dd 106 a.
C. Giovanissimo, insieme al fratello Quinto, Marco Tullio Cicerone fu condotto
dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. Sotto la guida
dell'oratore Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti i maggiori maestri greci
allora in Roma. Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one prese pane alla guerra
Marsica, comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma prosegui i suoi studi
sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Acca- demia in Atene fino
all'88, stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del retore Molonc di
Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di
Cicerone moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo
ordine, Ciocrone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c
subito dopo penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di Publio Quinzio, dell'SO
l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. Preoccupato per
avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla,
Cicerone si allontanò da Roma, per un viaggio di "perfezionamento"
112 problematici deil'opera di Cicerone, si delineano alcune
grandi conce- zioni, entro il quadro di quelle visioni d'insieme, di cui
parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni delle Scuole, i manuali, le
in- in Grecia. In Atene ascoltò lo scolarca dell'Accademia, Antioco di
Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore Demetrio Siro, gli epicurei
Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le scuole di retorica in Asia e fu,
quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con Molone di Rodi e dove conobbe
Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non solo piu esercitato, ma quasi
mutato" (Brutus, 89 sgg.). Cicerone, che nel frattempo aveva spo· sato
Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel 75, ebbe la
provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e moderazione.
Ritornato a Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre che nei suoi
tre anni di pretura siciliana (73-71) 11veva saccheggiata la provincia. Nel1.69
fu eletto edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora la sua prima
orazione politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Nd 63, insieme a Gaio Antonio fu
eletto console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degli
oligarchi contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro
il disegno di legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio
Rullo. Fu poi la lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. Se è vero
che durante il suo con- solato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito
degli ottimati, è altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato
del potere mandando a morte cittadini romani senza regolare giudizio. Avvenuto
l'accordo di Pompeo con Cesare e Crasso (80), Cice- rone si trovò isolato,
sotto l'accusa di Publio Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di
tribuna della plebe, nel 59 promosse una legge contro coloro che avevano fatto
uccidere un cittadino romano senza regolare condanna. Cicerone allora (marzo
58) si allontanò da Roma,. mentre Clodio faceva decretare l'esilio di Cicerone
e l'ordine di distruzione della sua casa di Roma e delle ville di Tuscolo e di
Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a Tessalonica e quindi a Dirrachio. Nel
57, il console dell'anno, su proposta di Pompeo, revocò l'esilio di Cicerone,
sostenendo ch'egli aveva agito per il bene della Repubblica. Cicerone tornò a
Roma in trionfo, pronunciò ~razioni di ringraziamento dinanzi al Senato e al
popolo e riusd a farsi ricostruire a spese pubbliche le sue case. Legato a Pompeo,
Cicerone che non era piu appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi, appoggi e
forza presso i potenti dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c
gente che potevano metterlo in pericolo. Con molta intelligenza e moderazione
resse il proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel 50 a Roma si trovò in
piena lotta tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si decise poi a seguire
Pompeo c fu con lui in Oriente. Malato, non combatté a Farsaglia (48) e, dopo
la fuga di Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si recò a Brindisi, dove
attese Cesare. Appena Cesare sbarcò (47), Cicerone gli andò incontro. Cesare
smontato da cavallo si accompagnò a Cicerone. Tornato a Roma si ritirò dalla
vita politica. Ucciso Cesare nel 44, Cicerone pronunciò in Senato un'orazione
in favore di una pacificazione c di un'amnistia generale. Marco Antonio invece
eccitò il popolo contro i congiurati. Anche Cicerone fu costretto a fug- gire
d" Roma. La sua lotta contro Antonio è affidata alle celebri Filippiche.
Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di
Cesare Ottaviano, Cicerone tornò a Roma sperando che Ottaviano salvasse la
Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa del Senato e degli
Ottimati. Ma Ottaviano si accordò con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri
uipublicae costituendae per cinque anni, riserbandosi ciascuno il diritto di
proscrivere i propri avversari. Cicerone fu proscritto da Ant<.onio. Fuggito
da Rom.., si rifugiò nella sua villa di Astura presso Gaeta, ovc raggiunto da
sicari di Antonio, venne ucciso il 7 dicembre del 43. Se le orazioni di
Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua attività
politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne scandendo il suo
pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi fini, di cui
specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate. In realtà
impossibile è una divisione 113
traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe esigenze proprie del
mondo romano. E quando diciamo mondo romano, non intendiamo qualcosa di
compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri, delle opere di Cicerone
in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo qui, per utilità, l'elenco
cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle orazioni. IOpt!re
retorico-filosofiche Traduzione dell'Economico di Senofonte (85 a.C.: ne
restano alcuni frammenti); traduzione dei Fenomeni di Arato (84 circa: ne
restano alcuni frammenti); De inven- tione rhetorica (80: in 2 libri; tentativo
di sistemazione delle tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (55: si dà,
oltre alle tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di
eloquenza); De Republica (in 6 libri, composto tra il 54 e il 51: doveva
includere 9 libri. Il dialogo si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali
interlo- cutori Scipione Emiliano e C. Ldio. Resta una parte del VI libro,
andata sotto il nome di Somnium Scipionis; possediamo inoltre citazioni e
riassunti di Lattanzio e di S. Ago- stino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai
in un palinsesto vaticano. Nel l libro dopo avere discusso della natura dello
Stato e della sua origine, e dopo aver passato in rassegna le tre forme di
reggimenti politici tradizionali, monarchia, oligarchia, democrazia, e delle
loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la costituzione romana; nel n
libro si fa vedere come si è realizzata la costituzione di Roma; nel III libro
si dimostra che non c'è Stato senza giustizia; nel IV libro si chiariscono i
fondamenti istituzionali senza di cui non vi sarebbe vita morale; nel. V libro
si delinea quale debba essere la figura dd reggitore, del rector rerum
publicarum; nel VI libro si doveva· definire il princeps: ne è un saggio il
somnium Scipionis); De Legibus (composto tra il 53 e il 51, fu pubbli- cato,
sembra, nel 46; doveva essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge
tenuto ad Arpino, nel 52, presso il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali
interlocu- tori sonò lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I
·libro si discute e si defi· nisce il diritto naturale e il significato da dare
alla legge; nel Il libro si dichiara che le leggi civili debbono avere a loro
fondamento le leggi naturali; si discutono poi le leggi religiose; nel III
libro si discutono le leggi dei magistrati; il IV e il V libro dove- vano
trattare dei giudizi e dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un
libro (composto nel 46: il dialogo, che ha per principali interlocutori
Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana,
culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); Orator (del 46: vi si delinea il
ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un
tempo); De optimo gent!re oratorum (del 46: è un'introdu- zione alle traduzioni
latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro
Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); Paradoza Stoicorum (del
46: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni
sulla morale); Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano
frammenti e testi· monianze. Doveva essere una specie di grande introduzione
alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. Servi nelle scuole
eome introduzione alla filosofia. Fu composto, sembra, tra il 46 e il 45); De
partitione oratoria (45 circa: opera a carattere tecnico e istituzionale);
Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche frammento citato da Cicerone stesso e
da Lattanzio. Fu sc:Ìitta nel 45 per consolarsi della morte della figlia Tullia);
Academici libri (Cicerone ne stese due redazioni: gli Academica priora in 2
libri e gli Academica posteriora in 4 libri; degli Academica priora il l libro,
o Catulus, è per- duto, il n libro, o Lucullus, si è salvato; degli Acllliemica
posteriora si è salvato il l libro, o Varro; abbiamo alcuni frammenti e
testimonianze degli altri libri. Furono scritti nel 45. Vi si espone
criticamente la storia del pensiero degli Accademici e in pa'licolare il
pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona); De finibus bonorum et
malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il primo dialogo abbraccia il l e il
n libro; il secondo dialogo il III e IV libro; il terzo dialogo il V libro. Nel
l libro C. L. M. Torquato espone la tesi epicurea secondo cui il bene sta nel
piacere; nel n libro Cicerone confuta la tesi epicurea; nel III libro Catone
espone la tesi stoica secondo cui il bene consiste nella virtU e tutti gli
altri cosiddetti beni sono indifferenti; nel IV libro 114 ove la
grande espansione e le conquiste presentano problemi nuovi, economici e
sociali, per cui lo stesso modo antico di governo entra in crisi, in cui la
classe senatoriale e, ormai, quella degli uomini nuovi Cicerone confuta la tesi
stoica sostenendo che nulla di nuovo se non nelle espressioni. hanno detto gli
Stoici, rispetto ai platonici e agli aristotelici; nel V libro si espone la
dottrina degli· Accademici, o meglio quella di Antioco); Tusculanae
Disputationes libri V (del 45; sono una prosecuzione del De finibus; si
rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il De finibus, e, questo, forse,
spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio stoico: nel I libro si
dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non teme i dolori del
corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V che uno è il bene,
la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del Protagora e del Timeo
di Platone (45 circa); De natura deorum libri Ili (composto tra il 45 e il 44:
nel I libro Velleio epicureo espone la tesi di Epicuro sulla divinità, confutando
le tesi di Platone e degli Stoici ed esponendo le varie teorie sugli dèi da
Talete a Diogene di Babilonia; Vdleio viene quindi confutato da Cotta; nel II
libro Balbo espone la tesi stoica sul divino; nel III libro, di cui sono andate
perdute alcune parti, Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente alla
natura degli dèi, sia al loro governo sul mondo, sia al loro inte- ressamento
per gli uomini. Cicerone, infine, sostiene ch'egli attraverso la sua posizione
accademica, ritiene opportuno optare per la tesi di Balbo); De senectute o Cato
maior (composto tra il 45 e il 44, probabilmente finito prima del De natura
deor., del De divinazione e del De fato; il dialogo si finge tenuto nel 150 tra
Catone il Censore, ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per
oggetto la difesa della vecchiaia; la prima ispirazione è probabilmente dovuta
al I libro della Rep. di Pla- tone); De divinazione libri Il (del 44; si
riallaccia al De nat. deorum, per confutare la tesi stoica della divinazione.
Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello Quinto. Nel I libro si espone
la storia e la critica della divinazione, implicante una ferrea ne- cessità.
Quinto si dichiara favorevole alla tesi stoica; nel II libro Cicerone confuta
la tesi stoica); De fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44, nel De fato si
discute a fondo la questione del rapporto necessità-libertà, rifiutando sia la
tesi epicurea che quella stoica); Laelius de amicitia (del 44; il dialogo si
finge avvenuto nel 129 in casa di Lelio all'indomani della morte dell'amico di
Lelio, Scipione Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante un viaggio per mare
da Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica retorica); De
officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei doveri medi,
in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl "tOÙ
Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste l'honestum, nel II
in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti tra honestum e
utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e il De
virtutibus, ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio Roscio
(80); Pro Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine (70;
dalla Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in
C. Verrem); Pro M. Fonteio, Pro.Aula Caecina (tra il 69 e il 67); Pro lege
Manilia o De imperio Gn. Pompei (66); Pro.A. Cluentio (66); De lege agraria
contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum (63); Pro
C. Rabirio (63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro P. Sulla,
Pro.A. Licinio.A.rchia poeta (63-62);.Ad Quirites post reditum suum (57); Post
reditum in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum
responsis in Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro
M. Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus (56); In L.
Calpurnillm Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52), Pro C. Rabirio postumo, Pro
M. Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro (50-45), Filippiche
(14 orazioni in M. Antonium, del 44). ·si ricordano, infine,. gli epistolari
ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di
Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad
Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere
storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di nessun valore. 115 tentano di mantenere il
proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti interni - senza
perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la propria opera o la
propria azione, giustifica- zioni ideali. La prima concezione, d'ordine·
generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu profonde differenze),
quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella delineata come di
Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente scandentesi, ove il
divino è la stessa ragion d'essere che fa s(che ogni cosa si articoli
all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si diffonde
(anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). Entro questi
termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e stoici
(particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio passivo,
del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile interpre-
tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del cosmo), e
il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il costituirsi
di una concezione, la quale ideologicamente serv(a giustifi- care un certo modo
di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati sull'esempio di
Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le mosse da Scipione
Emiliano. Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto dell'armonia del tutto
e della legalità del tutto, giustifi- cava da parte ~enatoriale l'istituzione
di un certo "diritto" a diritto universale e la teorizzazione di un
costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti a costume, a bene, a
libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è un'altra dottrina che
traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a fuoco da Filone di
Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione stoico-platonica, essa tuttavia
sembra rispondere a una diversa esigenza, che rivela, di contro alla oramai
sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu rigidi, la possi- bilità di
una maggiore duttilità di una discussione e convinzione che si realizzi
retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di gente che, pur legata alla
carriera politica e alla corrente senatoriale conservatrice, si rende conto dei
mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i contrasti entro la stessa classe
dirigente, nel venire alla ribalta di uomini nuovi e in una carriera politica
alla quaie non si accede piu solo per nascita, ma anche da parte di chi ha
rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei processi. Pur optando per la
visione di un tutto ordinato, tale strutturazione tuttavia viene assunta non
come verità assoluta. Tale accettazione dogmatica, utile finché unica era la
voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una discussione piu aperta si
poteva di- mostrare che, portata alle estreme conseguenze, giungeva alla nega-
zione proprio dell'azione (s(come avveniva in certe posizioni dello 116
stoicismo) e, alla fine, all'impossibilità del discorso e, perciò, ad
esau- rire la propria forza di convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di
quella tesi, e oramai comune concezione, come ipotesi, come verità pro- babile:
era cosr possibile la discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il
muovere a quella piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le
tecniche della convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la
relativa acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover essere,
come impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo
platonismo, stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti
del platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che
come essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del
saggio stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale
medi~. di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca-
pace, possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu
perfetta, posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la
via presa da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e
all'Accademia, piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando
Antioco di Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per
ostentazione o per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non
solo la mia stol- tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se
nelle piccole cose si biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso,
vorrei, allorché si tratta del fondamento e del fine della mia intera vita,
entrare in conflitto con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me
stesso? Perciò, se non pensassi essere inconveniente in una tale discussione,
fare quello che tal- volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato,
giurerei per Giove e per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che
penso come parlo. E come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento
che provo gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma
proprio perché giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo
vergognosissimo affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente,
certo, sono incapace di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio
assenso, di non avere mai un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a
me, faccio molte congetture (io non sono un saggio), e non mi volgo a quella
piccola Cinosura [Orsa minore] "guida notturna cui si affidano i Fenici in
alto mare," come dice Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2,
106], i quali, tanto piu esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua
vicinanza al polo, "ha una breve rivoluzione," ma dirigo i miei
pensieri verso I'Orsa maggiore e le chiarissime stelle di settentrione, cioè
verso ragionamenti in forma larga e non minuziosamente limati. E per ciò mi
capita di andare errando e di navigare nel vago. Ma, come ho detto, non si
tratta di me, ma del sapiente. Quando, infatti, ciò che mi rappresento ha
fortemente scosso la mente e i sensi, lo
accetto e talvolta anche gli do il mio assenso; tuttavia non lo percepisco; ché
nulla ritengo si possa percepire. lo non sono un sapiente; per questo cedo alle
rappresentazioni e non posso resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone,
quando pensa che la piu alta forza del sapiente è di stare attento a non essere
afferrato e a non essere ingan- nato. Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che
abbiamo della gravità· del sapiente che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza
(Cicerone, Lucullus, xx, 65-66). Quando scrisse gli Accademici (nel 45 a. C.)
Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel che n'è rimasto (Acad. post.
lib" l, Varro; Acad. prior. lib. Il, Lucullus), alla posizione piu rigida
e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si rifletteva.nella
posizione di Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone nell'inter-
pretazione del probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si veda anche:
"ci sono molte cose probabili, le quali, per quanto non colte in sé,
tuttavia, dandoci una rappresentazione chiara e distinta, servono a regolare la
vita del saggio": De nat. deorum, l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82),
una piu duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica,
avente per fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno
della sua maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel
complesso degli scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare
interesse, in quanto chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero
ciceroniano: da un lato l'esigenza di una concezione filosofica, di una
riflessione critica che renda conto, diciamo cosr, di una "saggezza
teorica"; dall'altro lato, anche mediante quella saggezza, la capacità
d'inserirsi nel mondo umano, per mezzo del- l'arte del dire, sr che quello
stesso mondo umano si muova, scendendo, se si vuole, a compromessi, usando
tutte le tecniche della piu scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non
vi sia una "filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu
concezioni, non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state
desunte, volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è
anche certo che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio
di una certa classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo
tenta- tivo di determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione
della cultura come mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di
scienza e retorica, in un pensiero che è davvero tale se è azione. Non è cosr
un caso l'abile ripresa del motivo aristotelico ("e cosr - esclama
Cicerone, - l'uomo, secondo Aristotele, è nato per due fini, comprendere e
agire, come un dio mortale -- De finibus, II, 13, 40) di una ragione teoretica,
di una ragione pratica e di una ragione poietica (cfr. I vol.), ove,
relativamente alla retorica, essa, avendo per campo il mondo del possibile e
non del necessario, fa tutt'uno con la dialettica. Certo, per intendere
la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo ideale di vita da lui affrescato,
il significato da lui dato alla cultura e perciò al rapporto
filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica illuminata, capace di
inserirsi volta per volta nel contrasto degli avvenimenti, vanno tenuti
presenti i momenti estremamente gravi della storia e della politica di Roma
durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43 a. C. È storia troppo
nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le alleanze e le rotture
tra uomini in lotta, i conflitti tra i "populares" e gli
aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le lotte in nome del popolo o del
senato che gli stessi aristocratici e i cavalieri ebbero tra loro, pur di
assurgere al potere. Entro questi termini si vede bene il tentativo di Cicerone
di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno o dell'altro personaggio - non
a caso Cice- rone fu in contrasto con Pompeo e con Cesare, - in nome di un
ordine e di una legalità che conservasse quella res-publica quale si era deli-
neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi il tentativo di mante- nere un
ordine in cui si determinasse la libertà d'azione piu che degli aristocratici o
dei popolari, degli optimates. "Tutti sanno," ha scritto giustamente
La Penna, "di qual largo favore godette nell'ultimo se- colo della
repubblica romana lo slogan della libertas: uno slogan usato da parti opposte,
con contenuto diverso e indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la
libertà e la democrazia di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso
campa di sostrati remoti di cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti
per la libertà, benché a quasi tutti gli storici sia ormai chiaro che quella
libertà era, in fondo, la facoltà per alcune cricche nobiliari di manipolare
elezioni e magi- strature, grazie alla ineducazione politica e alla fame della
plebaglia urbana, le cui esigenze vere o si manifestavano in esplosioni cieche
e inefficaci o influivano in misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto...
che lo slogan della libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto
l'impero. Augusto attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem
publicam e gli imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della
libertà; nelle contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami
campione della libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di
scarsissimo interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan
della libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario,
vada sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e
se- curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura
di 119 nemici esterni, senza
paura di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia rerum novarum
cupida, senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto, in buone
mani. Questo processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età
augustea..." (Libertas e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). In
effetto tutto questo era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo
presente la situazione storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia
da certi aristocratici e cavalieri che agivano avendo per scopo un potere
personale, sia dalle rivolte popolari, in una struttura sociale in cui il
popolo non c'era; ma anche si chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla
cultura, la tensione a porre, sia pur come dover essere, un ordine e una misura
ideali, per muovere i quali divenivano di grande importanza tutte le tecniche
retoriche, onde la retorica venne pian piano a perdere per Cicerone il
significato di mèra precettistica (come ancora era nel giovanile De
inventione), per assumere la funzione di costituire e di "inventare"
un certo ideale e di convincere ad esso. Se non vanno dimenticati i massacri di
Mario, le molte guerre civili, le proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo,
di Crasso e di Cesare, i molti processi, neppure vanno dimenticati, anche in
funzione di questi stessi conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari,
i due schemi retorici che n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus
romana, legato alla sola tradizione del "forte" popolo romano, indi-
pendentemente da ogni cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine
costituito, la cui visione è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla
concezione del saggio di tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca
nettamente dalla politica. Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era
divenuto un ideale, cioè la figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché
saggio, ma saggio perché uomo d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo
Stato verso il bene, sorge l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale
uomo politico, che può indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da
realizzare, in quanto abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò
stesso, perché ro- mano, non solo volta a quella greca, ma anche allo studio
della tra- dizione di Roma, dei suoi costumi, della sua lingua, del suo
diritto. Tale, sembra, l'esigenza messa in chiaro da Cicerone. Da un lato,
quindi, l'importanza di una cultura enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre
all'interesse per ascoltare e conoscere i vari maestri delle varie scuole,
recandosi anche nei centri di maggior cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il
significato dato ai manuali, alle introduzioni, alla discussione delle
questioni, mediante cui formare la propria personalità, cioè la propria
humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che assumono le ricerche
dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, alla sua cultura. Assume qui
un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva conto nel tempo-
l'opera cosiddetta erudita di Varrone8 reatino, vissuto tra il 116 e il 27 a.
C. A tale proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse la
delineazione che Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua
importanza per aver fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro
antichità, contrapponendo tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino
un aspetto della paidèia greca, costituendo i cardini di una nuova cultura....
Che Varrone ci dica quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del
solito. Non credo che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose
che scrive. "Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è
follia scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una
grossa opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 Nato nel 116 circa
a. C. a Rieti, nella Sabina, da una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio
Varrone fu soprattutto uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un
certo periodo si oc:cupò di politica. Questore nell'86, legato, propretore di
Pompeo nella guerra contro Sertorio (76 e seguenti), uibuno della plebe, pretore
nel 68, legato di Pompeo nella guerra contro i pirati (67), Varrone vedeva in
Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni repubblicane. Addolorato per
l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, segui di nuovo Pompeo contro Cesare
nella Spagna ulteriore (49). Dopo Fàrsalo si ritirò definitivamente dalla vita
politica attiva per darsi tutto agli studi, ma sempre in funzione di Roma. Sia
pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio di Porcia,
la moglie di·Catone Uticense avversario di Cesare, Cesare, al quale Varrone
aveva dedicato nel 47 le Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede l'incarico di
organizzare un complesso di pubbliche biblioteche latine e greche (cfr.
Svetonio, Caes., 44). Morto Cesare nel 44, Varrone rientrò tra i proscritti di
An· tonio. La sua casa e la sua ricchissima biblioteca furono saccheggiate e fu
in quell'oc· casione che molte delle opere di Varrone andarono perdute. Varrone
si dette alla macchia e fu nascosto da amici fidati, tra cui Fufio Caleno.
Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Morl nel 27 a. C., l'anno stesso in cui
Ottaviano prese il nome di Augusto. Varrone stesso, secondo Gellio, III, IO,
I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrivèva che a 84 anni aveva composto 490
libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in· terrotto catalogo dei
titoli delle opere di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e aggiun· gendo scritti
citati da autori antichi· che non si trovavano nel catalogo di S. Gerolamo,
arriva a citare 70 opere per un complesso di 620 libri. Di tale sconfinata
opera di Varrone resta pochissimo: Libri tres rerum rustìt:iiTUm (scritti a 80
anni); sei libri dei venticinque De linpa latina; un migliaio di frammenti
delle altre opere. Diamo qui un elenco dei titoli delle opere piu celebri di
Varrone: Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41 libri); Annalium libri
tres; De vita populi Romani; De gente populi Romani; De Pompeio (3 libri);
Legationum libri 1I1; De iure civili (15 libri); DiscipliniiTflm libri IX (1.
De grammatica; 2. De dialectica; 3. De rheto- rica; 4. De geometria; 5. De
arithmetìca; 6. De astrologia; 7. De musica; 8. De me· dicina; 9. De
architectura); Libri tres rerum rustit:iiTflm; De lingua latina (25 libri); De
poematis (3 libri); De poetis; De Jt:aenicis originibus (3 libri); De actionibus
scae- nicis (3 libri); Quaestìonum Plautinarum libri V; De lectionibus (3
libri); Suationes (3 libri); Orationes (22 libri); De proprietate scriptorum (3
libri); De bibliothecis (3 libri); De similitudine verborum (3 libri); Liber de
philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT; De principiis numerorum libri
IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4 libri); Pseudo-tragoetiiar11m
(6 libri: tragedie da leggere, non da rap· presentare); Poemata (I O
libri). 121 parte al nostro
amico (parlava di me Cicerone); è un lavoro di una certa importanza, che sto
limando e rifinendo. Varrone, dissi io, benché
da tempo aspetù questo tuo lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di
cui ti è noto l'affetto, mi ha detto (certe cose non si possono nascondere),
che, !ungi dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né
mai l'abbandoni. C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in
mente di farti; ma ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli
argomenti dei nostri comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica
filosofia che è cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi
tante cose, accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che
tale studio e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e
ad ogni altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui
ho spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con
una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei
nostri concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle
dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre
quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si
curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere
l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non
potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che
rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica
(due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo
costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù
preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure
ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone,
conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che
questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria.
Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che
concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve
cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...:
quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e
oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo
i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola
della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la
filosofia è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli
dèi. Ma quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in
Grecia, consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai
rivi che ne derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e
che gli studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel
che ho potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei
concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la
morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia
giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche
gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non
poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse
dell'argomento, comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi
sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se,
comunque V l sono ClUSCltO. "SI," risposi, "ci sei riuscito,
Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere
ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente
conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della
nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del
sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina
militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i
nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. Tu
hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra
grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu,
certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare
l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o,
I-III, 2-10). Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di
studio. Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla
scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12),
applicò alle proprie ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo
istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue
ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla
letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici,
dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le
molte letture, la sua curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i
monumenti e i documenti, lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla
descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf
agli antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in
certe condi- zioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce
certi tipi di costume, di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto
si chia- risce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore
all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie-
garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in
forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del
divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino
interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia
naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che
identificano il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili condizioni
che rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano le
strutture del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino
come anima mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza
dell'uomo in soCietà (teologia civile) di trovare un criterio
all'obbligatorietà della legge, può essere in con- trasto, per ragioni
politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le soluzioni e le
interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita associata, secondo
Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e alla natura debbono
rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno ch'essi non coincidano
con le strutture legali di una certa comunità, servendo anzi a rendere conto di
tale legalità. Il che, per altra via, sembra spiegare il successo di certo
stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito della classe romana, dirigente la
vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre teologie, Sant'Agostino, De
Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su come è che
l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli studi e le
dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale
dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò
l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché
l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata, perciò, si avrà quando
"virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e
"naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima
naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei
beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui
anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e
attiva), ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né
l'altro, se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita
cioè che sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca
dalla rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria
posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua
sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue
ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura
posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa
produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres
rerum rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina,
pochi fram- menti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle
sue ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere
piu lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum huma- narum et
divinarum (in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De
poematis, il De poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus
scaenicis, i Quaestionum Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici
- mentre notevole influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli
insegnamenti, mediante cui costituire il "cur- 124
riculum" che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata
appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi
suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de
arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone
era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura
per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice- rone fu piu preso
nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu
triumviro capitale, questore nell'86, pro- pretore di Pompeo nel 76, tribuno
della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di
Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare,
al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica,
proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di
mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione
di Antonio (43 a.C.). Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente
distrutte. Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu ambizioso, egli,
fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi, in funzione di
questa che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi
circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una
misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere
di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente
che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della
res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile
carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo
(egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente
attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli
esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola, di uomini
politici corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione
Emiliano, Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre,
divenuto oramai solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del
retore uomo politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia,
deve inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale
perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa
concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli
Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle
diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei
contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile)
servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine
politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi 125 varroniana che le questioni
piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole,
affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle
conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto
politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere
(duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta
atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale
politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la
"res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno
abbia il posto che gli compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il
compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in
nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si
dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché
in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione
Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare
ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di
Cesare (15 marzo 44), in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato,
il difensore dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica,"
contro Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano
e Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai
sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un
lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo,
mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove
tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo
si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr.
Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una
specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da
quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il
fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana
di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche
cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De
officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica
(54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie
nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di
quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i
Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare -
tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che
questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46) - a certi presupposti
valori, dialetticamente enunciati e 126 retoricamente discussi che
siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella
Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De
natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria,
Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo
della sua forzata inazione politica, tra il 45 e il 44-43). Inutile ripetere,
ora, quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le
componenti culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di
documentazione abbiamo rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la
concezione ci- ceroniana della legge, della r.es-publica, del decoro, dei
doveri medi, del- l'honestum, dell'humanitas, del consensus gentium, cfr.
sopra). Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica (in senso soprattutto
accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che
insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti, a,spiegare una cosa
nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una
interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da
ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e se
le conseguenze derivino dalle assunte premesse": Brutus, 41, 152), si
determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico
in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione
dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che
razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice
della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non
dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le
città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti
nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed
insegnando alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli
uomini le possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. Hai
inventato le leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio
vivere un giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato.
E chi saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del
vivere; tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E
che si tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover
essere, di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il
discorso mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica
di Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia
universale, nei termini in cui derivavano da una massiccia e
naturalistico-razionale interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo
aspetto Cicerone sembra che rovesci la visione del tutto ordinato e
necessariamente articolato in una simpatia uni-
127 versale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è
bene che sia (Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la
divi- nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. La questione
di come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era
questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare
Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era
assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino
e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro
Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il
contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza
della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia
razionalmente costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi
(Epicuro), si giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per
sostenere che l'or- dine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle
iniziative umane, mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento
pigro" (ignava ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici
(probabilmente i seguaci di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il
tutto è provvidenzialmente e fatalmente ordinato. Se per te è destino di gua-
rire da questa malattia, guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non
ricorrerai. Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non
guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia se non ricor- rerai. Ora il tuo
destino è l'una o l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere
al medico" (Cicerone, De fato, 12, 28). Non a caso Cicerone,
particolarmente nel D e fato (cfr. anche D e divina- tione), ripropone la lunga
discussione sul destino e sulla libertà, pro- spettando sia le concezioni
antologiche (da Crisippo a Epicuro), sia quelle logiche che negando il
possibile e la libertà sul piano.logico (Diodoro), non escludono su altro piano
(allorché si dimostri con Car- neade che strutture della ragione e strutture
della realtà possono non coincidere) che sia possibile da parte umana volere
quell'ordine che, col criterio della probabilità, si pone come termine di
realizzazione, solo miticamente e idealmente posto dietro le spalle, lasciando
all'uomo la possibilità di costituire quell'ordine idealmente presupposto, a
cui con- vincere mediante le tecniche della persuasione. Tale sembrò allora a
Cicerone - nel periodo di pace fredda con Cesare e di inazione politica diretta
- la sua funzione politica ("la filosofia rimase trascurata fino ad ora,
né mai brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e,
se nella mia attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per
quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc.
disp., l, 3, 5). Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale
doveva essere lo stato nella sua fondazione e nella sua costituzione giuridica,
tenendo presente l'ideale figura di Scipione, non imperator, non rex, ma
princeps, moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole della res- publica, si
come la divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a quella misura si
doveva convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente alcuna posizione
o concezione già data - ad ogni posizione come tale si può opporre altra
posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual certa ipotesi,
a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in funzione di una
certa concezione che serva alla vita politica e associata (Accademici). Tale
atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della realtà, portava Cicerone
in una, volta a volta, rigorosa discussione ed esposizione delle tesi opposte,
ad assu- mere quella certa tesi che servisse a quel certo scopo, attraverso una
retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae disp., De natura deorum), si che
l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi l'ordine e la misura
genericamente stoici e platonici) divenissero termini di volontà, azione per
combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e giuri- dicamente
costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte, esclu- deva
l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine, poteva portare
all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra ragione (De
divinatione, De fato, De otficiis). In effetto l'opera di Cicerone presenta
costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non crede in
nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le vecchie
tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che attraverso il
successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica eternità
("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se nobilmente la ren-
diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non durasse piu della
stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo delle piu grandi
fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la gloria- supreme?...
E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete ottenuto
l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole di
Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua classe,
una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo di tipo
aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in un saper
dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una convenienza che
si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di parlare, in un
vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da
"signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un
Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in fun- zione della classe degli
optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano
retorico vale la pena di ricorrere
129 anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura
del tutto, del- l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli
astri (non si scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni
di Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la
teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi Cicerone
che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di chi aveva
le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi assumesse
potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e la misura
come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo che
effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica (II, 13,
32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità
degli ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale
importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è
di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore
della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che
l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che
potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che
poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che
potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come
con Platone,".commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la
domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza
e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e prosegue:
"questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di letterati
(Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti e seguenti
alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul problema di
salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è un fenomeno
isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano testimoniata da
Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici della classe
dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo stoicismo il
nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 3. L'Epicureismo a Roma. Epicurei
romam. Filodemo di Gadara. Lucrezio Entro i termini della problematica
ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente polemico di Cicerone
nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte tanto l'ipotesi
epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la pensabilità del reale,
quanto gli esiti a 130 cui quell'ipotesi conduce sul piano
politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la tesi dell'ordine
razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della legge naturale,
messe iri forse dalla filosofia di Epicuro, donde derivava anche la polemica di
lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione usata come strumento
politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo, ciascuno, è responsabile
del pro- prio mondo, della costruzione del rapporto umano, indipendentemente da
elaborate discussioni sul divino, sui processi conoscitivi, sulla dialet- tica
e sulla retorica, che sembravano finire in esercitazioni puramente scolastiche.
Va, dunque, ora, tenuta presente la forza rivoluzionaria dei mo- tivi
dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento dell'uomo da un ordine
precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano costituito storicamente dagli
stessi uomini entro l'arco della vita umana (e non si scordi il motivo della
convenzionalità del diritto e della giustizia); la liberazione degli uomini da
preconcetti e pregiudizi religiosi e teologico-politici (da cui la polemica di
Epicuro contro un tipo di cultura e di politica); l'appello di Epicuro ad
intendere la natura per quello che la natura è, ascoltando la "voce delle
cose"; la raziona- lità dovuta alla stessa attività della ragione nella
costruzione del pro- prio mondo in un equilibrio e in una misura che sono
conquista e non dati; il risolversi della realtà, umanamente, nel linguaggio
(per cui, poi, in effetto, semanti.camente la logica epicurea poteva
coincidere, escluso che il segno evochi la cosa coincidendo con la cosa stessa,
con la logica stoica del tipo di quella di Zenone di Cizio). Non solo, ma di
qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si rivolgeva a tutti, uomini e
donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro alla semplicità del-
l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non contraddittorie e intui- tive
sulla costituzione della realtà che rendano capace l'uomo di pen- sare con la
propria testa, liberandosi da pregiudizi e paura, dal mistero della natura, di
cui solo pochi eletti possono parlare (altro aspetto della polemica di Epicuro
contro la cultura), e l'appello di Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un
certo mondo politico, in un rapporto di uomini, che, comprendendosi, trovino
nel con-vivere (amicizia) il significato di un mondo costruito dagli uomini
stessi,. in equilibrio e serena armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4
Degli Epicurei di Atene e scolarchi del giardino dopo Epicuro sappiamo, in
realtà, solo i nomi, e che seguirono e diffusero il pensiero del maestro. Ne
abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo Epicuro al 51 a. C., anno in cui,
sembra, l'Areopago di Atene concesse al romano Memmio di edificare sull'area
occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi sono: Ermarco, Polistrato, Basilide,
Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno del Giardino, Zenone di Sidone (morto
nel 79-78, ascoltato da Cicerone),
131 Gli esiti, dunque, dell'ipotesi epicurea e ~ella
propaganda epicurea preoccupano Cicerone. Egli è preoccupato perché, spezzato
il pregiu- dizio (politicamente utile) di un ordine già dato, di una divinità
che è legge e dell'immortalità dell'anima, mediante un insegnamento fon- dato
su poche e semplici nozioni - possibili di essere comprese da tutti, - si
poteva liberare il popolo dalla catena del divino e dalla paura dell'aldilà,
donde ne sarebbe derivata, disancorata da una razio- nalità costituita,
un'irrazionalità pericolosissima per quella res-publica difesa da Cicerone: non
a caso Cicerone insiste contro gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a
riposo" (cfr. De nat. deorum, I, 44, 123), non pio elementi perturbatori
dell'operare umano, e contro l'ipotesi dell'incontro fortuito degli atomi e del
clinamen (cfr. De nat. deorum, I, 25, 69-70; De finibus, I, 6, 19), da cui
secondo Cicerone deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo umano:
"Come non dovrei meravi- gliarmi," esclama Cicerone, "che vi sia
un uomo capace di credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi di
propria forza e aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo
nostro mondo, pieno di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile questo,
non capisco perché non creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una
certa quantità di lettere dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro
Fedro (ascoltato da Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51 a. C.). Cfr.
oltre nel testo. Cosl, poco o nulla sappiamo della prima diffusion~:~
dell'epicureismo in Roma, sicura da prima del 173 a. C., se di quell'anno è
l'espulsione da parte del Senato di due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e
Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, V.v. hist., IX, 12) e dei primi
epicurei romani, che avrebbero diffuso la dottrina di Epicuro in latino. Essi
sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui non altro sappiamo se non ciò che
riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo. Durante il 1 secolo a.C. furono in
Roma e nel circolo epicureo, formatosi a Napoli e a Ercolano, Filodemo di
Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel 110 a.C. cilca, morto dopo il 40,
non oltre il 30 (Strabone, XVI, 754), discepolo di Zenone di Sidone, venuto a
Roma, Filodemo entrò in dimestichezza di Pisone e con lui, nella villa di
Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio eilcolo epicureo. Tra i molti libri
epicurei ritrovati in papili nella casa di Pisone ad Ercolano, molti sono
frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono pubblicati: L'ordinamento dei
filosofi (andato sotto il nome di Intlez Herculanensis, comprendente un Indice
degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei Socrtllia); Su Epicwo (llcpl
'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i Sugli tln (llcpl &c6iv) i
Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica (llcpl IJ.O~) i Sugli Stoici
(llcpl -r6iv:E-rtn- x6iv); Sui segni (llcpl cnJILII(c,)" X4l
cnJILII~");.Atluersus Sophisttu. Molto poco sappiamo di Silone, se non che
avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio cilcolo epicureo, assai vivo
durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano Cicerone che lo dice uir
optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe avuto maestro a Napoli. Su di
lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal Cronert in Colotes unti
Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044 dA poi alcune notizie
biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima metl del 1 secolo a.C.,
morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il quale avrebbe diffuso in
Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante il peso di ben 125
ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si disporrebbero in
terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli Annali di Ennio. Non
so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un solo verso. Ma se il
concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un mondo, perché non dovrebbe
dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno faticose c meno complicate,
come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi pare insomma che chi tanto
infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai get- tato un'occhiata alla meravigliosa
bellezza dci cieli. Per me io rinuncio ad ogni altro troppo elaborato tentativo
di spiegazione; mi basta con- templare con gli occhi la bellezza di tutto ciò
che noi affermiamo sta- bilito dalla divina provvidenza" (De_nat. deorum,
Il, 37-38, 93-94, 98: ove va ricordato che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi
stoica sostc- nua da Posidonio nel Ilept.&e&v- Sugli dèi, - in
contrapposizione alla tesi ecipurea sugli dèi, esposta da C. Velleio sulla
linea del IIept.&e&v - Sugli dèi - dell'epicureo Fedro di Atene, nel I
libro del De natura deorum). Non solo, ma Cicerone era preoccupato anche perché
il motivo epi- cureo dell'ordine c della misura dovuti alla stessa attività
umana, indi- pendentemente da ogni legge già data e naturale, poteva portare
alla rottura della legge costituita da parte di uomini, che, avendone la
capacità, tendessero ad assumere potere personale (forse anche di qui la fama
di Cesare epicureo), ed infine perché l'epicureismo poteva dive- nire presso
chi s'era nauseato della vita politica quale si svolgeva in Roma, evasione da
quella stessa politica, in conventicole di amici, che sembravano tradire l'azione
civile cui si appellava Cicerone, ma che, per altro verso, potevano essere
d'accordo con Cicerone, contro la tiran- nide (come fu il caso dell'epicureo
Cassio, che uccise Cesare). Sembra, in tal senso, molto indicativo che Cicerone
sostenga di non avere mai letto un rigo degli epicurei latini che avevano
diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo, affermando che sono troppo
facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc. disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV,
3, 5-7); ch'egli non discuta·mai a fondo le tesi di Epicuro, apponendogli altre
tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima, supinamentc accettata dal Pedone, il
motivo dell'ordine e della legge del tutto, dell'ordine e della perfe- zione
dei moti stellari, rivelanti la divinità che tutti accettano, consensus
gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.; De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli
pur ammiri la personalità e l'esempio della virtu di Epicuro ("e chi nega
ch'Epicuro sia stato un uomo buono, gentile, ben edu- cato? in queste
discussioni l'indagine verte sulle sue idee, non sulla sua condotta; lasciamo
alla frivolezza dei Greci codesta moda bizzarra di far della maldicenza sul
conto di quelli da cui dissentono nella ricerca del vero...; non solo, ma molti
Epicurei furono e sono al presente fedeli
133 nelle amtctzte, equilibrati e sen m tutta la vita...
ma...": D~ finibus, Il, 25, 80-81); e che, infine, decisamente affermi che
le posizioni epi- curee e il loro linguaggio "dovrebbero essere proibiti
da un c~nsor~ piuttosto che rifiutate da un filosofo" (D~ finibus, II, 10,
30). Le stesse ragioni che muovevano Cicerone a condannare le tesi epi- curee,
aveva mosso nel 173 o nel 154 (a. seconda che il console ricordato, L.
Postumio, sia quello del 173 o quello del 154 a. C.) il Senato romano a
espellere da Roma due epicurei venuti dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr.
Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist., IX, 12). "Per avere introdotto
costumi licenziosi," si legge in Ateneo: cioè dottrine che, rispetto al
costume romano, sembravano immorali. Entro questi termini può essere
significativo ricordare un testo della Bibbia, cioè un passo del Lib~r
sapientiae, composto circa in questa stessa età in am- biente
ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei confronti
dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo potevano
essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche se per
altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione dell'immortalità
dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia signore e legge del
tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé la morte, e cre-
dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza: perché sono degni
di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente, dissero fra di loro:
breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è refrigerio alla fine
dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato dall'inferno. Perché noi siamo
nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo stati, perché il fiato delle
nostre radici è un fumo: e la parola è una scintilla che viene dal movimento
del nostro cuore. Spenta questa, il nostro corpo sarà cenere, e lo spirito si
disperderà come aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una
nuvola, e si scioglierà come la nebbia battuta dai raggi del sole e sopraffatta
dal suo calore. E il nostro nome sarà dimenticato col tempo, e nessuno avrà
memoria delle nostre opere. Perché il nostro tempo è un'ombra che passa, e
finiti come siamo non si torna a capo, si mette il sigillo, e nessuno torna
indietro. Venite dunque e godiamo dei beni pre- senti, e profittiamo delle
creature, come della gioventU con sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e
di unguenti: e non si lasci sfuggire il fior(della stagione. Coroniamoci di
rose prima che appassiscano: non vi sia pratò, per cui non passi la nostra
cupidità. Nessuno di noi sia escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni
luogo i segni della nostra allegria, perché questa è la nostra parte e la
nostra sorte (Libro d~lla sapienza, l, l, 16, 2, 1-9). In tal senso verrà
sempre interpretato, dagli avversari dell'epicurei- smo, il "piacere"
epicureo e in tal modo verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e
conviviali, i loro sodalizi di amici che, sappiamo 134 si
diffusero in Oriente e in Occidente. E cosr sembra assumere un significato
ancora maggiore la lotta degli ebrei di Palestina contro Antioco Epifane,
quando si pensa che probabilmente la diffusione del- l'ellenismo in quel paese
ad opera di Antioco, la sua lotta contro. la superstizione ebraica (cfr.
Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta all'epi- cureismo cui si era convertito il
re Seleucida, se diamo valore ad un frammento in cui si dice che Filonide di
Laodicea, epicureo, era riuscito a piegare, in Antiochia, il re Antioco
all'epicureismo: "piegato dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque
opuscoli, Antioco dovette soccombere" (cfr. V. E. R. Bevan, The house of
Seleucos, II, pp. 276-7; anche B. Farrington, cit., p. 147). Ad ogni modo
sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella se- conda metà del 11 secolo a.
C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si era diffuso
in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs, dice Cicerone, che è
termine preciso e che ha un suo significato giuridico). Sono, appunto, i testi
di questo epicu- reismo facile, plebeo, che evade da discussioni tecniche, che
non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono questi i testi che Cicerone
finge di non aver mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati, attra- verso
un'esposizione della fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla
superstizione. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico
presso di noi [romani}, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo
ante- riore a Lelio e Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri-
sulta che furono mandati dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo
stoico Diogene e l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di
politica, uno era di Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero
stati tolti al loro insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi
certi nostri personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cul-
tura filosofica. Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il
diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre-
ferirono attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu
nobile di tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto
quella vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi
continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse
idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro
controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in
latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia
anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente
del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio
Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse
soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia
perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non
essen- 135 dosi prodotto
nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti seguaci della
medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva- sero tutta
l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel
fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno- ranti, essi
credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. disp., IV, 3,
S-7). C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e si
dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in
quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichia-
rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata
disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io
trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti, sia pur di
modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale
scuola. Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della maniera di
esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che
hanno le medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della
scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li
leg- gono anche. coloro che non accettano o. non si entusiasmano per quelle
teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro
seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono
giuste tali teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). Pertanto quei tali leg- gono i
loro libri con quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se
non coloro che pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp.,
I, 3, 6). Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile
volgare (vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. Non sanno
definire nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione:
ritengono, infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il
ragio- namento... In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei espri-
mermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause
efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli
atomi)?... (Varra, Il, S-6). Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia
la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della
natura ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un
dio; si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un
terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. Da
quale terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto pazza da temere
codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza
della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi
pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21, 48). Su
testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo,
nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio della
natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136 tarsi e a
straparlare e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu":
Gnom. Vat., 45), nella sua semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta
alla complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la
censura senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il
popolo; tuttavia non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere
affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel
popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati,
in una ribel- lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da
chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche,
aristoteliche e stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non
esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale
da dare al popolo una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel
mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari,
piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero
costituiti a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e
riti), alcuni aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale.
Tanto piu chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia
di fronte alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di
certo Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51
circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum
natura, ·in 6 libri). A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che
Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo
meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su
proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che
del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del
54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt:
multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua
produzione, faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu
di una volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi
epicurei latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad.
fam., XV, 16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici
usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in
cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua
ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di
Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per
igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il
popolo, per il quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità
degli ottimati" (non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di
minimizzare il significato della fisica epicurea, sostenendo che 137 è tesi sragionevole e
assurda, tenga presente, mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva,
proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia
la prospettiva dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva
benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene
utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la
carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il
pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da ignoranti,
insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità dell'ipotesi
fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in ambienti plebei
non ha avuto alcun successo politico. A ben guardare, qui ci troviamo di fronte
ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di seguaci
dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici, in
contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola di
sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu sereni
e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da Roma,
nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in quelle loro
riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una vita - era
l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che s'erano
sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di Cicerone).
Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere davvero
popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che poteva
vera- mente diventare il principio di un'educazione del popolo, in maniera
assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del-
l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che
sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori
romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati
dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene
capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco,
Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno
del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla.
Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da
Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da
Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I
libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a.
C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può
essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51
scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De
rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e
dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in
philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che
per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi
suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul
terreno del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche se
l'Aeropago gli aveva dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). Evidentemente la
Scuola epicurea di Atene andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli
aveva conosciuto Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di
Sidone, "corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat.
deorum, I, 21, 59) e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di
Fedro e di Zenone ho seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a
dimostrarmi tranne il loro zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono
sufficientemente note": De fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo
alle lezioni di Zenone che il nostro Filone soleva chiamare corifeo degli
Epicurei e lo facevo per suggerimento dello stesso Filone...": De nat.
deor., I, 21, 59). Non sap- piamo quanto di nuovo, rispetto all'originario
epicureismo, abbiano detto gli epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone,
per quel che possiamo ricavare da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo
di Gàdara, approfondi e chiari la genesi della conoscenza, secondo la linea
epicurea, sottolineando il significato ipotetico della condizione della
pensabilità della realtà, in quanto che a porre gli atomi si giunge per
analogia prendendo le mosse dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr.
Filodemo, Sugl'indizi e sul modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt
01)(.LE:~~ae:Cùv). Del ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione,
cosi diceva Filodemo: "Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a
nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo
dell'analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione.di
esserci manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla
nostra portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza
questo presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi,
Il, 25). Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro
fortuito degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini
(gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di costruire il
proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen.(sulla que- stione del
"clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di
Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e
Fedro, discute e critica come un'assurdità il motivo del "clinamen,"
affermando che tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di
vista stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il
resto Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu
antichi in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica -
tende a riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus,
I, 5, 18-20). Senza dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine
"fato," l'insi- stenza di Lucrezio sulla "catena
necessaria," a cui si contrappone il "clinamen," fa sospettare
un'interpretazione del testo epicureo dovuta alla polemica nei confronti del
"fato" stoico, che, tuttavia, era posi- zione già implicita
nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr. I vol.). Nulla vieta, perciò, di
pensare. che il motivo del "clinamen," nei termini in cui lo
conosciamo attraverso Lucrezio, Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia
stato formulato, in una coerente interpretazione di Epi- curo, proprio
all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica contro
il sistema stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso derivava.
Se i moti tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con
ordine fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare,
principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che,
all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra,
donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui
andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? (Il, 253 sgg.). E
Cicerone, dopo avere esposto il tema del "fato," proprio degli
stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente, il tema· del
"clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la necessità del fato
mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque un
terzo movimento [e qui è chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna
ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del
moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...": Lucrezio, II, 286 sgg.],
allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il meno possibile (eltJchiston,
dice): tale declinazione, se non in termini propri, almeno in realtà, egli è
costretto ad ammet- terla senza causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di
un altro. Come potrebbe infatti urtare un altro, se sono tutti trasportati in
linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E se l'uno non è mai spinto
dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano. D'onde risulta, se l'atomo
esiste e se declina, che declina senza causa. Epicuro ha prospettato questa
dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato da un peso necessario e
naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~ la nostra anima sarebbe
mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi. Democrito, l'inventore degli
atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene necessariamente, piuttosto che
togliere agli atomi i loro movimenti naturali (Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140
Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu Filodemo di
Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere direttamente
Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria comunità di amici
di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il console del 58, nemico di
Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse una
non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato nel 110 a.C., a
Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva
convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente
epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro
Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30 (cfr. Strabone,
XVI, 754). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri della villa ercolanense
dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano costi- tuire la biblioteca di
Filodemo: gran parte sono opere dello stesso Filo- demo, di cui molti testi
sembrano, piuttosto che lavori destinati· al pub- blico, veri e proprii
appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco- lanense dei Pisoni, i suoi
Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch. Jensen, Die Bibliothek von
Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49, 61; R. Philippson, s. v.
Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449). Nella villa dei Pisoni,
oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse
quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo,
Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una
vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile
romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo,
un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i
fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi,
trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni
rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i
venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non
perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce
scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu
partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo aperto. Ma nulla è
pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina
dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là
vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far
valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di
giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli
uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona
alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice
prato, 141 lungo un ruscello
corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e
primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo,
indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel
ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani,
nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico
amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai
manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e
ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol.
palatina, Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste
riu- nioni tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene,
in Siria, si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di
come in esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla
cultura ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della
liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il
fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde
il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro queste
comunità, il culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà nel suo
poema Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci sempre come
se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto: "Sia
festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il decimo giorno
del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo giorno di ogni
mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia e di Metro-
doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di Plinio il
Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora nel 11 secolo d. C., in
Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei vultus per cubicula gestant
et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant, feriasque omni mense
custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A.
J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946; anche P. Boyancé,
L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in "Bulletin Ass.
Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già Epicuro aveva scritto a
Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli della stessa natura,
meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a te" (Lett. a
Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità a sé e agli
altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di Epicuro, con tl suo
approfondi- 142 mento di
certi aspetti della dottrina epicurea, particolarmente per ciò che riguarda le
passioni e le condizioni della conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad
Ercolano, appoggiato da Pisone, un con- tubernium epicureo (come dirà Seneca:
piu che la dottrina di Epicuro, fu il suo contubernium a educare gli epicurei:
Ep., I, 6), una comunità di amici il "cui accordo tra loro," sosterrà
Numenio, "era simile a quello che deve regnare in una repubblica ben
ordinata" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5). Secondo il De Witt
(Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class.
philology," 1936; Epicu- rean contubernium, in "Trans. and Proc. of
the Philol. Assoc.," 1936), seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl.
7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente indicherebbe
l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma conventuale,
costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata, da
opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi mondi
a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo morire,
che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche della
Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc. vol., 1005, 4) la
coniazione del termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov:
tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro elementi - con cui egli
indicava la funzione liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale l'uomo
si cura dal timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità
non si occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché
quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo),
sapendo che facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e
che breve è il dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). Tutti e
quattro gli elementi si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare
Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio assai indi- cativa la
formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare, ora, soprattutto,
sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della natura e sul rifugio
ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia
mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il
significato dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo - non
dottrinario - di Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo intorno a
Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti muovi.
Sembra facile ora capire cosa inten- ·desse Filodemo quando sosteneva il valore
edonistico della poesia e della musica, si come, per altro verso, di contro a
Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di costruire
mondi umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di
agire (prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla stessa atti-
vità dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha, sempre, una 143 realtà storica, si come la
stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I
vol.). Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato
l'ultima parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio,6 in cui, mediante
Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a
Democrito, a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee,
si sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una
natura che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo
che Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad
infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. E s1 come non
v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il
vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi
delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la
molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi
razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia
umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito
LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali
le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che
probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio
sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei'
momenti di lucidi~ avrebbe scritto il,suo poema; si sarebbe suicidato all'~ di
44 anni. Donato, invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~
tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la toga virile a sedici anni
ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S. Gerolamo, dunque, Lucrezio
sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato sarebbe nato nel 98 c morto
nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto (11, 93},
che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio
relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta
dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto
che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora
fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se
Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era
allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema
di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. Sulla
notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio
(certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe
scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa'
depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi
visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro: cfr. IV,
1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35 sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~
molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in sci libri, formalmente incompiuto,
fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio sia Gaio
Mcmmio, questore nel 77, pretore nel 58, che amante della letteratura greca,
non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole conversatore, pigro c
impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247}, oondussc con
sé (57-56) quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali
Catullo. E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da
Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di
costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a
Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non profanare quel luogo
sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam., XIII, 1)] scaturita nel tempo,
cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini
scaturiscono da incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per
cui dapprima si può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo,
finché in una qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi
mondi e certi animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di
bestie, rimaste bestie (cfr. V, 773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini,
piu che di uomini ancora di "be- stioni," viventi in istatc ferino,
alla fine, sempre per una qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali,
scaturisce la razionalità e, ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il
linguaggio, questo o quel lin- guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua
storia, il processo me- diante cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà.
Perché cosi e non altri- menti? Non sappiamo, risponde Lucrezio: "non è
possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio
ne scopre" (V, 1445). L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene
Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto non solo del costituirsi
sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo è uomo entro i termini
della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e di là dalla soglia del
morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di
come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le verità degli uomini,
dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle selve, alle verità
dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità oltre sé in cielo,
perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del divino signore,
del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la superstizione
dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al modo erratico
delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo, menavano lunga
vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle foreste... Non
conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva di proprio
istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e a campare
da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... Si
procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta
all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli...
Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi
spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il
vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza
evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando
col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa
servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che
di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello
[cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto
con le voci, e modulare vari 145
suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo? E poi, da
dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la
facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino
allora nessuno aveva usato il linguaggio? E non poteva, uno solo, piegare i
molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi posti alle cose;
non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a fare quanto
debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed
invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio
cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse
per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse
impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la parola, emettano voci
diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto
iÌidicare la varietà delle cose! (V, 930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034,
1041-1059, 1089-1090). Lascia che lottando lungo lo stretto sentiero
dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi che parlano per bocca
d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che sentono, che dalla propria
esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi, domani... Piu facile ora è
capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, e abbia
stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti del
culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge fra tanto progresso e in
centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è insito quello spavento che
erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività
tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli uomini vedevano da svegli, ma
piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito numi d'aspetto stupendo. E poi
che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed emettevano terribili voci,
ap- propriate alla enorme forza e allo splendido aspetto, a loro, dunque, per
questo, attribuivano il senso e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava
sempre la vista, e la forma restava sempre immutata, e poi perché giu,di-
cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza potesse agevolmente sop-
primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia la sorte, perché il
timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi vedevano in sogno -
molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse stanchezza alcuna.
Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse stagioni si
avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere per quali
cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse
guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei numi, perché
si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il giorno e la
notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del cielo, e i volanti
fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i fulmini,
i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando fece dipendere
dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice umanitàl Da quel
tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali lacrime ai nostri
nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare, velato, intorno ad un
sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a terra davanti ai
templi dei numi,.e alzar le palme, e del sangue di 146 numerosi
quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto pro- prio non è
religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni.
Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e l'etere immobile
sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che fanno il sole e la
luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel cuore oppresso dagli
altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non sia l'onnipotenza
dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle: perché ci rende
perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio generatore del
mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa loro fatica
del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con l'infinito
volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde forze del
tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la paura dei
numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose, e si vede
che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le terribili
scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). Ma, prima assai che potesse foggiare col suono
politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il limpido
gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami apprese ai
campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in seguito
poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano con le
dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi e le
selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano col
tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del
giorno. Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche
appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne
prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i
continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo insegnarono
a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di fare le
fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti, quanti ve
n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura. Grandemente, in
tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la porta al lume del
giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce dall'altro, finché con le
arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V, 1377-1389, 1406-1407,
1445-1456). Questo, sembra, il motivo chiave dell'epicureismo di Lucrezio,
questo suo appello, di contro alla filosofia teologica ed ai pericoli insiti in
essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa comprensione della natura
(vera religione è "saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni": V,
1203), il suo appello all'esperienza e alla ragione, all'umanizzazione della
scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo mondo, conside- rare la natura
per quello che la natura è, operando su di essa, diremmo in una libera
"inter-azione," per un fine che non è dato, ma che è di volta in
volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante, con le tecniche, su
di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda di tutte le
possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e perciò la sua
venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi precetti veridici,
e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece chiaro qual fosse il
supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via vi si può giungere
diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i raggi del sole, non le
lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'universo con le sue
tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed naturae species
ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre ·versi tornano
nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si tenga presente
il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando certi aspetti
di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di una religio,
in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e Cicerone n;è
testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca drammatica, in
un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente presente, si capisce
bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore (" mentre l'umanità
conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op- pressa dal peso
di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle regioni del cielo,
minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo un uomo greco
[Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per primo contro
di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né i fulmini né
il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69); dall'altro lato
l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di Epicuro: Venere,
stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo, implo- rando,
inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria turbata, né noi
con cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per seguir tali cose,
l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar potrebbe se stesso
alla salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è opera estremamente
difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei Greci, specie perché
dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro lessico è povero, e cosi
nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio, che mi prometto, di una
soave amicizia mi persuade che non debbo badare a fatiche di sorta, e che le notti
serene io vegli cercando con quale canto, con quali parole, ti faccia splendere
nella mente h vivida fiaccola, onde tu penetri a fondo i piu reconditi veri. E
veramente bisogna che non i raggi del sole, che non le lucide frecce del giorno
spazzino via questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale
conoscenza della natura: sed naturae species ratioque (l, 136-148). E cosr non
vanno scordati del De rerum natura due altri punti fon- damentali. Bisogna
tener presente, innanzi tutto, l'insistenza ancora 148 maggiore
che non in Epicuro, sull'atomo, condizione perché sia pensa- bile la realtl,
non come atomo geometrico o.matematico, ma come centro di vita, come seme
vitale, onde in ogni cosa è insito uno speciale potere: il che, non solo spiega
meglio l'affermazione prima che "nulla si genera dal nulla," cioè da
una pura quantità che all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si
costituiscono dal modo in cui le po- tenze seminali si organizzano e si
dispongono mediante gl'incontri. Viene da questo la paura che opprime gli
uomini tutti: scorgono in cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei
quali non possono scor- gere punto le cause, e che riportano quindi alla
potenza di un dio. Ma se tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal
nulla, allora piu chia- ramente sapremo comprendere quello che andiamo
indagando: donde: ogni cosa si generi e come ognuna si generi, senza
l'intervento di un dio... Se non vi fosse per ogni singola specie il suo germe,
come si avrebbe un'origine certa e distinta per gli esseri? Ma poiché viene
ciascuno d'essi da un germe specifico si forman là, di là balzano fuori alla
luce del giorno dove sono insiti i primi corpi e la loro materia, né può
ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo: ché in ogni cosa è insito uno
speciale potere. Perché vedremmo prodursi di primavera la rosa-, d'estate il
grano... se non perché cofluendo, al tempo giusto, certi semi, erompe quanto si
fa... dal fecondante connubio... A poco a poco crescono gli esseri tutti, da un
germe specifico... (1, 151 sgg.). In secondo luogo, bisogna tener presente la
distinzione, nell•uomo, tra la forza vitale (anima), che unisce le membra e
ovunque è diffusa, e la sua organizzazione in quella che diciamo razionalitl
(animus), o mente (III, 94 sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era
il modo d'interpretare epicureamente il motivo di un tutto vitale e fe.. condo
implicito nel motivo dell•anima mundi di origine stoico-platonica. Come, negli
esseri vivi, in ogni viscere suole trovarsi un succo, un odore, un colore
speciale; ma dall'insieme di tutti si forma un solo organismo, si forma una
sola essenza, cosf,_ commisti, il calore, l'aria e la occulta potenza del
vento, aggiuntavi quella nobile forza che a loro compane il moto d'ini- zio,
donde dapprima negli organi si desta il moto del senso, che si cela riposta
nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu addentro nel corpo a noi non
s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa dell'anima tutta. E come, occulta,
è.commista nel nostro corpo e negli arti tutti la forza dell'animo e la potenza
dell'anima perché risulta composta d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di
minimi, ti si nasconde questa energia senza nome, l'anima stessa di tutta
l'anima, quasi, che domina nel corpo intero. In tal guisa il vento e l'aria e
il calore debbono, mischiati negli arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer
gli uni agli altri, e sovrastarsi a vicenda, cosf però che risulti di 149 tutti un unico tutto, onde il
calore ed il vento e la potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano
il senso e non.lo disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di
Lucrezio sulla seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di
ogni seme e sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi,
questi mondi, e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio ha
interpretato Epicuro. Il ragio- namento è lo stesso di Democrito fino a porre a
condizione della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.):
dalle cose visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu
divisibili, ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla
incon- cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I);
per il resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli
atomi, precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costi-
tuirsi delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il),
da cui comincia - perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è
natura, nella natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima,
costituita di atomi leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della
sensazione e degli éidola (libri III e IV), alla conce- zione della mortalità
dei mondi creati e della caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su
ciascun fenomeno celeste e al sorgere della vita sulla terra (donde poi la
storia del mondo umano, dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle
arti) (libro V), alla spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e
delle epidemie (libro VI), Lu- crezio segue la traccia del De natura di Epicuro
(di cui, ricordiamo, s'è trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella
~iblioteca della villa dei Pisoni). Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la
meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe
definitivamente scacciare ogni alambiccata costruzione metafisico-teologica,
ogni timore in una suprema legge, negli dèi o in un astratto l6gos. Allorché si
tenga questo per verità, si fa chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di
despoti superbi e libera in tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa
propria, senza interventi di dio (II, 1094 sgg.). Scientificamente, cioè
razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato che il
fondamento della natura - natura na- turans - non è sottoposto ad alcuna legge,
ad alcuna necessità razio- nale a priori, a nessun proiettato rapporto di causa
ed effetto, ivi impli- cita la necessità di porre cause prime (efficiente,
formale, materiale, fi- nale), ma che l'ipotetico fondamento, cui si giunge
induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una fluidissima
spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la realtà quale è, quale si costituisce
(natura naturata), è ad un tempo la stessa natura naturans sempre possibile di
cangia- mento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del farsi con-
tinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a V enere ge-
nitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso,
clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono: esiste la natura;
esistono gli infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi degli
animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro estinzione o la
loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia
dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che ha dato
luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esi- stono i semi e le loro
connessioni e organizzazioni. Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali
sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale,
instabile, di semi (atomi), il cui complesso. è ciò che Lucrezio chiama
"materia," i loro incontri spon- tanei e infiniti (" clinamen
"), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa,
questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose
stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi,
dell'esserci naturale dell'uomo - in- dipendentemente da ogni miracolistico
intervento, - e da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente,
!'animo, la razionalità che è un modo con cui si è venuta organando quella
vitalità. La razionalità stessa, perciò, è "storica," positiva, si
come i linguaggi e i costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il
proprio mondo, costituisce quell'equi- librio di anima e corpo,
quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma
è dovuto all'attività dell'uomo. La feli- cità dell'uomo non sta, dunque,
nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta in volta,
quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una sua
conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che è
serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura
("religio"), per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo
comprendere la natura, in questa critica della religione co- smica e dei miti,
in questa umanizzazione e razionalizzazione della scienza, mediante cui nella
costruzione della propria società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra
anima e corpo; e in tale armonia con- siste il "piacere," di là da
ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni edu- cazione basata sul culto
della virtus, degli exempla, dei mores maiorum. Si vede bene, cosi, come il
piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello
stoico, né il "conveniente," il decoro, la "signorilità"
prospettate da Cicerone; Cicerone per il popolo, per la plebs voleva la
superstitio, l'ordine imposto dagli ottimati, m nome del divino e delle leggi,
o l'equilibrio dovuto alla ca- pacità di un uomo, di un princeps, di cui si
potesse dire che è l'incar- nazione della legge suprema, della legge cosmica, e
perciò stesso salvatore, correttore" dello Stato, mentre per un verso la
filosofia si risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di
edifi- cante conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra
ciceronianesimo e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono
alcun discorso comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui
prendono le mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune
consapevolezza di una disperata e drammatica situazione·storica, in un terror
della morte, che rende tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso
appello all'uomo e alla sua razionalità, in un appello alla scienza, in un
risolversi dell'uomo entro il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella
speranza di un ordine proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà,
poi, in una salvazione che non dipenderà neppure dalla capacità umana di
adeguarsi all'eterno ordine della legge divina, ma sarà dovuta o a forze
magiche e irrazionali (certo neopitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e
ermetismo del 1-n sec. d. C.), o ad un gratuito inter- vento dello stesso dio,
della persona di Dio (primo cristianesimo). Per secoli, certo, si è taciuto di
Lucrezio, e perduto è andato, anche, il De rerum natura di Egnazio, che,
sembra, fosse un seguace di lui. Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi
ancora leggiamo è quello che la stessa censura della storia ha salvato. Ad ogni
modo, a parte ii· rigo di Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli
ac- cenni di Cornelio Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX,
Proemio, 41), di Ovidio (Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e di Papinio
Stazio (Silv., Il, 776: "docti furor arduus Lucreti"), l'unica fonte
bio- grafica è quella celebre.di San Girolamo, in cui si dice che Lucrezio
sarebbe morto suicida per pazzia a causa di un filtro amoroso, e che avrebbe
composto alcuni libri del poema durante gl'intervalli della sua follia:
"Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem
versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea
Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno ae- tatis XLIV" (Chron.
Euseb., VII, 1). Non altro sappiamo della vita di lui, e incerte sono anche le
date della nascita (99-95) e della morte (55-51) (cfr. sopra, Vita). Sembra che
Girolamo abbia usato per tali notizie il De viris illustribus di Svetonio, il
che darebbe attendibilità alla notizia. Certo i cristiani conoscevano bene il
De rerum natura (cfr. Arnobio, Lattanzio) e di esso discutevano in forma
polemica, sf come - in fondo per le stesse ragioni - il poema lucreziano era
stato discusso e minimizzato da Cicerone, il quale non poche volte afferma che
gli epicurei sragionano. Di qui a sostenere, ricostruendo la vita del poeta
all'uso dei biografi antichi, che Lucrezio era folle, il passo è breve. Non si
è forse detto (Vita Vergi/ii di Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore
dei campi, nacque in un maggese? (ed anche questa notizia di Donato non è forse
ricavata dal serissimo Svetonio?). In effetto, Lucrezio sembra che non abbia
avuto, sul piano della for- mazione di una paidèia popolare, alcun successo,
anche se certamente Lucrezio fu in polemica con il suo tempo e cercò di operare
almeno attraverso certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posi-
zione, ne avrebbero avuto la possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va
sottovalutata la polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora
una volta, l'affermazione ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non
vanno discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato
detto - Farrington, cit., p. 194 - che "nel caso di Lucrezio, il fatto
essenziale è che in un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista
piu eloquente (Cicerone) erano d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in
fatto di religione, egli rivolge le forze della sua cultura e della sua
eloquenza a sostenere l'opinione contraria. Manifestò apertamente l'intenzione
di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli
della religione, e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima
con quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone
uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo mo- dello filosofico
e_ culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una
certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico
e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre
un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio
dalla tristezza della vana vita quotidiana. Lucrezio moriva tra il 55 e il 51;
Cicerone verrà ucciso nel 43. Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella
in cui Lucrezio scrisse il suo poema, ancora piu pericolosa. Si chiarisce
allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di
Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustifi-
cazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in con-
venticole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. Sembra,
perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere
stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a
poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. Poco o nulla
sappiamo- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei primi: T. Albucio, ritenuto un
grecomane, che per un certo periodo fu propretore per la provincia di Sardegna,
e che, condannato per estor- sioni, si rifugiò ad Atene, abbandonando ogni
velleità politica, detto da 153
Cicerone "perfectus epicureus," (Cic. Brutus, XXXV, l) e autore
di scritti a carattere epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel
91, a cui Cicerone nel De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito
Pomponio Attico (nato nel 109 a.C.), di nobilissima fa- miglia, compagno di
studi di Cicerone'e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De
amicitia e il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16
libri), evitò la vita politica: per sfug- gire anzi alle lotte interne, dall'87
al 65 visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre
civili, facendosi editore, il primo editore romano. E cosi, lontano da Roma, ad
Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio (nato nel 110
circa), cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di
Ercolano, s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da
Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge
epicureo, il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che
console nel 58, censore nel 50, s'era adoperato per impedire la guerra tra
Cesare e Pompeo, e nel 43 rinnovò i suoi sforzi per impedire nuove guerre
civili, dopo il 43 definitivamente abbandonò ogni azione, rifugiandosi nella
sua villa di Ercolano, insieme agli amici epicurei. Vibio Pansa, amico di
Cicerone, tribuna e console, mori nel 43, a Modena, combat- tendo contro Antonio;
L. Manlio Torquato, pretore, console, procon- sole, senatore, pompeiana, si
uccise nel 46; Statilio mori a Filippi, nel 42 a. C.; Cassio, che insieme a
Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace di
Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica, abbandonò
Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è posto da
Cicerone (Pro Sestio, 20-23) tra i combibones epicurei. "Ad uomini
tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," ha scritto il Boyancé,
L'épicurisme, cit., p. 514, "dal crollo delle tradizioni ancestrali, la
vita epicurea offriva una specie di porticciolo e di rifugio. L'ambizione
scatenata faceva l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano presi e di
coloro ch'erano condannati a servire loro da stru- menti. Tale ambizione era
gravida di scacchi e di rischi mortali. Quanti pochi tra gli uomini illustri di
questo tempo sono in effetto pacifica- mente morti nel loro letto! Nessuno dei
triumviri del primo triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra lontana, ove
l'aveva trascinato la sua ambizione, né Pompeo assassinato a Farsalo da un re
satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato. Dei due piu grandi
avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a Utica, l'altro,
Cicerone, do- veva esser messo a morte dai sicari di Antonio. Si comprende che
la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso della città e mai
l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era apparso 154
piu attuale. Né tanto piu, anche, era sembrato, in presenza delle incoe-
renze e dei crimini della storia, che gli dèi si disinteressassero degli uo-
mini. O se ci s'immaginava che intervenissero nei loro affari, quali mai dèi
sarebbero stati! Quali dèi crudeli e gelosi! Il messaggio di Epicuro si fece
ascoltare in tale atmosfera, in virtu di filosofi greci come Filo- demo o
Sirone, in virtu anche di Lucrezio." Non solo, ma se Lucrezio aveva
sottolineato con forza l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, aveva anche
tracciato il modello di una "vita" epicurea, che, a parte i
fondamenti dottrinari, si avvicinava non poco al modello di "vita"
stoico, sganciato anch'esso dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu
tardi, quando dopo Ottaviano Augusto e Tiberio il principato si trasformò
davvero in impero e in dispotismo, all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un
Seneca potrà essere stoico accettando in gran parte certi aspetti del modello
di vita epicureo, mentre i circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu
il carattere di chiese, di isole, di rifugi. Aveva, dunque, cantato Lucrezio: E
tu potresti, talora, dire anche questo a te stesso: "O miserabile, chiuse
gli occhi persino il buon Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in
gran numero di poi morirono re, principi, gente potente che in mano ebbe le
sorti di grandi popoli. Ed anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio
mare una strada, e sull'acqua fece passar le legioni... E il fulmine di guerra,
lo Scipionide che fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il
piu vile dei servi. Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le
Muse... Finito il lume mortale, mori lo stesso Epicuro... Saresti dunque tu
ch'esiti e che ti crucci al morire?... Quando potessero gli uomini, al modo
come nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi
sapere da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male
ci sta sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello
che vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse
possibile, cosi, deporre il fardello. Questi, venutogli a noia lo stare in
casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova
affatto che si stia meglio fuori. Quello, sferzando i puledri, corre di furia
alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che
ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il
riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. A se stesso cosi
ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé
cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è
la causa del male. Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si
sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del
tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi,
per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). E
proprio per questo, al principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto,
delineando la possibile vita del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva,
quando i venti sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso
travaglio, non perché faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché
scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si
partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è
dolce piu dello starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena
speculazione dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto... (Il,
1-9). Tale, anche per le sempre piu gravi vicende politiche, fu, dopo Lu-
crezio, la linea su cui si posero i gruppi degli epicurei della nuova
generazione. A parte Orazio, particolarmente interessante e indicativa sembra
la doppia faccia di Virgilio (70-19 a. C.), che, epicureo da gio- vane (almeno
come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Si- rone e di Filodemo, si
venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle vicende umane (anche se
non dottrinariamente) di carattere stoi- cheggiante. Nel V componimento del
Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era
iniziato agli studi di retorica, ed entrato in contatto con Sirone e con quella
scuola, di- chiara di avere volto le spalle alle "ampullae rhetorum"
(v. 1), a quella cultura che, in Roma, doveva avviarlo alla carriera politica
(inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per abbracciare, contro la "natio
scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti di Sirone: nos ad beatos vela
mittimus portus, magni petentes docta dieta Sironis, vitamaue ab omni
vindicabimus cura (8-10). Si era nel 45 a. C. Le Bw;oliche, composte tra il 41
e il 39, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea nell'ideale di una
pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu patulae recubans sub
tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris musam avena..:": l, l sgg.),
dall'altro lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di contro alla possibile
disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza
nell'immortalità çlel- l'anima, che porterà all'uomo una serenità piu alta,
l'esigenza di com- prendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti
molto vicini all'anima mund; di Lucrezio, alla sua umanizzata e vi- vente
natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde nelle Geor- giche
(composte tra il 37 e il 30, e su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto
piu, poi, nell'Eneide, riappare il motivo della Provvidenza, 156
della pietas, della purificazione dell'anima immortale attraverso il do-
lore e la morte, della speranza in un al di là in cui saranno premi o pene (la
descrizione dell'Ade orfico è in genere ricavata dal VI del- l'Eneide), del
destino di Roma, dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps (il simbolico
pio Enea), porterà pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la ragion
d'essere, la legge del tutto: tu regere imperio populos, romane, memento - hae
tibi erunt artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare
superbos (Aen., VI, 851-53). Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si
ripete che "il poeta partito da posizioni epicuree, attraverso la
meditazione del dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere
provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore
giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in
Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al
potere di Au- gusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio
aveva detto: "un dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). Se il
modello di vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si
scoloriva in un atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà
(forse la celebre dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di
Epicuro," Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi
davano a porco, l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica,
372d; ma non va scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita
virgiliano finiva in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio
nuovo, della rinnovata pietas, della religio, voluti da Augusto, e
identificantisi in lui - in un compimento del cicero- niano ideale scipionico -
correttore e salvatore della patria, princeps della res-publica, pater patriae.
4. Politica e cultura all'avvento di Augusto Cesare fu ucciso il 14 marzo del
44 a. C. Dopo quattordici anni di nuove lotte terribili, di proscrizioni e di
gratuite morti, di alleanze e rotture, nel 30 a. C., dopo la battaglia di Azio,
Ottaviano rimase arbitro della situazione. Sembrò, certo, che solo attraverso
lui e la sua abile e privata politica fosse possibile ricostituire l'equilibrio
e l'armonia, avere la pace. Egli apparve cosi come un patrono, protettore dei
sudditi e, perciò, moderatore e princeps. Si sarà veduta, in lui, non solo la
possi- bilità di salvar(' la res-publica, ma, dando ad Augusto il patronato
uni- 157 versale, l'unica
possibilità di una pax e di una libertas, anche se relati- vissime, che pur erano
molto, rispetto al terrore di prima. Paolo Frezza, commentando come Augusto
presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus
exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem
publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV
2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad
Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae
Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. - XXXIV l. In consulatu sexto et septimo,
p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum
omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium
transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani: ("la legge
ricorda ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal popolo a
Vespasiano: ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati anche da
Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente della
concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto con
cui si determina potere di Augusto e il possibile conflitto tra il principe e
le magistr ture della Città Stato, donde l'esigenza da parte del legislatore di
dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua commensur
bilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in ser
all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione is;
tuzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di
Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). Da un
lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città (e,
dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato
patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti;
dall'altro lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di
sua volontà, all'arbitrio del senato e del popolo romano. Solo che Augusto,
proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente,
come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo,
con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato
proc mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato,
svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il
potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al 158 là del Senato
e del Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il
Popolo, egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la
Città-Stato cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere
cittadini per divenire sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via
funzionari dell'impero e del sovrano. " L a necessità che il principio polarizzatore
delle istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore delle
istituzioni del principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed insieme
la necessità di ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le soluzioni
dei problemi in cui si pre- sentava il contenuto della nuova esperienza dello
Stato: questa è, se non m'inganno, l'antinomia da cui si genera l'evoluzione
storica del principato, ed in cui si puntualizza il limite- della
consapevolezza che gli artefici dell'ordinamento nuovo ebbero dell'esperienza
di cui essi stessi erano i modellatori. Del quale ordinamento il carattere
fonda- mentale è dunque la duplicità. Da una parte il primordiale sistema
istituzionale del potere del principe, che si riassume nella elementare
affermazione di un sol soggetto di tutto il potere di fronte ad una totalità di
sudditi, nella quale tende a scomparire la differenza fra il suddito e il
civis. Da un'altra parte il raffinato. ma non piu autonomo, sistema
istituzionale dello Stato-Città, in cui, come in un prisma, il totale e
totalitario potere del principe si scompone in una molteplicità di settori di
azione, di competenze, di limiti istituzionali all'esercizio del potere
medesimo... Lo sviluppo della storia del principato, di cui la storia giuridica
è un aspetto, si incarica di dimostrarci che, a misura che il potere del
principe si va consolidando come ordinamento, ossia come sistema di rapporti
costanti, lo Stato-Città, come soggetto com- presente nella formula
dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato... tende a
scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal- l'esercito, e dei senatori dai
comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e l'immissione
sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe dirigente, la
formazione di una nuova solida gerar- chia di alti ufficiali dell'impero, ai
quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del sovrano, sono,
com'è noto, i fenomeni com- plementari del progressivo scomparire del senato e
della magistratura di Roma dalla direzione politica dell'Impero" (Frezza,
cit., pp. 139-30). Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla situazione
psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di Augu- sto,
e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione
istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa
servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il
confluire e l'intrecciarsi tra il I I e il r secolo a. C., - il prevalere in
quest'ultimo scorcio di secolo, e ancora nel primo quaran- 159 tennio circa del 1 d.C., di
posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con
Cicerone, e che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni
politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere
di Augusto e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto
riprendesse il termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares,
proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde
il titolo di augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal
modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei
due termini e delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il
princ~tJs. Il termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con
principatum, stava a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la
ragione universale, non come principio a ~ ma come atto unificante una molteplicità,
secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni, onde si poteva
dire che la ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima inter pares, in
sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto posto nell'or- dine
del tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire l'Emi- liano, Augusto,
anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé, ragion d'essere dello
Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del senato e del popolo
(cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e principe. E si badi -
anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici (non in Roma) Augusto
veniva chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si chiarisce quando si pensa al
significato che al re si era venuti dando nelle monarchie ellenistiche (cfr.
sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il filosofo di corte, assunto da
Augusto, suo consigliere e consigliere (una specie di confessore) della moglie
di Augusto, sia stato uno stoico, Ario Didimo di Alessandria (vissuto tra il 69
a. C. e il primo decennio del 1 secolo d. C.: cfr. Diels, Dox., 80). E qui è
forse interessante riferire un estratto dell'Epitome di Ario Didimo, riportato
da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9), in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea
la concezione generica dello stoicismo: Chiamano dio l'intero cosmo con le sue
parti. E dicono che il cosmo è unico, limitato, vivente, eterno e divino. In
esso infatti sono contenuti tutti i corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~
chiamato cosmo non 5olo il qt~ale costituito da tutta la sostanza esistente; ma
anche ciò che secondo un'ordinata disposizione ha una struttura di tal genere.
Perciò, secondo la prima definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo
l'ordinata dispo- sizione, lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti
periodi, passati e futuri. E la qualità costituita da tutta la sostanza
esistente è il cosmo eterno e divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme
costituito di cielo, aria, 160 terra, mare e delle nature che sono
in ciascuno di questi elementi. t detto cosmo anche il domicilio degli dèi e
degli uomini, ovvero l'insieme costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle
cose che sono nate in vista di quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città
in due sensi, come domicilio e come insieme degli abitanti e dei cittadini,
cosf anche il cosmo è come una città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi
hanno il governo e gli uomini sono i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è
comunione, perché partecipano della ragione, che è legge di natura. Tutte le
altre cose sono nate in vista di quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna
ritenere che degli uomini si prenda cura dio che governa l'universo [si
confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg., 903b sgg.], che è benefico, buono,
amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte le virtu. Perciò il cosmo è detto
anche Zeus, essendo per noi l'autore della vita (z~n). In quanto dio fin
dall'eternità governa tutte le cose ineluttabilmente con una ragione
concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,. poiché niente può sfuggirgli
[apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha cura di ciascuna cosa secondo
i singoli interessi. Cleante credeva che· parte dominante [egemonica] del cosmo
fosse il sole, perché è il piu grande· degli astri e quello che massimamente
contribuisce al governo dell'universo,. dando origine al giorno, all'anno e
alle altre divisioni di tempo... Crisippo· identificò questa parte con l'etere
purissimo e semplicissimo, perché è il piu mobile di tutti gli elementi e
trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo (Dossografi greci, a cura di
L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).. Certo bisogna tener presente che quando
si dice stoicismo o plato- nismo, o stoicismo platonico, o anche aristotelismo
stoicheggiante o· platonizzante, in effetto diciamo qualcosa di molto vago, se
non inten-· diamo una vaga visione d'insieme, uno sfondo culturale, ormai
cristal-· lizzatosi ed estremamente diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti
di. massime, sul tutto e sulla vita pratica, circolanti presso il popolo, com'è·
largamente testimoniato. Tale visione d'insieme e legale di un universo•
vivente, poteva poi servire, sia sul piano del diritto e del potere poli- tico,
sia sul piano dei singoli insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un
lato ad una morale comune e religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali
del dire (grammatica, retorica e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche
(le cosiddette singole scienze); essa risulta compen- diata in manuali che,
usando cognizioni e notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di
centoni. Se ciò si vede bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo
di geografia descrittiva e umana di Strabone (63-25 a. C.), a carattere
enciclopedico e informativo, ove non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici
che avevano mosso un Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di
Cnido, altr.ettanto bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle
testimonianze e dai pochi frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e
di Ario Didimo. Vissuti nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu
vicino a forme platoniz- zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero
nello scolar- cato dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea,
Aristone di Ascalona, dal 68 al 51, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e
Teomnesto di Naucrati), il secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoi-
cismo ufficiale della scuola di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi
successi a Panezio, Mnesarco, Apollodoro di Atene, Dionisio, Anti- patro di
Tiro, sulla linea di Panezio), l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere
filosofiche a carattere enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle
Categorie e ad alcune parti della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr.
Simplicio, Schol. in Arist., 6la, 25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III,
2; Alessandro, Metaph., 44, 23), epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del
Diels). Entro, appunto, questa concezione comune platonico-stoica, con ve-
nature proprie alla scepsi della nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr.
sopra: e Ario Didimo in Stobeo, Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di
cultura enciclopedica, per cui poteva servire Aristotele (partico- larmente i
libri di logica, usati come introduzione all'arte del retto ragionare, e i
libri naturalistici, biologici, zoologici, meteorologici), sr come Panezio o
Posidonio, e, in specie, i commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le
dossografie, le epitomi, le raccolte di questioni trat- tate per problemi e
divise per scuole, secondo un capostipite nella cui linea si facevano rientrare
i successori (tale metodo s'era diffuso, sul- l'esempio di Teofrasto, tra il
111 e il u secolo a. C., mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv
cpr.ì.oaO<p(J)V, del peripatetico Sozione originario di Alessandria, che
aveva distinto due scuole, l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti
maggiori cui attinsero i compilatori posteriori, fino a Diogene Laerzio). Un
esempio di tali motivi è rappresentato dall'edizione che delle opere scolastiche
di Aristotele, ritrovate nel 133 a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.),
consegnate dagli eredi di Neleo al libraio Apellico (che dal 100 circa,
portatele ad Atene, le offrf in pubblica lettura) requisite da Silla nell'86 a.
C., fece, insieme al grammatico Tirannione, Andro- nico di Rodi (scolarca dal
70 al 50 a. C.: dopo Critolao erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo,
dei quali poco o nulla sappiamo). Basti, nel sen~ di cui sopra parlavamo,
ricordare quel che Porfirio dice del criterio usato da Andronico: "Egli
divise le opere di Aristotele e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~),
mettendo insieme sotto titolo comune le specula~ioni che trattavano argomento
affine (-r~Ì4; o!x&tcxç 01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v)
(Vita di Plotino, 24, 138); e 162 basti pensare all'ordine con cui
si venne a costituire il corpus aristote- lico (Organon, Fisica, De coelo, De
genesi et corruptione, Meteorolo- gica, De anima, Parva naturalia, libri sugli
Animali, Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica,
Retorica, Poe- tica). Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il
libro della scuola peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in
quest'epoca venga edita, a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea
dell'edizione di Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in
tetralogie, da cui riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il
cui Corpus platonicum sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è
chiaro l'intento di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un
unico sistema. E ciò non significava affatto che, a cornice del quadro aristo-
telico, della divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica,
fisica, etica, non potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i
termini teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi
stoici e dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era
stato il platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche,
l'importanza delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e,
perciò, all'astronomia; e le relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi,
dunque, introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela
tutto un modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si
pubblica, sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il
complesso della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per
altra via si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che
vanno sotto l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è
poco indi- cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di
astro- nomia; mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial-
mente, le altre linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non
è forse senza interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone
(detto " peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone
stoico), discepolo di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra,
alla morte di Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe
scritto una serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle
opere di Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In
Cat., 5). Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non
alto valore scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a
ql«tV6fUV«), com- posta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria
circolare dei corpi celesti (Kux).~x1J.3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di
Cleomede (1 a.C.), e, infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il
nome di Ari- stotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la
seconda metà del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di
Andronico, e dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto
nella Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il
190 d. C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e
Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di
alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo:
ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477
sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche al-
l'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il
tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si
resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione
dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti
ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dal- l'Epinomide e,
probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo
di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si
presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una
specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni
aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e
ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento,
eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il
pneuma, la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme
del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi
platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica,
mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari- stotele e
nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De
mundo, che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a
descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali elementi,
i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed eternità
del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la stessa
divinità, trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto
governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio,
mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro
di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di
cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festu- gière
(cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due
primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente
dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli
Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi,
moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore
e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi chiamarlo
Destino? Non t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle cause. Vuoi
chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è provveduto ai
bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza
ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non è
errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo?
Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue
parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales
quaest., Il, 45). Aveva detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti
gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste
cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di
coloro che fanno di Dio l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita
d'uno stesso Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze,
membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche
cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai
chiaramente la koinè cultu- rale-politica quale si venne configurando tra la
fine del 1 secolo a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu
che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di
questioni na- turali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano
in ma- nuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe
di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il
termine architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato
richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato
dà il significato esatto di questa visione misu- rata e normativa
dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa
dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita,
da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi
ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie
particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola
filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi
anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui
successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da
Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta-
quattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei
Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di
essa, attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di
Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli
della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo cattedratico, ma
vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche
testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro
i termini del piu generico stoicismo, che soprat- tutto doveva servire da
fondamento all'insegnamento etico, alla forma- zione del cittadino, e da
fondamento all'insegnamento di materie par- ticolari: questioni naturali,
politiche, retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano i titoli pervenutici
di alcune sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri
t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della
Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande
enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re medica, già esso
estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri
volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla
filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera
origi- nale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco,
torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.,"
Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore
come fonte per la storia della medicina e delle scuole medi- che (1), è una preziosa
opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una
preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei
sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che
farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi
chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e
delle malattie delle ossa (VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico
Asclepiade (vissuto circa tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che
nella prima metà del I secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di
medicina (pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14
d. C.). Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato. in molte città di Oriente
e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato
(cfr. I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea
degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro
costi- tuzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi
stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di ope- rare
sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri,
o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando,
appunto, "mediante la stessa natura," soprat- tutto per mezzo della
dieta, s(da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri,
rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è
un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in
medicina prevalse la teoria 166 pneumatica, di chiara ispirazione
stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo
discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette
avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il
nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri
a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo
rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di
compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di
Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.),
appar- tenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri-
vere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro
esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d.
C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la
medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il
fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola
pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De flatibus,
fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli altri
volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume
dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra
dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività
degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno
teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei
tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano
strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone
di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di
monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura
di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di
Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella
seconda metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione
d'insieme, quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e
architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23
a.C.) del grande tecnico e archi- tetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo
di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura
delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento,
che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono
8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione
detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata
alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui
l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde,
anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo 167 perché l'architetto possa
realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere
cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei materiali,
dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e cosf via),
ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di ogni
consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si accompagna a molteplici
conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla pratica e dal ragionamento
(e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una continua e minuziosa
meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto di un
q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al ragionamento:
è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione della ragione,
le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la scienza, né la scienza
senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve essere
letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le
leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non
essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere
l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli inesperti
che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran numero di
scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno tra loro
una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa facil-
mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti come un
sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera età
vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche delle
lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze, donde
giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l, 1-2, 9, 44-45). Di
Enesidemo sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di
Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca,
170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad Alessandria
(Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può essere abbastanza
interessante relativa- mente alla conoscenza che Filone di Alessandria poteva
avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace dell'Accademia se ne
sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi accademici piu che
accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa pensare che, secondo
anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il quale sostiene che
Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del- l'Accademia a un
neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico prodamarsi
pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo Discorsi
pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione di
Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura
romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani
"a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita,
di famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari"
(Fozio, Myr., 169b). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a
Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera
intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o
Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea).
Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo
noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe
vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo.
Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno
alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima
introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei disce- poli di Enesidemo
(Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema
della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia
biografica. 179 berone piu
antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di
Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente
vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone,
che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che,
riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma,
occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di
pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel-
l'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che
poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi
dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In
effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani
appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro
i qeo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello
al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di
~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della
realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità
umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda
della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che
viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso
la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova- Accademia,
in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente
cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo
d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di
lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica": Pyrrh. hypot., l,
235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu
antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164),
sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi)
mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio"
(cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque
(cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere
esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo,"
si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una
testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i
pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e
la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32,
tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263,
un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in
dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180
o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave
allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici
Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo
dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre
invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si
può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio
riducendolo al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da
Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo,"
mediante cui Cicerone ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo
Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri
che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio
Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani
potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al
"recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in
fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la
conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad
altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome,
mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli
otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause,
su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che
Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava
con Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava con filosofi a lui
posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). I Discorsi
pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1
secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi,
attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica,
accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente
scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una
corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione
oppone una ragione di egual valore": Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8,
"senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma,
cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di
ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe
mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di
Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene,
Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe
stato maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto,
il medico Eraclide di Eritrea?).
181 Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu
tardi, biso- gnerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse
stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di
Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo gene- rico, contro il
diffuso dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando questi elementi
su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che
non a Pirrone, avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei cosiddetti tropi di
Enesidemo in Filone ne rintrac- ciamo almeno otto), mediante cui mostrare la
necessità della "sospen- sione del giudizio" (epochè), anche nei
confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente
utile, ma teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso, al servizio dello
stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero
stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine
assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il
sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò
che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che
sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si
venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico,
aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'in- sieme,
cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga- nico gli
argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro alle
evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante e
aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica
e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente
filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha
scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua
dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi
rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema;
abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta
d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di
qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di
notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In
origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la
tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina
dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo;
l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto
del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla stregua
di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182
tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico espresse
uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di applicarsi
soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in vista della
pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de l'esprit
scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553, 554-55).
Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro
all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta
l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo
pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso
colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che
permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filo- sofico e in una
discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere
molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso
Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il
"criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio
siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla
giustifica l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla
coscienza di qual- cosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé,
né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può
avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fi- sica, -'-
nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una
rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non
è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra
le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo
strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. Di qui scaturisce la
critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso
predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia
all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere
sarebbe dovuto;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano
elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni
in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto
rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in
senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di ine- renza
reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso
stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli
uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1
via. 183 Dagli scettici piu
antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi
[tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio
[epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi, regole [16goi] e figure
[t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali; 2) alle
differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse costituzioni dei
sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6)
alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti; 8) alla
relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle istituzioni,
costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma- tiche. Accettiamo questa
serie dandole un.valore convenzionale... Dicevamo essere la prima regola quella
secondo la quale le stesse cose non producono le medesime rappresentazioni
sensibili, in conseguenza della differenza degli animali. Questo lo deduciamo
dal modo differente del loro generarsi e dalla differente costituzione dei loro
corpi... Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai differenti animali,
potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma quale esso sia in realà,
ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78; cfr. anche Filone l'Ebreo,
De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX, 79-80)... Il secondo modo, come
dicevamo, riguarda le differenze che si riscontrano negli uomini. Infatti,
anche se, per ipotesi, si ammette che gli uomini sono piu degni di fede degli
anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla sospensione del giudizio pure per quanto
si riferisce alle differenze che sono tra di noi. Delle due parti di cui si
dice che consta l'uomo, anima e corpo, per l'una e per l'altra· noi differiamo
l'una dall'altro... Pertanto è necessario, anche in forza delle differenze che
sono tra gli uomini, arrivare alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l,
79-89; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX,
80-81). Terzo modo è quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle
sensazioni. Che le sensa- zioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno
dei fenomeni sensibili impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci
si mostra liscia, profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa
possieda, effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità
unica e.ci appaia differentemente in conformità della differente costituzione
degli organi del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e
alcune non cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche
Diogene Laerzio, IX, 81)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle
circostanze (chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo
ch'esso va considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o
innaturale, nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età,
all'essere in moto o in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o
esser sazi, all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere
coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti... Noi assentiamo maggiormente a
ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta
davanti... t impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. E
invero, chi preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a
un'altra, o lo fa senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma
non lo può fare n~ con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di
una dimostrazione: in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà
un giudizio sulle rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un
criterio. Ora questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non
meriterà fede; se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero
senza recare una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione.
Se lo affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una
dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia
vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per
la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza,
non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di
aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la
dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per
essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di
una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere
vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero,
se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e
dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra
meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da
quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né
senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap-
presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre-
sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni.
Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen-
sione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l,
100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX,
82). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e
ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono
differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a
una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle
rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo
modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.;
anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà
questo tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle
mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade
sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è
possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e
dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia
l'oggetto esteriore nella sua realtà pura... A causa delle mescolanz_e, i sensi
non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno
l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso
intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene
annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX,
84-85, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è quello che si
riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente
per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti
a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è mani- 185 festo. Per esempio, la
raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori del
composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare
nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della
realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De
ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come
ottavo)... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che,
tutto essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura
delle cose. Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce
"è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto:
"tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma
in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno
e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a
quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra
rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso
anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni
cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a
questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce
insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi
relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a
questa quantità e posizione. Ma anche con ragio- namento proprio si può
concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto
differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso
relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice,
infatti, che differisce relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche
l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue
che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h.
hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio,
IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono modo è quello che
concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono
preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141,
144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il
decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che
si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle
opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora
a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni
Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i
Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre,
invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a
indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando
l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei
Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa,
quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli
uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di
qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo-
strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186
uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti
sono gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri
immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza
degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi
costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a
opinioni dogma- tiche, e cosi via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non
potremo affer- mare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso
appaia in rap- porto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in
rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario
sospen- dere il giudizio... (Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo,
D~ ~bri~ tate, 193 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come
quinto). Secondo Sesto Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a
tre ("ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende
dal giudicante - i primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o
sensazione o si trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal
giudicato - il settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il
quinto, il sesto, l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo:
"a loro volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo
sarebbe il piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi,
specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno
alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che
paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla
sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e
di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79).
Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che
presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su
rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi,
ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e
discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso
teoreticamente, donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la
difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea,
che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda
a ciò di cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso,
in quanto articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al
discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle
rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività
unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati),
afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi,
trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero"
e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge
al concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei
confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla
verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta all'attività
egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.,
Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura della realtà,
e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il vero sia la
verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il senso e
l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti esterni, ma, se
mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque sarà
dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono
impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e
contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto
Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto
all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti
sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la
natura, ma solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso
esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della
generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun
che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo
giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con
altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose
(Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti
aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile
(vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né
intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il
sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre,
invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai
singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e
certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei
singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero,
ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli;
solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero
non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la
visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi
anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente
con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si
conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è
intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un
assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da
tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia
percepito intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni
individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e
se compreso individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è
oggetto di contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è,
ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto
intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il
vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può avvenire:
i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili, gl'intelligibili con
gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con gl'intelligibili e
gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte le cose sono vere,
che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui, di nuovo, bisognerà
ritenere che sia un'aporia affermare che parte del sensibile sia vero e che
vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda, infatti, se sia non
contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose false siano
sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di meno. E, cosi,
ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu l'altro di meno.
Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri, né tutti falsi. Non
vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math., VIII, 40, 48). In altri
termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso, che presumano
significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in e.ffetto,
insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la "sospen-
sione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i dieci tropi, le
aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto dei Discorsi
pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede bene come
Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte a mostrare
l'im- possibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia mediante i
segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni significanti
quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la coincidenza tra
significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.), un grosso pro-
blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto libro Enesi- demo
mette in discussione i segni delle cose oscure...": Fozio, cit.); le seconde
(che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a sovvertire i ragionamenti
intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel quinto libro... propone
argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes- suna cosa è causa
dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra serie di
argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio degli stoici
dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile all'invisibile
proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in Crisippo la dottrina
dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione (cfr. I vol.). Posto che
l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima l'immagine
della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci a.fferra a
seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto perché
corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se corrisponda
o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni rappresentazione
è un segno, da un lato "rammemorante" una impres- sione, dall'altro
lato "rammemorante," data quella rappresentazione, altra
rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno
che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme con
tutta evidenza... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora
non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si
dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il,
97-102). Sotto questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una
chiara " logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca
fondata, appunto, sui segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo
medico ~mpirico e metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici),
ove la veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso
stesso della realtà. Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma;
certo, subito dopo di lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne
interpretata in quanto segno indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante
l'oggetto che ha provocato l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso
significherebbe il di- scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione
verrebbe a significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta
im- pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a
porre cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non
osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria
natura e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i
movimenti del corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.,
Il, 101). È chiaro che la critica degli scettici piuttosto che
all'interpretazione del "segno" come rammemorante, si rivolgesse al
segno interpretato come indicativo e significante da un lato la cosa per sé,
dall'altro lato la causa e la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico -
non parliamo contro ogni segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra
essere state inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il segno
indicativo è inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato
e-mdatore di esso. Se è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme
con il significato, come il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc.
Se invece è rivelatore del significato, deve assolutamente esser compreso prima
di esso, perché, conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della
cosa resa nota da lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere
conosciuta prima di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere
compresa: impossibile quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore
della cosa relativamente alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire
il segno indicativo... (Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già
fosse stata la critica di Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII,
49 sgg.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si
coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i
segni indicativi, rispon- deva che ciò è contraddittorio, posto che la
rappresentazione è dall'im- pressione, ché mai si può avere rappresentazione di
ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte, questa o
quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando valore al
segno rammemo- rativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si fonda la
pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva delle conse-
cuzioni. In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un fatto che ne
ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante (passato) o ce ne fa
aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad
alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le
rappre- sentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che
sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle attuali rappre-
sentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono
ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a tutti coloro
ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle rappresenta- zioni
(Sesto Empirico, A d v. math., VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge
cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica
sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione
di una constatata "conse- cuzione" in una concatenazione causale
risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. Di
qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità
di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto
espe- rienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come
enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono
i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si
arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a queste
spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali,
confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla
apparire difettosa. E sono, secondo lui: l) quello per il quale il genere della
spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi,
non ha una conferma palese dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per
il quale, essendo largamente consentito di spie- gare in molte maniere la causa
cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; 3) quello per il quale di
fatti che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine
alcuno; 4) quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili,
credono di aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i
sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo
uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e
distinto; 5) quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo
ce~e loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via
comunemente ammessa e accettata; 6) quello per cui spesso accolgono quello che
si spiega con le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha
la medesima forza di persuasione; 7) quello per cui spesso adducono delle cause
che contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi;
8) quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra·
apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di
nozioni incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge,
poi, che non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause,
falliscano secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali
(Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 180-184). Se mediante gli otto tropi,
riferiti da Sesto come propri di Enesi- demo, è messa in discussione la
possibilità dell'inferenza dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la polemica
non solo contro gli Stoici, ma anche contro l'epicureismo e l'induzione
aristotelica, - per cui si giunge alla sospensione del giudizio anche
relativamente alle cause, tanto piu semplice diveniva ora la discussione che
<;onduce al dubbio sulla possibilità di spiegare gli effetti, partendo da
cause che pur si sono dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che l'una
causa possa pro- durre un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa ed
effetto sia proprio della stessa struttura della realtà e non dovuto ai
rapporti ram- memorativi tra le impressioni ricevute. Anche queste sembrano
argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita
Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX, 218-266), insieme a tutta una serie
di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica e la dia- lettica stoica
(cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197; Adv. math., VIII, 300-315,
367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp. 308-312). Veniva di qui,
infine, entro i termini della sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni
degli scettici, la problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di
definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni che permettono una vita
virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli
ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi pirroniani). Secondo Sesto
Empirico (Adv. math., X, 42) 192 Enesidemo avrebbe escluso
l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale veniva definito
dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio, IX, 107, e da
Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il bene, non avendo una sua
essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del
giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina un certo piacere (Aristocle,
cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto
è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire
che, al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo),
ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è
da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente,
di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo l'indagine sul piano
umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di
Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione
filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la
"verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine
indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde,
contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come
"verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo
quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che
l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in
quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo
stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e
gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso
oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro
esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce,
vede in questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude
assolutamente che una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione
di tipo eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il
divenire e i contrari, è anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non
fenomenica e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i
Discorsi pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase
eraclitea del pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo
(l'anima sepa- rata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso
stoico) parla Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo
scettico si trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo
in funzione scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un
presunto eraclitismo di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra
citato, dice solo che secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal-
tarsi in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un proprio
fondamento ontico, e questo sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei
seguaci di Enesidemo ("se arrivassero all'asserzione che intorno allo
stesso oggetto esistono fatti contrari, partendo da qualcuna delle espressioni
scettiche, per esempio 'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do
per certo,' potrebbe essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo
che...": Sesto Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri
testi, anche se. per incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi
eraclitea (si veda, ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo
Eraclito, Enesidemo affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv.
math., X, 216-217: "seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è
corpo... Cosi nella Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233:
"Enesidemo dice che per Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX,
337; VIII, 8), alcune delle quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che
all'eraclitismo, altre come piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte
lo stesso Sesto non discute quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol
corpo di pensiero, ma, dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di
quello che poteva essere l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non
dice mai che quelle tesi eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi
pi"oniani, mentre una volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi
perduta, la Prima Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga
discussione sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è
chi ha sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una
posizione dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato
nell'eraclitismo il fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che
Enesidemo sia pas- sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi
dogmatica a. una seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC]
scettici- smo, alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla
posizione car- neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi
pi"oniane, l, 210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo
scetticismo all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp.
314-330, al quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione
delle varie ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap-
penheim, all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al
Brochard, al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta
di pensare che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei
Discorsi pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale
potrebbe essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte
l'episodio dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua
polemica nei confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194
mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso
l'esposizione che della "sospensione del giudizio" aveva offerto
Clitomaco, il discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per
non cadere nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il
"probabile" e l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere
possibile l'azione e il discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio
della "probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare
fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su
tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di
Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del
linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di
Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente
innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo, viene sistemando in un
corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle
posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con
Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica
rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i
termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio
comune, comune concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi,
proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella
coni:ezione di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad
avere, se considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t
determinando tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. E ciò
tanto piu sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un
fenomeno isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci
di Ene- sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa
il nome Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX,
106, 116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti
sul piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione
dei tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla
constatazione che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so
di essenze è un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul
fenomeno. ' Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis,
suo seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX,
106) dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo
significativo, già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che
testimonierebbe un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di
ragioni pro e contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni
pretesa di giungere all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la
definizione data da Sesto Empirico dello scetticismo: 195 Lo scetticismo esplica il suo
valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi
maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni
contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione del giudizio, quindi,
all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta,
seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un
libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea,
pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre
che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di
Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX,
109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore
Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione
del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere
indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come
sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus,
Lipsia, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea
furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene
Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su
Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia,
che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e
metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico,
riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I
secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C.
e il 150 circa. Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera
entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativa- mente, collocare
l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo
piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera)
sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa,
anche se ne rife- risce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui
formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per
altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà
Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sap-
piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamen- tali
dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e,
soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca,
in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una
programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia
delle condizioni che permettono un pos- sibile sapere. Sotto questo aspetto si
capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque modi di Agrippa, o meglio
delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti
principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e
parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu
antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo
scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque
tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con
estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei
modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto
di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni
soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non
già perché respin- gano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con
questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh.
hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della
sospen- sione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello
che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4)
l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello
per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia
insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di
preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il
giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che
si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta,
di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non
avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione
del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione è quello in cui diciamo che
l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che
insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale
esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati
all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di
argomen- tazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza
dimostra- zione, per una concessione. Nasce il diallele, quando ciò che deve
con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla
cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere
l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico,
Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu pertinente sui cinque tropi di
Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme
ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu
recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi: 197 Che ogni ricerca si possa
ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o
è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa
discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri, solo
l'intelligibile, altri, in parte il sensibile, in parte l'intelligibile. Ora
che si dice? che questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile,
affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è
insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla
bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà
sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un
sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo
avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a
sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi
all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un
intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo
intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà
provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente,
nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è
stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto
un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi disputa, per
fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza
dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al
modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone
merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di
fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà
sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione;
se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. Che se
il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che
è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della
quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo
supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò che
lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro: sono,
infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa
sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa
maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è
irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio.
Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile,
spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al
diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né
potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si
cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile
di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per
ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono
gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e
se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di
opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198 stato ricondotto ai
cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio
intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri modi di sospensione.
Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si
comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono
evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e
intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né
sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non
degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si
possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà
sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se
invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso
comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per
le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179).
"Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo,
presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag-
giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un
intendimento di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle
maniere tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema
dogmatico, nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il
maggior numero possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma
anche di includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione
insomma obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non
in Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo;
ha infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella
filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo)
come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot-
tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore
vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua
delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si
può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo
passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i
dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro
sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi;
bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico
tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo
Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente autonoma,
finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo all'infinito o
verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che, rinunciando
all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente verso_ il
dial- 199 lde. Se pertanto
il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti contrasti che si
verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere oltre, si troverà
nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade: processo
all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre strade conduce
alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato una sistemazione
delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non empirici, ma
universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è quella che
mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della strada su cui
fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal riconoscimento
eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile; la seconda tappa
è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul sensibile e
l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la sostanziale
omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la terza tappa è
data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile
sul sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe gio-
care per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal tentativo di uscire
sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante
l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa quarta tappa si
ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico non ha via di
uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella costruzione
dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa poteva
organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è diventata
rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità dell'allargamento su
terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe d'un'affermazione che, allargandosi,
non perde la sua arbi- trarietà; vanità del cosiddetto processo logico o
dimostrativo, con la persuasione che esso non è mai altro che un circolo, senza
alcun pro- gresso possibile; vanìtà dell'evidenza e sua relatività. L'istanza
critica espressa in questi termini da.Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6
forte, pi6.organica e precisa di quella espressa da Enesidemo; Agrippa è
riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla considerazione con- tingente;
di questa o quella posizione dogmatica, per inv.::stire pi6 diret- tamente il
dogmatismo nella sua generalità" (op. cit., pp.. 339-41). Di non poca
importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesi- demo-Agrippa (seconda
metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.), 1'indirizzo scettico che si
viene costituendo in metodo, si incontra con l'indirizzo della medicina
empirica. Certamente separati in principio (l'indirizzo medico teorico e
l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo
già il significato filosofico e metodologico che la medicina assunse proprio
dai tempi di lppocrate: cfr. I vol.). Probabilmente la denominazione • medici
teorici" (loghil(6t), 200 risale a un'opera in sei libri del
medico Eraclide di Taranto, del I se- colo a. C., intitolata La scuola
empirica. Eraclide di Taranto, che fu discepolo di Tolomeo di Cirene, con il
quale, sembra, si sia, di contro all'Accademia, restaurato l'originario
pirronismo, avrebbe metodologi- camente fondato l'indirizzo empirico della
medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà del I I I sec. a. C.), Serapione di
Alessandria (fine del III, inizio del n a. C.), Glaucia di Taranto e Apollonio
il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.). Serapione - scrive Celso - primo fra
tutti professò che la medicina non ha nulla a che fare con la scienza
razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze sperimentali...
Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo dell'esperienza, tengono
conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però sostengono essere ozioso
disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni •naturali, essendo la
natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è chiaro per le discordi
opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi potuto ottenere consenso
in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli stessi medici. Se si
considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili; se si considera la
cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò possibile negar fede alla
disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re medica, l, proemio). Anche se
non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di cui parla Diogene
Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo Eraclide ed
Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina empirica
s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due indirizzi
confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che dopo
Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1
secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico
di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo
Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188; anche Dal
Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intito-
lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre
Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e
Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cin- quanta
argomenti pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nel- l'elenco dei
seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a
squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti- tolata Duplici
discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione varie opinioni con
il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da
identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire. Certo è che la
vicinanza tra medici empirici e indi-
201 rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è
indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo
scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli
che sono i limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svol- gersi,
per essere utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella
determinazione di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini
dei "segni rammemorativi," ragionando sui dati del- l'esperienza,
donde i tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto
già presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia
(osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona), historie (raccolta
sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo,
semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad altro segno, determinare
volta per volta il quadro cli- nico della malattia e il rimedio pratico da
adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni
generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva
servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai
chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), de-
lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifa- cendosi
al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura
quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio
del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. La
conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che
voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che
sia), poneva in·crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di
certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione
enciclopedica; si rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella
stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico
all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni
istitu- zionalizzazione del sapere. Certo, pur discusse criticamente le
possibilità umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella
rappresentazione dei sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività
soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del
tutto, il discorso della realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire
il "vero," che perciò non esistono né il vero né la verità, proprio
nella negazione di un qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava
fissata e presupposta l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le
possibilità dell'umano discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio
essa, in quanto realtà, se. afferrabile, fondamento della verità e della
condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul piano scettico, andare piu in là:
una cosa è giun- 202 gere a negare la possibile conoscenza della
realtà (il· che presuppone già una realtà: materia, anima, Dio), altra cosa,
non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono, discorrendo, le
realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio sulla realtà, si
sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli argomenti
scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la realtà
attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia dd
giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella matematica,
questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una realtà - sia
pur ignota e acatalettica, -vere se si possono vedere, nel tempo, come
costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. Di fatto ciò non
avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scet- ticismo a una piu
approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni
estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a
significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso,
dall'altro lato in una assoluta "sospen- sio~e dd giudizio," ché,
accantonando la realtà (e perciò presuppo- nendola) e negando verità e
significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà,
- portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia
ipotesi che potesse rendere pen- sabile e costruibile la realtà (donde.anche la
critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea),.e; per le stesse
ragioni, l'accanto- namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la
"sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde
l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume
storicamente de- terminatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si
attiene all'os- servanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si
mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente
patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo
dimostra l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso,
accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione
l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino
altre vie che possano giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente
ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella
realtà, o di es- serne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità,
poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la
ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta
persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui
il prevalere dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le possibili vie
imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi
grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene, se non si tenga
presente anche la storia di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma,
particolarmente dalla morte di Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò
che riguarda la pOlitica individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e
la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica
in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria,
n·"popolo ebreo.•l. Cultura e crisi politica al principio del l secolo d.
C. Il corso dd 1 secolo d.C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un
tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e
la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura
istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini dd- l'Impero quale si era
costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si
fecero sempre piu drammatici. Alcuni impe- ratori giustificarono
il proprio potere assoluto mediante la propria pro- clamazione a divinità
(onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di
Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il
loro contrasto, in particolare, con lo Stoi- cismo, in cui si vedeva la
concezione di uno Stato universale e di.un diritto, l'opzione per una condotta
di vita e per una cultura che pote- vano minare la politica stessa dei singoli
imperatori. Sono dati precisi. Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico
Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava
Bruto e diceva C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34
sgg.), mentre Caligola fece uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da
Claudio, fin! poi per uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte
Trasea Peto, anch'egli ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e
Rubellio Plauto, accusato, come riferisce Tacito (XVI, 57), d'esser seguace
della "arrogante setta degli Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi
di disordini." Musonio Rufo e Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto
Vespasiano, tutti i filosofi vennero espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo,
ancora insegnante di retorica, scriveva il Discorso con- tro i filosofi,
"peste della città e dei governi," e, nel 93, Domiziano espulse di
nuovo da Roma i cultori di filosofia preoccupato per gli effetti della
retorica, qualora questa non rimanesse sul piano pura- mente scolastico, di
esercitazione. Il potere, d'altra parte, si restrin- 229 geva sempre piu nelle mani di
pochi, cultura e retorica dovevano servire ai funzionari dello Stato (e appunto
per essi si apriranno in Roma e nei suoi domini le scuole, che verranno poi
sempre in for~pa maggiore controllate dall'imperatore), le popolazioni
divennero sempre piu povere e la schiavitu strumento economico, mentre in tutto
l'Impero schiavi e militari circolano, provenienti dai paesi piu diversi,
recando con sé esperienze, culti e culture, religioni diverse. Cosf, entro tale
atmo- sfera generale, entro i diversi sostrati sociali in cui ci si muove, a
seconda anche dell'imperatore e della sua corte entro la quale per sorte si
vive, si capisce come la filosofia potesse soprattutto esser coltivata, da un
lato come guida alla vita, rifugio, consolazione, dall'altro lato come rifles-
sione su esperienze religiose, quale indice di salvazione, di liberazione dal
guaio di esser nati uomini. Di qui, sempre, entro l'ambiente greco romano, fin
dal principio del 1 secolo d. C., la ripresa di certi asP-C=tti dello
stoicismo, del pitagorismo, del platonismo stoicheggiante, e, in altri sostrati
sociali, il recupero di suggestioni magiche, teurgiche, oraco- lari, di certe
posizioni che si configurano nel cosiddetto gnosticismo, il costituirsi,
accanto al commento dei libri del passato (Platone, Aristotele), dei testi
ermetici, orfici, il riapparire dei misteri, e, infine, non ultima, la suggestione
del Cristianesimo. Sotto questo aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo,
sembra abbia avuto una notevole influenza e funzione. Ad esempio, proprio
rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad argomentazioni scettiche che furono poi
sostenute da Enesidemo), dando a lui ragione nei confronti dei superbi ed atei
dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva rimettere in discus-- sione il problema
della verità, ma inserendosi, sotto tutt'altro aspetto, in tutt'altra
esperienza e tradizione, delineando il motivo della "rivela- zione,"
mediante cui, poi, recuperare certi motivi della vecchia cultura. Per altra
via, un Seneca, in una situazione politica cangiata, entro i ter- mini di una
crisi di una cultilra, poteva, proprio riallacciandosi alla pole- mica
scettica, trovare i fondamenti della condotta della vita in uno stoi- cismo,
che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con lo stoicismo della scuola. In
certe esperienze religiose di origine orientale si cercò, di là dalla ricerca
razionale, di fronte al suo fallimento, di trovare il fonda~ mento della vita e
della propria salvazione. Pur accettando l'istanza scet- tica, pur convinti che
inafferrabile è l'essenza e la struttura della realtà, si accantonava anche la
via dell'ipotesi probabile, utile a determinare di volta in volta, non solo una
possibile fisica, ma una possibile condotta di vita, cui convincere (com'era
stato il caso di Filone di Larissa e di Cicerone), e per cui era necessaria una
retorica in senso ciceroniano. Essa avrebbe avuto bisogno però di un foro, di
una piazza, di un'assem- blea, Ove fosse stato possibile discutere e
convincere, foro e piazza che 230 non esistevano piu (non si
scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem- pio, sotto Caligola, un Giunio
Rustico, sotto Domiziano, furono perse- guitati o condannati a morte, per certi
loro discorsi pubblici). La retorica perciò si venne trasformando di nuovo in
esercitazione o in tipo di inse- gnamento scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano,
il cui ciceronia- nesimo sarà estremamente istituzionale (non a caso l'autore
del Dialogo degli oratori, attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di
Quinti- liano, poteva sostenere che la verace efficacia della retorica si era
venuta perdendo con il prevalere del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme
alla retorica, entro l'ambito scolastico,.si sviluppassero discussioni di
grammatica e di dialettica; da qui, soprattutto, il commento dei libri logici
di. Aristotele, la cui applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai
contenuti aristotelici, tanto che il commento ai libri della logica
aristotelica poteva incontrarsi, formalmente, con certi aspetti della logica
stoica. Per altro verso, invece, si poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e
l'ultima retorica rimasta: la presentazione·di esempi, di modelli di vita. 2.
Astronomia e astrologia al principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio
Particolare interesse assume ora, entro questi termini, il delinearsi della
interpretazione, in chiave stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano
penetrate nel mondo occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni
astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di
Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride,
attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C.,
in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi
magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza
facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che,
por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu
strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita
dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che
risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la
sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli
astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e
che prosegue con l'interpretazione clean- tea del logos spermatikos, che, fuoco
supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con
i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e
sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro.lato vediamo la linea scaturita
dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali,
"salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine
pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano
fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e
misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori,
indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad
Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria,
fino a.Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo
di "fami- liarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte,
come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i
calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i
calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi
via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la
necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se
indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr.
sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i
termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist.,
Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome dei
Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi del
sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del metodo
geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi
di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del
cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica
di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti
degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il,
34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico
Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al
sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo:
chi dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione
perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e
permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti
stessi. Biso- gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a
Posidonio, "muo- vere dai principt generali delle qualità del movimento,
dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo
e degli astri" (Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto
all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion
d'essere del tutto è un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate
che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato,
"ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità,"
"comune ragione che in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande
[sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno
scordate le ipotesi aristotelica ed epi- 232 curea. Se da un lato
Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un
primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo
platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano
sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro
all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici
spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno-
meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e
non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere"
(Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo
casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal
concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura
divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti
sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili
spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo
dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). Proprio
di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò
per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti,
da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano
scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di
contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del
tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia
universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli
ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide,
interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in
una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione
aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito
come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos
spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle
stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si
vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di
Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da
potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non
sono affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali negano
che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio non
sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son
come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille
Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto, dando ad
anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in
che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé
ponendo, al limite, un 233
princip10 di vita, una forza attiva, non a caso.detta fuoco, inesistente
in sé se non appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri
costituiscono perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri
sono essi stessi fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri
sono a&JL«.&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuo-
cato, mai in.quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I,
24, 5 W.), corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna
la propria ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria
anima, sono, sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, riper- cussioni e
riflessioni dei fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di
cui sopra parlavamo, e..se da un lato ·si ren<;leva possibile lq
sfruttamento. dei risultati geometrico-mate- matici, dall'altro lato si
potevano rendere razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di
origine sacerdotale, che si era venuta dif- fondendo attraverso i cosiddetti
Caldei, per cui, in fine, al vecchio impe- rativo "vivi secondo
natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi secondo le
stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il
riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiun- zione
di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il suo
destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora
(oroscopo) delta ct>ncezione e.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il
moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché
l'istante della nascita determina quello della morte: "Na- scentes
morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa
stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont,
Les religions orienta/es, Parigi, pp. 196 sgg.). Da un lato, dunque, di contro
alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in
una infinità·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di
ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui,
"microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una
cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dal-
l'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando
calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la
geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di
tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibi- lità
di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risol- veva in
sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai
cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divi- nazione e
predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto
di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di
tecniche. Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze 234
astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni
religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio
perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo
docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei,
sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si sole- vano
indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro ori- gine, che
soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio,
concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che
tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione e della previsione
basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che
naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero
rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla
Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche
testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito
di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui
particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative
alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza
orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra
di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd.
astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel,
autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a.
C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per la
sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come
sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina, di
origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni
celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le
stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai.
codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia
caldea è che tutti i fenomeni e gli avve- nimenti di questo mondo sono
necessariamente determinati dalle in- fluenze siderali. I cangiamenti della
natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie
divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti; sono
i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione della
loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si rico-
nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca asiatico, e
la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà dei loro
servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a ciò che
esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi dèi ad
agire ed osava perfino minacciarli" (F. Cumont, Les reli- gions orienta/es
dans le paganisme romain, p. 155). Sotto questo aspetto, non vanno dimenticate le suggestioni di certi
rituali egiziani, che me- diante la precisione delle parole sacre incantano ed
obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a
certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che
poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont,
cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté
intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su
quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n
se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito
della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assu- mendo, non
pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie
amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le
figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali
fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde, poi, l'aspetto
mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio
astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di prove-
nienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se- colo a.
C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei
confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s(come
non è un.caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle
pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave
stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel
tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene
come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse
accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio.
Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche,
interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il
poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato
tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il
suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa
da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un
chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel
libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto
uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento
recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto
ad Augusto (Au- gusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si
accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V
libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto,
appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni
astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel
15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d.
C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel
19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in
un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità
del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua razionalità (del cui
scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto,
e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero
costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e
libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a
caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il
poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine
preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in
s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a
leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e
che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla
cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente
(Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile è dire, relativamente alla
costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente
geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia
servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore,
del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia
la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter-
pretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio
è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orien- tale. In un
codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI,
p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade
Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr. B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22)
sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali
costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in
Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se- condo Firmico Materno (Proemio, III
libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e
Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363)
ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla
Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i
dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la
sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore,
Germanico libera- mente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del
rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in
campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento
astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei
Fenomeni, a loro completamento.
237 zione del tutto entro i termini di un ordine razionale,
di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le
costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In
tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della
struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d.
C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del
mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra
nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle
costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti
dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via
lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro
posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo,
Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro
dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e
discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi
dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto
luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro
combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno,
Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle
quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema
geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali;
sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei do- dici segni
(geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo
(l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione
ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una
piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul
modello dello Stato augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che
proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa
ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della
terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana
emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del
tutto, attra- verso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi,
dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le
ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto
nell'uomo di- scende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe
conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non
chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio
appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la
fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità e ragione,
in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma
l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238 suo mordente
magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso
intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si
risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri
(astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non
"nascosti," non "volontari," e sui quali per- ciò non v'è
alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne
la volontà, ché la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia contemplarla:
Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo
svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben
conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad
osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né
soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai
potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare?
Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è
immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf
come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la
piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò
che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo,
posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non
chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione
domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32).
Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14). Divinità svelata il Tutto,
il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio
dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la stessa oroscopia e
divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di
qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine
pitagorica (con particolare rife- rimento al fuoco), che si vien componendo con
la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che
poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio,
effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti
della fisica e della teologia stoiche, in una sistema- zione, manualistica, dei
momenti con cui si erano venute determi- nando, in linee diverse, le ricerche
astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in
una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si
gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose
che agli uomini, 239 senza
alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una
universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone
(cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il signi- ficato
dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appa- riva
realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto
ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento
sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a
derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono
diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi
carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici,
recando inconsueti sacri- fici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare,
principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste
leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a
un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10). E,
sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi,
sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad.
it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il
poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione del- l'universo in un ordine
fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le
gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse
stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza
proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742
sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità,
l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina
disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione,
da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse
sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo
nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel
potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione
divina. E non era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare,
mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la
possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella
divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste
volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si
videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti
d'origine 240 egiziana, si capisce, invece, l'importanza data
all'astrologia caldea, in- terpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza
data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi,
sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta
politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se
un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il
culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espres-
sione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irre-
vocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo
particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna
preghiera" (Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti
dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche
religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac
religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenu- sque persuasionis
cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66)...Si erige a dovere morale l'assoluta
sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile,
e ci si accontenta di venerare, senza chie- derle nulla, la superiore potenza
che regge l'universo... Le masse, tut- tavia, non s'elevarono a quest'altezza
di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare.
In realtà qui si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto
dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi,
anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in
sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante,
di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi
sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio
tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca
pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di con- tro
all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egi- ziani,
quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la cau- salità,
propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di
potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora
duplice diviene la questione, considerata storica- mènte. La magia e il suo
diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia
pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di un inesorabile fatalismo, viene
poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale
e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed
arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo
razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni
storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri,
ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca)
ripropone la possi- 241
bilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse
date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizza- zione
di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene
da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di
risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio
accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo presente
l'aspetto piu strettamente matematico-logico del- l'astrologia, in uno sforzo
di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la
terra, donde la possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in termini
scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume
il carattere di un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci rendiamo
conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è
la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, p.
241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi
in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei
risultati del- l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal
proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio
degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo
e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-mate- matici, sembra interessante
riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi,
i cui argomenti furono ripresi, ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai
polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un
naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa
sorte?...] non giun- sero a dimostrare la falsità dottrinale
dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio
numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni.
Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un
brillante de- stino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il
'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr.
lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori.
Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candi-
damente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un
dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo,
Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che,
erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o
ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd.
astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era
solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la
medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4). 242 3. Lo
«stoicismo" nella prima metà del l secolo d. C. Seneca. La figura di
Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in
termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di
queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi
principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche
e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome
di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono real-
mente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vo-
gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette,
riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico
(sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della
tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella
figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali
schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del 1
secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute
meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro
(morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e
Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio
Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio,
Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario
costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati,
fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri
dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di
Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio;
Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola
Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene
e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca
importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se
da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3
a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da
Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio
Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di
Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove
soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo
Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la
carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del
fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui
Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis
fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per
figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non
poco per la cagionevole salute, minacciata anche 243 esistono le vecchie scuole,
dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine
- confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in
senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò
dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano
~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del
figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita
pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di
pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a
quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della
zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza.
Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola,
che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una
favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già
vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca
rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa
(Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di
amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola.
Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare
l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò
Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva
sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da
farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in
·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia.
Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni
durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di
Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a
Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di
consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente
matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di
Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto
dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio
legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a
quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono
imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro,
prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un
piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe-
ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il
55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di
Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di
piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto.
Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma,
tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58
Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava
di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate
erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c
sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari.
Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di
Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da
Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito,
che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze
all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll
sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a
vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in
campagna, dedito solo agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e
l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il
governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile
Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui
l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non
abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione
di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a
Scneca come 244 I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono
per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu
pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la dottrina
pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei
suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio
Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu condannato a
morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca.
Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono
pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis
fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una
rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo
'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De
officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula
honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti
(orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti
per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al
Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura
morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus;
probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata
persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu
terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel
Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De
copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita
Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di
Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico
da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le
Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide
le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi
Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a
carat- tere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione
manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti:
De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de
consolatione, D e uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De
brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de
consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio
apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano;
come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico
le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore
·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il
40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che,
accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa
libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di
pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due
figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due
maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta,
appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di
Metilio); De ira (com- posto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre
libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia
stato pubblicato subito dopo la morte di Cali- gola, verso il 41; è un'analisi
minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira);
Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre,
rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad
Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per
conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo
tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni
scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al
ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre
di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale
dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si 245 ma impopolare, scuola di
Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella.dei Sesti, che la
rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo,
è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur
minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha
preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a
tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri
(Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità
della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una
prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni
le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi");
De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato
scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe
stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte
si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un
sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza,
distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De
constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa
esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra
che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita
(sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non
conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle
accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi
si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del
saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e
dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla
vita politica attiva, qualora i casi lo.rendano necessario); De wanquillitate
animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina
dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita
contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo
periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore,
probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che
il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta
dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere
meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza,
tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla
tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De
bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo
della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI
e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so
l'esame di chi davvero sia bene- ficante e chi beneficiato, il rapporto
servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che
doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il
64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei
avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non
poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali);
Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri,
scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta
opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di
Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o
Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo infine
il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento
di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apo-
theosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira·
menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era
quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa). 246
delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira, l, 65). -
Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De
vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il
detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro
in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo discutere con
Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere l'umana natura
con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi
sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). - Non parlo
con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59,
1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli
quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di
Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse
rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la
delineazione di certe figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state
coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un
significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni
precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e
operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico.
Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla
"filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé,
ma come cultura, come riflessione cri- cica, formatrice, attraverso la stessa
attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come "filosofia
teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa
filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria.
"La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti: forma e plasma
l'anima, dispone la vita, regola le azio9i;... senza di lei nessuno pu~ vivere
intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur
concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non
posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili... La sapienza sta piu in alto,
non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il
pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ra- gionevole
(non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente
passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione
scolastica anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola
anzi che per la vita (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione
non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e
linguistiche, ma da una continua
riflessione su esperienze di vita: dalla presenza, nella vita, del dolore,
della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente,
in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vi- gliaccheria,
dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un
insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di
presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o
meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui -
ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo,
onde andrebbero lette cronologicamente - una specie di sentenziario morale,
unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca
in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei
teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi:
un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi.
Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici:
"Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può
rompere a qual- siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave
tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa
è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del
soc- corso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo
la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo
avvicinando alla mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è
piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data
quando non è ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22,
3). E che? Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue
prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il
diritto di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono
un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non
lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia
il migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei
vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale
e neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De
vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni
singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e
condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita
del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a quello
di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio cui, per
avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad Helviam,
del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di Claudio -
che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248 sica, consolandolo
per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43 o 44); alla
riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro Caligola, certo
dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira,
vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti
umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo
l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate
vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può
essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora
Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58 circa); al
tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita
politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento
di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento poli- tico che lo ha
costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De
otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvi- dentia, opere scritte
tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul divino
(Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un
continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione,
costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime,
educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da
capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre
aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di
Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam,
De provi- dentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De
tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio
retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e
di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65,
l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera
sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca
tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di
Nerone poi) estre- mamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno
secondo i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la
coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di
valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in
volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari com-
promessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le
"tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi"
ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato
che Lucio Anneo Seneca era 249
figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria,
Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo
Novato,(adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu
console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita
beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La
madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolar- mente interessata alla
filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma
dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia
materna, moglie di Vitrasio Pollione - prefetto per sedici anni dell'Egitto,
dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò
vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il
giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro
lato, spintovi soprat- tutto dal padre - che temeva per·la salute cagionevole
del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva
un'ec- cessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in
quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò
alla car- riera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32,
anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le
sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per
la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava
neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua
timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a
tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria,
l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2),
Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie.
"Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti
del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte
non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio,
detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur
avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la
quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr.
Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una
qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia
stata alla meschina e acri- moniosa testimonianza di quello storico. [La
principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla
di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo
delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La
narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre per
Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute
sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera
di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole,
Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile
credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di
Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche
Caligola, non può condan- nare a morte un senatore per un successo oratorio,
quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora parlare
molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di
restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò
inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del
piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv.,
10, 4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const.
sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi,
Seneca, Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta,
mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il
pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata
in quella certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di
convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che.senso si possa dire,
che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni
sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi
minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i
termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si
rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini,
sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo
uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto
di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a
Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un
certo gruppo di uomini in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo
ideale di uomo, nel ri- tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo,
liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad
esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui
nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte:
Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche
il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo
costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde
l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel
modo di intendere la funzione retorica dena filosofia, ché altra è venuta ad essere la situazione.politica,
l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro l'impegno. Sottilissimo studioso
delle passioni umane, Seneca che, su sua con- fessione, aveva sentito
profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di Fabiano Papirio,
di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e Claudio far lentamente naufragio
quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente realizzata da Augusto,
per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli altri come uomini:
uomini che po- tessero, in un reciproco rispetto costituire una verace
res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di qui i due
motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca: da un lato una
descri- zione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli altri,
e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se stesso;
- dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in quanto
conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una mi- sura
che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini,
ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che
si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale
razionalità del tutto. Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di
Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al
fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A
ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono il loro
corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito...
Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della
morte. I destini compiono la loro opera"; e nel De ira (III, 43, l, 5):
"Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla
per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in
sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle
passioni, è in realtà non uonto]...Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra
gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento
senechiano. Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente
scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà
sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di cia-
scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibi- lità
da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è
fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo
disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono es- sere,
nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se
già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio- 252 nevole,
da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, rea- lizzarsi
secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la
società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano
questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento
dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del presunto ordine
sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo
assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa
ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico resta avulso da
ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni
possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto
morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non
in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva,
ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale,
nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le
pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya
"nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è
filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le
spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la razionalità
della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una
"invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e
dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la
composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità
della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di
cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora
vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio,
- entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata
tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti
di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale
conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della morale senechiana. Non
solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscilla- zioni di Seneca,
sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente
all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a
giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo
di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare
non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico, in questa o quella
situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e ira, i l D e vita
beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia sapientis, il De otio, il
De tranquillitate animi; a Paolino, cui
è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De
beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le
Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro
e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia,
l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri.
Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone:
"Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la
condi- zione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a
ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata
la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia
volontà, se non per mio favore... Caduta e nascita delle città si decidono nel
mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, co- noscendo la psicologia
di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società
entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica
dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche
approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale
"saggio" stoico, il trasfor- marsi del rigidismo della morale stoica,
posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla
stessa capacità (propria del- l'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per
cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza
dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura,
volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro
possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito:
"Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la
voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario
o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie
o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere
malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le
necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché
le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino
che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che da- ranno solo
ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato?
Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa
tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come
viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco
specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò
piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono
un.saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i
migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni
giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però,"
254 tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi."
Questo rimprovero, o mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a
Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi
stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me,
e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come
dovrei. Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che
bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure
arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche
un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del
"saggio" stoico di ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato
l'esigenza, anche a costo di venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu
stoica, di operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio,
anche il compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua
comprensione che tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi
è nulla da fare, il "saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non
piu uomo tra uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti,
nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è
folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio"
tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui
Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è
ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento
che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni,
in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come
deve essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e,
perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso,
siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una
per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas-
~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente
generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci;:erto, su
di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che
quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo
amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né
mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e
il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non
solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a
vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare
l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè
secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento
della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo
una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo
per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per
Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una
certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che
l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un
ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa
riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta
in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre condizioni,
per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di realizza- zione,
per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso. Di qui l'esigenza
senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è possibile, è utile, non
controproducente, in una certa situazione umana, scegliendo di volta in volta i
propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli altri, ciascuno per ciò che gli
compete, a quell'armonia sociale, specchio della ragion d'essere del tutto,
entro cui, una volta rovesciati i terriùni, ognuno non perde se stesso, in un
ideale reciproco rispetto, in cui consiste la virtU, cioè l'eccellente
realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la piu genuina
tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a se stessa (recte
facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De clementia, I, 1).
L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle sin- gole
passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica
l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vi- vere la vita
degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una
volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di
un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un
ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto:
significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il
destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili
agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza di cui, in realtà,·
non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta.
Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di
realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo,
pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto
uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni);
significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la
parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad
uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione
può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita
politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di
un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama
Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita
politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro
che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre
insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non
ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di
farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa
intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose?
Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep.
a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se
tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno
allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio
felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non
vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non
vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando
Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De
tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la
fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le
spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un
luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari
con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere
utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve
vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai
cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in
casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele
amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino:
adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci
siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto
dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla
virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti
si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi
spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la
porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti
con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani
tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu
fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni
della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn la tua voce, e se
qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai
inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo,
con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve...
Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La
cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta
la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle condizioni
della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia
spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene
quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo, c'era
Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che disperavano
della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano
castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande esempio a· quanti
lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene
stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la
libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo
perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha
occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la
crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione
politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci
raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo,
paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo
minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non
lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è
salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva
essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei
vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica
meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli
studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un
porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spon-
taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui
stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li
svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi
sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De tran-
quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando davvero
fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad
Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in
atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6) che piu che la
dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di
amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in
una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5,
4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle
258 opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De
oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca
ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione che i
loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo
e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare.:ontro i vizi, contro gli errori,
contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e
stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si
proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a
dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la po-
vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un
peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando
cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza.della
mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri,
veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In
me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse- gnamenti ero
andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco
rimase di tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti con quanto
maggiore entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia che non lo
continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia
ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle
carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale
astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro
degni di ammira- zione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo
abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle
bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di
crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le
cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo
lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine
con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le
a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte
altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o
selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un
uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di
un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per
determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e
che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini
grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema.
Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente,
se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò
tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi,
incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo
difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente
piu svelta, seb- 259 bene
oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi
quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando
i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di
alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle
superstizioni (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di Fabiano Papirio, oratore e
giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo
che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave
stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a
Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu
alta di ogni erudizione (De brevi- tale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione
dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna
sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in
insegnamento di tipo profes- sorale, ma determinarsi in una persuasione
psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l)
"f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la
figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio,
di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati
pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine stoico sta ad indicare piu un
atteggiamento di vita che non una dot- trina; atteggiamento di vita che si
fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a
raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate
posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un
principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce
l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni
aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario
Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe
pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non
solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici,
o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine
stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un tipo di vita da
contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale
atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti
l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu
detto • Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato
stoico, per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le
cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta
sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può
ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su
di lui, 260 cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11;
Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto
(Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel
senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio,
"cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini,
Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto
dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto
discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori
di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che
scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera
dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma.solo su di un piano indicativo,
postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine
supremo é provvidenziale, presen- tando se stesso, di volta in volta, come
esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di
quella ch'era la quo- tidiana vita della Roma._di Caligola, di Claudio e di
Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimo-
strare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere
educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo
nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'elo- quenza adeguata
ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione,
ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue
l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile
costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero:
il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni
in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli,
certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di;c.."ui
non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato,
affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti?
Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe
ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,'
le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza,
grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono
avere..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle
far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio
ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché
vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo
cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse,
"non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta
dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli
uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi
porporati, converso pieno di ammirazione per quel seminudo. E come non
ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto;
invece ad avere tutto nessuno ci riesce.
261 La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di
disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni
cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a
caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si
proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato,
assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto
Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita.
L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che
ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica
repubblica; essi vogliono la libertà per sovver- tire gli ordinamenti
dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere
crescere in potenza gli emuli dei Bruti... Egli non ha mai fatto sacrifici
propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni
non ha piu posto piede nella Curia... Egli non attende ormai che agli affari
dei suoi clienti... Un tale atteg- giamento è già un'opposizione nel nome di un
partito: secessio iam id et pars est (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito,
narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi
dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a
lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compro-
mettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò
fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e
"libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e
fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro,
nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi
di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte
gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio... (Annali, XVI, 34-35).
Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del
significato assunto dal termine "stoicismo": esempio di vita ordinata
e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato
ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, oppo- sizione politica,
esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di
quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli,
appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro
verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la
vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello
stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per
quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché
gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e,
soprattutto, ripetiamo, su Nerone. 262 Formatosi entro i termini
di un generico "stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale
concezione per formulare quello che avrebbe do- vuto essere l'"uomo
ideale" e, per altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente
dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla
posizione stoica. Se altra fosse stata la prima edu- cazione di Seneca, egli
avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale,
anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella
che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in
questo a Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia
divenuta una questione logico- grammaticale, e come proprio le analisi logiche,
in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a
dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora,
puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica,
Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce
a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni: cfr. N aturales
quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno
contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una
logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita
etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto
risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si pre- cludeva ad ogni
significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di
Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo
logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su
di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui
fondamenti primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire
alla formazione di una vita misu- rata. e razionale, a determinare certi modi
di vivere (praecepta). Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse
che Seneca, con linguag- gio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui
legalmente si costi- tuisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere,
i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad
esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione,
sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e
su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere
il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in
Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca,
rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste
sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e
solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e, come si suole dire, li
ristora, cosf noi dobbiamo di quando in
263 quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove.
forze con 't!ualche.divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio:
anch'essi, se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa
meno con- tribuisce alla trasformazione dei costumi,.::be i problemi avanti
trattati? Come mi possono rendere migliore le idee platoniche?.Che posso cavare
da esse, per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Pla-
tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma
e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche
tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù...
Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora,
nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause,
esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella
natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la
materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare,
immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla
materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che
vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è
la. causà, quello la materia;... le cose tutte sono il risultato
dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è
la. forza agente" (Ep... U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele dichiara
che quattro sono le cause per Aristo- tele: la materiale, l'efficiente, la
formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone, poi, dtce che: • aDe quattro
cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il modello che
l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato
di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia avuto sotto gli
occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e tenuto cos{
presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio li ha in se.stesso, e di
tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno di
tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili,
instan- cabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di
che, quella da che, quella in che, quella su che, queU::"pr.r· che;
fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). Seneca,
dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad
t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante,
Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma
dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi,
alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in
simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove indagini.
Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli problemi,
che no~ 264 ti liberano da nessuna passione, che non scacciano dal
tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la preferenza a quei problemi
che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e soltanto dopo mi
occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi, il mio tempo;
poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate, se non si
disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano l'animo... E la
filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione della natura, innalzandola
dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione non poco contribuisce a
liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della materia e di Dio, il
quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e come guida.•. Quel
posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima... Siamo perciò forti
contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un paS- saggio. Di non
esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver comin- ciato ad
esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò stare cos(a
disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono tarde, di quando
già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e sempre pi6
profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd secolo,• ma,
certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del tutto, l'ipotesi
che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel suo realizzarsi
in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione stoica del Timeo di
Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto
ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef.,
13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'es- sere di tutte,
tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e molteplicità ad un
tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può parlare, accanto a
uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora
nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi
resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere
da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché su tale piano, in
realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a
SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci lasciarono opinioni,
non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere... Certo perdettero molto
tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi
dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo parole a doppio significato
per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo
morire? Bisogna attendere con tutte le forze della nostra mente a guardarci
dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi vai facendo distinzione
tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno soltanto in una disputa? Il
nostro errore è intorno alle cose e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45,
5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di
parole, 265 capziose
dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non mi ci diverto
piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda solo a se stesso,
se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino,
se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di
loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il genere umano, se è
osservato con diligenza scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella
piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che
sente di avere molte cose in comune con un altro, solo perché questi è un uomo,
avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero
insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali
verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di
amico e quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il
senso delle parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò
costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna
scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire
da. quello.che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a
scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode
il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca
a scio- gliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza?
Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola
o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia
piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba
non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a
Luc., 48, 2~. Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato
detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche
vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei
suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi
morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di
seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al
limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema
arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di
una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza
si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle
origini, ai principt, e la ricerca di altre dire- zioni, si impongono... Il
rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al mondo
dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni teologiche -
di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore
come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale
ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo X
V, "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, p. 65). Tale,
mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra
via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni,
che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal
tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici,
pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca.
<:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che
sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da questo o da quel
fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle infinite immagini
che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel terrore d'essere
sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore, disperato,
determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei propr~
fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo, per chi
appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto ("chiunque
esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incor- porea, artefice di tante
meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per tutte le cose, le
piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile concatenazione di
cause tra loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII, 3), l'uomo desta
un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli uomini,
molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate sono le
umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui,
attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è
sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la
passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il
posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De
constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini,
costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'or- dine razionale
del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è
se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è
proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto
dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa
sacra è l'uomo all'uomo. Come comportarci con gli uomini? Quali precetti
daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi
dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto,
dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato...,
eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il
divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La
natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci
ingenerò un mutuo amore e ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo,
nulla di umano ritengo estraneo a me"
26i (Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore
e sul labbro. Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale
quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda
e cosf si sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso,
sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una
molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà,
dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante
se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una
misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé.
Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra
tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui
nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso
(De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai
quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De
prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi
perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che
nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo
verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di
senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la
norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà,
l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della
legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non
ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io
condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato
si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa
esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma
dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di
consolare, attraverso la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle
sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e
di avviare sé e gli altri, pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a
tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si
realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso
~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione
di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico
Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza
è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze
di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità,
convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC- 268
gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili,
ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a
L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo
qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dal-
l'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da
questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di
volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo
consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca
l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale,
che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto,
per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita
qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo
scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di proposito,
disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il
"saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole
assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu.rtoiden à
Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé,"
Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi
del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra
riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la
via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che
la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che
si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna...
Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di
ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori,
per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la
lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo,
che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che
si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma
secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto
delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti,
grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle
adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte
le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua
compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che
non si piega per vio- lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per
vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo
volto, se si presen- tasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si
mostrasse. Del 269 resto
essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita
e le diverse attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è
concesso andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli
atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito,
che questo nostro sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo
una gloria vana per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale
di un essere inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo
produrremo, di rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del
resto io mi domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il
nostro modello... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due
uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso,
si costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta
chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini
quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva
dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il
saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un
saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae:
l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella
quale non siamo con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il
sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha
iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di
Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo
determinati uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati,
il grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il
grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e
forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie;
se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di
terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la
divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da
cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti
di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o
muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il
mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un
certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla
divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire
che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati
per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza
l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio
universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di
Cicerone, di coptro alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla
paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto
naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti
dell 'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo,
per cui l'essere imperatore è un dovere. Ma di qui anche il delinearsi del
motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio
politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense,
e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la
proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del
De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De
constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno,
che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto
da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano
del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua
diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio
non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione
particolare." Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non
interverrà qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli
stoici... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro opinione:
seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del Senato
[nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata
abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone,
se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla
posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo
corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il
sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter
servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà,
se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in
avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un cammino
che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di esperienza e
non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e darsi subito
allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se
è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a se stesso.
Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse comune: come
chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro che avrebbe
potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se stesso giova
per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere che potrà
riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un testo
piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui Seneca
assume certe posizioni stoiche, il
significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie
esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro-
spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto
con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a
seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il
ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché
in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come
conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la
coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta
il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la
problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre,
viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica
diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato, Seneca
fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo di
cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua libera
orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di Caligola,
Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu tardi nel
De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i potenti,
sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà il non
tollerare nulla: questo anzi è un errore": XIX, 3), se riusc{ a mantenere
un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente legato di
amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola.
Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio.alla
madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua
amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice
Messa- lina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di
Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a
fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco
dopo, da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca
montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è.-:he
Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in
Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di
primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco
per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule":
Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio
alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la
Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di
farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia
di Germanico, che da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio,
Domizio. Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi
sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece
revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore
del figlio Domizio.:t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far
spo- sare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e,
quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con-
trapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio
legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a
far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora
compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca
dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pub- blico che riteneva
ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché
sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e
perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di
Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la
proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di
Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali
intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi <?-i
sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con preferenza alle
fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che Agrippina revocò dall'esilio
per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche e maestro di Nerone, restò
maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in tutto degno di lei,
il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il contegno di Seneca
non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e proclamato Nerone
imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta dell'Impero, dovette
su- bito accorgersi che il suo ambizioso edificio era crollato: chi l'aveva
abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non pare si possa essere
cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono quelli, gli anni in cui
Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del giovanis- simo Nerone
(d'altra parte invidioso dello strapotere della madre), avendo cosf, insieme ad
Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misu- rato ed essenzialmente onesto,
in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo Stato, si adoperò a
migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere principe nel senso
stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res puhlica hominum. Sotto
questo aspetto assumono un loro preciso significato le pagine violentissime di
Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già chiaramente discusso
nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe inetto, burattino,
strumento di macchinazioni (Claudio, ap- punto, cosf sarcasticamente e
comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato
Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio, cioè la consacrazione della Zucca:
alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca
rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se le
pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto contro
lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un imperatore non
deve essere, il De cle- mentia, scritto per Nerone, l'anno dopo la sua
assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro, rappresenta
da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve essere,
dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il programma
postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di precise situazioni,
di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui "si fanno cose che
ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia, l, 4}, in
cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto, sapendo che
persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola" (De clem., l,
36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre in funzione
di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico, ove vada salvo
il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica hominum,
mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone
("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che
vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo
che fa parte agli altri di beni comuni a tutti": De clementia, II, 4, 2).
Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto
formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo
autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene,
per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di
principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera
secondo il principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza, che
Seneca chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia
(perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener
presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni
appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di
Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo
clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di
Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del
suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei
confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica estremamente
abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con la
pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi cinque
anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi, accortissimo
in politica finanziaria, 274 nel tentativo di sollevare le classi
meno ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta
dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal
Senato: una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per
timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si
dimostrò rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle procedure
giudiziarie, mentre cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il problema
della schiavitu. "Intorno a quel tempo (56), si discusse in Senato"-
scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere
che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si
erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo
provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del
principe, al quale, tut- tavia, notificarono il consensodel Senato a tale
disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta,
poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano
perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto
che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da
pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i
liberti la libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse
esser di rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti
di tutti, poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima.
Da essa in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle
magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa
origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si
fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini
liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali,
avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero
tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai
processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun
provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll).
Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci,
sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il
consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune
espressioni riferite da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che
leggiamo sia nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto
piacere a sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi
molto familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione.
Sono schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili
amici. Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale
potere su di essi e su di noi... Quanti di questi 275 schiavi non hanno alla loro
mercé il padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna,
quando.tu stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo
disprezzi! Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a
ragionare intorno ~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci
mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico:
"Comportati verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi
verso di te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni
perché sono a piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel
bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi
ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di
servile può aver loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto
con la compagnia di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo
solo nel foro o nel senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera
l'anima sua._ Mostrami chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro
dell'avarizia, l'altro dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6
è piu spregevole di quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà
ora che eccito gli schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei
padroni per aver detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a
Luc., 47). In queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo
della seduta del 56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e
l'approfondimento della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto
nel 56 circa, l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i
liberti di contro agli interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che
lo schiavo essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il
padrone né alcun titolo di benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo
non può in nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il
diritto umano. Ciò che importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di
colui che dà. A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti
ammette, tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha
preferenze né per case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità...
t un errore credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore
ne è intatta. L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone
solo il corpo (De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa
~rigine. Nessuno è piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e
piu adatto alle buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini
degli antenati e gli alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per
gradini, o splendidi o oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi
oserà chiamare schiavo qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o
della gola, anzi servo comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis,
III, 28). [E nella lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso
è possibile tanto ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno
schiavo." "Ma che signi- 276 fica cavaliere, liberto,
schiavo? Sono parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo
della terra è possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca
al sovrano, finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i
termini di un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si
mossero nel tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale
alle leggi. stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in
cui sia capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di
comunione umana che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin,
Giustizia, in "Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp.
282-283). A parte le reali intenzioni di Nerone.e i compromessi, cui, volta a
volta, possa essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di
Seneca è stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri
razionali, ove per "ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità
comune a tutti, che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze
umane, attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu
passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto
razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno
per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e
perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra
chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU
consiste nel vivere secondo ragione" e coerentemente, altrettanto chiara
appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva
socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per
altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi
e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia
pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile
vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi,
sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro
lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno
umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale.
Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una
servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pensare
alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a
morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di
fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta
(Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del
tuo corpo (De ira, V, 15). 277
Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la
spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla
vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune...,
l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e
di fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita,
gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi
siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita
per amore degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore
degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... Chi non tenga conto della
moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc.,
104, 3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca,
ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci-
pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone,
culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59).
Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e
dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con
l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna
voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue
dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si
confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV,
53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu
saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per
cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua
inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad
attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le
sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e
dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini,
osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose
buone dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52).
"Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in
città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o
perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono
questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia,
del De beneficiis, delle Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad
Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se.stesso come
esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur:
Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per
altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è
oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione
politica, nel modo che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci
raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo,
paralizzati dal timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si
esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a
pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare
interesse assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato
d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada ripercorrendo
i vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben
ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che la ricerca di
lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel
riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di
unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che
l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui
propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di
costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle
passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e
coerenza sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce
l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume
sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i
propd limiti (mora- lità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo,
a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente
scien- tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione
dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se
non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano
servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi,
l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola -
tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio
attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa
assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere
universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come
scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi)
dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone
piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi
stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso
si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio
e di Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi
stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla
riflessione su se stessi, la 279
riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui
l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa
quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto,
quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo,
su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa
riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione
scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E
se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante
cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro
lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione
estremamente infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque,
non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza.
Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto
è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della
vita morale, la possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di
correggersi; si come sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza
umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una
qualsivoglia con- dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche
relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai,
sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di
una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di
fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi
nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che
circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è
un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di
costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva
scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5):
'"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende
l'umano dolore. Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di
nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è
qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci
rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo
scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché
uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia
questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa
delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua
natura e ritor- nerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro
lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e
la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo
l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e
credevo volentieri 280 alla opinione dei grandi uomini che di una
cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi
abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102,
1-2). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca
un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè
scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura;
mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ
rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto
preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione
della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo,
avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da
un'infinita ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi
persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata,
pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la
visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non
solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro
sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto
dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo
flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei
durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi-
rargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contem-
plare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo
nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investi-
gazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può
passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del
mondo... (De otio, V, 4-5). E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una
speranza in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da
realizzare; una esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della
propria razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto
lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore
super umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto,
del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro
lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere
della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi
del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di
Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dal- l'altro lato l'appello epicureo ad
un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale
concezione di Dio, immanente e trascendente a un 281 tempo, Seneca chiaramente
giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio
poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio),
principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime
opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali,
sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la
stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde
le Quae-.rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni)
che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e
provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra
due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente
dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e custode
dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome conviene
(cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed entro cui si
svolgono in pro- cesso circolare tutte le vicende delle cose, il nascere e il
perire, neces- sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e speranza, posto
oltre la natura. Certo è che la meditazione su Dio di Seneca non è una
teologia, né una rivelazione da.parte di Dio come lo sarà nel çristia- nesimo.
Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto un'enorme influenza sui
pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno dire, Seneca.raepe no.rter;
mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il v secolo, una serie di
lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e San Paolo. "Tra la
filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo," ha scritto il Marchesi,
"è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso con l'opera della
ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio nell'abbandono della fede; nel
Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dot- trina di Seneca
l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è la.rapientia che distrugge
ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti- zione, con lo spietato·
esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto vicino al Cristianesimo
coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza positivamente religiosa,
giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di moralità e di umanità...
[Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se accanto al seggio di suo
fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare Paolo] avesse sentito
annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e risuscitato per affrancare
gli uomini dalla legge del peccato e della morte" (Marchesi, cit., p.
420). In realtà la problematica senechiana sul divino è un altro aspetto della
meditazione di Seneca sull'esperienza morale dell'uomo. Su questa linea
sembrano particolarmente interessanti e indicativi due testi di Seneca: l'uno
relativo all'indagine scientifica, in cui chia- ramente appare come Seneca,
nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica dal tipo della: ricerca
filosofica (il tipo della ricerca scientifica.si fonda sull'ipotesi e sulla
descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità di altre ipotesi, di
altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece, si fonda sulla
meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se stessi, attraverso la
meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è né la fisica né la
logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e dall'altro lato
consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè retorica e politica);
l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace di liberare
l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del divino come
esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa
consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della constantia.
Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu- tendo sulla
natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di
Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco
trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo
contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la
luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete
son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio
di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico
tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di
leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché
esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose
ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso
di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a
noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel
secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati
alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare
degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora
lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo
ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide,
IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse
e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi
navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se
avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che l'anima
solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi guardano il
mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un prodotto
fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini, alle
nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e dell'atmosfera:
e non è solo pazzia 283 dd
volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la sapienza. Alcuni, pure
ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e moderatrice, credono che
questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte, è privo di intdligenza ed
è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che fa [ove è evidente i l
rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo]... Osservare queste cose [se vi
sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia soltanto adoperata, se
l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa tutto ciò che vuole,
oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere difettose non per
difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{ via], osservare.
queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i limiti della
mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro frutto rica·
veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è angusto allor-
ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E cos{ Seneca
esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno d'innalzare le mani
al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare alle orecchie
del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con te, dentro di
te... Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e custode della nostra
malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli che un uomo vada verso
gli dèi?.Dio va verso gli uomini, anzi, pi6 propriamente, viene negli uomini:
nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi divini sono diffusi negli umani corpi
(Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit, immo quod est propius, in
homines ve- nit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis
divina dispersa sunt...). Dopo la morte di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento
di Seneca, sempre piu scellerato e terribile divenne il governo di Nerone. Le
ucci- sioni e i delitti si susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf
allora una congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a
gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro
Nerone, quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La
delazione di un liberto e la debolezza di due congiurati che non seppero
resistere allo spavento delle torture - mentre la liberta Epicari, torturata,
eroicamente si uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu
chi rivelò che capo della congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse
andata, di proclamare Pisone impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di
Seneca, "forse per procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che
cercava ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque,
che una parte dei congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a
Pisone come possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di
Seneca. Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu
condannato a morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio
Laterano. Era l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine
di morire... Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del
testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando
che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a
loro la sola cosa che possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se
avessero di questa con- servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della
virtU come compenso di amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei
presenti ora col sem- plice ragionamento, ora parlando con maggior energia e,
richiaD'laJI.dO gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero
i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva
dettato per tanti anni contro la fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era
stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere
ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e
maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello stesso tenore,
abbracciò la moglie e, un po' commosso dinanzi alla sorte che in quel momento
si com- piva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non
lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua
vita vir- tuosa dignitoso aiuto a sopportare l'accorato rimpianto del marito
perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche a lei era stata destinata la
morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse
opporsi alla gloria della moglie, sia che,fosse mosso dal timore di lasciare
esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore:
"Io ti avevo mostrato," disse, "come alleviare il dolore della
tua vita, tu, invece, hai preferito l'onore della morte: non sarò io a
distoglierti dall'offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida
sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua
morte." Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del
braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva
una lenta uscita del sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle
ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio
della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai
tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza. Anche negli estremi
momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò
molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre
parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale contro Paolina,
moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché non si accre-
scesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati, i servi e i
liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non sappiamo se di
tutto ciò avesse o no la sensibilità... Visse ancora pochi anni,
conservando sacra memoria del marito,
nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della
vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo
Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel
veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli
Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché
il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione
del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi
piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove
liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato
senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo
testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato
disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64). E non
molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia,
quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per
la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita
ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi
scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua
riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova,
vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei anni, cosf veglio su
me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con
gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte
affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno
in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere
se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia
la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa
è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano
gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute
filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano
la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~.
Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa
condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7). Per chi non si affidi a semplicistiche e
nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione della cultura
nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m
secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une
dalle altre, chiara- mente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare
di "neopitago- rismo, " di platonismo medio, di stoicismo
cinicheggiante, di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di blocchi avulsi
da un comune terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandi- scono
nel tempo e non rispondono a comuni esigenze, è falsare il signi- ficato di una
viva cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali,
invece, appaiono a noi nella noia di una tradizione scola- sticizzatasi. Non
solo, ma altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi- nazioni indicative:
platonismo, stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non indicano nulla: se
mai possono evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o
pitagorismo determina- tisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi
sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono
stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1
come molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi
diversi con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele,
di Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli
aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di
concezioni che con Platone e Aristotele, considerati sto- ricamente, non
avevano piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele
abbiano potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di
Platone o di Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a
loro volta sono venute trasfigurando le
originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia
profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da
Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del
tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere
pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere
stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio
tardi, si è potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure
geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per
altro.verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in
numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso
stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si
cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica
acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano,
portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa -
condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla
realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la
tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del
tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da
Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo
aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da
Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi
scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità
umane, si vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con
l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole,
dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici,
pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica
scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in
termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie
e piu capaci di dare una forma e un senso alla vita (da Antioèo di Ascalona ad
Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici e platonici).
Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno stoicismo di sfondo,
che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben fisse e
precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e cos1 via,
che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo Aristotele ç>
certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si ricordi lo pseudo
aristotelico De mundo, composto appunto nel I secolo d.C.), si poteva sostenere
che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché l'umana ragione
resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che scende all'uomo,
che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro verso, ancora a
Seneca). Oppure, ancora - certo in ambienti piu popolari, meno intellettual-
mente scaltriti - abbiamo il recupero di Pitagora mago e taumaturgo, di quello
che il Dodds ha detto il Pitagora sciamano, egli stesso consi- derato piu che
anima in senso greco (forza vitale e unifiéatrice), anima divina, personale,
trascendente, che si incarna di volta in volta in uo- mini che, esprimendo
perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi novelli Pitagora, si presentano come
salvatori, facitori di miracoli, profeti. D'altra parte va sottolineato che
entro questi termini, entro questa esigenza comune, non è neppure un solo
aspetto dell'interpretazione di Platone né un solo aspetto dell'interpretazione
del pitagorismo né di Aristotele che vengono assunti. A seconda delle
difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e il suo significato in
funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a seconda degli stessi
ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare, delle tradizioni, delle
polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a uno o altro aspetto
delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di Aristotele. O ci si rifà
all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide, Sofista, Filebo), puntando
su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che si costituisce in una
molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente posto una relazione con
l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O ci si appella al
pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere conto in ter- mini
numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione plato- nico-stoica
di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi do- vuto all'atto proprio
di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio che tale si costituisce e
si riconosce nello stesso costituirsi della realtà tutta; oppure ci si rifà a
un pitagorismo interpretabile come spiegazione della stessa
"platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi- cazione
delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un conflitto
fra.i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se, ele.tti dal
dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita ("vita
pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi misteri
orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci (dionisismo e
orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali operativi
dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi-
tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di
essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di
qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo
matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico
e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche
degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr),
che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da
esercizio e introduzione, da avviamento alla visione 289 platonico-stoica, insieme
agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di
oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le
correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une
chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso
della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa,
in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità
costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto
mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la
coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C.,
che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non
solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone
l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal-
lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine
egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in-
segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel
diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle
molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il
caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da
Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I
a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato
di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma
(I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico
Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico-
simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro),
da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.).
Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di
come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il
I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi
(Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo
stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi
ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in
un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo
dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro
autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi
limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso
molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi,
confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi
relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos(possiamo
anche dire pitagori••anli e 290 platonizzanti quelle posizioni
che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto,
sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono
il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una
simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non
ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale
avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso
Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe
posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a
parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il
nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et
sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4
W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in
Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a
Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di
Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che
vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti
Cicerone, Rep., l, 15 e la sin- tesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene
come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo,"
"stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata
e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata
(razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la
ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico
l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da
cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante
cui operare su quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri,
interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e
il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade)
della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione,
non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo
uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna
realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le
cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del
principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in
lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del
mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può
operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che
sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse
giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del
mondo che ha una realtà 291
temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e
pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità,
pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi
dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di
cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al
limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse
con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il
significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro
lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli
dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio,
terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe
tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte,
nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle
incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo
secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo
d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà
direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già
risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di
Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna
di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie
miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu
Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a
caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati
un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ,
Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi,
sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi
dei Detti aurei (Xpua« ~).: Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e
rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri,
agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per
quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore
di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati
a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira...
Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente.
Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec.
d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs
(cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr.
in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte
attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virtute, attribuito a
Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De
felicitate (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a
Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo.
292 morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle•••
Non si deve tra- scurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel
bere, nel man- giare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~.
Abituati a una vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita
ordi- nata e misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per
colui che alla nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura...
Cono- scerai che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri
d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali
ch'essi stessi si procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono
e non li odono. e pochi sanno come liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu
potresti libe- rare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro
Dèmone [la pro- pria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la
stirpe degli uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni
cosa. E se tu in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti
prescrivo, e guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi
di cui -ti parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo
con giwti- zia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida.
Che se, lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e
incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto
ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è
purificazione e perfe- zione della vita umana; purificazione dalle affezioni
della bruta ma- teria e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce
all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla
divinità (7tpbç ~v.k(«V 6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante
ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione
educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita
platonica" e CII stoica" - interpretata in senso
purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, di- remmo,
culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la
cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2. Tra platonismo e
pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello. Moderato di Gades e
NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I
secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in
una inter- pretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una
comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il
fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno -
si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel 293 I secolo a. C., che compose
un'opera sui Simboli pitagorici é una Suc- cessione dei filosofi (sfruttata da
Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou
1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo
d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati
conosciuti da Platone attra- verso Acchita (è dimostrato che le lettere che
Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia
dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione proprio
tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto
accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello
pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello
pseudo-Aristotele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere
in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità
in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi stoici,
aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del
Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in
atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità.
Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo
platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di
loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a
prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si
opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e
al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile,
cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto
Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra
azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza
dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi
Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio-
gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver
trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose
è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia
alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri;
dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure
piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat-
tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da
questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro
la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti
uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è
l'estate, quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando
l'umido l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294
parti piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è
immobile e mal- sana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è
in eterno moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò
divino. n sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale
il caldo che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che
l'uomo partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra
provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di
anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i
segni di malat- tia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e
a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici
apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la
sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è
costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La
purità si consegue con i riti della purificazione (Diogene Laerzio, VIII,
24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il
tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno
all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto
è perciò calcolabile e riducibile a leggi che co- stituiscono la stessa
espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e
passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine
paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici: A me sembra che il
tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato... Chiamo complesso (6Àov)
ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv). l'ordine nella sua totalicl (-rò
x6cr(J.OV). Esso è l'insieme compiuto e perfetto della na- tura e di tutte le
essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con
lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come
produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno
afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun
accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non perfetta
in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori di loro,
come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel tutto o
nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della generazione...
[Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si risolvono
neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni- verso e la loro
opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato attiva
e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un lato
governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universoJl'uomo, in ciò
che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto con la
struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di una
città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire meno, se
vuole adeguarsi alla società, alla politica
295 e alla divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla
politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU intesa come rapporto
sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed. Harder). Entro questi
termini assumono un particolare inteiesse le pagine di Sesto Empirico (Adv.
math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo, Sesto si riferisce
alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a interpretare in
termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e la ragion
d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra quelli
che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi
(traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi
nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé
il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso matematico
della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno tutto che è
il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere all'ugua- glianza
divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra, attraverso i frammenti
che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici (ITu&otyopLxotl axoÀot(), in
undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae, 48-51; in Simplicio, In Phys;
Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione
di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di
Giunio Moderato Columella, il celebre autore del De rustica. Molto finemente
Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo
(spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici
(forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la ma- teria
(certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come
spazio,.cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia pensabile
ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la qualificazione, la
misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come per Moderato sia
possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene
simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il numerabile, esso
di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è potenzialmente tutto. Tale,
anche secondo Moderato di Gades che raccolse in undici libri i plaeita dei
Pitagorici, il significato della dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico,
nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo d.C., Moderato, parente di Giunio
Modetato Columella, autore del De re rustica, visse a Roma. Scrisse in greco
un'opera in undici libri, intitolata Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl
axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.},
Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.). 296 il discorso, è
impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad
essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere
piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geo- metria
e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro
possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi
dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi,
ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo stesso
fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le forme
incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che
questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo triangolo
qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura,
concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il
concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata
di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici
in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole le forme
incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i
numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza,
causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione
dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo, secondo ·una stessa
legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto
unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della causa prima (Porfirio,
Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza
(simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla
(ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la
differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna
cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo,
invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua- glianza,
divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della
dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che
è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e
nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un ter- mine
medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di
Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei
due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto,
non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé
(diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la
contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme
intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi
sono in quanto presenti all'anima, terza
297 unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda
monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità
(intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta
da un lato verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dal- l'altro
lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme,
cioè in quanto si volge alla molteplicità che, co- stituendo il discorso delle
forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe,
l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto
nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della
materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra
ora di notevole inte- resse la testimonianza di Simplicio sul motivo
dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di Gades. Moderato,
seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra
dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo
uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è
definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl
VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli
sostiene consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa
dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai
sensibili non parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire
cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli
intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui
si trova ancora pi6 in basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott,
Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not;
oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche
Porfirio, nel secondo libro de La materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha
scritto che "volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come
dice Platone, costituire da se stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la
quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di
se stessa, privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato
ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere
forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia
dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e
'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a
stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice
Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione
monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è,esempio
della materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e Platone
chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità
intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come priva- zione, dispersione,
estensione e cos(via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto
fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In
realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro
i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si
possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due),
unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita
quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia
possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici,
costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che
possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano
sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due
motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza
nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel-
ligibili, dall'altro.Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon-
damento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto
tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle
esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini,
riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri
di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide
di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista,
Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una
massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in
quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel-
l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel
senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della
esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide -
Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade,
sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos
spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino
uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile
(mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee
qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno,
nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente
l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di
dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione
dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità.
Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato
di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di
Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di
Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele
(Metafisica, l, 988a, 10-11) discutendo delle cause di Platone. Dice
Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie
è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç,
't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., ed.
Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia
cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds,
concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine
dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the.
origin of the Neoplatonic ((One, in "Class. Quart.). Bisogna qui
aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in
sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione
della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso:
anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé
informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva
considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della realizzabilità
delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra riflessa dell'idea materia. Che
tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee di Pla- tone fosse
interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter- pretazioni che
circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da Filone l'Ebreo, da
Seneca, che, proprio perché la riferisce con un. semplice accenno, accanto ad
altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota. Dice Seneca:
il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice davanti a sé
nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha importanza poi se
egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di sé, oppure
concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi esemplari di
tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve fare
abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da
Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a
Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile in-
terpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà
dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo,
d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in
Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di
volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce
la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades,
assume una sua prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra chiaro in che
senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non
partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è
ombra ri- flessa della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro
cor- 300 regga la frase
aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della
materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di
materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le
cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come
soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl),
o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7,
1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene
Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui
si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi
il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile
(non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non
essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di
estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è
tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto-
Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà
per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria
introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i
risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica,
•ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a
cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita
Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro
nel De artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat.,
vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo,
tradusse in latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di
Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su
di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri
(non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due
libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu-?:ione alfarte
dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di
qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni
raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce
tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di
numero ("numero è molteplicità rac- BDiNicomaco,v~nellas econda metà del1secolo,
nato a Gerasa, sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono
rimasti due libri; intero è perve- nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue
altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio
111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti
di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti
egisitmi. 301 chiusa entro
term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di
unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr.
an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della
molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di
combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per
giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico
tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi
termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono,
appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri.
L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella
sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del
sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle sco- perte matematiche da
Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici,
per essi intendendosi, in fondo, i matematici;- dall'altro lato nel non
indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di
logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare -
indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non
corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva
in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in
un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dal-
l'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi
il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero
nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni figura, ogni
sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le
rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo
seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando
rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi
rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i fenomeni;
chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la fortuna...").
Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della predicazione qualora
appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del pensare, Nicomaco
poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I libro della Intro-
duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si avvicinano non
poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle categorie di
Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele,
identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E
ciò tanto pio è chiaro quando.si tenga conto che le dieci categorie si potevano
assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o tetrakt'Ys
(quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302 di
proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1 svolge
l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in una
figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per
lato.-:\, la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf,
racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2: l;
quinta 3: 2; quarta 4: 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l;
linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le
cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie
che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L.
Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York,
1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle
essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel
poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione
geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr.
aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa,
nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della
realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione
geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il
discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco
di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione
aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è
- con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte
le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto
si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte
le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque,
Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si
dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega
nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena
arithmeticae se non è di Nicomaco, sembra almeno derivare da lui, si sostiene
che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose"
(xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç.qj
~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U (Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh
.qjq>6ae'6V"t'at (Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade,
l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra,
cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso
geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico
l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro
la medesima spiegazione la tesi stoica del “logos spermatikos”. Il divino principio
attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato dell'unità
potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo valore di
forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni interpreti
di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il conseguente
problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale Uno
divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo
(aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le
possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come
forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si
venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia
logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione,
ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi-
cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle
leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione
alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in
funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica,
teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza
all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e
l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui,
per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della
propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica.
Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica-
definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà,
concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a
fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a
sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali
(!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e
perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l,
1-2)... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se
stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero
perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e
in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un
terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici
mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per
oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la
quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in
quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due
sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò
che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si
muove circolarmente. Senza queste 304 è impossibile trattare con
esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui
conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile
filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla
retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le
rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien-
tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno
scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40.
Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epino-
mide, 991 d sgg.]. Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria
musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente
umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli
scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e
sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai
sensi (1, 3, 1-6). Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è
necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre, evidentemente
è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre, la funzione di
madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo perché...
preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed esemplare,
mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo dell'universo
ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i propri fini; ma
anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le altre discipline,
senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo, educazione e retorica.
Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e il trattato
su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto
predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione
educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite
di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso
lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di
Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce
n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi,
soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni
pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti
ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere
cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che
l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla
va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i
vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli
platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate
orbite, 305 ma anche gli
animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro
cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti
sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a
prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il
richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi
(r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa
dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità
poteva essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli
iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica,
·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri
discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei
piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi
riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n
sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli
dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le
leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito,
le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende
"in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi
immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare
tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo,
un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in
sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo
soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va
considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di
coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di
Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime,
di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per
natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad
esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità
umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la
fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene.
E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di
Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu
amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre
la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in
una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e
passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori
e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306
viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96
al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò
realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita
di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato
a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la
dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C.,
Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di
Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene
sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di
Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a
lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che
Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C.
con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la
capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del
pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden-
temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera-
peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per-
sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento,
rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se,
come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo
biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè
la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un
saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di
gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non
fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli,
l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il suo
essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che l'anima è
immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua
"sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le
azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da
Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo
che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché
divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive Filostrato
- entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della sapienza vi è
un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce ad Apollonia
di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico: cfr.
"Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine, un
Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13),
Oracoli, Lettere. è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si
scordi che anche Se- neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc.,
108, 13 sgg. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando
di cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto
in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si conosce
ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto rapporti
con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti dell'Egitto,
pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe stata che una
forma di violenza.:a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è mal
conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i maghi,
hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli adepti
della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai sacerdoti e
dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo aver preso
un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto di Platone
un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua sapienza,
oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di un
avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti
bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto
spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie
predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad
attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le
sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene.-:be tutto
quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore,
divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi
sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe
azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un
essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I,
2). Vivrò da pitagorico, disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro
Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove
comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la
loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le
guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si
nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro...
Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere
i capelli e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8).
Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di
Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio
di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe
soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in
Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi
in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con
l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti.
Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe
sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei
miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli
avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi
presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re
Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo
sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il
tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con
Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore,
- Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e
guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di
vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di
Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il
fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato
che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo
su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il
meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche
retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno
spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui
fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della
retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e
il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto
l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in
stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica affettiva, per
cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni
razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la
meraviglia, come fu il caso.della retorica proclamata dall'avversario di
Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale,
entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n
secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale
della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da
Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di
un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul
sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m
secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che
già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si
era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge
di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora
anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la
tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresen- 309 tata ancora da Cecilia di
Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa
come avviamento all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a
Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo
straordinario, il meraviglioso, il sublime ap- punto. "Veramente
ammirevole è.rempre, per gli uomini, lo straordi- nario" (35, 5). "Il
fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è
l'evidenza: entrambe comunque ricercano il pate- tico e il concitato" (15,
2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si
ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo (2,.2), usando certe
tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno
dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo
innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla
passirme e all'entusia- smo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante
certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza
dell'elocu- zirme e la scelta di un argomento tale da costituire una
composizirme (crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre
il quoti- diano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando
cosi gli artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose
all'esigenza di certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di
Apollrmio di Filo- strato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti
mediante cui, suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore
in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna
ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le
ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo
"straordinario," e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del
passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la figura di Apollonia.
Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che l'autore del Sublime,
nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito)
e con Seneca, sostiene che la decadenza della oratoria.e della letteratura, il
prevalere in certi ambienti della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza
all'applicazione di fredde regole, è frutto della situazione politica attuale,
della perdita della libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti
e nobili ideali per ·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero
quel che si dice - le gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non
solo impediscono ai rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua
per la museruola posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la
piu legit- tima, potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di
tutti" (44, 5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime"
come stile, ma all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare 310
mediante immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche,
rap- presentazioni di cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni
ragionamento. Se entro quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo,
in mutate condizioni d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi
neosofisti, intesa al "sublime,".rompendo contro la vita quotidiana,
mediante il miracoloso e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della
esercitazione retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III
secolo da Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve
avere scelto la vita di Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da
lui inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali
e sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la
figura reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio
ci presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di
vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che
abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di
tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le
sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in
"stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter-
mini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità
fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per
prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto
aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che,
si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro
con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come
quella di un Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti
diverse da quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la
religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era
stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno
dell'insegnamento di Seneca. Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf
scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo
che si osservi il culto conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è
concesso averla propizia e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo
Primo e che è Uno e separato da tutte le cose e che dobbiamo riconoscere
superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino vittime, non si accendano
lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili. Dio non ha bisogno di
alcuna.cosa... Con lui adopera solo la parola migliore, cioè quella che non
esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli esseri, invoca i beni
mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno di
nessun organo... (Eusebio, Praep. evan., IV, 13). 311 E in una lettera, che, tra le
molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge: Se gli dèi non hanno
bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro favori? Credo si debba
avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per quanto è possibile,
secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma in situazioni simili,
Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il nuovo Pitagora) potevano
"benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che piu tardi, quando la
figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo, !erode Sossiano
di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita di Apoll~nio,
aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare l'encomio
della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come accanto
all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il Cristo
pagano), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni puri- ficatorie
popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad opporre
la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo che Apollonio
rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare
di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario tra lui e San
Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano. 4. Lo
Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto
Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'am- biente e
dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo
di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa
narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di co- stumi, che propone se
stesso quale esempio di vita misurata e saggia, simile alla figura e all'atteggiamento
di Demetrio, quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori pure una
delineazione della "filosofia" intesa come riflessione morale, come
avviamento a restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e libertà,
alla propria razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione
imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi
termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi
accoliti sentivano nei confronti della "filosofia": un controllo
coraggioso del loro ope- 312 rato, un'azione seducente sul Senato
da un lato e sul popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica,
antistatale, antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime
della poli- tica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo romano
nei confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a ragione,
frutto di tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e
distruggitrici dei culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolar- mente
da parte stoica, all'antico concetto della res-publica romana in senso
scipionico-ciceroniano, come estremamente pericolose per la isti- tuzione
imperiale, a carattere assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una
ancor forte oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e
al fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba
essere tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato
e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato,
il re divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e
faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a
seconda dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese
di posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o
stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e
indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che
per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con
il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo
fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto
personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora
una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67
d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco,
questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo
atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in
Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70,
fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo
esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno
scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua
opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da
Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende
turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea
Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne
accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a
morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio
Celere, condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco
indicativo che Vespasiano, dopo la condanna
313 di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i
filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a
Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere
Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché
aveva composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e
di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da
Roma tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione,
perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti
- ed anche questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa (30-117),
detto Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi
"peste della città e dei governi," si converti alla filosofia, con
particolar propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il
giovane riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi,
ammirandone il coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in
effetto, la funzione assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C.,
particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di
Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta
a fondazione di una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la
pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o
l'altra entro l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole
e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad
Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla
benevolenza, l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era
divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo
ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi, VI,
1-2). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato
l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico
stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa
personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio
intendere quella che fu una conce- zione stoica di sfondo, merita il conto
ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e
amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si
fece edi- tore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca,
nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone nel 65), che, nella Farsalia, non poche
volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme a Musonio, fu esi- liato da Nerone
nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura, che scrisse in greco e in latino
opere letterarie, tra cui famose alcune sue interpretazioni di Virgilio,
insieme a un De figuris sententiarum e 314 a un De enuntiati011e
vel de ortographia, e opere di retorica precetti- stica, tra cui una dal titolo
Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli scrisse anche un'opera contro le
categorie di Aristotele e un Escurso di teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv
xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv 7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di
lui conservatasi. Nel suo complesso assai prolissa, monotona e, certo, di non
aÌto significato, l'Epidramè ha un suo particolare valore come documento, da un
lato, proprio nel suo essere un manuale divulgativo e un com- pendio di opere
precedenti sulle divinità del pantheon greco - allego- ricamente interpretate
entro i termini della teologia fisica stoica, - della diffusione di quella che
dicevamo la generica concezione stoica di sfondo (certa terminologia
cristallizzata è molto indicativa); dal- l'altro lato, del modo in cui venivano
recuperate le antiche divinità m funzione della ratio physica stoica. Basti un
esempio: Il cielo tutto intorno avvolge la terra e il mare e tutto quel che si
trova sulla terra e nel mare... Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è
l'Universo; anche l'Universo ha un'anima che lo avvolge, e questa viene detta
Zeus, soprattutto perché egli vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi;
per questo si dice anche che Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che
pure in noi l'anima e la natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed.
Lang). Da quel poco che conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli
soprattutto si volse all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere,
come cura per i malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di
una famiglia equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque
intorno al 30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito
Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a
togliersi la vita per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66,
fu, in seguito alla congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo
amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da
Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da
Vespasiano, che pur lo aveva risparmiato da una precedente espul- sione,
avvenuta nel 71, Tito lo richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu
tardi del 102. Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia
lasciato alcuno scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e
frammenti: apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo
Gellio, Epitteto in Arriano, Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si
vedano ora raccolte da Hense, M: Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da
cui sono state tratte le citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui,
composto da un certo Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo
insegnamento orale, il discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'inse-
gnamento di Epitteto). Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta,
a quanto pare da Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non
resta alcuna traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a
Pancratide. 315 onesto
(k.alol(agathos), la cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e
rispettoso di se stesso e degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è
la filosofia, e non altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv
bt~'t"')3euatç xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed.
Hense). Dedito al solo insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto
niente. Di lui possediamo apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi
lezioni: alcuni apoftegmi sono riportati da Arriano che li avrebbe ripresi
dalle parole di Epitteto; altri, insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo
Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La fonte principale di tali citazioni -
particolarmente lunghe quelle. riferite da Stobeo - sembra sia uno scritto di
un certo Lucio, fiorito sotto Adriano, seguace di Musonio, che ne avrebbe
ripreso e sistemato le lezioni. Nessun ricordo resta di un libro intitolato
Memorabili di Musonio, scritto da un certo Pollione, dell'età di Adriano. Grande
fu l'influenza dell'insegnamento di Musonio Rufo sui con- temporanei,
particolarmente su alcuni uomini della classe superiore di Roma, cui lo stesso
Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di Musonio, traevano il fondamento
ideologico alla loro opposizione poli- tica, come fu per Rubellio Plauto
(Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea Sorano, Minucio Fundano. E
se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo schiavo Epitteto
dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano ideale, da opporre
al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto risenti
dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda fu
l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna),
misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco,
come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio
atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico
Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive
Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e
ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza,
solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di
espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo,
è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli
abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere
considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande
venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto,
una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande
purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e
coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). 316
Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos
- esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale
dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male.
Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini
(Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di
Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola
delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché
fossero banditi Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i
giovani con l'elo- quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann., XV,
71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che
l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare
ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha
da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato
nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un
tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico
dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i
precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago
stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion
d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria
catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della
vita, all'amore reciproco, per- fino al rispetto di norme igieniche (in tal
senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle
carni e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa
sua rigidità, di ci- nismo), assumono un loro mordente e una loro portata di
rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per
i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e
consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie
possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare
pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol
dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè
esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura,
cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme
della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo
è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale.~eme, che a tutti è ugalmente
comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini
come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII).
Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi,
preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive 317 nella passione, è disperso,
non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi
chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né
molte dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato,
l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante
cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che
venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo
quello di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che,
entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che
riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del
realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel
risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha
in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a
quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema
implicito in una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi,
di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il
potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale
possibilità, rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività
propria), consiste nell'accettare lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto
ciò che avviene. La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la
ragione, il vizio (male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai
sentimenti un valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte
le cose sono indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in
rela- zione a ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne
deriverebbe perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione
essendo positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo,
ma nel come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.:
Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce
mediante la ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto
è bene, o meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la
natura; si ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è
passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da quella
rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente,
in opposte dire- zioni, per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le
cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle
passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma di costituire sé in
unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in un ordine per cui
ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne segue che non
incoerentemente si può concludere che la libertà umana con- siste, appunto, in
questa sperimentata capacità di vivere secondo ra- 318 gione, o
meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da
questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati,
rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse
passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano
di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra
si debba interpretare l'ap- pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da
parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo
ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui
Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro
(~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In
nostro potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta
valutazione delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita
dispersa, dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo
senso, rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro
potere. Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non
siano beni, perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto
alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica
libertà possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende
da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di
atteggiarsi nei con- fronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste
l'esperienza della volontà come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della
realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e
avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente,
virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di
virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In
questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire
l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti,
che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come
ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra
Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque amma- lati
gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere
razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in
quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea l'importanza
che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e
strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come
"uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma
anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli
non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una
volta). Se tali debbono essere gli uo-
319 mini, se non v'è società senza reciproco rispetto,
fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu
dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo
dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva
Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re
debbono studiare filo- sofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di
delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui
tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il
sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè.virtuoso sf come
tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere
reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini,
chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di
lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo,
sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto
e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure
fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche
durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento
rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano
andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri
governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano (70-79),
nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo simile a
quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto certe
posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella di
Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco, che
pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un governo
personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche, Vespasiano,
ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per l'unità
dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che, tuttavia,
allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la politica pacificatrice
del padre, cercando di dare all'Impero anche un fondamento ideologico, Musonio
venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui non si hanno. Proba- bilmente
morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel 94 dal fratello e successore di
Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si volse ad un ~ccentramento di tutto
il potere nelle proprie mani. Tra i pensatori e i maestri che nel 94 furono
costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di
Musonio, Epitteto.., il Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto.
Se nella Suda si legge che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio
(161 d.C.), la aonologia del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la
nascita in epoca un po' piu antica. Nato nel 320 Egli non si
spostò molto né dalla concezione né dal tipo di insegna- mento di Musonio.
Epitteto, come Musonio, non pretese mai di dare ).m'esposizione
sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in volta, prendendo
spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si recava da lui, dal
saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni brevi e serrate,
ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si ripresentano gli stessi
motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle estreme conseguenze, quelli
prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro varie facce, in un
atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto si richiama.
Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo modo di
insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un certo
ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni precise,
in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il complesso
degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano di
Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di volta
in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso Arriano
nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio: Non ho redatto
i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia di tal genere e
neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti. Ma tutto quello
che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse possibile con le
stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a ricordo
(~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi, com'è
naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per
bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in
futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà
e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a
Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane
fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor
prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di
ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di
Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre
Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai
libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma
su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi.
Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto,
fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le
sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da
Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi
pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di
libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di
summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o
Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco
Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe
sulle altre possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo.
] portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno,
se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che,
anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi
ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi
(>.Oyo~), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei
filo- sofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che,
quando Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti
ch'egli voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne
sono io la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale
titolo abbia dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due
termini: Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato
all'opera il titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi
che parlano di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes
(dialécseis), di Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr.
Aulo Gd- lio, l, 2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in
Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl,
test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano
avrebbe scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie
(conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è
giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto
libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie
di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi
che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento
di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto
dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto,
dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o
do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri
titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni
diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter
essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni
e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli.
"Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa -
già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II,
Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i
indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi
assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli
antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia
stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano
322 già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la
pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij,
ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono
spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se
mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri
delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo
dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto
indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero
di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo
Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di
discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare
i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a),
si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico,
lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica,.di
matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare
(in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad
ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in
senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la
predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e
concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di
insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In
altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il
luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche
pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di
dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero
rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione,
ma non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una precisa
dottrina. Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli
insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è
accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi,
ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che
dipende e quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il
titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che,
in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto
insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui
l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper
pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto
descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è
normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà
contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante 323 certe tecniche retoriche che
5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si
determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o conflitti
di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della diatriba
popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per decreto di
Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi, giunse a
Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in ricordo
della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola, divenuta presto
un centro di discussioni ("diatriba"), dove moltissimi si recavano
per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le Diatribe e il Manuale
rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit- teto aveva
quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità, portava con sé
sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano ("non è troppo
sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a Roma": Diatribe,
Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento dell'insegnamento del suo
maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al 50, ad Jerapoli, la città
santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia meridionale. Schiavo -
c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto, indicasse la sua
condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo un'antica iscrizione
(in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu condotto a Roma
ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone, che faceva
parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a suicidarsi
(Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle diverse
notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito. Prepotente
nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a tormentare
anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che giunse un
giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà," avrebbe
commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e l'avevo detto
che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se non si
trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e l'effetto
(cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico è questo
aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per delineare
la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu (cfr.
Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto meno
pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai
reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza
del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato
della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va
veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba
spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto,
non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con-
creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto,
sul rapporto necessità-libertà, realtà.che è quella che è, ineso- rabile, da
cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda,
indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei
nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo
di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere
dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda
dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si
è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio
queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse
è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad
Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo.
Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte
della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a
distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero,
ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti: cosf
fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli
occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un
filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~,
III, 23, 29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua
medita- zione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine
sul retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di
Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano
all'altro aspetto del problema logico e del problema della li- bertà (essere se
stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di
Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le
Diatrib~ per rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di
Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna
affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e
Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene,
Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai
con- sigli, ai dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta in volta da
singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto
svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni,"
ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri-
sippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro
sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo, 325 mentre il Bruns, De schola
Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der
Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui
Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV
e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu volte usati nelle Diatribe per indicare un
modo di insegnamento, non sono sinonimi di 3~a3otL, ma significano, mantenendo
il loro valore originario, la lezione, la lettura o prelezione e l'esplicazione
dei testi). Sulla linea, dunque, dello soicismo cinico piu che su quella dello
soicismo in chiave platonica, Epitteto svolse il suo insegnamento in un impegno
essenzialmente educativo. Probabilmente sviluppo di un motivo proprio di
Musonio, è l'insi- stere di Epitteto sull'educazione come formazione dell'uomo,
me- diante l'educazione a sapere correttamente pensare, che lo riporta,
appunto, a Zenone di Cizio e a Crisippo. Tutti gli uomini, in quanto animali
razionali, hanno una comune ragione, hanno le stesse guise, gli stessi modi,
che, formalmente, sono condizioni del comune pen- sare. Tali modi, tali guise o
principi, su cui si fondano i discorsi, tali prenozioni {7tpoÀ~IjieLç,
prolép,seis) o idee prime, proprie di tutti, e su cui tutti siamo d'accordo, e
sulle quali non siamo in contraddizione, sono, in quanto non contraddittorie,
rappresentazioni sempre vere. La contraddizione, il falso, e perciò il
disaccordo, nascono nell'applica- zione delle "prenozioni" ai casi
particolari. Le prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non
con- traddice a prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è
utile, e anche desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e
seguirlo? Chi di noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora,
quando sorge la contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi
particolari: quando uno dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro
"No, ma è dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra
loro. Certo Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che
la santid va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla
questione se è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione
filosofica con- siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai
casi particolari in maniera congruente a natura e, per il resto, nel
distinguere tra le cose, quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono
da noi (Diatr. l, 22, 1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a
sé (ogni oggetto si determina e assume realtà nella rappresentazione, e,
perciò, nel suo esser detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi,
s{ che l'un nome non evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso
la contraddizione, l'equivoco e il paralogismo sofistico), rap- 326
presentazioni anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel
discorso, cioè nel giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici
(Antistene) e con gli scettici, ma entro i termini della soluzione della logica
di Zenone di Cizio (che permette la predicazione: logica pro- posizionate),
Epitteto può sostenere che la "ragione" è un "sistema di
rappresentazioni diverse" (Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo,"
aggiunge Epitteto, "compito del filosofo, il piu importante e il primo, è
sag- giare le rappresentazioni e distinguerle e nessuna accogliere che non sia
stata saggiata" (Diatr., l, 20, 7). "Cominciamo con la logica allo
stesso modo che, per misurare il grano, cominciamo con l'esaminare la misura.
Se, infatti, non determiniamo dapprima che cosa è il moggio, se non
determiniamo dapprima che cosa è la bilancia, come potremo piu misurare o
pesare qualcosa? E nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e
precisione il criterio delle altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo,
ne potremo conoscere qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile?...
Compito della logica è discernere ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire,
il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E
Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei termini è
l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non
l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava
dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?"
(Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è
chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi
non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet-
tivarle in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su
questa linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli
scettici, i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento
(tutti, sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero
dell'altro, oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può
convincere della loro tesi in quanto non viene meno alle co- muni condizioni
che rendono verace un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro
tesi che l'uomo è felice qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per
sostenere questo si servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il
discorso stesso) (cfr. Il, 20). Le proposizioni vere ed evidenti, sottolinea
Epitteto, le adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la
prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione.è, si può dire, il fatto che
sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice"
(Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e
neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace e quel
discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una
all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre
rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni
stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione
filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni,
dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni (xpljar.<;
cpcxvrcxat&v ), mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e dalla
unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle
cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata
rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette.in
grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma
anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne
altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini
(Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la
differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che
mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo
spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno
quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6,
13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di
rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire
razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare,
bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto,
collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo
quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé
in quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé,
vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni,
costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e
gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una
che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella
ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella
com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di
rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore
di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato
queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa-
minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per
ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare
tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene": Diatr., II,
11, 24.) Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse
vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur for-
malmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si
articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena
accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni
egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per
sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo,
diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di
Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era,
mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere unilateralmente
e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle diatribe. E cos(dalle
diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione epitte- tiana
dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il fatto che la
ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un unico discorso,
riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui Zenone e Crisippo -
sosteneva che il tutto è come un unico di- scorso, retto da un'unica ragione, s(come
fosse una "città sola." Questo mondo è una città sola, come pure la
sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la necessità di un
movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi alle altre: queste
si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso posto, quelle si
muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo di dèi, poi di
uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna che alcuni rimangano
insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni godano di chi rimane con
essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11).
Tutte le cose formano un'unità... (Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del
tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come
l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso Epitteto è molto
preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e
la sua sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire, avvengono entro la
stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle
spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del
fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da
uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e
amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento,
tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente,
verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu
allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il
mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il
mondo ebbe bi- 329 sogno
(Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma
là donde sei venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto
fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in
aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non
Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado
di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto
dalla terra e dal mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto...
(Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che la ragione è attività
unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti, Epittéto passa a poter
sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si titma la realtà è attività
unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto, tutto avviene come deve
avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso, provvidenzialmente ("di ogni cosa
che accade nel mondo è facile lodare la provvidenza, purché si abbiano queste
due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli av- venimenti e
il sentimento della riconoscenza... Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo
soliti riconoscere che sono indubbiamente opere di un artista, e non costruite
a caso e gli oggetti visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano(... E la
particolare struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere
semplicemente le impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare
una scelta tra esse... Tutto questo non fa pensare ad un supremo
artista?": Diatr., l, 6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo
nascere e perire, nella sua sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha
una sua funzione e una sua ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa
identificare la divinità (ancora una volta intesa come ciò senza di cui nulla
è, la condizione del tutto) con la ragione, dandone la stessa definizione:
quale è la natura di Dio? è intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua,
dunque, assolutamente, èerca l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3).
Ora, se la ragione era stata definita "sistema di rappresentazioni
diverse," e se le rappresentazioni sono impressioni che in quanto com-
prese si costituiscono come abbietti, non in una semplice recezione delle
impronte, ma mediante l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma,
composizione di esse, Dio, in quanto ragione e intelligenza, si costituisce
come "sistema di oggetti diversi," e perciò come attività
unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui tutto deriva da lui,
tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che scopre sé come ragione,
come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma di saperle usare
("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire Epitteto a Zeus,
"questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e avversativa, in una
parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni... 330 Solo
quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno
fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto uso delle rappresenta- zioni:. le
altre cose non le hanno fatte dipendere da noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8).
Qui, sembra, la chiave per intendere, relativamente all'uomo, da un lato la
concezione di Epitteto su ciò che non dipende e su ciò che dipende da noi (dr.
particolarmente Diatribe, I, l e Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul
tutto, che è quello che è, e sulla libertà; sul non comprendere, sull'essere
presi dai dati, dalle impressioni, asistemati- camente (irrazionalmente), per
cui siamo schiavi, soggetti, e, non in- tendendo, non sapendo usare, scegliere
le rappresentazioni, applicare correttamente le prenozioni, siamo scelti; e
sulla comprensione che è libertà, liberazione dall'errore, accantonamento di
ciò che non di- pende da noi, avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta
quello che è, se pur ciascuno resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua
natura, in quanto •ragione," pur rimanendo quello che è, può essere scelto
o scegliere, può essere padrone o schiavo: "quel che è piu importante di
tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè,
il retto uso delle rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine
dell'uomo: l'uomo deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura,
ed essa termina nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme
alla natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni,
vigila su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto,
della lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni,
da dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e
amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto
devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la
reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io
l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li
ha fatti... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il
resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di
questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, di- sgraziato, soggetto a
impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3, 7-12). Epitteto prende le mosse da
una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di
rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando
scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il
criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà raziocinante,
prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la
potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre
sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse
rappresentazioni; finché 331
è solo un insieme disordinato di rappresentazioni-impressioni, l'uomo è
passivo e dominato; allorché, ragionando, ordina e sistema è egli a dominare,
rendendosi conto del valore di ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo
posto, che alcune cose sono in nostro dominio e altre no. Le cose sono di due
maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il
movimento dell'animo, l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose
che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la
riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le
cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite
né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere
impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per
libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono
altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere
affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna
apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a
dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli·
ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e
massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero
a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non
dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non
addottrinato nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli
suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato
non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto,
che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e
dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le
tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati
dagli oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è
un'esperienza- alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no,
ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto
ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che
non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza
dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro
coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri
termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra
l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura)
o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse (secondo
natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in quanto
discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà (7tpo1X(p&atc;,
proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione del tutto, Dio è
volontà in 332 quanto ragione, cwe m quanto giudizio, e non come
persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come talvolta si è voluta
interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio che ti determina
necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la proairesi. Se Dio
avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua o da parte di
altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare a noi, non
sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se vuoi sei
libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà
secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28). Nessuno può
credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è che [Medea]
dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio corruccio
supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché proprio
indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu utile che
salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è ingannata e
non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può seguire se non le
apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è sviata,
l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene
["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza
del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un
certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono,
allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale
realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non
dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti,
fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29,
1-3). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li-
bertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto
giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il
fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre
e si giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come
in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in
se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana,
aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui
mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non
il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio
possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la
loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l,
17), che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e
unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso
(il pensare che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non
è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser
nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o
diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos(via). E allora,
quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re-
stano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni,
per cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le
intendiamo divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che
sono, né beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato,
riallacciandosi a Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto
"cinico" dello "stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra
parte, tenuta presente l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza,
in quest'epoca, tra cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe
sociale, in una distinzione di "tunica" piu che di modo di
atteggiarsi: "Stoica dogmata... a Cynicis tunica distantia" (Satire,
XIII, 121-122); e va tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle
Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio,
del cinico (dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che
riconosce che la sua unica posizic;>ne è appunto quella del
"saggio"), ma non interpretato secondo il clichl del cinico giullare,
di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione
Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città;... ai
crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e
traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande
varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun
bene, ma gran male•: Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico"
che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta
osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione
sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se
stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo
modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono
beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai
poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua
parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che
tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino,
comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto -
uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non
propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale
prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né
condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come
Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di
ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso,
incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io
amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo
alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai
teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel
fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in
maniera evi- dente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si
adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà.nessuno, non
bià- simerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi
'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico
(mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte ege-
monica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la ma- teria con
cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio
ha il cuoio: mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo
non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando
vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono
cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la
luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo
raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve
sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli
uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del
bene e del male là dove non è, e non badano dove è... In realtà il cinico è
esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta
un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza essere
sbigottito dalla paura... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in
piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone,
Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate,
disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate per
un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che
rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che
ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? Dov'è che siamo liberi? Nel
giudizio. Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il
bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo,
senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi
ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono
senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la
terra: non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e
il 335 cielo e un solo
mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza
timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri,
quando cadere nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho
rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto
quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden- domi,
non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un
cinico, eccone il carattere, eccone il proposito (Diatr., III, 22, 19-49). Se
la delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura
ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno,
·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti,
attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva,
ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico
di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura
stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto,
quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta-
zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e
ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine
"libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte:
cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della libertà
come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello ad
esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge che
Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che
procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti
·di questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un
lato la raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di
rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende
dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve
essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la
divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come
razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto
della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e
passioni, indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che
è, dunque, un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione
epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a
compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti,
e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di
ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della
generazione sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli
animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella
parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono,
infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo
miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque,
allontanando tal cosa ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai
che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre
secondo la ragione non sei peg- giore né migliore degli dèi: che la grandezza
della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi,
dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26).
Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente
piu impor- tante della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà
possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti
distingui per la ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui
dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non
delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e
riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non
avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa
quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se ragionassero
e com- prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si muoverebbero o
desi- dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben dicono i
filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle
malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto
questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu
importante il tutto della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10,
1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che
è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo,
nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo,
è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle
passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile
(in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è
senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni
speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello
che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per
altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma
un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la
capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando,
cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera
dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello
ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a
che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura
in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico
amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle
rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da
questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la
salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini,
dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e
cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà,
per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi
prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e
considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti
(irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose,
siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra
cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo
alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario,
dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in
questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità,
per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi
cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come
fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi
non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà
tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto
que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una
realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la
divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle
diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle
cose, ma dalle.opinioni che hanno delle cose (Man., IV). L'essere zoppo s{ è
impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX). Quando
tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la
lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti
trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose
estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso
subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché
questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli
ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non
offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché
quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria
immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX).
Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19). 338
Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana dell’apparenza (fantasia)
(cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distin-
zione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri ter- mini, la
nostra lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose,
da ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una
cognizione delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per
esempio, si stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività,
tesa a ottenere certe risonanze, in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà
in maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un
errore che è un errore pro- spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione
tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e
cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene
Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costi-
tuisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di
tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten-
sivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi,
sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato
(irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due
nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose
comprese, proprio in quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto
perché comprese, ci ren- diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o
quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora,
compren- dendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui
supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene
la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la
nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o
donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero
utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la
razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini.
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà
breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti
la persona di un medico, studia di rappresentarla acconcia- mente. Il simile se
ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune.
Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia
persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man.,
XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata
stare ogni cosa (Man., VII). 339
Questi i motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i
motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel
Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Dia- tribe). Di qui, d'altra
parte, l'importanza data da Epitteto all'insegna- mento, inteso come
insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro
vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il
quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della
ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e
dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr.
Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi
tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i
desideri, s(da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da
noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando
ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi
ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti
indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia,
cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo,
obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che
dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e
scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre
repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò
che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo
come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri
che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da
citta- dino": Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà
capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni,
indi- rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé
come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto,
che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste
la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore
storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui,
che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici:
Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non
dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio?
"Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra:
grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa
crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre
dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340
tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la
facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la
maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse
questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso io,
vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei la
mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere
ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non
diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare
questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a
Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo
governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia.
Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono
stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato
alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti
ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta.
Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai
date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a
Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da
Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli
godette di gran fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio
avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che
aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che
il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di
una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è
dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e ascoltatori -
a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente
pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno
fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di
un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va,
d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la
politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne cangiando,
tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico la tesi
politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu strettamente
giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale
cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori Traiano (98-117) e
Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del Consilium principis
svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una vera e
propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò non un
caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere
consigli al celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani,
16, 10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea
bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato
uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore,
il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato
di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul- tura, aggiornato nelle varie
correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i
motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un suo principio, che
chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione
morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle "verità,"
-in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle
"ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa
pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella
misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco
e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua
eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma.
Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog·
giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e
peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua
patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con
gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove
piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il
Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu
niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel
114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL),
comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici,
politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui
Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i
filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette
orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli
Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica
(XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7 in volta, si concreta come cortesia e
generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr.
Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione,
Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo
paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz.,
46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini
piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo
modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e
la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in
principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e
stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti
del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale,
libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di
potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione
non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno
della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli
angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano
schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà
di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di
bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di
Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto
contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al
96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure
mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia
avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi
nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra
le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali
"filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la
peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno,
comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione
stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di
governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di
Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto
che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel
grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che
possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e
città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i
termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile
ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8 di
cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male),
proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un
male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si
trovò sulla linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei
cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e
costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla
fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma,
dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano
portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con
Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con
An- tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il
grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi
con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e
la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né
un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo
magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu
ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del
Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a
uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un
organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto-
niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza-
zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non
sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi
successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato
unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto
organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali,
nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e
nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e
rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica
prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E
diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza
dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una
politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per
principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico
ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha
pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro-
messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma
già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi sue- 9
cessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali
filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito
dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di
Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto
questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del
n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che
potevano dare loro le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La
maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano
ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva
piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il
piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente
diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e
di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e
di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e
specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale...
Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle condizioni
reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e
sociale dell'Impero romano, Firenze, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che,
poco dopo la morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato
reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo
nella sua città, ove par- tecipò attivamente alla vita politica di quella
municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano,
divenendo alla fine cit- tadino romano e consigliere e propagandista delle idee
politiche del- l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi
tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del
suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la convivenza (d'altra parte
necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche
"p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche)
e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il
potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul
potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere
capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante
cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine co- smico, retto
in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto
(e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il
passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò
vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia- 10
baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale
che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di.Traiano. Padre e
benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone (8e:m6't"rjt;
) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò
non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in
accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è
fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi
compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va
perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e
consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli
affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un
"filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione
della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia
almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che - e sa- rebbe
ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo ar- bitrio, di un
organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr.
Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non
solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva
sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove
ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui
ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire
nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto:
cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente
stoica, di cui abbiamo par- lato, quale, ad esempio, appare dallo
pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr.
Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la
potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo
nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco,
ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò
che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per
ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha
da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per
analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz.,
36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella
che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali -
sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca collaborazione,
in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle
parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia un'eucosmia.
•Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un suo discorso
ai Boristeni, abitanti 11 presso il Mar Morto, "questa è la
teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole comunità di dèi e di
uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione e alla cittadinanza non
tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma coloro che posseggono ragione
e intel- letto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e
piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso
agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono
sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La
novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene fondando
ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e
approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione
(non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non nominando Traiano, dice:
"Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io parli
con il mas- simo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette
dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripetute
da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano
con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa.
Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione
alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e in un venire
incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere imperiale,
nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore
esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere
ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza.
'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi,
coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che
se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava
certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un
significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe-
ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è
stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché
tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che
sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge,
come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa
ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il
quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita
dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può
suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero
gli imperatori da Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò
risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da
Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della
Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi,
non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il
valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia
il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo.
"Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico
dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro
impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il
confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro
giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati.
Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia,
piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per
parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né.il mare né alcuna
vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano;
nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di
tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è
straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e
ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo
di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie
richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e
rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato
delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo, furono
coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire Tacito a
Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi "raptores
orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt,"
questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti furono gli stessi
romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione
del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra
quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der
geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche Sinclair, rit.,
pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale, abilmente
propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa concezione,
anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per politica· o
per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad
Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro
lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura quale"
si viene configurando nel u secolo. 13 Entro quest'àmbito, se ci
rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli
imperatori delle persecuzioni.nei con- fronti dei filosofi, sembra anche chiaro
perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei
maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano
stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma,
due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu
Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio
annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio,
Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse simpatie
per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea di Atene
(lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu(ad Atene con
sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica,
una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filo- sofia
aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di
sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta- mila). Dal terzo
secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su
quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu
pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin(col divenire regola
generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato approvato
da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente ratificato
dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale si
assumeva cos(un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La
decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo
spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano,
come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giu-
stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione impe- riale -
Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). - Intanto, tra la fine del 1
e il 11 secolo, anche per la maggiore possi- bilità concessa alle varie
tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di preparare,
mediante la diffusione della cul- tura sia in Occidente che in Oriente, i
futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un ordine
universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse
giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe
tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine
e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e
diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in
funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. 14 2.
Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in
Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le
contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli
stoici si espri- 2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e
severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene
dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano,
che lo avviò al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i
misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio
l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione avvenuta
nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo il suo
soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a
Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e
della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto
dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne
seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che
molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le
Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C.
Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di
Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e
il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda
ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido,
facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro
Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in
patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di
Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di
Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto
cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del
nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere
di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute auten-
tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise
in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un
romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il
resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale
a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici, filologici, pedagogici).
Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in
ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi
le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che
vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De
educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione,
De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De
amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad
Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium
convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata
laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum
virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela
graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut
virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae
oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De
cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine
an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem,
sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso
pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera
numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad
u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae
narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m,
Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae, De u n
i 1 1 s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio,
De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et
Menandri Epitome, De 15 mono in maniera piu assurda dei poat) e
contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo
Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e
isolata delle sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del
pitagorismo di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone,
formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una
lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di
Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in
un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della
teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima
fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove
viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu
oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti
dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della
prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria,
maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non
ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone
un'interpretazione molto "plutarchea,"· in funzione di una coerente
costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di
opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di
preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di
singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso
esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro
lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A
tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi
stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà
interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra
posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella
platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci
motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione
nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da
spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e
iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe
lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis sit ulilior, De solenia
ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae
procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos
absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter
vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica.
Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia,
ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam,
il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri
quinque. 16 riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini
della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole
dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico
delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio
Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato
politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente delle piu note
tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di
Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e
della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano
compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni: ma,
certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi
dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso
cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se
stessa e che perçiò è.assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in
nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi
stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito
vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per
cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immor- tale in
quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si distrugge- ranno nella
conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche la discussione
antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi
epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero,
cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce
della confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è
ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del
t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità
della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano
altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea -
vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della
natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il
male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la
ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene
accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le
due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e
antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile
d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della conce- zione
platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele interprete di Platone) si
potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e
l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra
le due posizioni (la platonico-aristotelico- stoica e la epicurea)
contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico:
Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del
giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in funzione
retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di
mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella
molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica
forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con
ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore
logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli
cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una
interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il
dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi testi di Platone, non a
caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima
malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al dualismo iranico. Sincero
o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica
paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze
religiose orientali (egi- ziane e iraniche), rimaste, se non ignote
(tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf,
sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza
egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del
male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn
funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone
egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli
aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone,
l'in- terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egi-
ziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr.
particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della
simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nel-
l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di
origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono che lo spirito
che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles,
quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è
Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando
con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati
dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride
quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il
mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza.
Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale,
hanno un 18 aborrimento estremo per questo numero, perché il
numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto,
rettangolo, oblungo non equi- latero - alle quali figure soltanto accade di
avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera
tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la
proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I
Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una grande varietà di termini: per
essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il
Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade,
l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il
Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con
denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di
Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da
tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo...
Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia... La cosiddetta
"tetraktys," cioè il trentasei, costi- tuisce, com'è fama diffusa, il
"piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo,"
poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri
dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a). Sotto
questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola reli- gione
delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle reli- gioni di
oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in
Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi
di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un
servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale: indicativo è che
Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e Adriano), sembra che
Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente
interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside),
dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo
delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu
oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi
del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla
ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra
ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto,
sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è
inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra
filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di
Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va
assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali
in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19 Iside è dea eletta per
sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome stesso vuole
perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu
alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è
nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per
ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la
dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati, poiché il processo
di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente
saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio.
Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è
realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è
accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette
apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di
Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci
accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della
dea... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi
narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del
genere - tu, o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a
Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti
dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella
maniera in cui viene tramandato... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti
capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti:
se gli Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che
per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere
conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di
fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero
sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la
parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano
ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non
somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali
gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni,
tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario
serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze,.tu lo capirai da te stessa.
Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di
riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo,
che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi
di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il
pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro
sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come
contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia
Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine
(Tifone), l'ele- mento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa,
vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva
l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20
(il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad
essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità
Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato
tale significato del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi
testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente
si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle
Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero,
chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità"
[Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni,
si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini
precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma,
pro- babilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due:
delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla
prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf,
sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la
quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono,
ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente,
e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro
trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli
Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione
di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe,
che non sono, però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene
alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca
del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo,
e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la
potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò
che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica
con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri,
ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le
temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa
di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è
l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento corporeo
che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive
stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna; cos{
si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone. Tutto ciò è
espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che significa: ciò che
tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque, secondo Plutarco t.
ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità del
principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la quale passività
deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il
divino principio sia la realtà 21 molteplice, ché, pres1 m sé,
vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe pura
quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che spiega la
nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile,
irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si
un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale,
ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti
essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando
egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per
definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini
dell'universo non vanno poste nei C<?rpi inanimati, come vogliono Democrito
ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di una materia non qualificata e non
differenziata, come vogliono gli stoici, un'unica ragione e un'unica
provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte le creature. Fatto sta che
è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che sia, entri nell'esistenza,
là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente impossibile che qualcosa di
buono, là dove Dio è causa di nulla... Di qui, ancora, questa antichissima
sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che
se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non
solo nella storia e nelle tradizioni, si anche nei riti e nei sacrifici,
diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i Greci: che, cioè, l'universo non è
già librato, per sola virtU meccanica, di per se stesso, senza un intel- letto,
senza una ragione, senza un pilota; né poi v'è una sola ragione che domina e
regge, per cosi dire, con timone e con docili redini. No. Al con- trario, la
natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali e di beni, o, meglio,
essa in una parola, non ci dà nulla, quaggiu, che sia "puro"; né,
d'altra parte, c'è un custode di due grandi vasi che, alla maniera di una
dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri successi in
mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due opposti principi e di due forze
antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino a destra,
mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e indietro - che la nostra vita. sia
complessa, e cosi pure l'universo... Perché quèsta è la legge di natura, che nulla
entri nell'esistenza senza una causa, e, se il bene non può fornire una causa
per il male, allora segue che la natura debba avere in se stessa la fonte e
l'origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha una, tutta sua,
del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e dei suoi piu nobili sa- pienti.
Questi, infatti, credono che vi siano due principi divini, quasi rivali tra
loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E c'.è chi chiama il primo,
migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio, il mago ZOroastro, di cui
si narra che vivesse cinquemila anni prima della guerra di Troia. Ebbene,
questi chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios; e spiegava, poi, che
l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu che ad altro elemento;
e l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e che tra l'uno e l'altro,
intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani "Mediatore"... 22
I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I
Caldei dichia- rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della
stirpe, due sono benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni
e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti
(De Iside, 369 a-370 d). Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono
molto indica- tive, molto ben collocate e fatte al momento opportuno. Si
capisce cosi come, per altro verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le
religioni egiziana e persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro
miti e delle loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui
testi ebraici da Filone l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica,
puntasse, si come Filone, su Platone interpretato in chiave
teologico-religiosa. Non solo, ma nella chiara esigenza di Plu- tarco di
costituire una possibile pace culturale nella convinzione di un'unica
sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo stoico e di contro a
quella che sembra, per chi assuma a fondamento della realtà un principio razionale
e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità degli epicurei (simili, alla
fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere gli dèi indifferenti, a
coloro che, per ignoranza, in una loro volgare religiosità, temono il divino e
i dèmoni, ove va sottolineato che il ter- mine tradotto con
"superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx:
cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un
lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro
lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo,
dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea
costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto, all'intento di
Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale,
a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso
di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella
superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano
diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci
o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma come il sole e la luna e il cielo
e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi
in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse
le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre,
espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di
un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate
su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre
a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero
sulla strada 23 pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti,
vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione
(3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la
superstizione, ma.piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso: l'ateismo.
Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre soprattutto che noi adottiamo, come
guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla filosofia c
consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le liturgie; sf che...
non erriamo interpretando in un differente spirito quel che i costumi religiosi
stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti, comunque, ammettono
che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo
che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia, Plutarco si ritrova di
fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere che in quanto
opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè
non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a
porre come condizioni logiche, da un lato il divino, principio ordinatore, e,
dall'altro lato, una quantità neu- tra (materia) come possibilità di assumere
tutte le forme, non logica- mente deducibile e di cui, per riprendere
l'espressione platonica, non si può discorrere se non con un "ragionamento
bastardo." ·Plutarco cosi viene accostando testi platonici assai equivoci,
in cui Platone sa benissimo di avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli
imposta la questione su di un piano "'descrittivo," cioè mediante il
mito, e in Pla- tone rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e
li risolve in una sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di
Platone da parte di Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio,
l'essere che è, il bene (l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente
all'Osiride egiziano e all'Horomazes zoroastriano): Errano i nostri sensi, per
ignoranza dell'essere reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora
che ~ l'essere reale? L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in
cui neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si
muove e che appare simultaneo con la materia in movimento, qualcosa che scorre
perpetuamente c irresistibil- mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il
tempo! Persino le parole consuete, il "poi," il "prima," il
"sarà," l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo
non-essere. Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non
~ entrato ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di
contro, dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~
quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni
di ciò che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? -
"~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che
~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né
futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e
nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso
esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non
cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli
rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: Tu sei (d,e~), o anche, per Zeus,
Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale
l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta
sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili
interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di
epsilon, inteso come la lettera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque
accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra,
acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza =
tetrade o solido, piu anima = pentade o essere vivente; - i cinque generi del
Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno,
a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al
dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto,
Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel
Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza,
l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima;
quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il
dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco
l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a].
"Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi,
congerie svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente
vuoi essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro,
questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel
divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl
pure il secondo e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la
pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire.che è uno e solo; quanto a
Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e
casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è
lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia
che soggiaccia alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che,
quaggiu, sono imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare
del dio, se non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a
un'oscura visione di lui,.per via di pensiero, attraverso la filosofia (De
lside, 382 f); 2. La materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica;
l'Iside egiziana). Il principio attivo come disordine (non materia, in sé né
buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone;
Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano): Iside, in verità, è il principio
femminile della natura ed è suscettibile di ricevere ogni forma di generazione,
in quanto è chiamata da Platone "nutrice 25 e ricettacolo
comune" [Timeo, 49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di
nomi, per il fatto ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa,
accogliendo ogni tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui
che è il primo e supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con
il Bene, e lo brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la
porzione che deriva dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e
materia, ma inclina sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a
lui la possibilità di generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di
somiglianze, di cui ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna
di tali generazioni. Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere
nella materia; e il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro
mito non è fuori strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che
il suo corpo fu molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che
lside andò errando e ne fece ricerca e riuscf,di nuovo a ricomporlo... (De
lside, 372e-373a). Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa
com'è, di per se stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e
partecipe di lui... Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo
essere tratti dalle opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un
certo corpo inanimato e indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso.
Fatto sta che noi chiamiamo l'olio "materia del pro- fumo," l'oro
"materia della statua"; e questi non sono privi di ogni difie-
renziazione. Persino riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii
consegniamo, quale materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li.adorni
e li armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee
[cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una
immagine•della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre,
Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel- lettivo,"
IX, 1]... lside gode di una eterna partecipazione del dio primor- diale e gli è
vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e bello, e che, pertanto,
non gli resiste..., e perciò essa è sempre attaccata strettamente a lui e sta
costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue parti piu nobili e pure
(De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore screziato, perché la
potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto
accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte,
principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura di ombre, né
screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem- plice, la pura
luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il primordiale e
l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il principio,
l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza tutta in atto,
non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e qualificata che da lui
si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio stoico. Plutarco,
perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, - doveva sostenere
che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma è esistenza,
potenzialità di 26 assumere forme e qualita, e in tal senso è
povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue generazioni,
nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il "padre,"
che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo di mescolanze. Dio
da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i mondi (Plutarco
sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum, 423c-424h,
428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore e piu
divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato
di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare
la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre';
la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto'
di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo,
50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati
certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti il divino
essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si opera la
generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le
condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il
divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e
neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione
dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo
le cose simiglianti a lui, resta.il termine cui tutto aspira, in un unico
amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in
cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto,
accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio,
un'attività inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È
meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto,
non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la
disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia
sono possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei
corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i
due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e
i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente,
li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto
degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla.materia e non all'anima
quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella
"infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di
difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi
ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura,
priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i
profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27
come causa e principio del male ciò che in se stesso è
inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e
malefica" e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a
Dio..." Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si
muove da sé e muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato
"necessità" e nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisa- mente, "anima
sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)...
Bisogna dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è
l'anima del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui
l'impulso e lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi
all'immaginazione e all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata
mediante i numeri e le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha
elevata al grado di reggente del mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque,
non è tutta opera di Dio, ma porta in sé, innata, la parte del male... (1027a).
Là dove Tifone piomba ad impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo
figurarci lside in atteggiamento di suprema tristezza e in espressione
luttuosa, alla ricerca dei resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li
compone e serra al petto e nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla
luce di nuovo le cose nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside,
375a-b). Il timore di Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costi-
tuirsi dello stesso universo, lo porta, interpretando certi passi plato- nici,
a porre la divinità come il complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò
senza divenire e mancanze (incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha
forma, per cui, appunto, il divino è essere: il divino, dunque, pura
intelligibilità, è in atto tutte le forme (idee), in quanto la sua intellezione
- egli intellezione in atto - è tutte le passibili forme. Se tale è l'essere
che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va
cianciando di emanazioni del dio e di trasfor- mazioni tali che il dio si
risolverebbe in fuoco con l'universo intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe,
quaggiu, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed
entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle piante; tutto questo, anche a
udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione agli stoici -: "Al
contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza cosmica Dio serra insieme
la compagine e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé,
all;l distruzione... Per dio non si dà mai scardinamento dall'essere e
trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza è, accanto all'essere
(coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere condizione del reale) la
materia - la éor- poreità come indefinita potenzialità, - che, tuttavia, non
assume essere, non assume forme, se non si definisce, se non presuppone
l'essere, se non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le manca; essa
perciò tende all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli rima- 28
nendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e
termine dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi
stoica della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto
all'essere - principio e fine - e all'esistere - materia- potenza - una terza
condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura
passività. L'anima come vitalità è, dun- que, una terza condizione, che se da
un lato spiega la tendenza del- l'esistere ad assumere essere, costituendosi
come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità),
dall'altro lato può ren- dere conto dell'affermazione di sé come individualità,
che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto
intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio,
come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si deter- mina
cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e
come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e
vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella
stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie
di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di
aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor
somiglianza al dio (mondo ter- restre e sublunare) a una sempre maggior
somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un
perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo
nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non
sono, però, equi- librate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla
forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del
tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure
in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza
del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da
guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con Osiride [il
divino)... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è
l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside, 37Ia-b). Certa-
mente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le ragioni supreme
delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per contro, quaggiu,
quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi fenomeniche -
terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si corrompe, va perfino
sotterra... (De ]side, 375b). Il principio della fecondità e della con- servazione
della natura è attratto verso di lui e verso l'essere, mentre il principio
dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui, verso il non essere.
Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da "slan- ciarsi"
(hlestaz) con sapienza e dall"'essere mosso," appunto perché essa
consiste in un movimento animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere
che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29
nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei
colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il
divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla
vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la
natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del movimento e una
conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo,
ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di
colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato l'universo,"
secondo l'espres- sione di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini
sembra chiaro come Plutarco - nel suo ten- tativo di giustificare sotto il
segno di un'unica concezione religioso- filosofica gli aspetti diversi delle credenze
religiose' ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede sintetizzate
da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia
zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e
cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche
delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la
posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella
sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e
l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera- zione - unica
realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse -
all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al- l'infinito, verso
l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto della vitalità,
che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è
negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere un'infinita
scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite,
all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere, alla
luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno
universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle
anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua
condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo
meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora gli
dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che Platone,
avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che noi
chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi difficoltà,
dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà ancora piu
numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi e uomini,
la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci congiunga
e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai Magi della
setta di 30 Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o dall'Egitto, o
dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette il trapasso,
sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la terra diventa
acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della sua natura, si
tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel.:ampo delle anime elette, è ammesso il
passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia, solo poche anime
appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo volgere di tempo,
mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della divinità. Al
contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono dal grado
superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita senza luce e
fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto che sia il
tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione
voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che esistono, cioè, alcuni
esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono soggetti alle
passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il costume dei
padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con questo nome.
Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di questa concezione le figure
dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine, l'equilatero; al mortale lo
scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il primo è uguale in tutto e per
tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo, uguale per un verso,
disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni, che partecipa a un
tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma la natura stessa
offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con il sole e con gli
astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle cadenti...; natura
mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui rivoluzione concorda
con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora calante, ora
crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar via l'aria
ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la coesione del
tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe, nell'intervallo, uno
spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette la categoria demonica
toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi e quello degli
uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano una funzione di
inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere e a turbare
ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane e traen-
dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per nulla a
coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina compia- cenza.per
le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in tali cose, il dio si
giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi lui stesso. Piuttosto,
facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa
compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per cosf dire, i loro
famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia percorso da dèmoni,
alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici, altri in
funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su questo motivo che
si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza plutarchea: cfr.
De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli uomini, anche tra i 31
dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni l'elemento passio-
nale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo ancora fievole e
indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e inconsumabile (De
defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la soluzione del
significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo, e cioè la
concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di forze, si
scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a imitazione
dell'Essere su-,premo, puro intelligibile, presupposto e fine; dall'altro lato,
i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole interesse storico.
Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di credenze oracolari,
astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo, in particolare
dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali abbiamo già sopra
accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere conto delle stesse
esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle credenze. La teoria
plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo tracce in Alessandro
Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni
di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in alcuni testi alchimistici che
rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo su Plutarco, come testimonia
anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte influenza il
motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride: non a caso
Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e miti
egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è
l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze
naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine
ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala
degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno
oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle
piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali,
tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si
giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello
stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e
costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in
razionalità, in aspirazione all'ordine e.al divino (perciò l'anima non muore
con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione
dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto
medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela
possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli
spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei
dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32 operino, come servano di
mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in
Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da
parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari
secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in
un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel
commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il conflitto
delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se stessi. Di
qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione sulle forze
demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a caso lascia
ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali
giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione degli
spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che consiste
nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità che non
sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti, accanto a
motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si può
parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La nostra
natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un riposo
muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi, ma
anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono...
appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato
all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di
noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere
conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica
a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre
argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che
essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui
trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e
desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando
sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a).
L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno, che,
se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della
metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza
delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni
modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno
alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che
viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua
aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità:
"Le vesti di lside sono 33 di colore screziato, perché la
potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto
accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha
sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo,
tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque,
è rappresen- tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è
tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura
luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie
di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla
luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità
(corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità
(anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel
suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e,
perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad
essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi:
in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità
(anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi
come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come
razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina,
la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e
razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e,
perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze
vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un
amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui
(superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria
individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume
che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e
con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non
pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di
Filone l'Ebreo: Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un
essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due
principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte
dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del
corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore
e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà
irra- zionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la
ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di
dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre
parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine
all'intelletto (Dc 34 facie in orbe lunae, 943a). Le anime
posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono
mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano
quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il
corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima,
essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose
presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose
future... (De defectu oraculorum, 43lf-432c). Anche se molte sono le
oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco
relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà,
vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza
disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo
l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in
una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e
operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche
il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di
contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del
reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio-
nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il
"padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per
la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed
in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo ap- pello a
Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in
tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella
esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due
forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per
imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico
e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo
volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo
senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della
necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in
che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come
rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto
capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che
si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco,
interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che
l'intelligibile si coglie attraverso il con- flitto, nell'atto in cui scoprendo
sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e
come dominio in unità di noi 35 stessi, m quanto molteplicità di
passioni. "L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come
un lampo che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò
Platone [Convito, 210a] e Aristotele [Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di
epoptica questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione
hanno oltrepassato le varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel
Principio primo, semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura
che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della
filosofia" (De lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il
ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità
dell'Essere, per cui l'Essere trascende la realtà, appunto perché ragion
d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme
- metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie
intuitivamente e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come
un lampo e che si vede una volta sola; - esso, dunque, resta da un lato.:ome
ricordo, e, dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira,
oggetto d'intelletto, pura intelligibilità. E allora, non risolta la realtà
nella manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci
e come dover esser, per cui, colto l'essere, attra- verso l'educazione e
l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e
l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza
organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sgan- ciati dall'essere stesso,
nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nel- l'atto che intuitivamente
coglie l'essere, si postula la possibilità di rea- lizzarsi da un lato come
capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò
che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente
dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (l6gos teoretico, la cui
corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come
capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e
ordinando in unità (ragio- nevolmente) le passioni e gli istinti (ragione
pratica, la cui virtu è la "prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in
quanto intuizione di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si
pone come valore da rea- lizzare, da un lato coglie sé come capacità di
contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante
la ragione, di ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva
e anima sen- sitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di
Platone; anima irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come
conflitto e frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente,
secondo una giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni,
non in una negaziDne delle passioni, in cui consistono le virtu etiche (vita
pratica). "La virtu morale differisce dalla virtu con- templativa in
questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la
ragione" (De virtute morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la
posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato
ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una
interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale
che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri
posse) e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi
sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio, Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel
considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore
dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa,
invariabilmente fissa ai suoi retti principi. Essi non credono che in noi sia
una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa
parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono,
vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed
abiti. Essa non ha nulla di irrazionale... Essi sostengono che la passione
stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e per- versi che
la trascinano fuori di sé. Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che
ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. O meglio essi parlano
di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione
dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in
qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è
come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami.
Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione... Platone
ha veduto con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere
semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del
principio dell'identico e di quello dell'altro [in un conflitto tra l'anima
buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro non è che una porzione di
quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni uguali a quelli dell'anima
cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni. Essa ha due facoltà: una che
si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza, per sua natura atta a dominare
l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale, sregolata, sede delle passioni e
degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. [La parte
irrazionale si divide in concupi- scibile e irascibile]... Aristotele ha fano
un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e
irrazionale... Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della
parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla
ragione in questa parte dell'anima, è dovuta· all'abitudine. La ragione non vuole
distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né utile,
ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu morali, che
non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma 37
le regolano e le moderano. Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6-
nesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misu- rata
l'attività naturale delle passioni (De virtute morali, 3, 4). L'appello di
Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla
moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di
volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo
sia l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad
una superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza,
in un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici
(epicurei- smo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del
modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpreta- zione
dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone
intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. Si
capisce cos(perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli
punta sulla natura come potenzialità - interpreti il Timeo in termini
rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur
posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose,
non è il divino che si tra- duce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo
che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri
ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale
stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di
realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e
sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un
dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a
simiglianza di Dip, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici
(il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e
un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si
scandisce la realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della
filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da
parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione
politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle
"ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e
l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano
consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare
filosofia). Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare
quei semi.di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco,
De educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle
varie condizioni economiche, Plutarco vorrebbe fosse data a tutti ("Tutti
i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta
educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò
che la loro fortuna permet- terà di fare. De educ. puer., 11). Cos(, anche sul
piano politico, l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile
pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione
da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra
le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma.
Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la
supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni
guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta
indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici,
824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte
politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni,
quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o
negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere
nello Stato? Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a
mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed
eticità intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini
della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una
doppia azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in
che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto
individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo
Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli
compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e,
dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando
nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni
politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da
istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che
richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi
sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi;
e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n
solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio,.si deve mostrare cosa voglia
dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare
come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini
("Bene- volenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco
apprez- zava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite parallele,
ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra ch'egli voleva
che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno dell'altro, non
avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero prodotto uomini
famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di istituzioni o di
regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo, attraverso
l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo salvandosi
mediante la conoscenza, si pre- pari a ritrovare la propria patria,
sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra
d'esilio: •esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di
miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che
afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica
e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le
scienze. Le •questioni." Medicina e metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico
Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una
corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politica- mente si
irradia nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione
politica mutata, rispetto a quella che sta a.cavallo tra la seconda metà del I
secolo a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una
giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; po- tesse, su di un
piano scettico, assumeado·posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico
di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa,
in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni
posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile,
politicamente piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo,
del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente
assunto da Favorino Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143
e il 1.76).8 A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine
equestre, in rela- zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a
Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco,
che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones
con- viviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò
soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filo-
sofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno
all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi
moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune ora- zioni e
diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di
Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e il 143-176, non abbiamo altre notizie
se non quelle date sopra nel testo. Si confronti oltre la Bibliofl'afia. 40
abbastanza esteso sull'Esilio, - nelle sue opere si proponeva di
esporre gli aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma
divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una
e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.·Di qui, accanto
ai Memorabili, in 5 libri, alla Storia varia, in 24 libri (come appare dai
frammenti che ne possediamo, nei Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene
Laerzio, Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali
filosofi del VI-IV secolo a. C.; nella Storia varia gli aspetti piu
appariscenti delle tradizioni culturali: il titolo di due frammenti con-
servati è già abbastanza indicativo: I. filosofi che hanno fatto qualche
scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filo-
sofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici (Sulle idee, La
filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte erotica, Sul modo di
vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo delfAcca- demico,
Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pam- file: compendio di
uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le opere fondamentali
di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui, appunto, si davano
gli strumenti, i modi o tropi me- diante i quali dimostrare l'incoerenza delle
varie filosofie, in una ri- presa dei tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri
su la La fantasia cata- lettica, in cui si rimetteva ancora una volta in
discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si fondava la loro
gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture della ragione alle strutture della
realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile
(xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra
rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano
retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e
i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile,
praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi
aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella
stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa
come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano
retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa
concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro
in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione
preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se
da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le
concezioni di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia
essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in
sé) e a quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche;
dall'altro lato, entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il
significato di scienza, già molto 41 bene indicato da Seneca: cfr.
sopra), la scepsi, intesa come ricerca cri- tica, costituiva le basi delle
possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i
fenomeni naturali. In altri termini, anche in questo campo, si presentano
innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si
sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi,
contrapponendo l'una ipo- tesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra,
dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non
contraddittorie. C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di
Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo
che nacque in Spagna nel 56 circa e che mori non molto dopo il 110, che fu
amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo all'imperatore
Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo,
inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti
cultu- rali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere conto di quei
movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio
comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i
contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella
prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il feno- meno
dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno
regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della
sponda orientale, nel ramo comasco del Lario.("ti porto dalla mia terra
natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda
erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che servono a spiegare
il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la possibile soluzione
("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi
strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede
all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no
("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una
propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà
e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie
di racconti intorno a storie di fantasmi. Partico- larmente interessante -
anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di
fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e
comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci
si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di
ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino,
quindi appariva uno spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un
affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno,
ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla";.la casa fu
presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo,
informatosi, aveva saputo del 42 fantasma; Atenodoro, pur cercando
di distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di
catene e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro
finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto,
Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove
il fantasma era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte
a spese della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti,
secondo i riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di
volere aguzzare l'ingegno. L'ar- gomento è degno che a lungo e a fondo tu
l'esamini: e neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza.
E anche se tu,.come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di
giungere a una conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e
nell'incertezza, poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che
cessasse ogni dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore
documentario di non poca importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di
un unico me- todo di lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono
registrati ed esposizione delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da
discus- sioni: a tale esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie
ipo- tesi, base da un lato per una preparazione culturale generale e, dal-
l'altro lato, per una discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e
piu convincenti ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e
oucstioni naturali, in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie
concezioni, insieme alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti
su di loro, in un ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze
(lavori tutti, sotto questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione
storiografica è chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le
opinioni, gli apoftegmi dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse
sul principio del m secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il
lavoro storiografico sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e
discussioni delle varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro
quest'àmbito, entro i termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu
lontane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si
assumono a contenuto di indagine i diversi piani di feno- meni: dai fenomeni
naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia,
astrologia, matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura
umana (esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e
straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che
per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella
determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che
permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio,
l'indagine stessa di- viene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè
·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente
determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio
sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla
corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu
stret- tamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure,
rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come
veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permet- tessero un
discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere
relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e
all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu
strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle
soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, rag- gruppate in
questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in
questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o re- spinte a
seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i
maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e so- luzioni al
commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo- tele, degli
Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del- l'altra
interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter- minare
venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche
volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte,
cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e
concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle
esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli ebrei
come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche come
si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e
dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici,
insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di
Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e
introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele
e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il
fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha
principio la formazione del medievale "Platone teologo" e
"Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già
dalla fine del 1 secolo a. C.,.con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato,
di contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento
critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi
argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e che
nell'arco di tempo che va da 44 Enesidemo ad Agrippa (metà del I
secolo d. C.), l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con l'indirizzo
della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e
ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca
scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti
fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis,
che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti
sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indi- rizzi
fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a.
C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli
Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti
"pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici
"metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea (seconda metà
del I sec. a. C.), e il celebre Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è
proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano di Efeso
(vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei medici
empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos (m sec. a. C.),
prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine metodologica, con
Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il Vecchio (n a. C.),
Glaucia di Taranto (n a. C.), Eraélide di Ta- ranto (prima metà del I sec. a.
C.) e nel I sec. d. C., con il celebre oculista Demostene Filalete, con
Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio,
Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e il u secolo, con
Menodoto di Nico- media. I "teorici" fondavano la loro filosofia e patologia
entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma"; i
"metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser
necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti,
collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da
Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo
dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle
malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di
Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo
umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia
delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di
Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie
acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i
"metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella meto-
dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di
Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi
medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come
malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die
griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto,
per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso
erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della
pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai convincente
(la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò discriminati,
implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto assunse le
argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione
"probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei "metodici,"
mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi di spiegazione
generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle possibili ipotesi
che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo dei quadri clinici
entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie. In realtà la
polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano scientifico,
del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o direttamente
osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati e feno- meni,
in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo me- dico possa
osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali, raccolti dalle
osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in cui consiste
l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge, per via
analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si rendeva
finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non
interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per
cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a
quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore
polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e
trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di
tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei
"metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile,"
in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla
di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente,
egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che
Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico,
l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische
Empirikerschule: eine Sammlung der Frag- mente und Darstellung der Lehre,
Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della
scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva
con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza
con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi
simpatie per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina
empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche
Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra
enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non
uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato
esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione
all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo
una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni,
segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in
sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo
la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una
"descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che
non pre- sume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo
della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi-
care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si
annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo
stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non
identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente
antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella
critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII,
32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto,
Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali
della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della
medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è
affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato
l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal
noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i
fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti
mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé,
ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40,
15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva
identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida
l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e·
definitivamente assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza
metodologica e logico- linguistica dello scetticismo, come ben si vede
attraverso Sesto Empi- rico, vissuto tra la fine del II e il principio del m·
secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio
(IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e
Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di
Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e
di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive, dunque,
Sesto: 47 Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici
s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta
empirica afferma reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo
un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo
Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire
quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici,
sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza
presumere di dire se siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da
questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli
Scenici... Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla
necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono
contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui
prendono ·questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire
a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle
rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si
aggiunga che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in-
differenza nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza
annet- tere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice
in rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice
"tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il
resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue
espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria
affezione senza osser- vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando
circa le cose che sono fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico
adopera, senza pre- sunzione dogmatica, la espressione "nulla.dò per
certo," e l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi
anche il "metodico" dice • comunanza," "si riferisce"
e simili, cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola "indicazione,"
senza presunzione dogmatica, in luogo di "guida," verso quelli che
sembrano essere i provvedimenti consentanei, sulla base di quelle che appaiono
essere affezioni secondo o contro natura... Congetturando da questi e altri
fatti simili, si deve dire che l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli
altri indirizzi medici, una certa affinità con lo Scetticismo, s'in- tende,
comparativamente agli altri, non in modo assoluto (lpotip. Pi"·• l,
236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo a)
Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. Attraverso
Plutarco si delinea abbastanza bene una certa esigenza e uno dei possibili modi
di interpretare alcuni testi di Platone, anche per dare una forma e un fine
all'azione dell'uomo, che, nel conflitto delle forze che lo agitano, una volta
sganciato dall'Essere, il quale si pone teoreticamente come condizione
dell'esistere, praticamente come modello da realizzare, è libero di adeguarsi
all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48 nel conflitto, di restare
nella molteplicità, frantumato nelle proprie pas- sioni, succubo dell'anima
malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai molti e complessi testi di
Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos- sibile, qualora quegli stessi
testi vengano isolati da altri, e cioè quel- l'aspetto che può appunto
interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che l'Essere, ciò che dà
forma, ragione e significato alla realtà, si pone come dover essere, come
termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a Platone si delinea
nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e fatalistico dello
stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del- l'epicureismo, certi motivi
aristotelici potevano, invece, essere ripresi come una approfondita interpretazione,
sul piano logico-metodologico, dello stesso Platone (il mondo delle idee tutto
in atto in Dio, forma delle forme, condizione e principio, causa prima e, ad un
tempo, fine ul- timo, motore immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per
Platone il mondo delle idee è tutto presente nell'intellezione sempre in atto
di Dio; oppure i due aspetti della realtà fisica, il mondo celeste e
intelligente:: il mondo sublunare, che si potevano interpretare come i due
termini in tensione dell'ascesa al divino; oppure ancora l'aspetto formale del-
l'etica aristotelica; o, infine, la teoria delle sostanze seconde senza di cui
non sarebbero gl'individui, che in realtà si risolvono e si perdono in =tuelle
forme universali). D'altra parte, poiché, come sappiamo, Aristotele non si
esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su una o altra opera di lui, si
poteva interpretare Aristotele come il filosofo che nega la prov- •idenza, lo
stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità dell'anima e ma sua
sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli, il 3losofo che
risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma- lità, che.al
filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una forma alla
propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle:ondizioni che
permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta
di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo veduto,
portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti dell'aristotelismo.
Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e
perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura,
all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati
di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Pla- tone, il commento,
nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione
nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo, a sottolineare certi
aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo
quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato,
all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il
pensiero di Platone, suddiviso nei 49 capitoli divenuti oramai
canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici
d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed esposizione del suo
sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove
maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu sistematico e
l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del
Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se
non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per l'anonimo
commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura.
L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino,
vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che
pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse
notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento
al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da
Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone.
Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi. Autore
di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il
testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di
una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande
influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un
certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a
causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai
convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in
tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e
contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV);
Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non
maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~
incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel
125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine
ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene
dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{
l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque
dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece
iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica,
astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente
le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso
rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si
recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte
cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si
ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in
dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane
amico conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio
maggiore di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo
stesso Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava
rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di
Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici
i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi
i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso
Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio
giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere
costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio,
trascinato in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo,
energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa,
pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio
rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia
liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove,
per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di
parlare 50 opere di grande importanza per una ricostruzione
storica del plato- nismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo
di inter- pretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di
la- voro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel
suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere
(filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in parti- colare)
ricorrere a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso
l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoi- cismo, in un
recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua
Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di
Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV
't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è
un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla
sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che
si allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr.
Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza
(br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l). E cosf
conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di
introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;·
TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si
presentano, forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di
articolazione logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare
le altre dottrine di Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè, XXXVI). E
dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In
questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si
direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per
indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che
ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della
città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono
rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi),
l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque
dogmatis (in tre libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo-
Aristotclc), le Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in
cui si narrano le avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che
trasformato in asino per magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc).
Degli scritti perduti si ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re
rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn
conviviales, De Republica, Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras.
Sembra, infine, che Apuleio abbia tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di
Aristotele.. 51 utilità del genere umano, in fisica, in morale, in
dialettica. Cosf, com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre
parti costitutive della filo- sofia, anche noi parleremo separatamente di
ciascuna di esse, cominciando da quella parte della filosofia che ha per
oggetto la natura (Apuleio, La Dot- trina di Platon~, I, 5, 190). Se l'intento
estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine
sistematico delle fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione,
isagoge, allo studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro
intento intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone:
avviamento, attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non
contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini
dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno,
consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa
salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa
(.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino
con termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è
l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il
corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui
relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima
è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in
altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v
TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)"
(Epitom~,II, 2). Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di
Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò
che queste di- verse parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e
che non solo esse non erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva
all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse scuole questi elementi
della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica
a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe
tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità...
Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl per il genere umano (1,
3, 187). Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno, onorandosi di appli-
carlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12).
Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione storica di primo piano, e
cioè che, appunto, non esiste un "platonismo," ma tanti
"platonismi," ciascuno, almeno in parte, effettivamente platonico,
ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro aspetto, a seconda della propria
esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una comune problematica, l'impo- stazione
delle opere platoniche di Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le
tracce che abbiamo delle altre opere su Platone, degli 52 altri
commenti ai dialoghi platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un
tempo, a chiarire, per altro verso, il significato dei commenti a certe opere
precise di Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad
Alessandro di Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra
chiaro che, quali che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di
volta in volta, la funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico
corpo dottrinario della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei
dialoghi platonici e sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici
interpretazioni del pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a
quella di Aristotele, da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi
stoici, di Antioco di Ascalona, di Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto,
un lavoro di sistemazione e di enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva
per le altre filosofie, per presentare dell'una o dell'~ltra un corpo
dottrinario coerente e compiuto. Come durante il I e il n secolo d.C., vediamo,
ad esempio, una serie di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le
argomenta- zioni degli scettici, culminanti nella grande opera di Sesto
Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di
sillogi del pensiero stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di.stoicismo
da Zenone in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte
presentano un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col
pensiero dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione
che dello stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene
per Platone, per il corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni
di. lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti
del platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad
altra esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro,
pur usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in
un rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli
stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico
avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che
costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un
certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il
nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di
dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui
commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro
non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche
il loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò,
ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma
anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata
perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, 53 raccolto e pubblicato
in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di
lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v
3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica
platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo,
insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel
125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto.
Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera
maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o
Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo
Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di
Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla
confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal,
op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm),
ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa precisare,
facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di sistemazione
di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre aspetti divenuti
canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere: della. teoria, la
parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le cose divine si
chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le loro
rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica;
quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica:
cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole
dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e sal- vare lo
Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la
terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti,
detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr.
Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'in- terpretazione del
pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di
rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per- ciò razionalmente
accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi
Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche
esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu delle volte
mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad
un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi
perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto
è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il
linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino,
anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato
il punto di partenza di Platone, per avviare a compren- 54 dere da
un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che
nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei
confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel
I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel
II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto
ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter- pretatione di Aristotele, tanto
che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse,
si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei
confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di
Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle
possibili inter- pretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse
dal- l'interpretazione metodologica del Platone del Teeteto, del Parmenide e
del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee,
idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le
forme senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di
quelle che sono le condizioni logiche che permet- tendo un tipo di discorso non
contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera
quell'ipotesi che non fosse piu oppugna- bile. Aristotele giunse dove giunse,
ma intanto il suo metodo d'inter- pretazione e di discussione dialettica delle
ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre
discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle
tesi platoniche per ren- dere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e
per ciò stesso con- vincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di
Platone ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero
platonico, il rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini
aristo- telici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo. b) l
commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia,
So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene. A tale propo- sito, anzi, non va
dimenticata qui l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione
del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un
progressivo accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di
commenti e di. introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei
commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad
Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene,
tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto
Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a Roma; nel
1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino,
Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non
sappiamo niente di preciso. del n non sono rimaste che testimonianze e la
precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già
indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che
sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che
compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il signi-
ficato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e
fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura
dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio
- vissuto presumibilmente nella seconda metà del I secolo sappiamo che commenta
le Categorie, il De lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica
Nicomachea (di quest'ultimo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in
Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come
sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori
interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse un'opera per delineare quale
doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in
Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva doversi porre al principio di tali
scritti, a mo' di introduzione e quale condizione me- diante cui comprendere la
via metodologico-logica attraverso cui Aristo- tele giunge a determinare la
propria posizione, le Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il
metodo di Aristotele commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol.
harm., ed. Wallis, Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro
questi termini, del sapere astro- nomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di
Smirne, Conoscenze mate- matiche utili a una lettura di Platone, III). Di
Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò la logica di
Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini matematico-formali,
risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle sfere e della visione.
Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di Aspasio, com- mentò
particolarmente i libri logici (Categorie, De lnterpretatione, Analitici primi,
Topia), sostenendone il valore formale. Cosi, sembra, sottolineando la
contraddizione che v'è nel porre Dio motore immo- bile e il movimento dato da
esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento alla Fisica, il dio
aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto aspira, per cui
bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si muove, in quanto
ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il significato dell'anima
mundi del Timeo di Platone. 56 Su questa linea non sembra perciò
un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u secolo) potesse sostenere,
come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV,
1,13 e 14, l sgg.) rima- stici dalla sua Storia della filos_qfia, che tra
Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia,
De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che l'aristotelismo si poteva delineare
come l'in- terpretazione logica del platonismo (del resto, pare, tesi già
soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla scia di Antioco di Ascalona, e in
chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da Aristone di Aless;m- dria, che
commentò gli Analitici e le Categorie e da Alessandro di Ege, del I secolo d.
C., anch'egli commentatore delle Categorie). Cos{, anche gli aristotelici del 1
e della prima metà del II secolo tendono a una interpretazione e
familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del tutto, a cui doveva
servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle scienze, avente il suo
criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso al complesso dei libri
logici di Aristotele fu dato il nome di "stru- mento" (6rganon). E
ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in- teresse per certi libri
logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la Fisica e il De coelo di Aristotele,
messi accanto al 'fimeo dì Platone. At- traverso lo studio dei
"luoghi" argomentativi si cercava di determinare le possibilità del
discorso scientifico - indipendentemente da uno o altro contenuto - che poteva
dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor- rette (donde la ripresa della
genesi del discorso qual'era stata formu- lata dai primi stoici, per rendere
possibile la predicazione), sulla strut- tura e l'ordinamento del tutto, che si
poteva, perciò, interpretare in chiave stoica (vedi De mundo dello
pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il mondo delle idee - il
punto piu problematico di Platone - in intellezioni in atto della stessa
sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia qualcosa, ma in
quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per esistere deve
conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto forme e tutte le
trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo). c) Il
«platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa chiara
la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di cui già
troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6 ha la
sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di una certa
tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni della
dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione, analisi,
induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra. 57 significato del linguaggio),
e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze
(aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere
ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da
cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque,
Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e
dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi,
passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e
alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter-
mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta-
impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale," "nutrice,"
"madre;· "spazio," (xwpat), sostrato incapace di sentire e che
non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo [cfr. Timeo, 50c, 5Ia,
49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria è di ricevere i frutti
di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice che tutti li accoglie
nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa, per sua natura, sia
senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per poter ricevere tutte
le forme]. La materia perciò non è né corporea né incorporea: essa è un corpo
solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo che è virtualmente una
statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma per essere una statua
[evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2; Fisica, Il, 3] (Epitomè,
VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo· principio, Platone ne
ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle idee, l'altro nel padre e
causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto a Dio, è l'intellezione
di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç.8-eòv v61jatc; otÙ-rou); in
rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla materia, la misura;
al mondo sensibile, il paradigma; relativamente a se medesima, allorché si
esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le operazioni eterne e perfette in
sé della intellezione divina. E che le idee siano lo si può stabilire cosi:
posto che Dio è una mente o un essere pensante, egli l}a dei pensieri e tali
pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le Idee sono. D'altra parte, se
la materia non può misurarsi da sé, è necessario ch'essa trovi tale misura
altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non materiale: ammesso
l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque esistono e sono
misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste in virtu di una
causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche da qualcosa e
mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se non l'Idea? Le
Idee dunque esistono.... Di qui anche il terzo principio che Platone considera
come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo grazie al seguente
ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono sotto i sensi né par-
tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili, i primi intelligibili
sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli sensibili. Ammesso questo, si
deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue. Dato che gli uomini sono un
complesso di impressioni sensibili tanto che perfino quando si propon- 58
gono di concepire l'intelligibile, vi mescolano qualche apparenza
sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di colore che essi spesso vi
aggiun- gono, è loro impossibile concepire con purezza l'intelligibile: gli dèi
invece si liberano dal sensibile e concepiscono l'intelligibile in forma pura e
sem- plice. D'altra parte, poiché l'intelletto è superiore all'anima e al di
sopra dell'intelletto in potenza (!v 3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto
(xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in attività, poiché piu grande ancora è la
bellezza di ciò che ne è la causa e che è superiore a tutto il resto, ecco il
primo dio, il motore che fa agire senza interruzione l'intelletto del cielo
intero. Tale primo intelletto deve, dunque, concepire sempre se stesso ad un
tempo concependo i propd pensieri, ed è in tale attività dell'intelletto che
con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è eterno, indicibile, perfetto in sé,
cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi,
ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità,
la verità, la proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli,
ma per far concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è
indici- bile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché
egli non è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire
acci- denti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua
perfe- zione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità,
poiché non manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di
qual- cosa né un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa...
esso infine non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive
costruzioni si avrà una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto
facendo astrazione dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da
quella di linea, per giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare
un'idea di Dio procedendo per analogia...: come il sole non è la vista, ma
permette alla vista di vedere e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo
intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la
facoltà di conce- pire e agli oggetti intelligibili d'essere concepiti,
illuminando la verità ch'essi contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea
di Dio: [dalla contem- plazione del bello che risiede nei corpi, passare alla
bellezza dell'anima e di qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per
risalire infine al vasto oceano del bello... ] (Epitomè, VIII- X). Il testo di
Albino è certo molto chiaro per renderei conto di un tipo di interpretazione
della problematica di Platone relativa al rap- porto Uno-idee, idee-cose,
problematica che si risolve attraverso uno degli aspetti della logica
aristotelica. Eliminando via via le contrad- dizioni si giunge a porre come·
condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale da un lato
l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come pensiero in atto;
il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si arriva a cogliere
l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in atto discorso
intiero, ma da cui si ridi- scende a tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama
e il ritmo su cui si 59 scandisce la realtà, sempre in atto
allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna, processo e tempo, in quanto
se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà si costituisce. In tal senso
Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è (causa, per cui
grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione della
predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione
logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di
pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per
questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo
intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura
intel- ligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone
di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto,
si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non
cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv
lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili
alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si
muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e
di Albino. È anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso
un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv
&ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già
Gaio diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto
quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone
indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche
Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie
teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria
piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale.
Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le
matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non
siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle
conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul-
l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze
senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice
[Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra-
scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una
ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per
l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60
ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano
scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione
del- l'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando
in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a
Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il
grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi
platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla
riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello
stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione
e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'"anima
mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a
quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario
Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del
XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v.,
XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello
pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro
e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti
dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche
l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un
altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il
quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e
proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di
un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a
Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fio- rito tra il 160 e il 170. - Se il
fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche
testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli Stoici
(Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma
anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata ·TratttftO
sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII,
5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev.,
XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle opere di Attico.
Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter
ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che
l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco
o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico,
Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu
discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano
e Marco Aurelio. 61 pretazione ch'essi davano da un lato delle
categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini
dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e
grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in
senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un
certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie ari- stoteliche,
vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen- dente platonico:
cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14 sgg.), si capisce come
si potessero interpretare certe conclusioni aristoteliche quali negatrici di
una provvidenza, di una distinzione tra intelligibile e sensibile,
dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice del mondo, per cui si
poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica, che Aristotele è ateo
sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il divino nell'attualità
del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico. "Platone,"
esclama Attico, "per non privare il mondo della Provvidenza, dichiarò che
questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo quei platonici che
sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone, non è stato
generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha indotti
Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in Dio], e pér
cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che imperituro è
solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio neppure il potere
di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6). "Aristotele cosi
annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà verso gli esseri
superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita umana... e
supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà morto con lui,
eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli, dunque, non
ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni relazione con
gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi decisamente ateo o
che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi dove li ha posti.
Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi dicendo che non
hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con questo il suo
ateismo..." (in Euse- bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di qui, secondo le
testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per il quale Platone
avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa viva da una
potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel
Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra il divino,
causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite e
dispersione e perciò come radice 62 del male, avrebbe posto
Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade
Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico
(Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il
corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il
poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli -
volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità,
riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in
quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim.,
93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15,
e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottoli-
neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il
cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due in-
terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non
contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di
Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica
(e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà,
che·presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende
(onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le
forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in
termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il
divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si
scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il
significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica,
dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo
approfondimento nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia),
sia gli sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad Aristotele, di una
certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da
ora va detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di
Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo
discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie,
dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le
riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico),
proponendo, per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contrad- dittoria
per spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome
della tradizione razionalistica greca, scriverà finis- sime pagine Contro gli
gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni
speciali"). 63 e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo
Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele sembra.essersi
posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene,
di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del
Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa successe
Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono
rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici:
in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98), la
Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono
rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l, 1891; al
De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901), e, oltre
che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato sulfanima (in
2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei
quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni sulla fisica e sulla
morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione che
Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi,
muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che discorso scientifico è
possibile solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente,
Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il
perché delle cose, ricorra a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto
questo aspetto egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave
platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu
strettamente metodologico della ricerca in una chiara determina- zione del
retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza,
atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dal- l'altro lato,
l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu- ralistico
logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della
"essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in
quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come presupposto
logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde
reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le forme, in'
quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come
astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la
"materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica
dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini,
appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi
aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte
dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come
al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria,
sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui
divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64 zione, sembra
abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del
rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che
l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in
potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue
tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal
corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa
all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro
puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è
mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere,
afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di
tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o
"materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84,
ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà
d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione,
dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la
potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali
possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una
capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui,
accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in
abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere
resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha,
tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per
acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due
aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in
questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra
condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma
dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga
gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili,
l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto
tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a
quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che "
separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro,
seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28),
in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori
(&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto
poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte
stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto
solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella
individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla
sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio
dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a
sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una 65
definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende
chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici
sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una
deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e
gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di
essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un
particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono
esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro
la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo
intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il
che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle
forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è
termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde
esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa
spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano
indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella
che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea
Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti
per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed
effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo-
crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato-
nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari-
stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo
Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da
Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con
l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con
il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica
(e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta
la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui
vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo,
sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e
che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl.,
l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato
da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del
commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è
impossibile ricostruirne con.certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con
una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato-
nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66
lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla
categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il
tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò
predicare; niente senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è
l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile,
e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire,
esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità
e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità).
Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci
dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come
punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la
estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà,
una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso
del Timeo sulla funzione del- l'anima del mondo ("Dell'essenza
indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e
che si genera nei corpi, di tutte e due formò,.mescolandole insieme, una terza
specie di essenza inter- media, che partecipa della natura del medesimo e di
quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella
divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal
centro fino al- l'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto
intorno, e, in se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio
d'inces- sante e intelligente vita per tutta la durata dei tempi...":
Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del
tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto
termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del
tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno,
dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo
scandirsi in opposti, in una serie di gradi, incentran- tisi nell'anima termine
medio e unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e,
per altro verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è
processo e divenire. Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo -
come avrebbe voluto Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in
aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità,
l6gos, unificando in unità dialettica i due momenti in cui si distingue il
tutto, identità e alte- rità, unità-dualità, afferra in sé il T(intuitivamente,
cogliendo sé cerniera tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio,
Praep. ev., XIII, 17). Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto
del signifi- cato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di
Apuleio10 in 10 Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra. 67 cui si afferma che Platone
avrebbe ripreso dai pitagorici la scienza • in- tellettuale" (" nam
quamvis de diversis officiis haec ei essent philosophiae membra suscepta,...
intdlectualis a Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri
termini, come chiaro risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di
Cadice, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si
intendeva lo studio della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica
e della geometria, ma anche dell'astro- nomia e della musica), quale si era
venuto determinando nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad
indicare uno dei possibili esiti del- l'interpretazione di Platone in chiave
logico-matematica, per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si
discute è il Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.),
nel Sofista sembra che si precisi il significato delle idee che non sono
Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei
generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo
limitati, cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i
nessi e le ar- ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in
quanto con- nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui
i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non
si scordi l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl
come uno e molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente
l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista,
chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato
(indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare
come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come
finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione,
convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia
colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad
altra definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato
(numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è
in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e
misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua
intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora,
diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si
capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica
dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e
dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile
(colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini ma-
tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività ar-
ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà,
invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disartico- 68
lata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato
informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo
stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è
discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi-
bile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla mi-
sura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla pos-
sibilità della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque,
irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto
è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse
interpretare ed esporre, in forma piu de- scrittiva che non Albino, la
concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare
le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama
Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di
magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in
Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie": Ap., 55},
e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia rerum
esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e
le forme delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di Dio dice
che è incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la
materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice, ma è informe,
infinita, in sé né corporea né incor- porea; che le stesse idee o forme sono
non in atto - inabsolutas, in- formes, nulla specie nec qualitatis significatione
distinctas: l, 5, 190; - mentre un po' piu sotto, considerando che la realtà
scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie le idee,
realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i modelli di
tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise del
discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si
capisce cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due
sono le essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo: la prima è la
condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice
Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intel- letto, e come
tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe
(perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee
e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est
et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la
seconda, condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è
definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui
crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che
l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelli-
gibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69
cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che
scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile
a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il
resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione
dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di
Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica
dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si
veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano,
l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze,
come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo
tra- scende, in senso stoico-aristotelico.(donde il De mundo di Apuleio), dalla
corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una
infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime
demoniche. Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi
fra la suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro
mezzo i nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li
chiamano dèmoni... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le
rivela- zioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie...
Non è fun- zione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in
sorte alle divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla
terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra
gli dèi e gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro natura
e per loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le divinazioni
e i miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella
semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro-
fumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà
presente, perdere per un momento la memoria del proprio corpo ed essere
ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in questa con-
dizione, come in una specie di sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La
credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tra- dizione,
l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche
il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel
senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare alla patria
celeste donde è venuta, quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo
imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti
della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge
in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico,
mediante cui egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di
Gaio, di Albino, 70 di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius
dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione
(cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su
questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica,
ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione
di sfondo il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale,
scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò
sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di
credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che
la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai
misteri, forme religiose di purificazione; Apu- leio si mosse costantemente entro
l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua visione di sfondo,
valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi,
in regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri. Senza
dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva
all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave
aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di
certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione
dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la pos-
sibilità, o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascen- denza del
divino, in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a
"rivelazioni speciali." Ora, relativamente a Dio, un punto appare
chiaro in tutti. Tutti hanno presente da un lato il celebre testo della
Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che il Bene, il divino non è idea
accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere delle idee, non è un'essenza, ma
qualcosa oltre l'essenza, condizione delle essenze e perciÒ superessente per
maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx
njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro
lato, i testi platonici in cui si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile
(&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T
eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6},
nel senso del conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c);
e quei testi in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità
vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile in termini mate-
matico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è
trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il di-
scorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr.
Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme
ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le
idee; e tanto Albino quanto 71 Apuleio proseguono affermando che
Dio, in atto tutti gli intelligibili, è indicibile (ilpptroç),
inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto
(atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto
(nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose, incorporeo e
immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che rende
pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò non
questo o quello, _ma un 't'((ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E
cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra),
Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò
che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre
l'avversità allo stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella
del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile
pen- sare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes-
senza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione,
proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe-
renza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire
è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di
tutte le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si
giunge passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni
sensibili, all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale
nell'anima, nel pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso
pensiero in atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso
che è uno, onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente,
lo trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç,
nus), come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui
neppure si può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie
gnoseologicamente poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero
la moltepliçità della immediata espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed
afferrando, mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo
indiscorribile, indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri
aspetti della realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma,
attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro.
Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç
lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile
solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza
specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino,
Celso,11 vissuto nel 1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel
u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua
opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da
Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72 II secolo,
noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e,
soprattutto, per la sua polemica contro I"' assurdit~" della
concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale
polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui,
appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo"
di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle
qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non
è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla
figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte
le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di
lui non si può.dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o.:h:6c;
où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si
afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In
effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come, dunque, conoscere Dio?
Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è
tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna
rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce non può resistere al fulgore
dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando si sia
chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne, e
abbiate guardato in alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n: vcj)),
solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero discorso, VI, 62-66, ed.
Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene sistematicamente confutalldo il Vero
disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto, sembra, tra il 178 e il 180, al tempo
in cui Marco Aurelio aveva preso misure anticristiane, vedendo nei cristiani un
pericolo per l'unità dello Stato (non a ca.so il Vero discorso si chiude con
l'affermazione che i Cristiani verraDJlo tollerati se si deci- deranno a venire
in aiuto dell'Impero). Celso mette in discussione il Cristianesimo; egli sostiene
ch'esso non ha nulla a che fare con la filosofia, dimostrando, per altro, che,
se mai, sul piano religioso molto piu convincente c filosofica ~ la tesi
platonica, mentre illogica ed assurda ~ quella cristiana, in particolar modo la
fede in un Dio che s'incarna nell'uomo e in una visione che pretende d'essere
l'unica vera. Estremamente fini sono gli argomenti di Celso nel confutare le
tesi cristiane. Egli dimostra una buona conosc:enza del vecchio e del nuovo
Testamento e, senza dubbio, i primi tentativi di una formulazione filosofica
dell'espe- rienza cristiana (primi apologisti), filosofia ch'egli decisamente
nega essere tale. Che Celso stesso sia stato un platonico, non sappiamo. Certo,
egli vuoi dimostrare, come dicevamo, che tra le filosofie religiose la piu
convincente ·e razionalmente (non per superstizione) accettabile ~ la platonica
(nell'accezione che il platonismo aveva assunto nella corrente Gaio-Albino).
Niente vieta, quindi, di supporre, su testimonianza dello stesso Origene
(Contra Celsum, I, 8, IO, 21; II, 60; IV, 54, 75; V, 3), che personal- mente
Celso fosse un epicureo, e che al Celso del Vero discorso fosse indirizzata la
dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o i l falso profeta d i Luciano, che
~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già ne La morte di Pellrgrino,
violentemente critica il Cristianesimo. Per atteggiamenti critici nei confronti
del Cristianesimo, in forma retorica e non in termini filosofici e logici come
~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone (Contro i
Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino,.dpol. Il, 3; Taziano, Contra Graecos,
19). non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale
l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e tutti
gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere loro:
eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera
ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano
(unico, persona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un
uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui
anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che
tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si
vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione
assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà,
niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque,
l'idea di un Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato
da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in
funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio
"platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane,
ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò,
universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in
sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto
questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del
n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che,
sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di
Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.;
anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n
secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che,
semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio
cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in
questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente
noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là
testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr.
Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione
Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando
sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come
"pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu
recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior
parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di
Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5;
XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p.
303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei.frammenti c delle testimonianze
di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono,
disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6
libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met
Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique,"
classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il
De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone,
Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima,
Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza
dubbio Nu- menio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla
stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto
Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-ma-
tematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei
Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo
vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51),
come certi motivi dello gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi ha
trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di
Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre
appello ai popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le leggi,
i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono
Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr.
9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso
degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del
luogo, Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti
alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed alcune
testimonianze e brevi testi interpretati.da Prodo, da Calcidio, da Por- firio,
da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl
T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda
l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique,"
classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente,
perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di
Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva
presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Pla- tone
(Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre
idee, ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi pla- tonica del
costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al
Platone e al Pitagora quali si erano venuti configu- rando nel corso del I-II
secolo, in contrapposizione al Platone proble- matico e scettico qual era stato
interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio
fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e
reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in
fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in
realtà, poi, il metodo argomen- tativo di Numenio è. quello proprio dei
platonici razionalisti del 11 se- colo). Numenio particolarmente si travaglia
intorno al problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del
reale, condizione 75 dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e
Monade perciò di là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile,
indiscorribile, invisibile al pen- siero e in tal senso incorporeo, immobile,
"inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il
mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta), un
principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo
essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire
che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion
d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle
idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione
plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo
dio"), Nu- menio sostiene che non si giunge attraverso un salto
rivelazionistico, ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile,
per via ne- gativa. Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è
('r(8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può
essere nessuno dei quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli
elementi son fatti, la materia (fr. 12), ché la materia in quanto inde-
finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non
la si può sup- porre che come un fluire, un disordine, in ciò opposta
all'essere, in realtà un non-essere, che assume essere in quanto definita
{ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né materia definita (corpo)
né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere: senza l'essere non
sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi non sarebbero se non
ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che sono, se non subissero
l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò «cr&~!J4-rov), ciò mediante
cui i corpi si determinano, assumono forma, cioè esistono. Poiché dunque i
corpi per esserci hanno bisogno di un principio che li determini (-roti
xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale principio non può essere
corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un qualcosa che lo determina
(di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo, immobile, non si accresce
né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a se stesso («&t
XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la realtà sia,
l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie, dall'altro lato
principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che ha in sé tutte
le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei nuovi fuochi
("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al precedente,
ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso": Eusebio, Praep
ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso- gno di nulla,
immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21). Indiscorribile, dunque,
l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio dell'intelletto, onde di lui si
può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn) (fr. 16-17). lntelligibile
perché condizione degli stessi intelligibili e dei visibili, esso è, appunto,
come l'intelletto, condizione del discorso e unità del discorso, trascendente
il discorso medesimo e afferrabile attraverso il discorso, intuitivamente. Se
dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per analogia - che è Intelletto e
Intelligibile (il primo Intelletto e il primo Intelligibile), si può anche
affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto tutte le intellezioni, ciò
che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio ciò per cui tutta la realtà
esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene), onde l'Essere è oltre il
discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in sé tutto, a cominciare
dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e intelligibile, ove tale secondo
intelletto è, metaforicamente, da un lato volto all'uno-intelletto, dall'altro
lato all'obbiettivazione di sé come intelligibili determinantisi, che dànno
cioè essere, forme alle cose, in una obbiettivazione.visibile, figurata,
presupponente perciò l'idea estensione, la materia intelligibile. Di qui,
sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere, che in sé, intelligibilmente,
resta immobile e tutto in atto, - un terzo intelligibile, il mondo nel suo
esserci, che, in quanto proiezione del secondo intelletto, intermedio tra
l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la materia come fluidità, è da
Numenio detto "intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç, nus
dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione di
testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del
platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l)
L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere as- soluto e
tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si
distingue pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della
distinzione in pensante e pensato (la superessenza della Repubblica},
afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al
quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto
puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via occorre per
esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle
scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è
l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli esseri che
partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun altro modo
che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v " (fr. 28 L.);
2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distin- zione
pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili sono le
ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla fluidità della
materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e attivo
del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato," ossia il
mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni
dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla
mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto
secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Averndo affermato che vi sono
tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema:
poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque
due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto
dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi
cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov),
di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93
a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di
Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi
diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una
certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo
universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo,
28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la
distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che,
senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della
Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo,
nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo
dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il
primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~
come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il
primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in
Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto, per Numenio, uno
solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a caso in un
frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo
visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi rimane preso
nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato. Invece,
attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di qui l'importanza
data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci, come dovuto
all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si raccoglie
nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è
determinabile entro.i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare
irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa
del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da
un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78 in
sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a
un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono
l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si
costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti
all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque,
nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il
ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo;
pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo
pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le
forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure
geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione
non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è obbietto pensato, diviene
causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è
principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In
Tim., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi
frammenti della lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea
che non vi sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le
anime, una razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò
l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è
la posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto
intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto
s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo
Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo,
Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In
Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti
entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi
del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il divenire,
il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità, l'irrazionalità, e
l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi avevano veduto una
delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è vero che non poche
volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr. Porfirio, Vita
Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da Proclo, In
Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla- tonismo) ebbero, com'è
testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole influenza nelle
ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e l'uno e
l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi
platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II;
Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl.,
VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate). S.
li Gnosi," li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La
"gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non:rolo come
fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione
se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli
avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato
assai frammentario dei testi da.lui trasmessici e, in particolar modo, certo
suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile
"tragico," come dice Proclo (In Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico
in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio
fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale,
puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente
inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un
saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che
si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti
al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso
gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della
tradizione platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della
gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per
quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti
occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo
egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una
reciprocità di scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base
culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di
risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di
cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l
diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo
cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in
realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come
lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico
di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del
Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che
confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio
totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si
oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;>
(.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la
formula di Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo
punto, tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d'
&q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal
sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il
punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell'
lP"J(.L(ç 80 (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è
lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun
concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli
si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si
può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor-
siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci-
samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che
permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation
d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha
ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources
de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957,
Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può
essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di
certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione
orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella
platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi
quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di
Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano
dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una
diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni
gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella
sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité
classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le
possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei
rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul-
l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un
tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva
l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione
sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi
è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del
resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio
parlai allora, nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di
influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione
piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i
termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha
condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che
differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio,
per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo
e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo, riallacciare
esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica?
Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo,
forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è
negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte,
legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione
umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male.
Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il
Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti,
degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi
e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la
responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia
ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In
Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino,
attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del
trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~
lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il.&eb~ &pyo~
(l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è
volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il problema
dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello
dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che
storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens, cit., pp.
36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo
"gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb.
Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch
u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno-
sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del cristia-
nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi
sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene,
lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in
polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un
movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo
anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza
religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe
filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la
religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente,
diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui
venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo"
né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch
d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82
1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch
and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla
religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset,
Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio
ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine
persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo
gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con
l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene
la derivazione iraniana dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello
gnosticismo un mèro sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis,
Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da Jonas
(Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga). Il termine gnosticismo è usato in
senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo
gnosticismo appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni
la cui larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del
cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i
risultati di un incontro e di un congiungimento tra la nuova reli- gione e uno
gnosticismo che esisteva prima.di essa, che era inizialmente ad essa estraneo.
Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con
il trascorrere del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al
modo stesso che in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie
orientali, ai culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti
occulte. Per quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo
gnosticismo siano state di- verse, esso dev'essere considerato un fenomeno
specifico, una categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso:
si tratta di un atteg- giamento che ha un andamento, una struttura, leggi
proprie che l'ana- lisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare
sostanzialmente iden- tiche e con le medesime articolazioni alla base di tutti
i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o
'stile' comune, raggruppare sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi
gnostici" (Puech, La Gnose et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi
di vedere lo "gnosticismo" come un tipo di espe- rienza religiosa,
mediante cui, di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o
delle filosofie, si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle
filosofie a quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una
trasformazione di quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi
ultimi originari del mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o
dell'Iran. Presi da queste considerazioni bisogna; per altro, 83
non vedere, ovunque, influenze gnostiche - o, per lo meno, di un certo
gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le scoperte piU, recenti di
alcuni testi gnostici (lo gnosticismo prima era conosciuto solo attraverso i
testi riportati dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da
noi conosciute sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo
cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i
manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici
papiri contenenti 48 libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti a
Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre
conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle
citazioni di testi gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in
particolare gli scritti di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani)
lo stretto rapporto tra i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti
dell'ermetismo di Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi
tre dei libri ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo
trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio si vedono le ragioni che mossero
sia un platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cri-
stiana a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello
gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica del- l'universo -
che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana
di Dio -, l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della
figura del Cristo, un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd
nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio
intendere come si venne delineando nel I I - I I I secolo da un lato la
"filosofia cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movi-
mento neoplatonico, interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò
perdendo le molte sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi
tutto va precisato il significato assunto dal termine "gnosi"
(conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur
mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza," il
termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta
né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie della
ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio
discorsivamente analizzabile, bens(di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò
che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano
l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati,
in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante),
assolutamente gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia
avuto, appunto, rivelata la 84 "gnosi," agli
"gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato
il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe-
riori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo
spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli
"hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e
dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando, risolvendo
in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo,
da che cosa siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in Clemente
Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo luogo va
detto che tale significato dato alla "gnosi" fun- ziona quando si
tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi gnostici da
noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto e tutto in
sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può essere
l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra parte
cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili, cominciai a
domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo
tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra
Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua
emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio
decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il
Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male.
Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore
del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso
il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che
Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo
costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che
regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta,
determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo
gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il
n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi
celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità,
sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli
angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.'
In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo
vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del
vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa
origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la "gnosi"
spezzi la.catena della necessità e del fato, liberi, salvi dal male, affranchi
da ogni legge 85 (morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio, e
come solo gli "gno- stici," coloro che sono stati eletti, possano
essere maestri di conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale
Dio, dunque, resta di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto,"
"nascosto," "straniero," "abisso,"
"statico," "ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e
inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di
una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli
altri come si è strutturato il mondo, in che consista il male, quali pos- sano
essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i
termini di una concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva
benissimo, sia pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo,
rivelazione del divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di
Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico
astrologiche di origine iranica, degli allegorismi ebraici, di certe
interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in funzione di tale
concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a
quella "gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti,
mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno
capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri
demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che
dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo.
Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal
n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di
"gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto inte-
ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto,
quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in
principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente
sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po- tesse
benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere
interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere interpretato
entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo allo
sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela chiaramente
attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di Saturnilo di
Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino, Marcione,
forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si vennero
costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia
"serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e propri,
Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti,
Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il
racconto di 86 Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il
diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E
la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo,
ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano
spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e
zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma
un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando
la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di grande:
e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano: questo
uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca l'angelo
dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza
dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio
che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati
con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il
regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora
anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i
segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo
stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a Samaria
Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di Samaria
lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli Apostoli
denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque imporrò le
mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo denaro
perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il dono di
Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton, in
Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi
scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe
studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si
sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di
Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca,
vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la
scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le
Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che
Dositea vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta
costituita di trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna,
chia- mata Luna o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il
supremo, rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si
sarebbe recato a Roma al tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai
dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu
eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente
iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di
altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa
Elena, che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un
postribolo, passa per essere la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La
grande rivelazione, lppolito ha con- servato alcuni testi (lppolito,
Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di
Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I,
23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28;
Epifanio, Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici,
Haeres., 31). Dopo il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme.
Il racconto è molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro
con i Cristiani, ha già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi
con gli "inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi
respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette
in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia-
nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende
rimanere cristiana e passare per tale" (H: Leisegang, La gnose, trad.
frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il
fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi,"
par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e
dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua
vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone
l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella
rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il
Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione
"gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si
trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi
dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi
tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri
greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il
significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima,
particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago
la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor
(Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio,
"tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da
tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie.
Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom),
sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome,
ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il
pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che
dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano
dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si
determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata
Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia
sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla
radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta
in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui
si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente
dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e 88
ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a
salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel
pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande
rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto
sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.;
Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino,
Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci
di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli
angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli
uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine,
hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente
le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e
demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale,
ingenerato e incorporeo non si è manife- stato.come un uomo, ma come il /Ogos.
"Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché
i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare
cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la
moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo
degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli
Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non
di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei
cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14
morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo, Incantagioni,
un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti, come Ham e
Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al principio un Dio
ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che ha in sé tutte
le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono degli Orfici).
Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli: il primo
figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa da cui
proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H Forse
discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra il 120
e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli
avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San
Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un
Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune
citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta
Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88;
III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di
lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89
semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio.che rimane a
fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un
tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra
Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un
orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma).
L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno
degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre
primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una
serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della
luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto,
nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina,
trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha
costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato
da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a
Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che
proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la
conoscenza ("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte,
che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero
Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti
rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio
eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla
terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e
mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale,
sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in
realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5 originario
dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario dell'Egitto,
Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo Teoda, diretto
ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo che Valentino
fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il vescovo Aniceto (dal 135
al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla quale fu cacciato,
Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola. Di lui si citano
lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il Vangelo della verità.
Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr. sopra, il testo. Dopo
Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero.. Tra i valentiniani
orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore verso il 180, e di cui
sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui abbiamo riferiti alcuni
testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti; Bardesane, nato
ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore, sembra, di centocinquanta
salmi con relative melodie, e di un libro Sul.destino (ritrovato in siriaco:
cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in realtà, fu composto da un
suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che gli astri non negano
affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di Bardesane. Tra i
valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano: Secondo,
Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il 180, e di
cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo commentario
a San Giovanni), 90 di Alessandria al tempo dell'imperatore
Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo soggiorno a Roma
(136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò a Cipro una
propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie, inni, lettere e
i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della verità, nulla resta
che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una rielaborazione, forse,
della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo circa), assai oscura,
composta di testi diversi, con elementi propri di altre sette gnostiche
("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica, in copto,
scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata dal
Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della
liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi
dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda.delle
fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si possano
ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza chiara
risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto
principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre
dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò
Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé
compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e
solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice
Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico,
senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito,
Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con énnoia,
mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia (charis).
L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie, delle
syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha emesso e
solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto - prosegue
Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche Unigenito
(Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa pure
Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che
chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia.
Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta
Ragione (Logos) e Vita (Zoe) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero dovuto
essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il complesso, il
"plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni], quindi: da L6gos e
Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da Epifanio, Ha~u., 33, 3-7,
abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla gnosi una donn•). Altri
valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo, Alessandro. 91
accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e chiesa (ecclesia). Questa è
l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto, designata da loro con quat-
tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e
femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla.sua propria Mente
(Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè, Anthropos a
Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch'essi
glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed Eccle-
sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione, Senza
vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e
Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono
dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e
Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e
Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni...
taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale,
diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro
Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da
Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di
contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone
l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti,
bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella
radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade,
emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e
fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato).
Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la
grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile,
fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso,
all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui:
protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla
dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse
scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della
Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è
detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica,
ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima
Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si
distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si
chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore
(Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e
restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con
l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis,
insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza
spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma
senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e
principio femminile.... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa)
per riguardo al Padre, cioè Cristo e Spirito Santo, e mentre il Cristo insegna
[agli eonil 92 la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò
ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace
totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento,
tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro
comune,... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu
bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione suprema,
quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto,
soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da
tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua
scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui.... Quanto poi a ciò che è
fuori del Pléroma... la passione (enthùmesis) della sophia superiore, detta
Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina],
esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto...
come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non
poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos:... sopravvenne allora in essa
un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò
frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della
scorta del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una
dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno
all'indietro, cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva
generato, cioè l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa
una forma... E dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori
dall'eone, crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo]
creò le cose celesti e ter- rene,... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è
lui, ·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo
materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia
disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece
fu generato dalla Madre Achamoth è spirituale. L'uomo spirituale, che era nato
dalla Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al
Demiurgo... che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il
seme... Questo uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta
dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma
l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che
è materiale... fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere
qualunque soffio di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra
ciò che è spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di
volgersi; quello che è spirituale... e questo... è il "sale" e la
"luce del mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui,
unito a ciò che è psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di
ritorno. Il compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè
gli uomini pneumatici che posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio
e di Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli
"iniziati ai misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l
sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, anto- logia
di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963). 93 Sarebbe ozioso
soffermarci sulle infinite sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui
si presenta la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i
prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato,
Bardesane: Bardesane, originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa,
ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da
donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il
diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o
decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce
e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo,
conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui
Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia della "gnosi";
esponendo la medita- zione valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in
termini pitagorici, costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade).
Accanto- nate inoltre le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu
dato genericamente il nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem),
per la funzione data da tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo
vitale che regge il tutto in unità, stringendo il mondo nella necessità, nel
male, o venga inteso come il principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o
che ha la capacità di rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il
simbolo della generazione, a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata
la setta risalente al mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16
non si possono qui, per la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da
parte da un lato il Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il
Manicheismo. Marcione,11 nato a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima
16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della
terza grande "gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di
Valentino la sua figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente
Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7
anni, avrebbe scritto un trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche"
son dette quelle sette il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura
del Barb~lo, "in quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade
costituita dal Padre, Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare
sotto questa etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i
Barboriti, i Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti
particolarmente, Epifania, Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a
Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto
vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S.
Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente attraverso Tertulliano (De
fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri.V, D~ carne Christi). Per una
ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion,
Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcione non è da considerare affatto entro
l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his
lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle, che dopo
avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tor- nato a Roma vi
mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94
aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova
Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la
sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio
di un vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin
dal principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A
Roma, entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad
un'interpretazione del Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio
con il Nuovo (di qui la sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo
lavoro, Marcione si presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i
presbiteri a prendere posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le
discussioni si conchiusero con un categorico rifiuto della tesi di Marcione e
con la sua esclusione dalla Chiesa romana. Marcione, convinto della verità del
suo Vangelo ne trae le conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo
primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di
comunità particolari soli- damente organizzate, la vera Chiesa del Cristo,
ch'egli erige di fronte alla Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire
da autentico suc- cessore dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che
il Vangelo di Marcione si estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la
testi- monianza di Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha
riempito l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma,
in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto
eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo,
il solo a non interpretare le Scritture.del Vecchio Testa- mento e del nascente
cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture
in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In realtà
Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai
Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio
ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio
Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di
punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli
Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e
dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso
dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore,
questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio
"giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento.
Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di
Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;)
in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena,
apparte,nente alla setta marcionita. 95 figlio del Dio buono, si
rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno
predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare
che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio
del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti
buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo
non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo,
e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso-
lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio
atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di
suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non
ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che
Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle
lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono
apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi
un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo
significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il
Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un
Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto,
che salva. l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto
e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere"
(gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo
di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di
Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil- mente
distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di
contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo.
Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del-
l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della
salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come
autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della
Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente
fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va
considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su
quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il
Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della
"gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione
cul- turale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi-
luppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita
in 96 ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone
l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur
rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla
"gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni,
mantenendole anche se trasfigu- rate (il che, d'altra parte, è pur
testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono).
E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo
aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una
zona della Babilonia meridionale, il "mandeismo" (da manda, che è
l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d.
C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi,
respinto, una volta cono- sCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal
regno della luce, costi- tuente nella sua unità il divino (detto la Prima
mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di determinazioni,
le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si allontanano da
Dio, assumendo, in quanto.limiti estremi, figura e perciò corporeità che pre-
suppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e
male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla
terra la gnosi della vita, personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in
Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il bat- tesimo lava, salvandole,
le anime, che cosf si liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in
epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti
sacri nel vn secolo circa: le opere fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il
Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si
legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del
Giordano e compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in
umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza
di Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel
Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i
popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In
quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le
religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa
atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di
un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in
Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata
nei termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi
fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una
setta battista della bassa Babilonia, 97 ma da essa distaccatosi
fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo
accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man- deismo," il
"manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le
direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di
Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua
persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa
settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi
manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri
manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il
"manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che
lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da
un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo,
ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto di
rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle
tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi.
b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso
(piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa
parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente
composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso
del II se- colo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto,
costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di
cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che
Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta -, piu un dialogo, Asclepius,
traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:,
'téM~or:,, Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da
Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou,
Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione
ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici
della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi
astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes
greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato
con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato nel 216 d. C.,
a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato in
Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea,
ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un
certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal
sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti.
Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi.
Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso,
Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul prin- cipio
del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere stato
scorttcato 98 tura, lo scriba di Osiride, del libro che mantiene),
rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò stesso della
sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola di Ermes, si
pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita, afferrando
nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi stessi e,
attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura. Ora, ciò
che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che lo studio
delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde si
potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si
costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine
della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura
e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il
proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione,
condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge
mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione
è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un
intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti (ne:pl
-r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i
miei sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato
da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica,
mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là
di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi
ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed
io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono
Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io
sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti,
comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai,
"desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo
intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp.
Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i
vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in.alcuni vi è un dualismo
tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è
accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione
generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si
riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica
di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf,
evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che
sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare
ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99
in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione
puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come
rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di
un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo
esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien
dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del-
l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine
platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di
origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la
divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno,
comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale
comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui,
alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità
e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso
nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo
d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si
conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la
conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso,
che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono
degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I
- Pimandro -, 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto
Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di
cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo
può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro
dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio,
animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se
fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice.
Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano
"essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del
divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano "
materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che
racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7).
Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio,
che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai
sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100
struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni-
verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si
capisce cos(come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è
inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio,
Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro
lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il
Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il
Niis, donde derivano gli dèi e le,anime; che la materia considerata a sé sia il
limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male
(7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo,
abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità
l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun
salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della
divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità,
risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e
una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi"
(evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura
filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve
interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli
astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle
loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante'
la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle
profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di
tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e
l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere
come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione,
poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un
tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto
infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia
consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore,
riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola,
è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna
malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto,
questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus
ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza,
in cui si risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un
momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se
non per sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" -
scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli
101 altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto
sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella
ridu- zione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un
allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale
il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge
nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino
artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto
costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni
cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi
estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo
e Rinascimento, Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui
struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità
che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile
della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una
conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p. 299). E cosi,
rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato ancora il
Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara
distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una
parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero
che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea che
unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei
secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto
di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che
è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa,
ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa
nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri
accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si
ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario
colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio
scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni
parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni
invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della
tecnica astrologica: cfr. Tolomeo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2)
(Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Sotto
questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica
dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo
malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali
(astrali) il mondo ("gnosi," propriamente detta), assumono un loro
particolare significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLxi MyLoc), composti,
sembra, da un certo Giuliano, vissuto sotto Marco Aurelio, che fu per primo
definito teurgo (&e:oupy6c). Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8)
fu lo stesso Giuliano a farsi chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva
sugli dèi," li "faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum
fictor est homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè
solo degli dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo
caldeo," dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che
lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupynX (Theurghika = Libri teurgici),
Te:Àe:cr·nxX (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn =
Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una congettura
del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse iln ampio
com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun dubbio, dal
riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano aa -.e:Àe:cr-.Lxi
'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o llpox6moc;
civ-.Lq~& éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo commenta e
contro cui polemizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224, Jacobitz) e
dall'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli
l~(verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giuliano espose
le dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.): &e:o7tocpX8o-.oc
('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti,
non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati,
ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente
oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di
trance dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata
di un falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto
sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle
'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il
com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello
(Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla
prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra-
sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila-
strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio
lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento
in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In
Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26; Damascio, II, 203, 27)"
(Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu- dies," 37, 1947, ora in l
Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze, 1959, pp. 337-8). Anche se
difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli cal- 103
daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem-
bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in
Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894)
presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di Apamea,
del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in chiave
platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei termini,
piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita di tre
intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato anche
Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto
determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non
è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il
primo e il secondo intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta
(anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in
sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è fuoco),
si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in
forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.),
[per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con
una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto,
scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.).
Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due
caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i
mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è
perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in
atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio
è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è
necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo
intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto
determinato, non riu- scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente
spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile
fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale
intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto
misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per
diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che
ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto
vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla
determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre,
l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio
(~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen- 104 siero che
assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte.
Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le
idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in
altre idee intelligenti. SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto
preesistere al mondo dalle mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet-
tuale. E via via che il nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di
seguire la traccia del sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza,
ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca-
turiscono rombando, pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La
prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie
idee (&.px_ey6vouç l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto,
dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine
medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto,
mediante cui il tutto si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima
mund•) tra i due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che
l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore
(lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria
imma- gine rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identifi-
carsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui
scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scin-
tilla dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati,
l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto
amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le sorpassa": p. 26 K.).
La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una
ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un
tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente
nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della
luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si
sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle
anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos(il
significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto del
sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per via
di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli dèi stessi
e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della natura, tutta
vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta dipende la
comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema fon-
damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai
commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a
Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105
universale, poste precise relazioni mimetiche tra,tutte le cose, di far
convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras-
somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini
di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime
desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia
universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che
senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo
dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle
simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le
luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità;
l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale,
operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos
dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate
da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui
evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la
suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De
magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri
dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il
modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri
togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che
ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non
basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi,
uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono
un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(fabbricano
spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi, impastando in un
medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto
quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità
delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che,
invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del modello" (da
Festugière, La révél., anche Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V
Conv. Int. St. Uman). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli
Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti·
ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino.
Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione
di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione
di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto
platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio
persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse 106
l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur
respin- gendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile
scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det-
tero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze,
ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in
Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica,
che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una
esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in
virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé
persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle
ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto
esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta
al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto ai
segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma
poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo
presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa
può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente
dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è
esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino
quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per
le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma
tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica
vita universale - sorge per necessità di natura; le.cose, di per se stesse, aggiun-
gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi, presi ad
uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual- cosa di
nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma in
funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di
diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza
ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano,
nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee;
inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri-
buiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun
ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera
magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa.
Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono
proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi
filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e
gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro
cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per
contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di
trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod
essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate.
E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi atteggiandosi in una
determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto
perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a
voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe
esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o
esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un
luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa
si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi
esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come
in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche
in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire,
il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a
un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in
un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! -, ebbene, anche
nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~
ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna
l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). Lo "stoicismo" di
Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che
è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà,
è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e
dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che
l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, risolvere
se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è
data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa
consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio
(121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul
Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna,
appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da
Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio
Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto
del collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno
paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che
gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da
Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a
privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il
giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul
suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò
con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo
successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco
Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di
Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il
figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio
Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore.
Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel
140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò
allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di
imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico
retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da
giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran
diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e
scongiuri, e aveva.preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole
libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva
appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto
e incessan- temente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo
dare direttive a qual- cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di
quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la
tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I,
Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno,
due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una
volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa
per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi
astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare
frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare
forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di
capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli
furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio
frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel
146), il giurista L. Volu- sio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console,
legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea,
nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo
161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono
il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni
pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre-
mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette
combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti,
popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono
in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le
Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e
Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a
respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi
costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi
insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona
(Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si
può 148 accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso
della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza
significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a
filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli
stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è
passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche
conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro
durata; ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei
cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure
in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena
a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si
grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto,
quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro
entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a
qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana
vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione
tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il
principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare;
la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle
dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino;
oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17).
Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV,
33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo
seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei
tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge.
Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra
cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15).
Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro
scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V,
33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore,
sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro;
ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito
finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella;
e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece,
quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto
che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò
go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti
pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode
Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue
riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati
sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note
p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149 alla
vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che
solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un continuo
scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte
del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII,
59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante
nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo
che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo
modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa:
la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza
violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere
nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri
faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e
tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo
misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere
con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III,
1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi
stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si
rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive
sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a Epitteto,
da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8; IV, 41;
VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo
atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte,
in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi -, in
un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come
propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e
tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un
rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da
cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti
umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni
uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto
partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione,
!"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama,
dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto": VI, 39).
E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di
atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere
(formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso
umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e
senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano presi dalle cose,
dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché
esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come
razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si
comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui
tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso,
in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo
piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può
ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione
di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e
quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere
via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima
[l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può
essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né
colpito da nessuna violenza...; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta
quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo
sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza
interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli
eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a
uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene
ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura
profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo...
(III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato
offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV,
7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto
singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello
(VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità,
ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte
alla stessa realtà: irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter-
minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella
consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha
una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando
supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se
stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un
Epitteto -, non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice
Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di
simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi
giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal
profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a
comporre trattati su problemi astratti, 151 a declamare
pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo
intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui;
l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma
attra- verso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia
ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto
soltanto e incessantemente a vie razionali": l, 8), che scopre all'uomo
come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce
sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di
Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né
un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho
imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da
Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua
mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del
proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso
(èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo
(ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete
nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio
posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di
imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene
della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci
fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto
conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto
far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per
tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno
capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi": I,
14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non
a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in
genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note
personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né
secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato
composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per
primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato
imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu
gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le
piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore).
Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo
sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta
in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il
proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai 152 contro il
tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna
ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora
dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni,
conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il
suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente},
saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui
primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in
armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che
appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente
insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente,
ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare,
molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si
risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto
individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto
posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o
meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una
natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a
immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole
opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose
sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato
dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella
guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza
che in questo caso natura di foglia è parte di una natura insensibile,
irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una
natura che non ammette coercizione, intelli- gente e giusta, dato che
distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di
tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua
osservazione non isolando per ogni fatto un singolo parti- colare, rispetto ad
un altro particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di
un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso
(VII, 7). Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre
sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto
organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e
passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico
"egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del
proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in
cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la
stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, 153 sia questa
stessa forza vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente
("la Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~
xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un
momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé
scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o
una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità,
ordine, provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il
proprio posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo
negli altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore
degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità
steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità
consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale
all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è
una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo
è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto
partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo
unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa
funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati
in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto
ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono
membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al
contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il
tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia
completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci
ancora convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle
quali potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a
toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo
dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente
si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se
la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in
quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune;
quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di
wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà
nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in
tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi
intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che
ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa
riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come
attività razionale, può far porre 154 come ipotesi che, appunto,
lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e
socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo
riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come
conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si
scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale,
cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che
costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato
tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra
cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso,
ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis-
suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion
d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo
quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili
foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula...,
fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a
ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e,
successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un
istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo
oppure fuggendo, proprio convinto che.la durata ne sia eterna; ancora un poco e
chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il
lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li
vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno
giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un
rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa
tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto
capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il
valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi
prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una
molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra,.ma sono tutte
uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo
aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile,
dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad
altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la
comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra
parte, tu sei uomo pro- teso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana
comunità": XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città;
qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo
nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i
denti di 155 sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro
natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri-
amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio,
di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII,
73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~
umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale
dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le
ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV,
3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo,
sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di
sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma,
riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o
breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo
essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale
incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci
intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre,
nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui
l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che
non/si ha non si può perdere": Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu
e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui
siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza,
nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta,
l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una
minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti
in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo,
e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre
immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del
nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel
presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del
processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente)
in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale
l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da
temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la
realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur
soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie,
per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche
in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o
negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156
Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni
diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da
quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in
quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun-
ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale,
ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra-
scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e
nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che
non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo,
che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un
cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose
per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo
fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi
bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir
privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può
perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual
cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero
piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il
mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non
costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande
città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa
che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro.
"Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto
tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono
l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto
il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto
l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV,
48]. Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo,
tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza
alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue
operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal
suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di
quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni
sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco
Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche,
indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe
conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal
considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi
ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa
o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine,
provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di
indugiare in una mescolanza 157 dovuta al caso?... Oh! verrà certo
anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare.
Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro
fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi
sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende
un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di
prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza
che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno
del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché
tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in
tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da
ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in
tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e
condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci
fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è
un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso
(IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei
suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa
come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un
ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le
cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare
un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene,
umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo,
nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri,
che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio,
principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima
dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di
uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in
eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro-
pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura
contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i
termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato
all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo
capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa
ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la
stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia
rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo aspetto
si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una giustificazione
dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo veduto, con Diane
Crisostomo, e che si 158 venne realizzando da Vespasiano a Marco
Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi
stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale
del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione
dell'unico Stato -, usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il
motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non
poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di
Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da
Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe
tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove
l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso
essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge
abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà
di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei
sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria
dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29).
Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia
di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e
il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis-
suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima
dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste
creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che
immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione
culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva,
sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo,"
che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo
dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di
Marco Aurelio,.del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa,
dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul
piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a
discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili
d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una
spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo,"
inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la
realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca
aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo
ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica
del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si
avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo
entro cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi
storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un
tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i
limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche
delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo
d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito
delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini
dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte
di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro
lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati,
anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e
molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto
piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu
vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto
Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino,
amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le
Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto
tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito
(Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte
criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una
molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo
aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di
Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels
(Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi
greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata
l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita),
perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa),
attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo
- e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero
a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei
fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella
prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma
accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco,
non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri
delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola
teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici
(da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione,
Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome
di Plutarco, Ippo- 160 lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte
l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e
testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da
un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la
loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa
delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi
diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè
secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi
problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo,
il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è
chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por-
tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata
dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo
negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con-.cezione, se
negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri.
aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione
scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni"
per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe
opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di
certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali
ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del
pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle
"successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente.
Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo
a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il
II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro
verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita,
che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che
per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si
sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi,
che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a.
C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il
11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un
largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali
raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non
indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere
perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del
tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma
sopratt\Jtto come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi,
degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire
che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero
originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che
va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene
Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre
documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il
pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle
dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e
in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche.
"Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una
esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se
si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale,
un'amo- 2 8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, nella prima metà del III
secolo. Nel IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava
nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene,
per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto,
sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo
di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che
Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe
scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la
sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è
discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd
MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto
dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz,
Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei
filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31;
VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di
epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti
gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi,
nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio-
gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII
xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di
opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono
in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si
determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero
di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo
Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di:
Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine,
Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia,
Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere,
dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate,
Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade,
Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola:
Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si
tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle,
Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo:
Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo,
Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pita- gora,
Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro
nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide,
Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia,
Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. 162
rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sem-
pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'atti- vità
speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della
vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres- sione sensibile della
ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza già l'atteggiamento
eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri
filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di
grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I Presocratici, l,
Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte
particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo,
dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di
cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina
con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente
l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al
platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di
Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come indice
di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e rispecchiante
un ampio pubblico, è" da un lato la pre- sentazione oggettiva di piu
correnti.di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività
e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta
di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche
dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare,
l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente
scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o
altra. d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico.
Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i
termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane
origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a
contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e
dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla
natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della
discussione delle varie ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei
contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una
discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine
stessa diviene, innanzi tutto, studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso,
abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di
"platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche,"
in altre "stoiche" e anche nei commentatori di 163
Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è
l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro
discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato sto-
rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio
del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a
tener sempre presente, metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del
giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti.
Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre
libri, sia il proseguimento e l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus
Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo
abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri)
ha un altissimo valore metodo- logico, è l'ultima voce di serietà scientifica,
l'ultima "logica" dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va
considerata solo come una sistemazione 29 Scarsissimc le notizie intorno a
·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio
alla nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indi- rizzo "empirico,"
o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv.
Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat-
tezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del
111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX,
87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200
d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto.
Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli
eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto,
si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd
n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200
e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino:
"nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu
ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III,
221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra,
cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne
due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto
unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno
scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato
(Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere
pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a
trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto.
Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi
pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello
"scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello
scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro:
critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti,
intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i
matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo,
desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i
dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto
può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e,
nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro
coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai
grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai
musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno
Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo
cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n.
l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro
contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle
argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che·
dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del
passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica,
dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle
singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di
ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la
contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in
questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non
nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile,
bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o
l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren-
sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus-
sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una
certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente
affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui
appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da
parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della
ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra-
verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in-
dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto
empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla
verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è
afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili
esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di
fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni rammemorativi,"
lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende una qualsiasi
ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla
negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che la cosa è
incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di
coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb- bero
affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di
cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di
averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati
"dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono
oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come
gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano
l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici.
Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo
esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa parola
nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo
"valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in
qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle
ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l,
8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu-
dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei
tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio
che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio
siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole
significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come
per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono
rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò
non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca,
passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause
prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla
"causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al
"procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai
"segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza
extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica
aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano
scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile
alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo -
si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui
"segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità
di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte
quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere,"
màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni
rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino
il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente
sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro
i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative
delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e
capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per
cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità
del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del
discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi
ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine
portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una
metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi
ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti
e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166
ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si
era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da
Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot-
trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti),
dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della
pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo
con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del-
l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra
raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento
dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma
un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono
noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri
fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto
alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori
dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza
significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito,
ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa
costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni
"rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di
cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e
all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal
modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una
descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume
affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di
indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da
spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali)
del sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e
del sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano
le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200).
Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie,
non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della
matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a
spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di
scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una
rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle
ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i
materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai
risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, 167
presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili,
veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e
di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere
possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve
sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici
con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che
possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo
epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di
Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò
ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo
racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni,
ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco,
rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma
appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla
linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due
piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi
precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul-
tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia
i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della
teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò
che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e
l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della
teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione
atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la
rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari.
T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui
(postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto
sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le
osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della
geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita
di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le
proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera
piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle-
mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per
distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la
grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba
(La grandissima,.Al maghesm}, il titolo di.Alrruwesto, vanno ric:ordate le
seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La
pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in
altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore
Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum,
eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio !
dell'egemonico. 168 ad Euclide dal matematico Menelao di
Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato
in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è
fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il
tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati
osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro -, quei
dati vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto
organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini
geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di
Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia.
Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;:
Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha
determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo,
una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi
(la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per
distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran-
dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto,
trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba
dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che
meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti
l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della
ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della
ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la
"salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e
la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto,
facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti
entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre
entro l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi inte- ressi- va veduto il
tentativo di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle
influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di
rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico
còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze
astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle
scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il
tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava,
su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal-
l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo-
meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169
diverse teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni
sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'ar- monia
delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristo- teliche),
poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze
stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi risultati del-
l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei
medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo
una buona edu- cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie
concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il
consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli
studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale"
(tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei
"figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso
nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un
"anatomista," da un "ippocratico" e da un
"empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole
mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia,
ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della
medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a
preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche
le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne
ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato
medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in
dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e
conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto
a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà.sappiamo che in. Oriente
l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e
ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre
attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo,
vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da
Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i
Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a
Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo
figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio,
andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato
a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non
documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del
C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della
vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti.
Sull'ordine dei propri libri ~ -rwv
!a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De: pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v);
(Depl L'ottimo medico è anche filosofo (0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç
xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p(Gt~Y -roit;
claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,;
3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl
-Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii
a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL); DÙiposi e
cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv
hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;};
Medicina empirica (D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi
empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)); Le parti della medicina (De:p -rwv
Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv); Introduzione dialettica o lnstitutio logica (Elacxy6lyij
3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi
linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui -r<o>v); Le
qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura
dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a
lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle
malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v
YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv
'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170
dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo- crate
(i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i
due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno gli
autori). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente sperimentale, derivarono
a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia: descrizione delle ossa,
dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in nervi motòrii e nervi
sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia: descrizione
del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro ad
Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene, funzione
del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e cervicali,
mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni
disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in psichiatria: studio
accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano
piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per
piu approfondite ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare
certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria finali- stica e a quella delle
cause di origine aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei
"pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro organo è per
provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene
che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo l'uno o
l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico,
malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL
x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW
'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v); L'officina del
medico (Ktlt-r' !ot-rpciov); “Le settimane” (Ilcpl i()3o!Lii8c.>v); “Sull'uso
delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou
a&I(J4TL IJ.Op!c.>v); “Indagini anatomiche” (IIcpl -rC..V
ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl
-rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli
elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v
a-roLxc!c.>v); “Sui temperamenti” (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~
naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç};
Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt;
citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro
xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl
clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;); Sulla buona
costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç}; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se
llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f)
yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa
(Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou); Sinopsi sui polsi
(~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"); Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç);
Sulle facolta degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui·
temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l
8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v); “Sulla compotiflione
dei farmaci” (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v); La teriaca (IIcpl Tijç
&JjpL«Xijc; l); Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v);
Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v);
Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l; I tumori contro natura
(IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl
q~>4o-roiJ.!«ç.&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso
dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti
possono riconoscere i simulatori di malattie]. vastissima opera di Galeno, le
oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un
lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o
quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli
scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione
sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici,"
"metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso
Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento
inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico
di moda che affa- scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue
diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie),
Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò
fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in generale
(filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da
quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo,
dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un
empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi
centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un
tempo, anche le maggiori scuole filosofiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico
dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove
acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma.
Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue
osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie
concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano.
Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chi- rurgo
presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia,
dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco
Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica
medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a
Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno
cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato
nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da
giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi rela-
tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole
filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già
composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di
fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu
strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore,
sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo 172
che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire
la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile
etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è
estrema- mente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi
estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva,
dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da
qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza
medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole
filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti
rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le
condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i
dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" -
fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di
come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la
stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a
determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica:
cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica,
implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza
specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi,
per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei
Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e
logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi,
istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal
nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente
vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni
fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti
riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo
discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso
modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis
libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di
delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e.perciò stesso non
solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di
quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o
provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni
formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva
certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la
costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio
logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo),
si capisce come, 173 dall'altro lato, Galeno per spiegare,
particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al
mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale,
assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine
aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi
stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio,
che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali,
per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale"
(pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e
proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue
nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è
il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di
questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro)
cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i
quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il
caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come
sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal
sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio
degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti:
sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di
soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che
esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in
un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e
la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze
vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa dell'anatomia
e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi, operare sulla
natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei testi di
Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò
profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura
ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno
reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive
credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche,
sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai
vecchi riti, culti, misteri, l'orfico.in particolare, tutto ciò che poteva
servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al
divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio,
quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo
l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe
espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con
runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini
della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui
tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della
libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive-
nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà.
Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche
certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di
Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le
tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima,
che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette
nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia
imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). Lo
stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di
Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con
Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino
sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria,
nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo
periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo
chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora
Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua
greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò
in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad
Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in Alessandria,
discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva:
"filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14),
iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in
cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di
retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi
convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa
Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio,
uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno
di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio
Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto
anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro
non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno
di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché
m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4).
Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o
meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e
amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni,
finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si
recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al
Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a
Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di
Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra
il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una
ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i
j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con
Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il
soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono
al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti);
Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta
solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a
Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione
all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle
immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività
scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide,
al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione
con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di
Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un
Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti
alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele
(framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di
Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di
Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie);
lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici.
Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.);
Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno
dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti
agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a
(framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad
allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te
stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze;
Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni
trattati delle Enneadi. 2,35 vedeva affiorare, a tutta prima, la
forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso,
Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima
volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di
dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori
dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un
sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali,
per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio
scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo
scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla
terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen-
siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione.
D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo
di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e
di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93).
Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene,
che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era
stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine
religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche
a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una
costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle
suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che
si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una
interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt).
Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta
dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che
Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto,
che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a
"medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di
trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali
mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso
pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla
ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di
vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui
egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a
Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a
caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a
Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il
primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di
frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è
l'architettura dell'opera; la Vita d1 236 Pitagora, poi, dà il
metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato
del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione
del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta
la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e
dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce
la vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante,
Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco,
Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia
scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di
Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e
un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in
Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide
le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il
significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i
termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica,
mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui
potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti,
intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a
convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile:
insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale
"conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo
atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si
vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal
tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni,
fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni,
discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle
lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con-
dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla
scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici-
lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal
268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto
il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla
divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta
nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia
popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui
criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia,
dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri,
pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche,
prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane ("autentiche
invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49);
nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da
Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione
dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi,
che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché
tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da
Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il
motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da
se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura
("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua
l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro
a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che
dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore,
nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo
la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la
legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la
legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di
quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge
scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in
termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che
particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa
come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa
fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a
caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione"
dell'anima, sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro,
qualora si sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo
"maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9).
"Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di
articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha
richiamato dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D
i qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i
vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot.,
4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i
trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile.
L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di
Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si
incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa
nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente,
l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro
lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce 238 la
molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e
prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed
empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva,
facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose
stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima
singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le
cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e
come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante,
articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla
coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente
coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando
perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono
nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come
tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del
mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde
appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato
in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni,
in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri)
alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua
stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è,
perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà,
alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel
limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima,
nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima,
avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta
le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo,
condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima)
passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando
quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante
sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu
animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di
anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del
primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto
all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo
momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi
non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e
teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza
che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino,
sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato per
chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e
ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa
sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono.
"Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da
suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i
cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno
vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di
ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in
virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri,
l'uomo si libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio
malsano. La purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si
produca l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che
a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia -
renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è
tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la
teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre,
Gand- Lipsia). Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pra- tiche teurgiche
sono capaci di purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non
possono operare il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere
pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò
l'uomo saggio e prudente si asterrà dal servirsi di sif- fatti sacrifici,
mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con
ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano
per la dissimiglianza da loro" (De absti- nentia, Il, 38). E dirà
Sant'Agostino, commentando il De regressu animae; "Porfirio promette quasi
una purificazione dell'anima, per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con
discussione in certo modo pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a
chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne
opinioni" (De civitate Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio
si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu
quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro
queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti
dall'ambiente siriaco, ma che si venivano incontrando e fondendo con le
religioni della tradizione occidentale, in una trasformazione vicendevole, in
una spiegazione dell'universo e del destino umano in termini diversi dai
soliti, rispondente, per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dal-
l'Impero dal tempo di Commodo (180-192), successore di Marco Aurelio. E qui va
ricordata l'importanza data da Settimio Severo (193-211) a Serapide egizia, ma
ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240 l'Impero,
per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via
materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, 211-217, e
in particolar modo a Eliogabalo, 218-222, che vittorioso su Macrino, 217-218,
per aiuto della madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata
Giulia Domna, moglie di Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i
riti, i culti, le mera- viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno
tenuti presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo
periodo e della difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature,
richiami, allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto
secolo, lo strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e
incontri, determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare
sono le linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di
Porfirio fu, dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un
senso alle pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei
riti, dei culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento
per gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro
questi termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il
Commento agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e
usati nel De regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono
vasti brani nel primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il
siriaco Sole viene ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla
linea della tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno,
dall'Uno Dio Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima
verso l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di
regole plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio,
dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu
approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono
scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità
di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la
capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche
un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se
tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione
porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che
ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla
classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla
moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla
ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano
la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte
razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e
nell'armonia della 241 parte concupiscibile con la ragione, la
giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire");
virtu catartiche ("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima
che si eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge
mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel
non opinare con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con
purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel
non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la
giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare
resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima
intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza
consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il
compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme
ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la
fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura
impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che
esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono
gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui
la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è
conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro-
prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere
sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu
civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di
natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle
altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di
separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il
proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza.
Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle
virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole
intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo
dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in
questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto,
base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci, 32).
Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie
da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando
si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è
piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui
Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica,
entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di
Porfirio ad 242 .alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista,
Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di
Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione
e la negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa
l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa
l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica;
Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi
sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della
funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di
Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII
libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo
servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno
platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e
intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro
aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga
discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del
plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate-
gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei
cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper
pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito
dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture
logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso
logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere,
specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili
predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque
voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose,
ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr.
lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice:
"lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano
semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o
posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che
per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren-
dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo
essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo,
generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente
discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne
ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il
nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea:
corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corpo
animato sensibile; ragionevole-irragionevole; animale ragionevole:
mortale-immortale;,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi
via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso
Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi-
bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene
conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello
pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle
pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello
logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo
stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano
dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha
luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione.
Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo
(almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò
Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica
contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il
270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso,
ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore,
che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore
nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione.dei corpi), sia
filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni
storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità
del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e
della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le
altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri
di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno),
sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la
possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e
culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero
costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia
universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della
formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel
debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero
nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di
articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti,
concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad
un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non
poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di
salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a 244
proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi
dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un
tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente
(sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino,
Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare
capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo
della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio,
Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori
illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il,
Aureliano, Claudio:racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il
periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non
fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente)
quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della
città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non
ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra
imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizzazione e romanizzazione
dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la
vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo
che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di
religioni e culture diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero
- ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana, 212-213, di Caracalla -, con la
conseguente esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a
trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto,
accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una
"nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui si è voluto
restaurare la "roma- nità" (sempre allorché vi sia stato un accordo
tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o l'imperatore
sia stato senato- dale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché
gli impe- ratori, soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o
"barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco
politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero
universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur
sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come
si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il potere
assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio
Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe- ratore doveva essere
l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili
aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure
furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260),
allorché ebbe il sopravvento la politica 245 di alleanza tréll
imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni
contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire,
interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di
un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il
Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni
(teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono
perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le
tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle
soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto
perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e
dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia
mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni
avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305).
D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso
imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra
Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul
piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali
periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in
seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto
Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera
natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una
discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una
rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori
dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o
irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione
volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio,
vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di
Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro
poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio
Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi
cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene
recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina
Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno,
aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava
di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive
esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della
restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso
Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere
che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle
condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le
conclusioni, in 246 realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto
- fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse
esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva
leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato,
Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva
anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva
appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a
questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il
metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7).
Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi
dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli
scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della
Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza
dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato,
il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio
Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura
classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova
"concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la
fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e
gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a
lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che
rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210
circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò
retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete
Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla
morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio
della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei
pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette
affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a
risol- vere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del
battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a
causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis.
Richiamato nel 258, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato
d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte
per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per
sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se
fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di
attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione,
molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave
controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu-
gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in
nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza.
Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il
battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi
fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256.. La maggiore
opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei
lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano
inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl
virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore;
De mortalitate; Ad Demetrianum;.4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De
opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per
la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere
scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui). 247 desse il
Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di
non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non
l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni
di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto,
ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere
quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi
stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano),
ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero,
ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri
conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa
strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne
essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni,
ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della
cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni
separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu
complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con
l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice
Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto
restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome
di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli,
osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo
progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al
filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno
motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo
breve testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di
Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà
nulla docu- menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla
di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come
per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e
l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani;
non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le
leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita
platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso
platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è
concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una
synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della
rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro
significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso
problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli- 248 ca. In
dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe,"
l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig
fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato
che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in
insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono,
invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato
in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene
al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da
quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc
(teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena,
"Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa
bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo;
protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è
suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della
virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per
cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori
(È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un
ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con
Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche."
Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto,
dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire
base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto
quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio,
l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte
dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come
Porfirio e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico,
Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3
Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato
dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo-
tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio
Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio,
o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli
preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome
da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio,
Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco
stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti
rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima
della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove,
probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si
249 retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere
stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246,
rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella
scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente,
rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola,
egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole
e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in
cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla
perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli
con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio
compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio,
Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le
differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due
riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono al
di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di
Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria,
si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a
interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema
dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi,
secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi
(Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere
che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le
idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando
l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn
horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in
una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il
significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né
due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi, internamente
all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora
romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino
al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni.
Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to mentale di
Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui
dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia
sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose,
inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa, dedicati
poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita
Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti),
Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla
differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino
dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è
perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e
quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio,
di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep.
ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32
sgg.). 250 plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di
triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo
tutte le strut-.ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi,
intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette
divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far
corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura-
nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come
l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia
orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi,
posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che
pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e
tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se
il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il
tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai
numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni
delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos,
dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato
il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il
barbaro [Gio- vanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di
principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel
quale è stato creato ogni essere vivente:e la Vita stessa. Esso può anche
unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza
svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è
disciolta, esso riac- quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio
com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in
Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la
patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e
interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea,
Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo
se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu,
dopo il 270, a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il
suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno
dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii
l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte,
avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci.
Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui
sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m
coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare
a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso
Commento alle Categorie di Aristotele): 251 Giamblico abbia
incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che
Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio
dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose
il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la
sua molti- plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap-
piamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte
(325-26) insegnò ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato
di una scuola neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il
fondatore. Per Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente
all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un
terzo termine medio che dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come
da un punto centrale,- veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli
concentrici, tutti nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un
solo centro, l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi
nelle triadi. L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre
tutto, si costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la
pluralità, emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità
delle idee in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in
realtà, comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi
da Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di
Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un
Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore),
Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a
biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in
cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi
anni del V secolo). Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu
Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in
Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla
formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI
secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande."
Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In
Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e
aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti
opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle
dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc:
nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore
ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto
il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a
Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione
all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV
libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico,
avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI,
VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam-
blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste
opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici
(framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di
Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc
imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento
aii'Aicibiadc I di Platone. 252 molteplici nell'unità dell'Uno
intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre
fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto
nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le
intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee
rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione dell'unità-molteplicità
dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade intelligibile, l'Intelletto,
in quanto consapevolezza della Unità vivente intelletto-intelligenze, racchiude
in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del tutto, a sua volta una-molte-una.
Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile (x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro
questo, da esso distinto, un mondo intellettuale (x6a!J.OI; V01Jp6ç), che
ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo, che nella sua
unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi), costituenti i
modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e molteplice, fino alla
natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro l'Unità tutta, due
mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto in atto nel suo
scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto come termine
ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua somiglianza. Tra
l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono, termini medi, la
triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui terzo termine
emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una terza triade,
da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi) di
ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che
raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli
dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della
natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli
altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli
uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del
mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodia- cali, che, costituitisi
triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta moltiplicati per
dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni al eielo, gli
dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu limitate,
affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata (fatale) del
tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime disperse,
decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur discendono).
Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano a trovar
posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si risolve in
una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un valore
simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui si scandisce
il tutto. Plotinianamente perciò, il male 253 (donde i dèmoni
malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che,
con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui
quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal
proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria
potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente,
ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce
dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti
nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il
rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera
vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra
chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia,
Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa
sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono
(ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili
indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del
Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei
luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno
che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni
all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che
ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del
tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo
con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è,
appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a
sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo.
numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che
sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale
Uno. E allora, come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio
rispecchia da punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico,
preso a sé, deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le
singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se
stesse, specchianti il proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un
tutto articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto
richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti
prospettici piu lontani rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come
una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro.
Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che
sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui
necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre,
rispecchiandosi in ciascun numero, 254 in ciascun dio, dagli dèi
intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in
un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che nell'Uno-tutto è
concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo
il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire da un lato mediante
linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la
fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e
astro- logia, se condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella
difficoltà dei calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al
calcolo, alla ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato
l'unità vivente, la sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade,
dall'altro lato sfuggirà la molteplicità della vita, la dispersione delle
potenze nel fluire della materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si
specchia in questa o quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti,
le determinazioni sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una
separazione delle potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre
piu opaco, sino alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime
sarà possibile ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da
un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione
della molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via
geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le
proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un
sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno
all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente
ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica,
che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva
l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge
attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i
segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo
sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima
torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità
dell'Uno onni- potente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso
Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca
geometrico- aritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della
realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad
oltre- passare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in
ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze
evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano della
magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto 255
come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella
comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico
rovescia il rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto
viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come
rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu
vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è
il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone,
ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che
congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi
contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno
cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti
ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e
grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi...
Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli
(auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro
propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di
Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di
costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri
nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se
stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze
disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile,
onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal
proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il
quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le
preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono
atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç,
empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si
lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando
in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al
proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia
salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima,
infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e
opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un
uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in
cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa
ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle
passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire
che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie
di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e
impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della
generazione siamo nati passivi, esseri 256 puri ed immobili (De
myst., I,:12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp.
173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL
(J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro
presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura
dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente
attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose
trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e
impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma
impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale,
proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11).
Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere
celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra
dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è
abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri
dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano
sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni
elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché
hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà
del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi
diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi
compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei
termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli
aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo
artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza,
riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria
efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del
modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles,
1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.;
anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e
Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua
interpretazione degli oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato
da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come
mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella
"conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di
Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con
cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si
giunge attraverso una prima siste- 257 mazione dei rapporti
mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una
traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la
numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e
teurgo· ·sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da
introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della
matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione,
il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il
Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a
Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam
introductionem, Theolo- gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si
scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche
vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico)
interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda
che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e
operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come
"coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a
soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente
al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella
"visione," sul piano dell'interpretazione.di certi testi di Platone,
considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del platonismo.
Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati
discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare
correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i
"neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco,
proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di
Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia,
con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con
Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con
Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di
Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una
serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per
le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di
origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e
di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia,
divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio,
for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace
di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di
Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che fu 258
discepolo di Edesio in Pergamo - la magia praticata da certi suoi
condiscepoli è, in realtà, cosa da "squilibrati, che pervertitamente stu-
diano certi poteri, che derivàno dalla materian e che in particolare bisogna
tenersi alla larga - e cosi consiglia il futuro imperatore Giu-.liano - da quel
"teatrale taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio,
Vit. soph., 474 sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo
di Edesio, a Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r
la sua vita ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr.
Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse,
invece, proprio a Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un
tempo a Prisco di procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico:
"Sono avido di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e
del mio omonimo [cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia:
gli altri, in confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez).
Sappiamo, per altro, che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e,
com'è noto, tentò, di contro al prevalere della Chiesa cri- stiana,
ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione cristiana una ideologia
universalistica imperiale che salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla
Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote della Libia e fece di
Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu
perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a
morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti degli Imperatori
(371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato, come
sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demonologia,
approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle
pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla
natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine,
suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del
tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti,n nulla di preciso
possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che
fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la
cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo). Demonologo e teurgo fu un altro
discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad
Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invi- tato
da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist., 76). Continua- tore diretto
di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu
divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro
che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con
l'imperatore Costantino fu poi 259 fatto condannare a morte da
Costantino, in Costantinopoli (Sopatro dovette quindi morire prima del 337).
Tra i primi discepoli di Giam- blico fu Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva
ascoltato anche Porfirio. Del "grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341
d) Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di testi
platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim-
piodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche
gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al
lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di
offrire, per via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu
diverse esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la
discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a
Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento
dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che
ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al
Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre
persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si
confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per
la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento
alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in
cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle
categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le
categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la
dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino.
Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la
questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto
altro aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione),
condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche"
(l'apocatastasi, la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o
la esasperata interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la
sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica,
certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando
le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione
cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel
campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di
avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie,
le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature
concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva
precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e
una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo
aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture
sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro-
blematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che
rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui,
ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la
permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini
di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio
Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa
opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa
proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per
lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco
stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con- 272 a
Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu-
lentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha
un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso
andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico,
ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e
professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua
·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il
racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato
alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo
illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un
aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua
opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le
religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di
essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la
"conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di
una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito,
miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il
vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in
dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a
respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche
concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando
anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica
e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana -
quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto-
rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia
concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il
significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo,
"questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e
piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non
per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche
l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini
in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono
qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero
stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel
295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza,
temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle
prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua
sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi
anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del
neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San
Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327. 273 imperfetto? E che,.forse
se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle
non compirc;bbero il loro corso, non vi sareb- bero piu estati e inverni,
cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi conden- sate e sovrastanti
cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente
inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere
orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se
tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio,
quel Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della
perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da
divinità infe- riori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima
umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che
immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo
ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscen-
za"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero
l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto
dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio,
l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone,
Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza
dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite,
male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco
dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non
ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica
dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione,
corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò
sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle
sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie
costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a
parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe-
ranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza
senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni
epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni;
ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni,
la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata
superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di
dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi
siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non
siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi,
respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali
veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il
superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II,
16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero
presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla
superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio,
solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule
geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo
senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e
c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio
sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita,
proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale,
almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è
razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in
si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione
non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di
quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla,
limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza.della
sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il
significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio
- Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte
sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma
anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere
uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo
è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e
orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è
bruttura e malattia, ritorne-:anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato
dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad
esempio, al De:ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano
·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede:ristiana.
Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu
profonda ragione del passaggio di molti al:ristianesimo, in cui si salva
l'uomo; "la novità ch'esso portava con;é era la liberazione della
personalità," è stato detto, "incatenata:lalla religione e dalla morale
dello Stato, che in sé riassorbiva e per-:leva l'uomo": cfr. Kovaliov,
Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la
rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è
natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un
atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude
l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male e
limite, insignifi- 275 cante, inutile, scheggia e rottura del
perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo,
natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere
contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa
contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò
extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo.
Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a
salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini
sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio,
l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana,
dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana,
della sua conversione al Cristianesimo,.che offriva la salvazione dell'uomo non
come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale. Non a
caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr. San
Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe
Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché
nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità
sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia
saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio
sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della
Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua
esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente
degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da
Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che
piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue
conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del
Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio
Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia,. presso Sirta, o Mascula,
nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto
oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da
Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel
302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio
abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in
tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304
Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311
compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono
compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne
precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320
(ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione,
composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus
persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito
(si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice). 276
è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di
volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo
di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della
concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto
il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione
in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in
fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e
del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in
rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione
neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio
sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le
ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo
filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e criterio nelle
ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno alcun
fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non sfociare se
non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile"
ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di
una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon-
damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera religione.
"A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna sapienza è
tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1). "La
religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli- gione"
(IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere supe-
riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cri-
stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha
rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto
provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il
vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov- videnzialmente
ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in evidenza
Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle politeistiche
(cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi
dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha la potenza di
reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre
già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in unità la
molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre funzioni,
dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non può non
essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga fondarsi
sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie delle
religioni, 277 rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili,
in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede,
la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris).
E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico
Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto di-
pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui
dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e
l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla
religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò,
religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono
ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la verità cristiana,
per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia
filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente
appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La
sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il
timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi
debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una
e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare
poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può
essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla
religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che
appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La
sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio,
in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene
sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in
realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della
sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono
divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere
né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano
gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né
quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica
di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si
rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato
dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e
che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama
non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel
sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla do-
manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le
ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in
quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non
sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278
criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima
e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato
da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato
attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre
l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso.
E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua
stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non
può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la
risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi
biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto
di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana
(il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio,
fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se
vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci,
al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è
l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri
ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli
Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a
sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità,
perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine
medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui
assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di
Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo,
tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la
spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu
opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida
il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re
dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale possibilità
di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui consiste la
virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio -
non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il
L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se
stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e padrone
(religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo,
riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico-
filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la
capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura,
unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro
la natura, per cui l'essere immortale o mor- 279 tale diviene una
scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in
sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello
stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo
per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per
rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in
ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità,
s(che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro
Signore, e si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu
profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII,
6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto -
disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni
greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva
mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può
ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il
quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul
piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili
(L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e,
per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni
del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s(Lattanzio tende a convincere, a
persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso
di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro
rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che,
preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel
Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di
Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a
render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della
religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio,
"non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9).
Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del
Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se
ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia,
mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella
dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e
che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos,
incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6;
Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli
Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E
cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte
si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno
Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché
l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità
vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da
sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e
che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la
luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci
può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio,
sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre
e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno
dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre;
né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere
generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il
padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è
come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è
come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è
fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il
raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del
sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di
Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in
una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del
Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni
significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui
il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come
redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante
cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo
essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue
Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera
religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo
come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a
questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun
altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1,
l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a
modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in
quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio
punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello
teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per
cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede
insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno
nell'unità morale dei Cristiani il regno di Dio, in un diritto naturale che si
trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore
supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che
Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo
tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso
dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella
concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data
dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone
aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie
ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle
tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a
dare un fondamento alla res-publica, in.un rapporto umano fon- dato su di un
diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto,
cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus
orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie
tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e
ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo
stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di
salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il
regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come
termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo
stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce.
Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di
Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui
piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua
sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi
tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di
Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva
attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione
sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima
dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in
funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio
e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana
dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio,
attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a
Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla
tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile,
nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana
del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche
l'ira 282 (si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo
il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei,
l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e
all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché
Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a
insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo,
quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò
'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in
cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Nel 303-304
Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri
delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute,
all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore
dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni
traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione,
composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus
perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conver-
sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a
persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del
Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato
come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e
costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica
religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo
responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava
essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto
questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones
dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio,
rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e
di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi
romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la
Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, -
riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e
chiara è la lotta contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del
diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con
certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende
la pole- mica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia
si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo
stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno,
attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli
compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il
futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio, 283 dopo la caduta,
con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere
dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla
religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta
la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di
cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat
vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim
Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo
sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero,
potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset":
V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la
rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del
pro- prio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi
abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il
significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio,
finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il
Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito
tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano,
Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e
moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae
fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus
persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il
sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione,
che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio,
che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere
virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto,
mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò
di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf
che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si
rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale
e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu
fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è
che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro,
9]": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio:
"nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti
ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è
povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non
chi è pieno di virtu": V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e
non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse
riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in diritto
divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e
di certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi
stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della
giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il
contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della
giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il
prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del
problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza
della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo
stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio,
nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla
giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà
dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza...
Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune.
Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla
terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5). Le leggi divennero inique; la
giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio,
è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra,
ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata
iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile;
lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della
tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda
la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene. La giustizia è l'ordine,
nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas
sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca
coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo
raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del
mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra
la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale
avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori
romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò
all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da
un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia,
"Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è
l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante
un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si
riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi
teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285 que accolti
come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe
classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento
ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni
che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni
dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai,
solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano,
peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano
- salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu
in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e
sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né
ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu,
tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in
nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti
in una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una
società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina,
del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia
di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se
anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi;
quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso
li chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione
per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro
che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e
non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i
poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la
nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove
Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in
proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come
ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi,
il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e
figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi
rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la
struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa
ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato
detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in
una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che
abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava
nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi
proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione
artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che
non aveva nulla da invidiare alla burocrazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere
la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era
particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere
solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle-
ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro
questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino
(306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Con- stantini, 4, 24), ai
vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi
interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei
invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è
molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino
e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un
lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento
del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che
reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro
lato, accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato
è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da
Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua
realizza- zione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del
corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo
avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla
"romanità" dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero
stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia
solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie
per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base
economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente
poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato
l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato dive- nisse episcopo
l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e
di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio
del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e
delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe
delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo
coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia
solare, reinter- pretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa
assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e,
particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si
adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel
Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i mo- numenti, le monete del
tempo di Costantino, in cui l'imperatore cri- 287 stiano viene
presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste
dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino avevano un
sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce
irradiante luce: per i rapporti tra Costan- tino e la ideologia elioteistica,
cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it.,
Milano, 1960). b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le
"eresie." ~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se
lo studio delle "eresie" e degli "scismi," di come essi si
sono formati, rende conto di come, per altro verso, si è venuta for- mando
l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità"
cristiana, la "retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata,
tale stu- dio rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di
questioni teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera inter-
pretazione del messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il
Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa
di Roma si arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a
compromessi con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le
grosse polemiche sui lapsi e l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si
avvicinava al possibile con- nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse
assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella
costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu
poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la
salva- zione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo
con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo.
"Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte
fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento del-
l'apparato ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri-
stianesimo erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione
da parte degli strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare
il primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva
predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano
infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra
gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295
rurale, poveri e semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se-
colo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi
dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11
secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato
appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i
contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti
contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse
rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni,
plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città.
In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari
gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo
già veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si
determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle
tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli
giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici
nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi
"eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e
divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto
sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla
propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e
tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità.
Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula
fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco
or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della
regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa": in De
praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei"
non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo
conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio,
sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione
del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro
essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali
(se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e
la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S.
Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti
dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e,
dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il
monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile
quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come
la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente
far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo"
(Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296 sente che
di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale
deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione
diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento
che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo
della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi,
per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò
tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo
sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire
sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui
pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano
che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento
della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per
le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di
contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità
della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in
personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene
nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del
Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente
opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni
dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al
tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano
ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al
donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il
montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome
di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran-
sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato
(non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti
rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo
il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi,
contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli "
agonisti," i combattenti per la vera fede: cosi essi pro- clamarono se
medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla
parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano
fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni
personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il
novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo
morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo,
sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico
(Concilio di Nicea, 325), in una 297 precisazione da parte della
Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un
valore giuridico, sia proprio in conseguenza di ciò - per la storia della
formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori
precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che
ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad
Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione
di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua
interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu
direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della
natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto
ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire
nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu
Ario le idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato
per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal
prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone
e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei
"monarchisti, " " unitaristi," " docetisti,"
" sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e
dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e
posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di
"sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a
tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo
(L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in
cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo
avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere
la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul
rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal
vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono
Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima
in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico.
Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato
nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi,
in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli
improvvisamente mor(nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia
(E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se
ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6,
9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una
ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad
Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr.
Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della
Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia
ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e
Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in
Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al
433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano
la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate,
Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298 L6gos dice
Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un
tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa
sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in
eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana
di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile
e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç
=àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e
senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere
ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si
risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini,
ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due,
sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza
solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona
e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che
Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma
volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che
Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso,
mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà,
ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo
davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da
lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il
L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde
nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio
trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla
lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si
formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria,
all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in
quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De
synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato
dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in Atanasio,
Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo stesso genere
del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e
&.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio,
il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per
decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire
ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre,
in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua
perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo,
indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf
come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse,
potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha
voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo
assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato
come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da
Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è
provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo
Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò
altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa
direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli,
avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio
e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione
delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco
si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la
immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria,
Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario
si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella
città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che
con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del
suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa.
Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa,
già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non
cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro
vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica
contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325).
Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la
sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino
cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a
Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo,
nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo,
istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio
nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una
volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di
Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati
esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la
foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una
volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio
poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui,
per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da
Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse
tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano
Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~
= enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu
importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono
quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di
Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro
gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate.
Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate
et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in- 300
cono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve-
scovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della
consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo
niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi
conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella
ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti
dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti
pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella
salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che
nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa,
veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus-
sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa
problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica
tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità
della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché
si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò,
forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di
Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli
ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri
(335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie,
portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della
zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente
ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai
sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno
dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i
Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove
fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere
in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino,
Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento
Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della
Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea,
mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di
carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de.
Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche:
Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del 357);
Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo
niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re piu
importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom·
pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir.
ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i
edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita
l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad
Alessandria, ma che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove
l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare
in esilio, poté, col favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare
in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un
complotto organiz- zato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono
imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano,
nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne
ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale
Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era
andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi
con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase
unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi
alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria,
tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare
Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di
Costanzo, avvenuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di
nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed
unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa
cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa,
Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al
365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che,
tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu
forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino
alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a
Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi
solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era
stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio
disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac-
colto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser-
vire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37;
Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio
capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit.,
p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato
durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo
assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico
significato da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al
Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi
nicena. Entro i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor-
renti. La prima è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è
dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta
degli anomci -, ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di
Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente
preparato in dialettica aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio,
elevato al diaconato nel 350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica
aristotelica, in una serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre
due divinità, per cui il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza
del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che come una creatura inferiore,
anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è
gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua-
rantasette brevi ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio
in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia,
diacono di Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto
di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte
sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di
Antiochia e poi di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea
(331-335). La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r
respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza
(otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e
quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo
dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe
memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22),
seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu
particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro
di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel
376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu
equivoca, passibile di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella,
secondo cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva
vagamente che il Verbo è simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi,
detta degli omèi,, fu sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie
(340-346), legato all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di
Cesarea, e dai vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa
(341-359), quest'ul- timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato
rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro
verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo, a·
sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità c 303
della divinità del L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se
da un lato portò a migliori ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a
nuove interpretazioni della tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano
filologico (non a caso Gregorio di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza
da quello di persona), dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi
problemi intorno alla natura del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo
aspetto, piu che al pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto
dal 313 al 398), assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto
maestro (per cui ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio,
Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri
"luminari" di Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San
Gregorio di Nissa, i tre "padri" della Chiesa di Oriente; e per il
secondo aspetto, ad Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di
Atanasio, soste- nitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno,
che per primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la
cui tesi venne condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in
quanto Verbo fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è,
origenianamente, il limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato,
alla ribellione a Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste
discussioni, relative da un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di
sostanza e di persona, dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al
significato da dare, allora, alla natura umana del Cristo, meglio si
comprendono tenendo presente, ora, la formulazione dello stesso simbolo niceno,
che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp. 59-60), delimita "il quadro
all'interno del quale il pensiero cri- stiano dovrà oramai mantenersi" -
avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un
solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose tutte, delle visibili e delle
invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio,
nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou
'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio,
generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza
(OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte
le cose sono nate, quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il
quale, per noi e per la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha
sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a
giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro
[ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o che non era prima
d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra ipostasi o di
un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ), o mutevole,
304 o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica
e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla religione di Stato di Giuliano
imperatore al Cristiane- simo religione di Stato. Il "neoplatonismo"
di Giuliano e la funzione del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e
il V secolo. Alla morte di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia
Minore, unico imperatore fu riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio
Giuliano/0 nato nel 331, figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l.
Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime
delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime
stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in
cui l'imperatore, per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva
nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi
impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora,
tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle
Gallie (355) ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla
morte del padre e degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme
al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed
affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea
disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non
cristiane. Morto Eusebio (342), i due fratelli vennero relegati in una villa
della Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli
ordini impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e
leggessero i grandi autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte,
tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di
poeti e di filosofi greci.:t: facile rendersi conto di come tutto un mondo
nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso
dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano
suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a
Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26 luglio del 363, per ciò che
qui interessa, confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le
seguenti opere: Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV
al rt: Elios, l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici
ignoranti, in cui si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il
cinico Eraclio, l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio,
l'Orazione II Sul sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le
Orazioni I e III, panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il
355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno 358-359; l'Orazione VIII nel 361; le
Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV' e V sulla fine del 362); Lettt:rt::
agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte nell'autunno del 361) e al filosofo
Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti fram-
menti di opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro
i Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro
Sulla battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al
St:nato di Roma. 305 Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un
lato una religione fana- tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche
assurde, oppressive, dal- l'altro lato lo strumento di un potere politico che
nella sua intolleranza - di questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico
Materno, in cui si chiede all'imperatore Costanzo la distruzione e la
persecuzione dei pagani - avrebbe annullato la possibilità di una religione
universale, ove trovassero il loro posto le varie religioni e culti,
espressioni tutte di un unico e naturale sentimento religioso. Nominato Gallo
Cesare, Giuliano era stato chiamato da Costanzo a Costantinopoli perché vi
compisse gli studi superiori, ma sotto la guida del rètore cristiano Ecebolio,
noto come il "dispregiatore degli dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo
dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse, Giuliano, in segreto -
ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando perfino nel clero di
Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio (di Antiochia, vissuto
dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo
ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso Libanio - il quale dirà poi
che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il
significato del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e
attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che,
in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei
poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra
Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr.
sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo,
nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di dovere
affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò,
"hanno messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile
condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Ale- manni), e diplomatico
(riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti
politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza
di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e
dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359, preoccupato per l'attacco
ai territori romani da parte di Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare
in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso
ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i
Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e
Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo
Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise
allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL
Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur
brevemente, discorrere della vita e 306 della prima formazione di
Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno, l'atteggiamento non cristiano del
cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde ragioni. Non sembra cosi errato
dire che la religiosità di Giu- liano, la sua esigenza di una pacificazione
cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo stesso, nel quale non a caso
Giuliano fu allevato, sta nella conversione di Giuliano, nella cosiddetta
apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo come unica e vera religione.
In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico, Giuliano vedeva la
possibilità di un'au- tentica religione universale razionalmente fondata,
capace di accogliere in sé i miti e le religioni della tradizione greco-romana,
anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto piu plotinico (non ariano)
del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni sono in realtà miti, ma
simbolicamente validi ad avviare alla comprensione degli dèi e delle divinità,
momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina (di qui, an- cora una volta,
entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato da Giuliano
all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in par- ticolare le
Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul significato dei miti
cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro questa visione di un
tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti della realtà. Oltre
tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il sovraintelligibile, l'Idea
degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che dobbiamo designarlo come
ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea dell'Essere, intenderrdo
cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche l'Uno, per il motivo che
l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le cose, oppure per usare il
termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa uniforme di tutte le
cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di perfezione, di unità e di po-
tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La prima distinzione dell'Uno è
l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in senso giamblicheo, di mondo
intelligibile - mondo delle idee - e di mondo intellettuale - le attività
pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui primo, figlio del Bene, secondo
il mito platonico, è il Sole, e da questi gli dèi intel- lettuali, al di sotto
dei quali si scandiscono il mondo sensibile, le divi- nità visibili, gli astri,
il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal Sole, riflesso dalla luminosità
dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi- bilità a tutto, onde il dio Sole è
termine medio· tra il mondo intelli- gibile e il mondo sensibile, mediante cui
la luminosità dell'Uno si viene, per cosi dire, materiando nella luce di cui
tutto è costituito. La luce alla sua volta è una forma di questa per cosf dire
materia, che.è sostrato e segue l'estensione dei corpi luminosi. E della luce
stessa che è incorporea i raggi sarebbero in certo qual modo il vertice e come
il fiore. 307 E appunto secondo l'opinione dei Fenici che sono
sapienti e informati nelle cose divine:, lo splendore luminoso ovunque diffuso
è la incontaminata estrin- secazione attiva del puro Intelletto... Il mondo
intelligibile forma assolutamente un'unità, preesiste dall'eterno a ogni cosa e
tutto abbraccia insieme nella sua unità. E non è forse anche l'intero universo
un solo organismo vivente, tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto
perfetto costituito di parti perfette? [cfr. Timeo, 33a]. Vi è dunque una
duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità che comprende nell'uno tutto
ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella che intorno al mondo visibile
si concentra in una sola e medesima perfetta natura. Nel mezzo sta la
perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede tra gli dèi dotati di
intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi intelligibili vi è una specie
di forza avvincente che tutte le cose coordina verso l'unità. La sostanza del
quinto elemento che si muove nella propria orbita tiene riunite tutte le parti
e le stringe tra loro... Queste due sostanze che cooperano alla connessione,
delle quali l'una appare nel mondo intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios
Re le congiunge in una sola... (A Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di
un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del
tutto, ove, indipendentemente da qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima,
per limitata che sia, per presa che sia dalle cose, per dimentica che sia della
sua origine, ha pur sempre in sé una scintilla divina, è un seme dell'unico
Dio, di tutti padre ("certo io invidio pure la sorte fortunata di ~olui
che poté avere dalla divinità un corpo costituito da un seme divino e
profetico,... ma so anche che di tutti gli uomini Elios è il padre comune":
A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale può, con le sue forze, purificarsi,
tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello di Giuliano a una serietà di vita,
da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una ideale vita stoico- cinica
(non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con simpatia sulla vita e
sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del suo mestiere di
imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo antico: cfr.
Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici ignoranti, in
difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione, mediante cui
liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola, anche
attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu profondo é
nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria celeste donde è
venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare il Cristianesimo,
particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto religione, ma si in
quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua pretesa
d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello scritto
Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di Porfirio con molta
acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testa- mento con la
teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contrad- dizioni del Vecchio e
del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi come miti
popolari, dall'altro lato data la loro parzia- lità, la loro intolleranza esclusivistica,
l'impossibilità che sul Cristiane- simo si fondi una religione universale, tale
da pacificare e moraliz- zare, in unità, gli aspetti molteplici in cui si
presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi). Di qui sul piano politico
di una organizzazione religiosa, di contro all'intolleranza cristiana, la
tolleranza di Giuliano, anche nei confronti della religione cristiana;
Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né perseguitò i Cristiani,
mantenendo validità legale all'Editto di Milano (313). Volle solo, proprio in
nome di quel- l'Editto, che anche i Cristiani rientrassero nell'ordine, si
adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una certa religione,
posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica organizzazione politica
delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione
ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e di una gerar- chia
religiosa, ignota ptima di allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi
come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella di far tornare
nelle loro sedi tutti coloro che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da
Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e che fossero
restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi religiosi (di
ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano stati tolti
tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano, infine,
decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi cristiani
(Editto del 362), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro
escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per
la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una
persecu- zione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cri-
stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che
portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla
uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero
ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando
solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica
restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se
in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda,
com- prensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica-
zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di
Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri-
spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei
309 suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva
realizzabile entro i termini della filosofia plotinico-giamblichea,
corposamente e mitica- mente traducibile nei termini della religione solare.
Non solo, ma un'at- tenta lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela
il suo intento politico, di instaurare una religione di Stato, in nome della
tolleranza, riportando con ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali
(tale il significato del mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato
rivela come Giuliano si sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale
di cui parlavamo e per cui non poche volte è difficile - e non solo per
Giuliano - distinguere tra testi che poi nelle loro conclu- sioni sono
nettamente cristiani, da testi che nelle loro conclusioni sono irriducibili
alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò particolar- mente vale sia quando
si tratta di immagini (in special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si
tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano,
sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le
descrizioni delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le
religioni stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati
allegoricamente, risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente·
ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di
Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito,
entro l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (en-
cosmici e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze"
visibili che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, super-
essenziale, potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di
tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico
mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per
secoli molto discusso sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si
è sostenuto che fosse opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di
Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di
un Sallustio grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine,
da Orelli a Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un
Sallustio, alto funzionario dell'Im- pero e amico intimo di Giuliano
Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio
e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle Gallie, il secondo pre- fetto
d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei due debba darsi la paternità
Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto
di filosofo riportato da tutta la tradizione manoscritta del trattatello con
una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo
che la pubblicazione della raccolta delle Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones
latinae selectee”, I, Berlino, p. 276) ha permesso una ricostruzione esatta
della carriera e delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro
Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e
del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui
scritto è senza dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che
si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362
(si confronti in particolare G. Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des
di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles
Lettres," Parigi)] si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è
dovuto all'in- comprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del
tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è
alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio, XII, l)
(Per l'importanza storica e per il significato anche politico, in funzione
della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha
definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in modo convin- cente
le linee generali della... religione ellenica," rimandiamo allo stesso
Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort,
lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par
G.R., Parigi) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se
alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani,
con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito
l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale del- l'unica religione
di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento della
religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla procla- mazione
dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la
morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la
sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli
vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di
quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione
politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna -
morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota
decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia
economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un
sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi,
i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero
solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio
fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popo-
lazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a
non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne
estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le
poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi
proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello
Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già
feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di
ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se
possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo
mi- gliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. E intanto -
scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e
oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur
appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano
costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere
vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca
dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità
barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari
presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di
vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari
che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mette- vano al servizio
dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e
schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento anti-romano: in
celtico “bagaudi” significa "combattenti," "lottatori"], e
non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi,
piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De
gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i
grandi proprie- tari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a
sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa,
almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per
essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica
possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero),
dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi
al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine,
Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione
dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva
trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni,
che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano
distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con
l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento
prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra
la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero
cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la
morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno
alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un
conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per
il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni,
piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico
africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista,
sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro
contro i catto- 312 !ici, secondo cui la religione cristiana nulla
deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente
personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva
divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona-
tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta,
conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro
questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo
particolare significato il rifarsi o meno alla concezione
neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa
koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee
essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti,
il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo
"neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di
Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil-
logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica
del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di
Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua
latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la
circolazione di:lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E
qui va:nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8
Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore a Roma
lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica
prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una
statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al
Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni
di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai
Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui
restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione" di Cicerone;
De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro
di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361) in Roma, dove
ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che,
in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino,
Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in
parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino
a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno
vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello,
ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche
latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare
significato. Se cosi da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di
cultura, compone un'”Ars grammatical” e commenta il “De inventione” e i “Topici”
di Cicerone, dall'altro lato traduce il “De interpretation” e le “Categorie di
Aristotele”, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di
logica, il “De definitionibus” e il “De syllogismis hypotheticis”, mentre
traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere
piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano molto chiaramente
che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri
dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni,
sulle quali si basa l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò
verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un
lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al
sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio
delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e
al “De interpretation” di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo
l'aspetto formale a cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in
chiave ciceroniana. Sotto questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro
strutture, intrinsecamente necessarie, costituentesi, attraverso le
definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da
quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo
insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente
·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di
Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani
(Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo divino, del 358; De homoousio
recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del 360); tre commenti alle
Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute
sono andate le seguenti opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione
delle Categorie e del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'Isagoge
di Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece BOEZIO), la
versione di parte almeno delle Enneadi di Plotino, il De syllogismis
hypotheticis] del Cristianesimo dal piano logico al piano della FONDAZIONE DEL
DISCORSO su di un atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi
biblici; fatta da Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2
sgg.), per dimostrare la contraddittorietà della tesi ebraico-cristiana e per
altro verso l'incontro, in Roma, con i libri dei neo-platonici (sembra che
Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di
Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a
questa triplice considerazione. La retorica, valida appunto finché è neutra, se
tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si taglia dietro ogni
possibilità di comprensione del vero, di contatto con il senso della realtà. Nell'insegnamento
neo-platonico si trova che LA CONDIZIONE STESSA DEL DISCORSO si coglie in una
conversione dell'anima su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è
la fondazione stessa del tutto che trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine,
che la possibilità della conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità
del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo.
Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi
anni, in Roma, nel 357 circa (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora,
obbligato, poi, a chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si
apparta dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare
le Lettere di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a
giustificare, usando le tesi neo-platoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e
della consustanzialità, di contro alla tesi, logicamente sostenuta, dell'ariano
Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino: “Della generazione del Verba
divino” (358), in risposta alla Generazione divina di Candido (lucida operetta
in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto,
ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere
che il Verba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo
sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro
libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio re- cipiendo (360).
La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di
Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente, posta una certa definizione
(non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo ipotetico. Se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del
tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé
tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche
l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni esistenza, unità
in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante on, supra omnem
existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super omne on et
pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio
ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere,
anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non
essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua
potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto
potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua
crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre
l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo.
Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da
Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio (Deus enim
prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa. Deus
ergo a semetipso et Deus est": 18). Come poi il Figlio sia nel Padre e il
Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno
("neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex") non è, dice
Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit
enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). Sembra ora chiaro in
che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~ usata
in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi,
utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti,
potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana,
oltrepas- sando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione,
la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo
studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e
cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come
certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di
Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino,
dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del
quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la
formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo
in particolare a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi
rapporti col neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di
Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere
oltre l'es- sere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto
(interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo": e qui
pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per
giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe
nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione
di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e
a Cal- cidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristo-
tele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e 338
Virgilio (cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibi-
lità di riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e
dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi,
come inverantesi mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano
dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data
ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere
antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi
nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è opportuno
ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Analitici di Aristotele
di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio retestato, alto funzionario
(fu senatore, questore, pretore, governa- ore della Tuscia e dell'Umbria,
consolare della Lusitania, proconsole:lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia
e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384), amico
dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del
Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico
Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno piu che nell'opera da lui
scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum
religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui iden- tifica
tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e
Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera
pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano Mavorzio, governatore della
Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di
astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il
trattato piu ampio di astrologia traman- dato dall'antichità, in una
sistemazione del sapere astrologico in termini neo-platonici. Vi si difende,
contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia
come scienza. Se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e
alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è
altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una
conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion
d'essere del tutto, ripercor- rere le trame su cui tutto si scandisce, e può,
perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle,
alla terra, alle cose Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato,
vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che
aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al
tempo del suo governatorato in Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia,
intitolata “Mathesis”, dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console
d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei
neo-accademici e di Carneade. I libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria
astrologia. Convertitosi al Cristianesimo nel 345 circa, tra il 346 e il 350
scrive il “De errore profanarum religionum] si è costituito, determinare i
rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni, matematicamente
esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla divinità, ci si può
liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che provocano le nostre passioni
e i nostri impulsi malvagi (libro 1). Infine, sempre sul piano della
preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto
ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di
Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle opere di
Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria tra il 335 e il
400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti
del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima
della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del vescovo Cirillo. Francesco Adorno.
Keywords: Filosofia italica, scuola di Crotone, scuola di Velia, Girgenti,
Parmenide, Zenone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Adorno” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701937450/in/photolist-2mUTp7K-2mT8iwg-2mSLg5N-2mRK9nd-2mRGVwA-2mRFoL4-2mRhfyi-2mQwGA6-2mQ8kJS-2mQ2SsQ-2mPAuFE-2mN36eA-2mMx3Tk-2mLLZRD-2mLFz5i-2mLTVsg-2mLSNX8-2mLJPUG-2mLHWJE-2mLyVqx
Adriano. Epistle of
Adrian1916 in behalf of the Christians. I have received the letter
addressed to me by your predecessor Serenius Granianus, a most illustrious man;
and this communication I am unwilling to pass over in silence, lest innocent
persons be disturbed, and occasion be given to the informers for practising
villany. Accordingly, if the inhabitants of your province will so far sustain
this petition of theirs as to accuse the Christians in some court of law, I do
not prohibit them from doing so. But I will not suffer them to make use of mere
entreaties and outcries. For it is far more just, if any one desires to make an
accusation, that you give judgment upon it. If, therefore, any one makes the
accusation, and furnishes proof that the said men do anything contrary to the
laws, you shall adjudge punishments in proportion to the offences. And this, by
Hercules, you shall give special heed to, that if any man shall, through mere
calumny, bring an accusation against any of these persons, you shall award to
him more severe punishments in proportion to his wickedness.
1916 Addressed to Minucius Fundanus. [Generally credited as
genuine.]
Grice ed Agamben – nudi – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Grice: “Agamben is a terribly complex philosopher, and a
fascinating one – he has philosophised on things I did: ‘fantasma,’ as used by
Aristotle in ‘Interpretatione,’ the unsaid and the unsayable (indicible), that
Aganbem might apply to ‘il ragazzo’ – or ‘fanciullino’ – he has philosophhised
on ‘love’ (amore – eros – idea dell’amore – and semiology of the sphynx,
imagine, and imagine perverse – the use of bodies (uso dei corpi) and ‘silence’
(il silenzio nel linguaggio): lingua, iinguaggio, dialetto – verita – the
sacred dimension of language in swearing – ‘sacramgneto del linguaggio – the
logic of commands and the commandmets – the power and the glory – he obviously
enjoys in word play! Flosofo. D’antica famiglia veneziana di origine armena, si
laureò in Giurisprudenza nel 1965 con una tesi su Simone Weil. Ha scritto
diverse opere, che spaziano dall'estetica alla biopolitica. A Roma, sempre
negli anni sessanta, frequenta con intensità Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini
(interpreta l'apostolo Filippo nel film Il Vangelo secondo Matteo), Ingeborg
Bachmann. Nel 1966 e nel 1968 partecipa ai seminari promossi da Martin
Heidegger su Eraclito e Hegel a Le Thor. Nel 1974 si trasferisce a Parigi, dove
frequenta Pierre Klossowski, Guy Debord, Italo Calvino e altri intellettuali,
mentre insegna all'Università Haute-Bretagne. L'anno seguente ha lavorato a
Londra, mentre dal 1986 al 1993 ha diretto il Collegio internazionale di
filosofia a Parigi, frequentando, tra gli altri, Jean-Luc Nancy, Jacques
Derrida e Jean-François Lyotard. Dal 1988 al 2003 ha insegnato alle Università
degli Studi di Macerata e di Verona. Dal 2003 al 2009 ha insegnato presso
l'Istituto Universitario di Architettura (IUAV) di Venezia. Sempre nel
2003 ha abbandonatoper protesta contro i nuovi dispositivi di controllo imposti
dal governo statunitense ai cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti
d'America, cioè lasciare le proprie impronte digitali ed essere
schedatil'incarico di professore illustre all'New York. In precedenza era stato
professore invitato in altre istituzioni, tra cui l'Università Northwestern,
l'Università Heinrich Heine di Düsseldorf e la European Graduate School di Saas-Fee.
In seguito "si è dimesso dall'insegnamento nell'università italiana".
Oggi dirige la collana Quarta prosa presso l'editore Neri Pozza e organizza un
seminario annuale presso l'Parigi Saint-Denis. Tra gli autori che ha
studiato e proposto: Walter Benjamin, Jacob Taubes, Alexandre Kojève, Michel
Foucault, Carl Schmitt, Aby Warburg, Paolo di Tarso, ma anche Furio Jesi, Enzo
Melandri e in genere trattando temi di filosofia politica, biopolitica (in
particolare i concetti di stato di emergenza, esilio e autorità), mistica
cristiana ed ebraica, angelologia, storia dell'arte e letteratura. Collabora
con "aut-aut", "Cultura tedesca" e con diverse altre
riviste di filosofia. In occasione della laurea honoris causa in teologia
presso l'Friburgo il 13 novembre ha
pronunciato la conferenza Mysterium iniquitatis, poi tradotta in Il mistero
del male. H ricevuto il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica e
nel il Premio Nonino "Maestro del
nostro tempo". Il pensiero di Giorgio Agamben, benché caratterizzato
da una omogeneità che copre tutto l'arco evolutivo delle sue opere, può essere
per comodità suddiviso in due momenti distinti. A fare da spartiacque è un
testo fondamentale: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, il quale si
inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dalle ricerche di Foucault
attorno al biopotere, indagando il rapporto fra diritto e vita e sulle
dinamiche dei modelli di sovranità. La prima riflessione agambeniana
predilige tematiche estetiche, in particolar modo letterarie, nel contesto di
un grande confronto con il pensiero di Martin Heideggerche ha conosciuto
personalmente partecipando ai seminari estivi tenuti in Provenza ncon quello di
un altro filosofo a lui caro: Walter Benjamin, autore del quale curò la prima
edizione italiana delle opere complete per Einaudi, ritrovando anche un
discreto numero di testi inediti (tra cui quelli nascosti e conservati da
Georges Bataille alla Biblioteca nazionale di Francia e riscoperti da Agamben
nel 1981 tra le carte di Bataille presenti nella biblioteca); la collaborazione
con Einaudi si interruppe per sopravvenute incomprensioni con l'editore.
All'inizio degli anni novanta alcuni suoi allievi hanno fondato la casa
editrice Quodlibet. I suoi studi hanno riguardato varie tematiche, dal
linguaggio alla metafisica, approfondendo il significato dell'esistenza del
linguaggio e dei suoi limiti referenziali esogeni ed endogeni., dall'estetica
nella quale indaga sulle relazioni intercorrenti fra filosofia ed arte
chiedendosi se quest'ultima permetta una differente espressione del linguaggio
rispetto alla prima, all'etica che approfondisce le tematiche e gli aspetti
emergenti dal contesto dei lager nazisti. A sostegno del pensiero di
Agamben riguardo alla sua concezione della "nuda vita" vale infine
quanto scritto in un articolo pubblicato in data 17 marzo intitolato Chiarimenti: «È evidente che
gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni
normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli
affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La
nuda vitae la paura di perderlanon è qualcosa che unisce gli uomini, ma li
acceca e separa.» Homo sacer A partire dal concetto latino di homo sacer,
la sua ricerca principale si svolge nei seguenti volumi (ripresi nell'edizione
definitiva: Homo Sacer. Edizione integrale. I. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda
vita, II,1. Stato d'eccezione, 2003 II,2. Stasis. La guerra civile come
paradigma politico, Il sacramento del
linguaggio. Archeologia del giuramento, Il regno e la gloria. Per una genealogia
teologica dell'economia e del governo, II,5. Opus Dei. Archeologia
dell'ufficio, Quel che resta di
Auschwitz. L'archivio e il testimone, Altissima povertà. Regole monastiche e
forma di vita, IV,2. L'uso dei
corpi, Al cinema Ha interpretato il
ruolo di Filippo nel film del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo
Pasolini. Opere: “Jarry o la divinità del riso”, in Alfred Jarry, Il supermaschio, trad. G.
Agamben, Milano: Bompiani (poi Milano: SE,) André Breton e Paul Éluard,
L'immacolata concezione, trad. G. Agamben, Milano: Forum, (poi Milano: ES).
L'uomo senza contenuto, Milano: Rizzoli, 1970 (poi Macerata: Quodlibet)
(contiene: «La cosa più inquietante», «Frenhofer e il suo doppio», «L'uomo di
gusto e la dialettica della lacerazione», «La camera delle meraviglie», «Les
jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», «Un nulla che
annienta se stesso», «La privazione è come un volto», «Poiesis e praxis», «La
struttura originale dell'opera d'arte», «L'angelo malinconico») José Bergamin,
in José Bergamín, Decadenza dell'analfabetismo, trad. Lucio D'Arcangelo,
Milano: Rusconi, (n.ed. Milano: Bompiani)
La notte oscura di Juan de la Cruz, in Juan de la Cruz, Poesie, trad. G.
Agamben, Torino: Einaudi, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,
Torino: Einaudi (ristampato Einaudi) (contiene: «Prefazione», «I fantasmi di
Eros», «Nel mondo di Odradek. L'opera d'arte di fronte alla merce», «La parola
e il fantasma. La teoria del fantasma nella poesia d'amore del '200»,
«L'immagine perversa. La semiologia dal punto di vista della Sfinge») Marcel
Griaule, Dio d'acqua, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani, 1978 Infanzia e
storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi. Contiene:
«Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell'esperienza», «Il paese dei
balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco», «Tempo e storia. Critica
dell'istante e del continuo», «Il principe e il ranocchio. Il problema del
metodo in Adorno e in Benjamin», «Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe»,
«Programma per una rivista») Gusto, in Ruggiero Romano, Enciclopedia Einaudi, 6, Torino: Einaudi, L'io, l'occhio, la voce, in Paul Valéry,
Monsieur Teste, trad. Libero Salaroli, Milano: Il Saggiatore, nuova ed. Milano:
SE; poi in La potenza del pensiero, Il
linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino: Einaudi
(ristampato Einaudi,) La fine del pensiero, Paris: Le Nouveau Commerce, 1982 Un
importante ritrovamento di manoscritti di Walter Benjamin, in «aut-aut»,
(numero intitolato «Paesaggi benjaminiani»), Firenze: La Nuova Italia, La
trasparenza della lingua, in «Alfabeta», Milano: Coop. Intrapresa, Il viso e il
silenzio, in Ruggero Savinio, Opere 1983, Milano: Philippe Daverio, 1983 Il
silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo, Margaritae, Venezia: Arsenale,
1983, 69–79 Idea della prosa, Milano:
Feltrinelli, (poi Macerata: Quodlibet) (contiene: «Soglia», «I: Idea della
materia, Idea della prosa, Idea della censura, Idea della vocazione, Idea
dell'Unica, Idea del dettato, Idea della verità, Idea della Musa, Idea
dell'amore, Idea dell'immemorabile», «II: Idea del potere, Idea del comunismo,
Idea della giustizia, Idea della pace, Idea della vergogna, Idea dell'epoca,
Idea della musica, Idea della felicità, Idea dell'infanzia, Idea del giudizio
universale», «III: Idea del pensiero, Idea del nome, Idea dell'enigma, Idea del
silenzio, Idea del linguaggio, Idea della luce, Idea dell'apparenza, Idea della
gloria, Idea della morte, Idea del risveglio», «Soglia. Kafka difeso contro i
suoi interpreti») Quattro glosse a Kafka, in «Rivista di estetica», Torino: Rosenberg
& Sellier, La passione dell'indifferenza, in Marcel Proust, L'indifferente,
trad. Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino: Einaudi, Il silenzio delle parole, in Ingeborg
Bachmann, In cerca di frasi vere, trad. Cinzia Romani, Bari: Laterza,
1989, V-XV Sur Robert Walser, in
«Détail», Paris: Pierre Alféri et Suzanne Doppelt (l'Atelier Cosmopolite de la
Fondation Royaumont), autunno La comunità che viene, Torino: Einaudi, 1990
(n.ed. Torino: Bollati Boringhieri) (contiene: «La comunità che viene:
Qualunque, Dal Limbo, Esempio, Aver luogo, Principium individuationis, Agio,
Maneries, Demonico, Bartebly, Irreparabile, Etica, Collants Dim, Aureole,
Pseudonimo, Senza classi, Fuori, Omonimi, Schechina, Tienanmen»,
«L'irreparabile») Disappropriata maniera, in Giorgio Caproni, Res amissa, G.
Agamben, Milano: Garzanti, 1991 (poi in Categorie italiane, 89–103) Kommerell o del gesto, in Max
Kommerell, Il poeta e l'indicibile, Genova: Marietti, VII-XV (poi in La potenza
del pensiero, Bartleby, la formula della
creazione, Macerata: Quodlibet. Contiene: Gilles Deleuze, Bartebly o la formula
trad. Stefano Verdicchio; G. Agamben, Bartebly o della contingenza: Lo scriba o
della creazione, La formula o della potenza, L'esperimento o della
decreazione») Nota introduttiva a: René, Il testamento della ragazza morta,
trad. Daniela Salvatico Estense, Macerata: Quodlibet, 7–8 Maniere del nulla, in Robert Walser, Pezzi
in prosa, trad. Gino Giometti, Macerata: Quodlibet, 7–11 Il dettato della poesia, in Antonio
Delfini, Poesie della fine del mondo e poesie escluse, Daniele Garbuglia,
Macerata: Quodlibet, VII-XX (poi in
Categorie italiane, 79–88) Homo sacer.
Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 1995 (ristampa 2008)
(contiene: «Introduzione», «Logica della sovranità», «Homo sacer», «Il campo
come paradigma biopolitico del moderno», «») Il talismano di Furio Jesi, in
Furio Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, Macerata: Quodlibet, 1996, 5–8 Mezzi senza fine. Note sulla politica,
Torino: Bollati Boringhieri, 1996 (contiene: «Avvertenza», «I: Forma-di vita,
Al di là dei diritti dell'uomo, Che cos'è un popolo?, Che cos'è un
campo?», «II: Note sul gesto, Le lingue e i popoli, Glosse in margine ai
Commentari sulla società dello spettacolo, Il volto», «III: Polizia sovrana,
Note sulla politica, In questo esilio. Diario italiano 1992-94») Per una
filosofia dell'infanzia, in Franco La Cecla, Perfetti e indivisibili, Milano:
Skira, 1996, 233–40 Categorie italiane.
Studi di poetica, Venezia: Marsilio, 1996 (contiene: «Premessa», «Comedia»,
«Corn. Dall'anatomia alla poetica», «Il sogno e della lingua», «Pascoli e il
pensiero della voce», «Il dettato della poesia», «Disappropriata maniera», «La
festa del tesoro nascosto», «La fine del poema», «Un enigma della Basca», «La
caccia della lingua», «I giusti non si nutrono di luce», «Il congedo della
tragedia»). Nuova edizione (Roma-Bari: Laterza, ), accresciuta di otto testi e
con un nuovo sottotitolo: Studi di poetica e di letteratura. Verità come
erranza, in «Paradosso», 2-3 (numero intitolato «Sulla verità», Massimo Dona),
Padova: Il Poligrafo, 1998, 13–17 Image
et mémoire, Paris: Hoëbeke, 1998 (contiene: «Aby Warburg et la science sans
nom», «L'origine et l'oubli. Parole du mythe et parole de la littérature», «Le
cinéma de Guy Debord», «L'image immémoriale») Quel che resta di Auschwitz.
L'archivio e il testimone. Homo sacer. III, Torino: Bollati Boringhieri, 1998
(contiene: «Avvertenza», «Il testimone», «Il musulmano», «La vergogna o del
soggetto», «L'archivio e la testimonianza», «») Introduzione, in Giorgio
Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600
italiano, Macerata: Quodlibet, 1999,
7–18 La guerra e il dominio, in «aut-aut», 293-294, Firenze: La Nuova
Italia, settembre-dicembre 1999, 22–3,
poi anche in: Paolo Perticari, Biopolitica minore, Roma: Manifestolibri Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera
ai romani», Torino: Bollati Boringhieri, 2000 (contiene: «Prima giornata.
Paulos doulos christoú Iësoú», «Seconda giornata. Klëtós», «Terza giornata.
Aphörisménos», «Quarta giornata. Apóstolos», «Quinta giornata. Eis auaggélion
theoú», «Sesta giornata», «Soglia o tornada», «Appendice. Riferimenti testuali
paolini», «») Araldica e politica, in Viola Papetti, Le foglie messaggere.
Scritti in onore di Giorgio Manganelli, Roma: Editori Riuniti Un possibile autoritratto
di Gianni Carchia, in «Il manifesto» (supplemento «Alias» 26), Roma, 7 luglio
200118 Le pire des régimes, in «Le monde», Paris, 23 marzo 2002 The Time That
Is Left, in «Epoché», VII, 1, Villanova: Villanova University, 1–14 L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino:
Bollati Boringhieri, 2002 (contiene «Teromorfo, Acefalo, Snob, Mysterium
disiunctionis, Fisiologia dei beati, Cognitio experimentalis, Tassonomie, Senza
rango, Macchina antropologica, Umwelt, Zecca, Povertà di mondo, L'aperto, Noia
profonda, Mondo e terra, Animalizzazione, Antropogenesi, Tra, Desoeuvrement,
Fuori dall'essere», «») Nota, in Ingebor Bachmann, Quel che ho visto e udito a
Roma, Macerata: Quodlibet, 2002 (con Valeria Piazza) L'ombre de l'amour, Paris:
Rivages, 2003 Stato di Eccezione. Homo sacer II, 1, Torino: Bollati
Boringhieri, 2003 (contiene: «Lo stato di eccezione come paradigma di governo»,
«Forza di legge», «Iustitium», «Gigantomachia intorno a un vuoto», «Festa lutto
anomia», «Auctoritas e potestas», «Riferimenti bibliografici») Intervista a
Giorgio Agamben (sullo Stato di eccezione) in Antasofia 1, Mimesis, Milano
2003. Genius, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni, 7–18) Il giorno del giudizio, Roma:
Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni,
25–38) La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza: Neri Pozza,
2005 (contiene: «La cosa stessa», «L'idea del linguaggio», «Lingua e storia»,
«Filosofia e linguistica», «Vocazione e voce», «L'io, l'occhio, la voce»,
«Sull'impossibilità di dire io», «Aby Warburg e la scienza senza nome»,
«Tradizione dell'immemorabile», «*Se. L'assoluto e l'Ereignis», «L'origine e
l'oblio», «Walter Benjamin e il demonico», «Kommerell o del gesto», «Il Messia
e il sovrano», «La potenza del pensiero», «La passione della fatticità»,
«Heidegger e il nazismo», «L'immagine immemoriale», «Pardes», «L'opera
dell'uomo», «L'immanenza assoluta») Profanazioni, Roma: Nottetempo, 2005
(contiene: «Genius», «Magia e felicità», «Il Giorno del Giudizio», «Gli
aiutanti», «Parodia», «Desiderare», «L'essere speciale», «L'autore come gesto»,
«Elogio della profanazione», «I sei minuti più belli della storia del cinema»)
Introduzione, in Emanuele Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e
l'averroismo, Milano: Bruno Mondadori, 1995,
VII-XIII Che cos'è un dispositivo?, Roma: Nottetempo, 2006 L'amico,
Roma: Nottetempo, 2007 Ninfe, Torino: Bollati Boringhieri, 2007 Il regno e la
gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Homo sacer
II, 2, Vicenza: Neri Pozza, 2007 (nuova ed. Torino: Bollati Boringhieri, 2009)
(contiene: «Premessa», «I due paradigmi», «Il mistero dell'economia», «Essere e
agire», «Il regno e il governo», «La macchina provvidenziale», «Angelologia e
burocrazia», «Il potere e la gloria», «Archeologia della gloria» preceduti, intervallati
e seguiti da Soglie, «Appendice: L'economia dei moderni», «») Che cos'è il
contemporaneo?, Roma: Nottetempo, 2008 Signatura rerum. Sul Metodo, Torino:
Bollati Boringhieri, 2008 (contiene: «Avvertenza», «Che cos'è un paradigma?»,
«Teoria delle segnature», «Archeologia filosofica», «») Il sacramento del
linguaggio. Archeologia del giuramento. Homo sacer II, 3, Roma-Bari: Laterza,
2008 Nudità, Roma: Nottetempo, 2009 (contiene: «Creazione e salvezza», «Che
cos'è il contemporaneo?», «K.», «Dell'utilità e degli inconvenienti del vivere
fra spettri», «Su ciò che possiamo non fare», «Identità senza persona»,
«Nudità», «Il corpo glorioso», «Una fame da bue», «L'ultimo capitolo della
storia del mondo») (con Emanuele Coccia) Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam,
Vicenza: Neri Pozza, La Chiesa e il
Regno, Roma: Nottetempo, (con Monica
Ferrando) La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Milano: Electa
Mondadori, Altissima povertà. Regole
monastiche e forma di vita. Homo sacer IV, 1, Vicenza: Neri Pozza, Opus Dei. Archeologia dell'ufficio. Homo
sacer II, 5, Torino: Bollati Boringhieri,
Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Roma-Bari:
Laterza, Pilato e Gesù, Roma:
Nottetempo, Qu'est-ce que le
commandement?, Parigi: Bibliothèque Rivages,
Il fuoco e il racconto, Roma: Nottetempo, L'uso dei corpi. Homo sacer IV, 2, Vicenza:
Neri Pozza, To Whom Is Poetry
Addressed?, in "New Observations", Stasis La guerra civile come
paradigma politico. Homo sacer, Torino: Bollati Boringhieri, L'avventura, Roma: nottetempo, Pulcinella ovvero Divertimento per li
regazzi, Roma: nottetempo, Che cos'è la
filosofia?, Macerata: Quodlibet, Che
cos'è reale? La scomparsa di Majorana, Vicenza: Neri Pozza, Autoritratto nello studio, Milano:
Nottetempo, Karman. Breve trattato
sull'azione, la colpa, il gesto, Torino: Bollati Boringhieri, Creazione e anarchia. L'opera nell'età della
religione capitalista, Vicenza: Neri Pozza,
Homo Sacer. Edizione integrale (1995-), Macerata, Quodlibet, Il Regno e il Giardino, Vicenza: Neri
Pozza, Lo studiolo, Collana Saggi,
Torino, Einaudi,. A che punto siamo? L'epidemia come politica, Macerata,
Quodlibet, Note Giulia Farina, Enciclopedia della
letteratura, Garzanti, 1997 p.9 Con il
quale progetta una rivista. Cfr. l'ultimo capitolo di Infanzia e storia,
Einaudi, Torino. Giorgio Agamben Al
quale si rivolge con L'amico, Nottetempo, Roma. Cfr. la lettera di solidarietà
di Carla Benedetti dell'11 gennaio 2004 su "Nazione indiana": la pagina sul sito della scuola. Del quale ha diretto per qualche tempo le
edizioni complete presso Einaudi, prima di abbandonare il progetto per
contrasti con la casa editrice. cfr. la lettera a "la Repubblica" del
13 novembre 1996. . Tra l'altro ha lavorato per il Warburg Institute negli anni,grazie
alla cortesia di Frances Yates . Altri autori di cui si è occupato sono Charles
Baudelaire, Robert Walser, Paul Valéry, Antonio Delfini, Giorgio Manganelli,
Max Kommerell, Elsa Morante, Giovanni Pascoli, Victor Segalen, Giorgio Caproni,
Patrizia Cavalli, Marcel Proust, Arnaut Daniel ecc. Paolo Vernaglione, TEOLOGIAIl «Mistero del
male» di Giorgio Agamben. Fuga dal tempo del dominio [collegamento interrotto],
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Library of Congress) Roberto Gilodi,
BenjaminUno «straccivendolo» alla ricerca capillare dei rifiuti di Baudelaire,
in Alias, Roma, il manifesto, cite web
url=http://iep.utm.edu/a/agamben.htm
G.Agamben, Chiarimenti Andrea
Cavalletti, "La guerra civile, paradigma della politica" Archiviato
il 4 marzo in., il manifesto Prima della
pubblicazione di Stasis, questo volume era numerato II,2. Thomas Carl Wall,
Radical Passivity: Levinas, Blanchot and Agamben, postfazione di William
Flesch, Albany: State University of New York Press, 1999 Philippe Mesnard e Claudine Kahan, Giorgio
Agamben à l'epreuve d'Auschwitz: temoignages, interpretations, Paris: Éditions
Kimé, Eva Geulen, Giorgio Agamben zur Einführung, Hamburg: Junius,Alfonso
Galindo Hervas, Politica y mesianismo: Giorgio Agamben, Madrid: Biblioteca
nueva, Asselin e Jean-Francois Bourgeault, La littérature en puissance autour
de Giorgio Agamben, Montréal: VLB, Calarco e Steven DeCaroli, Giorgio Agamben.
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Valerio Tommasi, Homo sacer e i dispositivi. Sulla semantica del sacrificio in
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Economy to Ontology in Agamben, Esposito, and Nancy. Albany: State University
of New York Press, Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical
Introduction, Stanford: Stanford University Press Alex Murray, Giorgio Agamben,
London-New York: Routledge, Thanos Zartaloudis, Giorgio Agamben. Power, Law and
the Uses of Criticism, London-New York: Routledge, (DE) Oliver Marchart, Die politische
Differenz zum Denken des Politischen bei Nancy, Lefort, Badiou, Laclau und
Agamben, Berlin: Suhrkamp, William Watkin, Literary Agamben: Adventures in
Logopoiesis, London-New York: Continuum, Vittoria Borsò et alii,
BenjaminAgamben, Wurzburg:, Konigshausen & Neumann, Lucia Dell'Aia, Studi su Agamben, Milano:
Ledizioni, (con saggi di Witte, Liska,
Dell'Aia, Talamo, Miranda, Recchia Luciani) Francesco Valerio Tommasi,
"L'analogia in Carl Schmitt e Giorgio Agamben. Un contributo al
chiarimento della teologia politica", in L'ircocervo, /1.Jacopo D'Alonzo,
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Giorgio Agamben", in Revista Pléyade, C. Salzani, Introduzione a Giorgio
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Kopić, Giorgio Agamben, «Tvrđa», 1-2,,
44–93. Flavio Luzi, Quodlibet. Il problema della presupposizione
nell'ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, Roma. E. Castano, Agamben e
l'animale. La politica dalla norma all'eccezione, Novalogos, Carlo Crosato, Critica della sovranità.
Foucault e Agamben. Tra il superamento della teoria moderna della sovranità e
il suo ripensamento in chiave ontologica, Orthotes, V. Bonacci, Giorgio Agamben. Ontologia e
politica, Quodlibet Lucia Dell'Aia e
Jacopo D'Alonzo, Lo scrigno delle segnature. Lingua e poesia in Giorgio
Agamben, Istituto Italiano di Cultura, Amsterdam. Con uno scritto inedito di G.
Agamben (Porta e soglia) e contributi di: L. Dell'Aia, R. Talamo, C. Salzani,
J. D'Alonzo, V. BorsòColilli. Bios
(filosofia) Zoé (filosofia) Homo sacer Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Giorgio Agamben Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Giorgio Agamben Opere di Giorgio Agamben,. Opere
riguardanti Giorgio Agamben,. Giorgio Agamben, su Goodreads. italiana di Giorgio Agamben, su Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giorgio Agamben, su
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aprile ). "Il frutto maturo della redenzione", Toni Negri su Agamben
Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita recensione da Sitosophia
Il mistero del male Traduzione spagnola nel 68esimo numero del magazine
messicano "Fractal". Agamben.
Keywords: nudi, Ereignis, eye, occhio, occhi, polifemo, argo, i marziani di
Grice – la etimologia accettata – ‘porre davanti agli occhi” – binocularismo –
monocularismo – algarotti, il sacramento del linguaggio – Fjeld -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Agamben” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711128401/in/photolist-2mPYYve-2mMx3Tk-2mLLMp2-2mLMaMX-2mKAuZM-2mFT3it-2mFT2vb-2mFXqcz-2mFU9hT-2mFU9hY-2mFU9hs-2mFT3hm-2mFU9hx-2mFXqcE-2mFT3hr-2mFNtjG-2mDcYKz-2mDcG8r-2mDcJUZ-2mD53dA-2mDcHuz-2mD94Xi-2mDaeCf-2mDaeWB/
Grice ed Agazzi –
Apollo febo, ovvero, l’impegno della ragione – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Genova).
Grice: “I like [Emilio] Agazzi; his tutees thought he was into the ‘impegno
della ragione,’ but then MY tutees thought that I was into the philosophical
grounds (as in coffee) of rationality: intentions, categories, ends – I go by “H.
P. Grice,” so surely I can find an acronym that would NOT leave the essential
“H” out – as in Speranza’s GHP – a highly powerful or hopefully plausible
version of Myro’s system G – “in gratitude to Paul Grice.” Grice: “Agazzi is a
marxist – cf. my ontological Marxism, I am one, too – so his ‘ragione’ is
Hegelian – he has also philosophised on Croce, and idealism, but the idea that
there is ‘impegno’ behind reason is tutorial – surely reason is a natural
faculty that does- not require much of an ‘impegno’ – the more impegno, the
less rational you will be counted – if he means that!” -- Filosofo. Agazzi
nacque a Genova. Qui conseguì la maturità classica a la laurea in lettere e
filosofia con una tesi su Il pensiero filosofico di Piero Martinetti presso
l'Università Statale. Fu assistente volontario di storia della filosofia
dapprima a Genova dal 1945 al 1954, dove fu in particolare influenzato dal
pensiero di Adelchi Baratono, ordinario di filosofia teoretica, e successivamente,
dal 1954 al 1964, a Pavia (ove in particolare collaborò con Ludovico Geymonat e
Vittorio Enzo Alfieri); contemporaneamente, dal 1949 al 1972, insegnò filosofia
nei licei di Genova, Voghera e Pavia. Nel 1964 conseguì la libera docenza in
storia della filosofia moderna e contemporanea; dal 1965 al 1968 insegnò
filosofia della religione nella facoltà di Lettere e filosofia a Milano, in
particolare riprendendo il suo interesse per Piero Martinetti; mentre nella
stessa facoltà insegnò dal 1969 al 1982 filosofia della storia, ottenendo un
incarico stabile dal 1973. Dalla seconda
metà degli anni Settanta si dedicò in particolare allo studio della filosofia
tedesca moderna contemporanea, accentrando la sua attenzione sulla Scuola di
Francoforte, città in cui svolse ricerche approfondite ed ebbe contatti con
docenti universitari; negli stessi anni frequentò ripetutamente università
tedesche, polacche e jugoslave. Impegno
politico Da sempre attento agli sviluppi del pensiero marxista in Italia e in
Europa, accompagnò la sua intensa attività di ricerca scientifica ad un attivo
impegno politico: esponente del Partito Socialista Italiano negli anni
Cinquanta, nei decenni successivi aderì dapprima al PSIUP, quindi al PDUP e a
Democrazia Proletaria. Collaborò in varie forme a molte riviste e quotidiani
della sinistra (tra gli altri Il Lavoro Nuovo, l'Avanti!, Mondoperaio, Quaderni
Rossi, Passato e Presente, Classe); nel 1983 fondò la rivista di teoria
politica Marx centouno. Dopo il 1986,
gravemente ammalato, dovette rinunciare ai suoi studi, lasciando nel 1990
l'insegnamento. Morì a Pavia il 25 settembre 1991. Archivio L'archivio di Emilio Agazzi e gran
parte della sua biblioteca sono stati do 1992 dagli eredi alla Fondazione Turati,
dove è tutt'ora conservato presso l'archivio della Fondazione; il fondo
contiene quaderni di appunti, manoscritti e materiali di lavoro per il periodo
dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento. Opere: “Croce e il marxismo” (Einaudi); “Linee
fondamentali della ricezione della teoria critica in Italia”; “L'impegno della
ragione” (Cingoli, Calloni, Ferraro, Milano, Unicopli); Filosofia della natura.
Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato); “La filosofia di Piero
Martinetti, Sandro Mancini, Amedeo Vigorelli e Marzio Zanantoni, Edizioni
Unicopli, Milano,. Traduzioni Jürgen Habermas, “Etica del discorso” -- Laterza,
Bari-Roma Note Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. 21 febbraio. Fondo Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Collezione Emilio Agazzi su
Fondazione di studi storici "Filippo Turati". 21 febbraio. E. Capannelli ed E. Insabato, Guida agli
Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra '800 e '900. L'area
fiorentina, Firenze, Olschki, Scuola di Milano
Emilio Agazzi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.Collezione Emilio Agazzi su
Fondazione di studi storici "Filippo Turati". Filosofia Filosofo Professore1921
1991 18 novembre 25 settembre Genova Pavia. Emilio Agazzi. Agazzi. Keywords: Apollo
febo, ovvero, l’impegno della ragione; etica del discorso. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51795578729/in/dateposted-public/
Grice ed Agazzi –
dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo).
Grice: “[Evandro] Agazzi has all the best intentions, but perhaps he lacks a
Lit. Hum. background – he basically approaches my topic of “logica filosofica”
which he contrasts with ‘logica matematica,’ and he has a special tract on my
pont about ‘formalismo’,’ which I later called ‘modernism’ – “ragioni e limiti
del formalismo” – his essay on ‘mondo incerto’ reminds me of my ‘intention and
uncertainty’!” – Filosofo. Figlio di Agazzi, ordinario di pedagogia presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di Milano e preside
della Facoltà di Magistero, fu allievo di Gustavo Bontadini e amico di Ludovico
Geymonat, con cui a lungo collaborò, durante gli studi di filosofia presso
l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di fisica presso
l'Università Statale di Milano. In seguito si è perfezionato all'Oxford, a
quella di Marburg ed a quella di Münster; dal 1963 è libero docente in
Filosofia della scienza e dal 1966 in Logica matematica. Evandro Agazzi
ha inizialmente insegnato Geometria superiore, Logica matematica e Matematiche
complementari presso la facoltà di Scienze dell'Genova; ha insegnato altresì
Logica simbolica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, Filosofia della
scienza e Logica matematica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano. Dal 1970 è Professore di Filosofia della scienza presso l'Genova
e dal 1979 detiene la cattedra di Antropologia filosofica, Filosofia della
scienza e Filosofia della natura presso l'Friburgo in Svizzera. È stato
professore invitato nelle Berna, Ginevra, Düsseldorf, Pittsburgh ed anche
all'Stanford; è dottore honoris causa dell'Córdoba (Argentina). Ha
presieduto numerose associazioni filosofiche nazionali e internazionali:
Società Filosofica Italiana, Società Italiana di Logica e Filosofia delle
scienze, Società svizzera di Logica e Filosofia delle scienze, Federazione
internazionale delle Società filosofiche; è stato membro del Comitato Nazionale
per la Bioetica. Attualmente è presidente della Académie Internationale de
Philosophie des Sciences e dell'Institut International de Philosophie.
Pensiero I settori ai quali Evandro Agazzi ha rivolto prevalentemente i suoi
interessi sono stati: la filosofia generale della scienza, la filosofia di
alcune scienze particolari (matematica, fisica, scienze sociali, psicologia),
logica, teoria dei sistemi, etica della scienza, bioetica, storia della
scienza, filosofia del linguaggio, metafisica antropologia filosofica,
pedagogia. Attualmente le sue ricerche riguardano per un verso la
caratterizzazione dell'oggettività scientifica e la difesa di un realismo
scientifico basato su un approfondimento delle nozioni di riferimento e di
verità, con le relative implicazioni di tipo ontologico, per un altro
l'approfondimento del concetto di persona e delle varie conseguenze che ne
derivano, in particolare nel campo della bioetica. Filosofia della
scienza La riflessione di Agazzi assume come punto di partenza la necessità
gnoseologica di stabilire nella conoscenza scientifica «la più perfetta forma
di conoscenza oggi a disposizione dell'uomo». Su questa base, anche i
metafisici devono necessariamente passare per l'epistemologia, intesa come
fondazione delle «strutture metodologichedella scienza». L'epistemologia, come
la intende Agazzi, assume la scienza come un sapere oggettivamente rigoroso:
tuttavia l'oggettività in questione non è quella metafisica delle essenze o
quella fisica delle qualità, bensì un'oggettualità e intersoggettività.
Sulla base di questi due punti, come Agazzi specifica nel suo celebre
libro intitolato Temi e problemi di filosofia della fisica, l'oggetto di una
disciplina scientifica è la cosa, esaminata da un punto di vista tale per cui
il ricercatore si pone grazie a una precisissima impostazione metodologica,
tramite la quale ritaglia su una cosa un aspetto (oggettività), condiviso dai
ricercatori che accettano gli stessi criteri di oggettivazione
(intersoggettività). Il rigore scientifico cessa di essere inteso in senso
dialettico e confutatorio o in senso matematico e quantitativo: è piuttosto
inteso nel senso di dar ragione tramite l'immediato empirico o il mediato
logico. In questa prospettiva, la scienza assume la forma di un
linguaggio che parla di un universo di oggetti. La configurazione della scienza
è caratterizzata da quattro peculiarità: è realistica, giacché fa costante
riferimento alla realtà; è relativa, giacché costituisce il proprio oggetto; è
rigorosa, giacché ha una valenza che è sia logica sia linguistica; è
responsabile, giacché si pone il problema etico delle conseguenze che da essa
scaturiscono. Per Agazzi, la filosofia non deve però limitarsi a fare queste
riflessioni sulla scienza: deve anche operare un'incessante ricerca del
fondamento, sia attraverso la critica dello scientismo e dell'ideologismo, sia
attraverso la proposta di quello che Agazzi chiama, in I compiti della ragione,
un «uso costruttivo della ragione: quello che si avvale dell'argomentazione,
quello che cerca di comprendere e, al massimo, di persuadere». Opere: “Lógica
Simbólica”; “Temi e problemi di filosofia della fisica”; “Il bene, il male e la
scienza”; “Introduzione ai problemi dell’assiomatica”; “Le geometrie non
euclidee e i fondamenti della geometria”; “I sistemi fra scienza e filosofia”;
“Studi sul problema del significato”; “Scienzia e fede. Nuove prospettive su un
vecchio problema”; “Storia delle scienze La filosofia della scienza in Italia
nel '900”; “Filosofia, scienza e verità”; “Logica filosofica e logica
matematica”; “Quale etica per la Bioetica?” “Bioetica e persona”; “Cultura
scientifica e interdisciplinarità Interpretazioni attuali dell’uomo: filosofia,
scienza, religione Il tempo nella scienza e nella filosofia; “Filosofia della
natura, Scienza e cosmologia”; Prefazione di F. Minazzi. “Novecento e
Novecenti”; “Paidéia, verità, educazione”; “Valore e limiti del senso comune”;
“Scienza”; “Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno”; “Ragioni e limiti
del formalismo”. Note Cfr. l'articolo
”Don Carlì, una vita al Seminario. Un libro per l'uomo cuore di Città Alta“, in
L'eco di Bergamo, Giovedì 20 novembre 42.
Storia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti, Volume 1,
Alberto Cova, Vita e Pensiero, Milano, 2007557.
Scuola di Milano Epistemologia Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Evandro Agazzi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Evandro Agazzi
Evandro Agazzi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Evandro
Agazzi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Evandro Agazzi, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Pagina personale
di Evandro Agazzi sul sito dell'Genova. Valori e limiti del senso comune,
Evandro Agazzi, Milano, FrancoAngeli. Evandro Agazzi. Agazzi. Keywords: dialettica,
significato, segno, segnato, segnante, seminarone a Genova ‘studi sul problema
del significato’ – Grice, Peirce, segno, segno e comunicazione, segno per
comunicare, comunicazione che lascia segno, tiro al segno – segno naturale --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51794238487/in/dateposted-public/
Grice ed Agostino –
GIVSTIZIA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice: “I like Agostino; he has philosophised
exactly about what I did: identita personale; libero albitrio; and some of the
topics that I philosophised with H. L. A. Hart, notably ‘parole di giustizia,’
and ‘bias’: ‘violenza e giustizia’ -- Filosofo.
Consegue la laurea in giurisprudenza nel 1968. Ha insegnato nelle Lecce,
Urbino e Catania. Ordinario è professore di Filosofia del diritto e di Teoria
generale del diritto presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata, in
cui ha diretto il Dipartimento di "Storia e Teoria del Diritto".
Insegna altresì alla LUMSA e alla Pontificia Università Lateranense ed è
professore visitatore in diverse università straniere. Tra i maestri che hanno influenzato il suo
pensiero figurano Sergio Cotta e Vittorio Mathieu. Particolare attenzione è
dedicata nella sua produzione scientifica alla teoria della giustizia, alle
tematiche della bioetica, e quindi alle problematiche della tutela del diritto
alla vita, alla teoria della famiglia.
Nel suo scritto La sanzione nell'esperienza giuridica, del 1989, sostiene
e riattualizza la teoria retributiva della pena. Già membro del Consiglio Scientifico
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, attualmente è Presidente onorario del
Comitato nazionale per la bioetica, di cui è membro fondatore e di cui è stato
presidente negli anni 1995-1998 e 2001-2006. Ricopre inoltre la carica di
Presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani. È membro della Pontificia
Accademia per la Vita. È stato direttore
di Iustitia e Nuovi Studi Politici; attualmente è condirettore della Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto. Dirige per l'editore Giappichelli la
collana Recta Ratio. Testi e studi di Filosofia del diritto, nella quale sono
apparsi più di cento volumi. È inoltre editorialista del quotidiano Avvenire.
Grazie a queste cariche e alle sue pubblicazioni, oggi D'Agostino è considerato
uno degli intellettuali di riferimento del movimento teocon italiano. Ha coordinato la sessione "I cattolici,
la politica e le istituzioni" nell'ambito dei lavori del X Forum del
Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana sui 150 anni dell'Unità
d'Italia. Polemiche sul tema
dell'omosessualità Ha suscitato polemiche la constatazione di D'Agostino per
cui le unioni omosessuali sono «costitutivamente sterili»: la constatazione fu
ripresa dal ministro Mara Carfagna nel 2007 che affermava che «non c'è nessuna
ragione per la quale lo Stato debba riconoscere le coppie omosessuali, visto
che costituzionalmente sono sterili» e che «per volersi bene il requisito
fondamentale è poter procreare». Opere: “La
sanzione nell'esperienza giuridica”; “Una filosofia della famiglia”; “Diritto e
Giustizia”; “Filosofia del diritto, Parole di Bioetica, Parole di Giustizia, Lezioni
di filosofia del diritto”; “Lezioni di teoria generale del diritto, Bioetica,
nozioni fondamentali, Il peso politico della Chiesa, Un Magistero per i
giuristi. Riflessioni sugli insegnamenti di Benedetto XVI, Bioetica e Biopolitica. Ventuno voci
fondamentali Corso breve di filosofia
del diritto, Jus quia justum. Lezioni di
filosofia del diritto e della religione
Famiglia, matrimonio, sessualità. Nuovi temi e nuovi problemi. Carfagna:
"Gay costituzionalmente sterili" da La Repubblica. Francesco
D’Agostino. Francesco D’Agostino. D’Agostino. Agostino. Keywords: giustizia, ius
quia iustum non ius quia iussum – iussum – iubeo, perh. ‘jus habere’ to regard
as right. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agostino” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51794746919/in/dateposted-public/
Grice ed Agresta –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Mammola). Grice: “I would hardly call
Agresta a philosopher, but then my working site was formerly a Cisterian
monastery and bore the name of San Giovanni il Battista, so who am I to judge?!
In any case, I always wondered why Loeb (in the Macmillan edition) cared to
publish the four volumes of letters of Basil (of Blackwell fame) – now I know –
Agresta dedicated his life to this saint – In a way I drew from him in my
netasteousia, i. e. transubstantatio – how a pirot-1 becomes a pirot-2 – a
human becomes a person. Pater used to say that at Oxford it’s all about
Hellenism, no Ebraismo! Yet Agresta, an Italian, of sorts -- he was half-Greek! – is a good example, alla
Basil, of how troublesome those with a classical – i. e. Graeco-Roman –
education found all those ‘heresies’ of the Christian dogma! Three persons in
one – and the rest of them. Hardie used to tell me, ‘Lay the blame on the
Christian doctrine, not on Aristotle’s theory of the substdance!” -- Filosofo. Abate Generale dei Basiliani
d'Italia è ritenuto tra i più illustri dell'ordine Basiliano. Nato a Mammola
(RC) il 10 gennaio 1621, morì a Messina il 23 Dicembre 1695. Al battesimo fu
chiamato Domenico, figlio di Giovanni Michele Agresta e di Dianora Scarfò.
Inizia i primi studi alla Grancia Basiliana di Mammola, continua al seminario
di Gerace, a 16 anni frequenta gli studi superiori a Napoli, ma viene colto da
febbre maligna e miracolosamente come egli afferma recupera la guarigione
ritornando a Mammola. Dopo due anni il 23 luglio 1639 veste l'abito di San
Basilio Magno nel monastero del San Salvatore di Messina. Abbandonando il nome
Domenico prende quello di Paolo; l'anno successivo viene consacrato sacerdote
nella basilica di Sant'Apollinare di Ravenna, ricevendo il nome di Apollinare e
inizia la professione monastica. Don
Apollinare Agresta dotto teologo, filosofo, studioso, storico e scrittore. Nel
1669 fu insignito del titolo di Maestro di sacra teologia. Negli anni successivi
il 24 luglio 1675, viene nominato Abate Generale dell'Ordine dei Basiliani
d'Italia da Papa Clemente X, con l'incarico di riorganizzare l'ordine dei
Basiliani; nel 1680 veniva ancora confermato, poi riconfermato da Papa
Innocenzo XI, ed ancora un'altra volta nel 1692 da Papa Alessandro VIII.
Conservò la carica fino alla morte. Ha
rivestito incarichi prestigiosi. Giovanissimo viene insignito di numerose
cariche: è responsabile di diversi monasteri della Provincia di Calabria e
d'Italia, introduce nuovi metodi di studio per gli studenti, procurandosi fama
e onore dalle comunità locali e religiose. Ricopre la carica di Abate al
monastero di S. Onofrio, presso Monteleone oggi Vibo Valentia, regge
successivamente la Grangia di San Biagio del monastero basiliano di San
Nicodemo di Mammola (RC); ma anche fu inviato al monastero italo-greco di San
Giovanni Theresti di Stilo (RC), a reggere il monastero di Mater Domini in
Nocera de' Pagani nella Campania, e dopo viene nominato Procuratore Generale
della Badia di Grottaferrata, oggi Monastero di Santa Maria di Grottaferrata,
meglio conosciuto come Monastero di San Nilo.
RomaChiesa di San Basilio (Stemma visibile sugli archi della Chiesa) RomaChiesa di San Basilio (Lapide a conferma
della edificazione voluta da Don Apollinare Agresta) L'Agresta ebbe sempre a
cuore il decoro nel culto e delle costruzioni ed arredamenti degli edifici
religiosi. Fu edificata da lui nel 1682 la Chiesa di San Basilio agli Orti
Sallustiani a Roma, che si trova in Via San Basilio vicino a Piazza Barberini,
come conferma una lapide marmorea in latino dentro la chiesa. Nella Grancia
Basiliana di Mammola edificò una cappella in onore di San Nicodemo Abate
Basiliano e affidatala alla sorella Vittoria vi fece collocare le reliquie del santo
(in seguito al terremoto le reliquie sono conservate nella cappella di San
Nicodemo nella Chiesa Matrice di Mammola). Si adoperò per la costruzione del
Collegio di San Basilio a Roma. Nel monastero di Rosarno restaurò la cappella
della Madonna. Acquistò campi e case e restaurò numerosi monasteri permettendo
ai monaci di vivere una vita più comoda. Donò indumenti liturgici in tutti i
monasteri basiliani. I Monaci Basiliani
del Monastero di Grottaferrata (Roma) devotamente ricordano il loro Generale
conservandone, con cura gelosa, un guanto pontificale. Marco Petta eFrancesco
Russo, studiosi e storici del Monastero di Grottaferrata, sono state le ultime
due personalità religiose che hanno scritto in ricordo dell'Abate Generale Don
Apollinare Agresta, consultando all'interno del monastero la vasta biblioteca
che conserva scritti di grande valore e importanza. Nel Museo Diocesano di Reggio Calabria, si
può ammirare un reliquario a braccio, che conserva le reliquie di San Giovanni
Thereste, donate dall'Agresta quando ricopriva la carica di Abate del Monastero
italo-greco di Stilo. Un ritratto in
giovane età del monaco è pubblicata nel libro "Mammola" di Don Vincenzo
Zavaglia. Autore di numerose pubblicazioni, i libri di Don Apollinare Agresta,
a distanza di secoli, ancora oggi vengono consultati e citati da numerosi
ricercatori e studiosi, tra le sue opere più importanti ricordiamo: “Vita di
San Basilio Magno” (Roma) -- ancor oggi pregevole per le molte notizie che ci
dà dei monasteri basiliani delle Calabrie e d'Italia --; “Vita di S. Giovanni
Theristi” (Roma); “Vita di San Nicodemo A.B. (Roma Privilegi e concessioni
fatti dal Gran Conte Ruggero al sacro archimandritale Monastero di Giov.
Theristi (Roma); Constitutiones Monachorum Ordinis S. Basilii Magni Congregationis
Italiae (Roma) Compendio delle Regole o vero Costitutioni monastiche di S.
Basilio raccolto dal Bessarione (Roma). Sono rimaste inedite alcune biografie
riguardanti San Luca di Tauriano, il beato Stefano di Rossano, San Proclo di
Bisignano, la beata Teodora Vergine, San Onofrio di Belloforte e San Fantino di
Tauriana. D. Vincenzo Zavaglia, Mammola,
Frama Sud, Chiaravalle C. Marco Petta, Apollinare Agresta Abate Generale
Basiliano, Tipogr. Italo-Orientale S. Nilo Grottaferrata 1981. Apollinare Agresta,
in Enciclopedia Treccani, 1929 Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Monastero di Santa Maria di Grottaferrata o
Monastero di San Nilo, su abbaziagreca. Santuario di San Nicodemo, su
sannicodemodimammola. Foto di Don Apollinare Agresta alla giovane età di 24
anni, su flickr.com. Apollinaire
Agresta. Agresta. Keywords: stato laico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Agresta” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690466087/in/photolist-2mT4DT6-2mKH9Gx/
Grice ed Ajello – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Napoli). Grice: “I love Ajello; bevause he was a Plathegelian, while I’m an
Ariskantian; I always found Plathegel very HARD to understand, Ajello doesn’t;
there’s something in an Italian that makes Hegel’s Dutchiness very
comprehensible, even more so than to the Dutch themselves!” Filosofo --
discepolo di Puoti, aprì uno studio privato come maestro ma ebbe vita stentata
fino a quando ottenne un posto al ministero dell'Istruzione. Partecipa ai moti e per questo fu licenziato
in tronco. E arrestato e gli e vietato
l'insegnamento pubblico e «di far uso anche moderatissimo della stampa», per
cui dove tornare all'insegnamento privato della filosofia e della
letteratura. Seguace convinto della
filosofia hegeliana, che contribuì a diffondere in Italia, basa la sua
filosofia soprattutto sull'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.
Opere: “Della muliebrità della volgar letteratura dei tempi di mezzo”; “Napoli
e i luoghi celebri delle sue vicinanze”; “Discorsi di storia e letteratura” -- Enciclopedia
Italiana Treccani alla voce corrispondente
Opere di Giambattista Ajello, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. CONSIDERAZIONI SULLA
MULIEBRITA DELLA VOLGAR LETTERATURA DEI TEMPI DI MEZZO DI GIAMBATTISTA AJELLO.
Di questa operetta del signor Ajello, della quale han già tenuto parola vari
giornali del regno, sorge in ul timo luogo a dar contezza ilProgresso. Nè ciò
senza ra gione, perocchè, essendo l'Ajello uno de'collaboratori de' quali il
nostro giornale si pregia, il nostro qualsiasi.giu dizio sarebbe forse paruto
sospetto, e noi, diffidandone a ragione, abbiamo aspettato che ci avesse
preceduto quello di altri non ligati a lui collo stesso. vincolo di amicizia.
Per la qual cosa avendomi io in particolare, senza dissi- ' mulare a me stesso
la malagevolezza di giudicar l'opera di uno amico, tolto l'incarico di qui
ragionarne mi converrà avvertire che riassumerò le idee dell'Ajello non dal
solo libretto di cui è qui sopra rapportato il titolo, m a da un suo lungo
articolo ancora inserito nella Rivista Napolitana, nel quale, rispondendo
l’Ajello alle o b biezioni del culto giovine Stanislao Gatti (2), ha meglio 69
(1) Anno.3.° fasc.IV. Museo di letteratura e filosofia, vol.I.° pag. 60. opera
periodica compilata per cura di Stanislao Gatti, alla quale auguriamotuttoquel
successo đi che l'ingegno del Direttore ci è larga guarentigia. CONSIDERAZIONI
SULLA MULIEBRITA' sviluppato le sue idee e dileguato quei dubbi che per a v
ventura avrebbono potuto far nascere. Dall'uno e l'altro lavoro cercherò
cogliere il pensiero dell'autore qual si c o n viene a chiunque prenda a
disaminare un'opera nell'in teresse solo del progresso del pensiero, non già
per m i serabili e grette vedute individuali, per le quali cercasi trovare una
contraddizione in ogni pagina e far la guerra non ai principi, m a
agl'individui, privilegio di separazione alla repubblica letteraria solo
concesso. Ecco dunque la serie delle ragioni principali dall'A jello discorse e
rapportate, quanto più per m e si potrà, colle sue stesse parole. Ogni
qualvolta si porti la nostra attenzione sui versi ed opere di arte che ci ha
tramandato l'antichità ed a quelle che nel medio evo ebber vita, non sipuò non
re star colpito dalla capital differenza che le separa. Nelle prime nate in
mezzo alle culte e pulite società di Grecia e di Roma, vediamo farsi della
donna quel conto che d'ogni cosa si farebbe da cui ci provvenisser soltanto vo
luttuose dolcezze 'e vivaci e corporali diletti: laddove nelle séconde,
comunque nate in mezzo a feroci e brutali pas sioni e lotte continue di
elementi tra loro pugnanti e d i scordi, son le donne reputate quasi di
superiore e più n o bil natura e fattevi obbietto d'uno entusiastico culto e
d'un devoto e mistico amore. Vediamo la passione espressa nei versi degli
antichi esser meglio ardenza di voglie ed e b brezza di sensual godimento che
puro e indefinito desio ed abbandonevole affetto ed obblio di se stesso e del
mondo nell'amata persona, come ne'poeti del medio evo si o s serva. E però
campeggiar ne'primi la gelosia,la quale in sostanza (come bellamente si esprime
l’Ajello) è amor proprio, è poca o niuna stima dell'oggetto amato, spa rire
interamente dalle opere dei secondi, cantori di una passione più dell'antica
disinteressata e gentile. Questo puro e spirituale amore, questa stima ecces
siva, questo universale e presso che religioso culto fatto nel medio evo alle
donne, è ciò che si chiama dall’Ajello muliebrità della moderna letteratura con
vocabolo di cui non starò affatto a disaminar la convenienza, bastandomi aver
significato ilpensiero che ad esso congiunge l'autore. É di questo singolare e
non mai più veduto fatto, il quale, se costituisce ladifferenza del Tibullo dal
Petrarca in quanto ai lor pensieri ed affetti amorosi, forma un nuovo ed i m
portante elemento della nostra letteratura, che rende r a gione il suo libro,cercando
principalmente dare al fatto un fondamento, come l'autor dice, nella natura
umana, avvalorando in tal modo e psicologicamente spiegando quei fatti, c h e,
storicamente affermati, son mutabili e troppo speciali ed angusti perchè la
Scienza della Storia debba farne un gran caso. La qual trattazione spero non
sem brerà inutile ad alcuno o di mero passatempo, imperoc chè se la letteratura
forma parte integrante della vita di un popolo e quindi della sua storia, nè si
può senza colpa per trattar l'una trascurar l'altra, 'e se la patria nostra si
è fatta felicemente studiosa delle sue memorie del medio evo le quali, se non
sono le più liete,sono certo lepiù gloriose, il saggio dell'Ajelo non giunge
certamente inopportuno, ed egli riscuoterà senza dubbio il plauso di tutti
coloro che rettamente sentono e pensano.Ilche assaibe ne, nè poteva altrimenti
accadere, intese lo stesso Ajello il quale, mostrando nella sua introduzione
esser quella tal muliebrità principal differenza della moderna letteratura dal
l'antica, massime considerandola ne'suoi lontani effetti sulla vita ed il
pensar delle nazioni, ed i nuovi e signoreggianti elementi delle moderne
lettere star nell'amore e la morte; assai logicamente concludeva doversi il
lavorare intorno ad uno di questi elementi reputare opera per la moderna
critica importantissima. N o n voglio con ciò dire essere egli stato il primo
ad investigar le cagioni di questa che con lui chiamerà volontieri muliebrità
della moderna lettera tura, chè già, comunque per lo più senza prove e quasi
dommaticamente assunte, varie opinioni eran corse sul l'oggetto e di reputati
scrittori tutte e dallo stesso Ajello a quattro ridotte nel seguente modo. Che
il Cristianesimo in 'ispezialtà sia stato cagione del devoto e più puro amor
per le donne. Parole del Conte Cesare
Balbo nella sua lodatissima vita di Dante. Ch'ei sidebba alle invasioni degl’arabi,
massime alla vicinanza dei mori di Spagna. Che soprattutto ei sia
necessario e natu ralissimo effetto delle sociali e locali condizioni in cui f
u ron posti gl'invasori, poichè presero più ferma stanza sul territorio romano,
e che ilfeudale ordinamento ebbe aqui stato alquanto di consistenza e di
stabilità. Che sieci stato recato dalle genti germaniche con tutti gli altri
lor costumi statici narrati e descritti da C e sare, Tacito ed Ammiano
Marcellino. Or, movendo dalla prima opinione sostenuta precipua mente da
scrittori Tedeschi per una certa loro inehinevo lezza all'astratto e più per
reazione alla miscredenza del secolo passato, ecco le ragioni che ad essa
oppone l'a u tore. Essere il fatto di cui è parola apparso al secolo undecimo e
però aver dovuto la cagione aver prima ope rato. Or in quella sorta di tempi
potea forse la Chiesa aver qualche possanza, m a ogni buono effetto il qual d e
rivasse proprio dall'indole della religion cristiana, dovea esser contrastato e
depresso fra la grossa ignoranza e lo scompiglio e il grido di bestiali e matte
passioni. Con che non s'intende dire il Cristianesimo non avere avuto potere a
quei giorni, m a che la sua spirituale e gentil n a tura non potea avere in
tanta barbarie e in si profonda ignoranza pieno e libero effetto, ma scarso e
poverissimo. In fatti la vera e nobil sua natura troviamo sconosciuta, e
praticato solo ciò che avea di più esteriore e formale, e di Concilie di Papi
contro i tornei, il duello e di giudizi di Dio gridar vanamente. Aver senza
dubbio il Cristianesimoconferito potentemente a migliorar la condi
zionefemminile,ma nonperciòpotersidireche,eman cipando la donna, producesse poi
quel puro amore e reli gioso culto che nel medio evo si ottenne, essendo questi
due fatti non pur diversi, ma sino ad un certo segno in dipendenti e slegati,
di sorta che sonosi appresso scompagnati sempre e fuggiti. Esser l'amore
cantato ne' tempi di mezzo gentile e purissimo, m a si profano e quasi
idolatra. Or se si rifletterà che il Cristianesimo immoto e fisamente stretto
cogli occhi al Cielo e all'altra vita, come al solo vero scopo dell'uomo, tenga
la terra un esilio e transitoria stanza di sperimento, ed abbia sempre temuto
che avesse pregio e bellezza; si vedrà che cosa dovesse pensar delle donne,
di queste possenti allettatrici de'cuori umani, delle quali non ci ha cosa che
più grande e general potere abbia sull'uomo, che meglio e con più forza il
discosti e distolga dai celesti e santipensieri. Ecco perchè il Cristianesimo,
qual si mostrò nel decimo ed u n decimo secolo, promosse il celibato, popolò di
anacoreti i deserti della Tebaide e, riferendo ogni nostra mise ria al
malaugurato potere ed alle lusinghe della donna (di che tristi e multiplici
esempi glie ne fornivano le s a cre carte-) vide in costeimen la compagna che
la se duttrice é quasi la principal nemica di lui, ed, anzi che confortarci ad
amarla, non ha fatto, nè fa tuttavia, che distorci dal porvi affetto grande e
terreno, come dal più tenace e periglioso laccio del nostro animo. Nel Romano
impero di Levante, ove più liberamente ed ef ficacemente la Religione Cristiana
operò, quel che era suo effetto averlo avuto, migliorar cioè la condizion delle
donne, come si può veder nelle leggi pubblicate da Giu stiniano; m a nessuna
ombra trovarsi nelle opere di quel tempo della muliebrità occidentale, niente
d' amore che almen puro fosse e gentile.La quale ultima cosa non es sendo
giunto a produrvi dopo ben dieci secoli di non contrastato impero,tanto meno si
potrebbe tener come cagione della muliebrità della letteratura d'Occidente
quando anche si volesse concedere che qui campo m a g giore egli si
avesse.ottenuto. Il che tanto più sembrerà vero in quanto si osserverà quel
grande ed universale amore, che nei cristiani poeti de'mezzi tempi vediamo,
trovarsi a un di presso in quei paesi ed in mezzo a quei popoli che usaron di
avere più mogli e chiuse le ten nero e schiave; e più nel mezzodi della Francia
che in Italia, ove il Cristianesimo dominò maggiormente; ed es serne rimase le
tracce più nella classe cavalleresca e g e n tile che nella media e popolana,
sulla quale sempre di L'influenza degli Arabi sulla muliebrità dell'occiden tal
letteratura vien rigettata dall'Ajello sull'appoggio delle seguenti ragioni 1.o
Perchè non ci si poteva da essi r e care ciò che non avevano, essendo la loro
letteratura, come tutta quella delle genti orientali', obbiettiva e
sensia gior potere il Cristianesimo fa prova. magbile, e priva
interamente ed ignara di quel profondo ed in definibil desio, di quel levarsi
dell'animo oltre ai confini del finito e del presente in una sfera più pura e
beata che pur cosi spesso accade trovar nella nostra. La qual dif ferenza
dell'araba dalla nostra letteratura trova una giu stificazione a priori nel
clima, stantechè, secondo l'Ajello, un clima nordico o temperato farà le donne
più caste e restie, quindi più stimate e libere, e l'amore più disip teressato
e gentile che sensuale ed ardente, ed esprimente anzi il grido e il lamento
d'un principal bisogno del cuore che un corporale appetito; dovechè sotto
meridionale e caldissimo cielo, gli uomini poligami ed, invece di dolci e sole
compagne, chiuse le donne e soggette, l'amore non rivestirà la stessa fisonomia.
Essere il fatto di cui è parola della natura di quelli che non si possono
comunicare da un popolo all'altro, nè procedere da altro che da intrin seca e
spontanea cagione. E ciò per non essere l'amore cantato nel medio evo
artifizioso o bugiardo, m a sì bene profondamente sentito e spontaneo, e gli
usi galanti e c a vallereschi ingenerati e tenuti da universali bisogni e da
affetti veraci e potenti tanto che vediamo il culto per le donne penetrato sino
nelle leggi barbare, le quali provveg gono sempre a certi e già provati bisogni
e non a quelli eziandio che si possono temere. Oltrechè le usanze d'un p o polo
possono derivare da'suoibisogni ed affetti, non questi da quelle, massime in
popoli giovani e rozzi e però di altera e disdegnosa natura, ne'quali le usanze
non sono mai recate e tenute da capriccioso impero di moda o da servile
imitazion degli stranieri, come in più colti e vanitosi tempi interviene, ma
siderivanodaalcunbisognooopinionicheessiabbiano. 3.° Perchè la storia mostra
esser la gaia scienza passata in
Ispagna,sededegliArabi-mori,dallaProvenza,checo storo (dappoichè non se ne
trova traccia in Oriente, ne le sociali condizioni il concedevano ) ricevettero
dai C r i stiani le costumanze cavalleresche, e queste, invece di a p parir
prima in Ispagna,poi nella Francia, in Alemagna e finalmente nella remota e
divisa Inghilterra, vedonsi apparir prima in Provenza e in Alemagna e in
Inghilterra ed assai più tardi nella Spagna che,per la vicinanza dei Mori,
avrebbe dovuto prima averle. Perchè infine, se i costume dei Mori non
furono indarno pei lor vicini, 'non è da credere che grandi eprofondi ne
fossero stati gli ef fetti a cagione delle sterminatrici guerre religiose, e
della differenza di culto e di lingua. Al che si aggiunga esser tale la
diversità del genio orientale da quel d'Occidente che quel che di arabo si trovi
nelle spagnuole scritture e dicristiano nelle arabe si possa agevolmente
scorgere. Escluse in questo modo le due prime opinioniche al Cristianesimo ed
agli Arabi riferiscono la muliebrità della occidental letteratura, viene
l'autore a fermar la sua opi nione, la quale si compone in parte dalla unione
delle ultime due", di quella, cioè che ai Germani attribuisce il nuovo
culto che ebber le donne, citando Tacito e gli altri romani storici che di loro
scrissero; e dell'altra che, negandolo, il fa singolarmente nascere dalla vita
feudale; opinioni che, cosi sole e divise come sono, paiono al l'autore assai
ristrettive ed anguste, e per giunta inelte a spiegar tutto il fatto. Il che,
volendosi fare, soggiunge con assai d'accorgimento, è mestieri cercarne la cagione
pro prio in grembo e nell'indole dell'età che lo accolse e m o strò; e però
bisogna con ogni studio possibile e partita mente'esaminar quello che
costituisce il medio evo, in somma quei generalissimi fatti che mutaron la
faccia di Europa,e rovesciando ilRomano Imperio,nascerfecero é detter forma e
colore alle nuove società d'Occidente. >> Or principali elementi della
nuova civiltà essere il roma no'; il cristiano e il germanico, nè trovandosi il
nuovo amor del medioevo nel primo elemento, nè derivar po tendo dal secondo,
resta che in ispecie almeno e sopra tutto dall'ultimo derivi. La venuta infatti
d'un giovine é poetico fatto non potersi altramente spiegare che per mezzo di
coloro che ristorarono la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro,
e ci affrettarono per la via di progresso e di moral perfezione. E poichè i
Germani stanziatisi nelle terre romane eran venuti sotto il doppio ed efficace
potere della civiltà antica e della religioncrie stiana, doversi perciò
esaminar questo fatto e questo scon tro, considerando i Germani 1.o come genti
uscite di tra 1 montana: come uomini barbari, pur non
selvaggi: come bellicosissimi: come stanziatisi isolati e di visi per le campagne,
indi costituitisi in feudale ordina mento: 5.0 come popoli giovani e vigorosi
accostati al potere di una civiltà antica e grande e d’una religione mansueta e
gentile. Questo quintuplice modo di copșide rare i Germani, bello senza dubbio
e fecondo d'impor tanti applicazioni, produce la suddivisione di questa se
conda parte del libro dell'Ajello in cinque capitoletti che riassunti
contengono: 1.° Ilfreddo e duro clima, sepa rando e concentrando le famiglie, e
impedendo la poli gamia, dar naturalmente preminenza e crescer stima alle donne;
e facendole più schive e pudiche, e di maggior verginal compostezza e matronal
decoro dotate, render p e r ciò l'amore assai più puro e devoto, anzi quasi
estatico e contemplativo. Con che l'autore non intende dire essere di questa
natura stato l'amore delle rozze e selvatiche genti venute sul territorio
romano, ma solo che in esse, come abitanti di settentrionali contrade,esser ne
dovea la natural disposizione e quasi il germe, il quale, ingenti litisi gli
animi, n o n potea rimanersi luogamente ascoso, ed infecondo. Essere i Germani
venuti in Occidente genti barbare si m a non già selvagge e, per lo contatto
col Cristianesimo e la romana civiltà, nel secolo undeci mo pervenute a quel
giovine stato di coltura che è il primo uscir della barbarie e che eroico o
poetico si chia merebbe, in cui l'amore ha più generale e grande effi cacia, a
differenza dei tempi selvaggi ove la sola parte brutale e sensibile predomina,
e degl'inciviliti ne'quali la civiltà, aguzzando la facoltà riflessiva e
scolorando l'im maginazione, toglie ogni prestigio e possanza all'amore. Essere
genti bellicosissime, presso le quali sogliono tenersi in molto pregio le donne;
la qual cosa pruova l'autore con l'esaminare in che mai psicologicamente con
sista l'amore, e mostrando ch'è ilcompimento dell'umana natura; che perciò
congiunge proprietà opposte, m a leo gandole armonicamente; che tutte le
qualità virili pos sonsi ridurrre alla fortezza, le femminili alla debolezza; e
che in conseguenza chi daddovero è uomo ed ha in se uso e coscienza di moral
fortezza, più inclinar deve ad amare, e a stringersi allato il timido e
debil sesso; tap topiù che i forti son più magnanimi e di più aperto e gen
tilcuore,eperòpiùproclivi all'amore. Che, natalaca valleria, questa alla sua
volta avere assai conferito a cre scere stima edonore alle donne, le quali la
storia stessa, in conferma di queste teoriche,mostra stimate più in Isparta che
nelle altre parti di Grecia, ed in Italia più tra gl'indo mabili Sanniti ed i
bellicosi Romani che altrove. 4.° A g giugnersi a ciò la feudalità la quale,
per lasciar spesso alle donne e fino in seno alla domestica vita un alto e
quasi so vrano posto, dovette grandemente aiutare il loro svolgimento morale, e
perciò di molto conferire a farle generalmente v e nire in considerazione ed
opore, non già come causa unica, non essendo nè cosi generale nè efficace di
tanto che possa pressochè sola bastare a rendere ragione del fatto. Nel quinto
capitolo finalmente, annodando tutte le sparse fila del suo lavoro, ecco,coine
l'autore formola la sua opinione, la quale, per essere stata assai ben rias
sunta da lui stesso nell'indicata risposta al Gatti, mi per metterò qui
trascriverla. » lo stimo, egli dice, che nel giovanile elemento della società
di quel t e m p o, così per la natural disposizione che ne recarono i vincitori
per effetto dello stato eroico a cui dopo la conquista per vennero, dell'indole
forte e guerresca che maggiormente si svolse tra noi, e della vita feudale nata
dalla conquista, fosse il fomite, il germe, e un'inchinevolezza grande ad amare
e a stimar molto le femmine. D'altra parte, nel Cristianesimo e nella civiltà
romana era 1.o un pensiero é un principio opposto; 2.° molta gentilezza e moral
col tura. Il pensiero e il principio opposto non avea potere di contraddire a
quella gagliarda e natural disposizione di giovane società: conciossiache,
quanto all'elemento r o m a no, per esser vecchio e stanco, eoltracciò in alcun
modo corretto e purificato dalla religion cristiana, se non era in esso l'amor
puro e devoto,neppure era l'amor bru tale e la disistima delle età antiche e
pagane; e quanto al Cristianesimo, sanno i miei leggitori quanto poco in quella
sorta di tempi valgan gl'insegnamenti, e le caute e fredde ragioni in mezzo al
grido e alla forza di caldi e giovani affetti, sempre più avvalorati da tante
cagio che ni,e poidallapresaepiaciutausanza.Rimaneanell'ele mento romano
e nel cristiano la gentilezza e la moral col tura; e perocchè queste non
contraddicevapo, alla detta natural propensione, anzi, ingentilendo gli animi e
i m o di, aiutavanla e snodavano, furono subito accolte da quelle genti rozze;
chè è nota la spontanea proclività nostra al vero ed al bello, massime quando
paion nuovi ed ignoti. In s o m m a, a dirla breve, ciò che nel Cristianesimo e
nella civiltà romana era contrario all'amore eccessivo e devo to, fu da giovine
e gagliarda forza vinto e depresso;e ciò che non lo impediva e vietava, m a
aiutava e svol geva, fu spontaneamente accolto é voluto. Questa parte io fo
all'elemento romano e al cristiano; nė mi spiace rebbe di farla anche agli
Arabi in alcuna mapiera, pur chè in sostanza mi sia conceduto ch'eglino,
ingentilendo inostri,aiutarono ilfatto,nongiàcomunicandoneilger me, o dandolo
già bello e formato,che è la sola cosa da me contraddetta.» E più sopra lo
stesso Ajello dice « Feci vedere che il fatto che io m'ingegdava di spiegare,mostrava
chiaro uno scontro di nuovo e di antico,di gioventù e dim a turità e quasi una
doppia e biforme natura: e che però dovea esser nato da opposti e contrari
elementi, o dallo scontro e fusione che io dissi del mondo romano e cri stiano
col barbáro'o germanico. Difatto, quanto alla parte giovanile, primitiva e
poetica, in Achille è quello a p punto che è nel Tancredi del Tasso; v'è tutto
il verde è la rude e virginal gagliardia di un giovine mondo. Se da Tancredi è
diverso, mancagli il:sentir delicato e gentile, e quella fina cortesia, e
quella sociale e m o ral raffinatezza'; mancagli insomma l'elemento romano e'l
cristiano che soli di tutto questo potevano esser cagione. Ed io nel saggio il
conferma i colla storia, mostrand o: 1.o che se ci ha luogo in Occidente, dove
con quasi pari forza si scontrarono l'elemento romano e il germanico, questo
luogo è il mezzodi della Francia, vero anello e temperamento fra la preminenza
romana d'Italia e il si gooreggiante spirito franco del settentrione; e che
quivi udironsi i primi canti d'amore, quivi la cavalleria prima apparve: 2.o
che a tutti gli altri grandi ed universali i Germani, o certo tanto
inferiore a quello delle nostre genti che ne soffrirono l'invasione fatti
di quella età è comune il doppio e biforme aspetto del nostro, e quanto alle
lettere tolsi ad esempio le cro nache e il poema di Dante, provando in tal modo
che questa è la propria rappresentativa sembianza del medioevo, e che però è
necessario che ogni grave e universale fatto dei mezzi tempi abbia la stessa
impronta e natura. Ecco, se non andiamo errati, la esposizione fedele delle
cose dall' Ajello discorse con uno stile, del quale non potrò certamente essere
io quello che porterà giudi zio; m a che alla universalità dei leggitori ha
lasciato d e siderare concisione maggiore, e minori proposte e promesse,
massime in un libro, comunque di molta sostanza, picciola fare che si vcol dal
dei nostri, nacque e vive sotto lo stesso Sole naturalmente all' astratto,
costretti, in non dovrà tenermi, che o pullo esso mole pur sempre. Volendo poi
dir qualche cosa della questione brevi osservazioni sul merito alcune l'Ajello
esercitato sulla nostra letteratura da quei lurchi barbari, i quali mi pesano
sull'anima peggio, nè mi par vero ai verso la terra ladizione da loro tanto
beneficio. E primamente che, per amor belli ridenti Tedeschi natale, si piacciono
gli antichi costumi di che i poeti fan sempre descrivercene l'aurea semplicità
di tutta itempi antenati sia venuta pretensione la riforma rimotissimi,
condonando che dai loro rozzi e feroci ad essi la strana costumi; non posso
comportarmi nellostessomodo con chi, la Dio mercè di Virgilio e
diDante.Inclinati, mi permetterò contro il potere anzitratto d'una m a che
siavi chi possa riconoscere, perdonando non mai riprovevole i primi che irradiò
la cuna difetto di campo, a vagare tra le nuvole, non è maraviglia migliore si
sforzino dipingerci vaghi colori.Chiunque esser preoccupato che di quella
egualmente riguarda il presente lavoro alla donna, non temerò di affermare, il
rispetto, cioè zialmente mostravasi presso i Germani, il loro tempo non si
trova nella stessa posizione che antico adorno di tanti. E, per non parte sola
de'costumi trat che più spe di da non potersi affatto indicare quale aiuto
o incitamento avesse potuto riceverne. Già ormai tutti convengono a non prestar
moltissima fede all'opuscoletto sui costumi dei Germani, che Tacito si piacque
comporre mosso da profonda indegnazione per i pervertiti costumi de'suoi
concittadini. Le memorie dell'antica Roma sono sempre presenti al pensiero di
questo venerando scrittore, che, trasportandole là dove crede trovare ancora
energia,comunque selvaggia, di vita e mancanza di mollezza e di servitù,
sperava puter far vergognare i suoi compatriotti della perdita di quelle virtù
cheu n tempo formarono la loro gloria e potenza, ed eran passate ad abbellire
la vita di u n popolo ta nto ad essi per intellettual coltura inferiore. O che
iom'iną ganno, o certo quanto di buono attribuisce Tacito, ai Germani
s'appartiene ai primi tempi della romana virtù. Dimostrarlo importerebbe
oltrepassare ilimitidel presente articolo, nè per fermo varrebbe molto alla
soluzione della questionecheho peroratralemani.Pure,ammessoche i Germani
pensassero essere nelle donne qualche divinità re e provvedenza e che tenessero
conto de loro consigli e sponsi, non saprei facilmente comprendere come possa
ciò aver contribuito, per quanto sivoglia menoma parte, a quello spiritualismo
d'amore che nel medio evo ebbe vita. Quella stessa opinione che Tacito
attribuisce aiGer mani la storia ha segnalato ne'selvaggi dell'America e n e gli
antichi Galli e nei Romani stessi, presso i quali le Sibille e le maghe e le
facitrici di sortilegi, femine tulle e credute inspirate, dimostrano la
generalità della stessa credenza figlia, come par sia chiaro,del Paganesimo.Ne
questa credenza stette meno in compagnia d'uno amor tutto materiale, anzi
presso di alcuni popoli colla disistima delle donne, come massimamente presso i
Germani,.i quali, staudo allo stesso testimonio di Tacito, in nes suna considerazione
civile le aveano. Ma di questo così lontano ed Oscuro tempo sarebbe inutile
cosa occupar ci, potendo gli stessi Germani essere considerati più da vicino,
quando, cioè, si son fatli vedere in mezzo di noi, fuori delle loro selve natie:
tanto più che lo stesso Ajello conviene esser quell'asserzione priva d'ogni
psico logico e scientifico fondamento, nè bastare fermarsi a' soli Germani,
ma esser necessario venirli seguitando noi conquistati paesi, e vedere e notare
come vi simutino e sfigurino per il poter della romana civiltà ed anche della
religione che vi trovano già stabilita e potente. Nella qual trattazione
progredendo,l’Ajello ba poi,come bo disopra fatto vedere, lasciato una parte
molto importante ai Germani sul mutato aspetto d'amore, poggiandosi a ragioni
le quali non mi sembrano tali da non poter meritare ós servazione alcuna in
contrario.Esse infatti si presentano a prima vista sfornite di qualsiasi
appoggio storico, e ri vestono un carattere a priori, di che l'autore stesso
pare si compiaccia e faccia pompa a disegno. Il suolo romano, egli dice, era
occupato da genti venute di tramontana, barbare non selvagge, bellicosissime e
giovini accostate al potere d'una civiltà antica e grande, e d'una religione
mansueta e gentile, stanziatesi iso late e divise per le campagne e poi
costituitesi in feudale ordinamento. Or se in mezzo ad esse poste in tali con
dizioni muta sembianza l'amore e di passionato e caldo si fa più puro e quasi
contemplativo, fa d'uopo ad esse genti in quel m o d o considerate recarne la
cagione. Conciossiacchè gli uomini del settentrione, ove le donne sono
naturalmente più che altrove libere e stimate, amano d'uno amore più modesto e
divoto, benchè non irrequieto e torbido,,e giunti sul territorio nostro si trovarono
non solo in uno stato di eroismo in cui l'amore ha più generale e grande
efficacia, m a forti abbastanza di tutta quella fortezza che è madre di
generosità e magnanimità, produttrici esse sole di vero e nobile amore. Queste
ragioni, comunque con tanto ingegno e forza di ragionamento dall'autore
discorse, non m i sembrano gran fatto ammessibili. Ed in vero parmi che dopo
aver con inolta giustezza l'autore osservato non doversi pene trare nelle selve
dei Germani per ispiegare i costumi che essi mostrarono in tempi a noi più
vicini, siasi poi di questa verità dimenticato nel corso del suo ragionamen to.
Or se la nuova letteratura cominciò dopo più secoli da che i barbari si erano
stanziati sul nostro territorio dopo che l'invasione era da lunga pezza compiuta,
ed il medio evo si andava già luminosamente svolgeodo, non so che abbiano
a fare con noi gli usi, anche dati per veri, della Scandinavia o della Pannonia,
le abitudini di po poli nomadi e feroci con quelle di società costituite e ci
vili. Già molto tempo prima che venissero a stabilirsi tra di noi, i barbari
aveano subito tutto il potere della nostra civiltà, e quando poi lo
stabilimento fu fermato e cessò l'opera delle arsioni e delle rapine, essa li
dominò c o m piutamente e di quel che era proprio dell'antica vita nulla
potevano più ritenere, nè ritennero. Che si dirà dopo più secoli passati in
tale nuovo e tutto opposto ordinamento e condizione di vivere, il quale delle
loro selve restar non dovea nemmeno la reminiscenza? So che l'Ajello vorrebbe
solo gli si concedesse essere ne'Barbari la natural dispo sizione e quasi il
germe il quale, collo ingentilirsi degli animi, produsse poi il suo frutto. Ma
per i primi venuti quella disposizione, anche concedendosi, dovea restare bene
annullata e sparire nel caldo dei combattimenti e delle stragi e d'una
conquista assai fresca. I loro figli doveano nascere,e naquero infatti, romani,
nè quindi poteva passare in loro una disposizione tutta propria dello stato
selvaggio di cui non aveano cognizione, massimamente che quel rispetto della
donna non era in essi la conse guenza del sagro principio dell'uguaglianza dei
dritti trai due sessi, e che, non avendo una tradizione a custodi re, poco
dovea restare o nulla si conservò tra di loro delle antiche memorie. Nella
quale opinione sempre più mi vado confermando quando contemplo più da vicino
icostumi di colesta gente. Chi non conosce la poca pudicizia di Basina madre di
Clodoveo, di Fredegonda moglie di Chilperico, e di B r u nebaut regina di
Austrasia? « Basterebbero, dice il chia rissimo e dotto Cesare Balbo, i fatti
di Rosmunda e di Romilda amostrare lanativaferociade'Longobardi,come quelli di
Gundeberga e di Teodora ad accennare tal b a r barie alquanto ingentilita e
dalla principiante cavalleria e forse anche dal loro conversare cogľ Italiani. non
sa che nel più antico poema dell'Allemagna, quello dei Niebelungen,» l'amore vi
prenda poca parte nelle azio. Vita di Dante. Chị ni, i guerrieri
s'interessino a passioni diverse dalla g a lanteria, le femine poco
compariscono, non sono l'og getto di culto veruno e gli uomini dalla unione con
loro non sono nè inciviliti, nè resi più mansueti, che gli antichi Germani vi compariscono
furbisfrontatamente, mancatori di fede e bugiardi? Chi sa in s o m m a quanto
erano pessimi i costumi di queste genti,o che si consi derino sul loro suolo, o
nel primo contatto con noi, potrà dire se mai poteva essere in loro
disposizione alcuna al culto della donna, ed ad uno spirituale e puro amore. Al
qual proposito mi si permetta appoggiarmi all'autorità, di uno storico riputato
di nazione Tedesca, e pero poco sospetto, il quale, cominciando dal riconoscere
che la sola trasmigrazione operi un rivolgimento in tutta la maniera di essere,
rompe quasi tutti i legami della vita domestica, nè a riparare questi mali
offre il m e n o m o rimedio, onde l'anarchia ed il mal costume si dilatino per
ogni dove e da per tutto recano il disordine e la devastazione; finisce col
mostrare lo sfrenato e terribile disordine in che, quan do posero stanza in
Italia, si trovarono i Longobardi, miscuglio di generazioni racimolate da tutte
le parti del mondo, popolo di rotti costumi e stato però di pernicioso impero sui
suoi disgraziati vicini. E questo che il Leo dice dei Longobardi dicasi pure
dei Franchi, la discesa de'quali in Italia fu per questo bel paese, come
sempre, la più terribile sventura che la provvidenza nell'abisso del suo
consiglio gli abbia giammai preparato. Dopo le quali osservazionituttenon
sipotrànonconchiuderechesemai in quelle genti originariamente germane si mostrò
qual che cosa che sentisse di rispetto alla donna o di spiritua- lismo d'amore,
fu perchè la nostra civiltà le investi c o m piutamente, perchè sispogliarono
del primo uomo, e non più Germani,ma RomanioItalianituttidiventarono.Chè lo
spiritualismo non si alimenta nell'amore se non collo sviluppo
dell'intelligenza, e spirituali,e mistici veramente non furono nel medio evo
che Petrarca e Dante, i più grandi uomini di quei tempi e de'posteriori. Si
vegga dunque se in quei petti di bronzo dei barbari poteva mai Leo, Storia
d'Italia. conservarsi nascosa e risplender poi una fiamma che sola
a cor gentile si apprende, e da rozzi e disleali uomini maravigliosamente
rifugge. Posso però dispensarmi dal con futare quella generosità e magnanimità
che loro l'Ajello attribuisce, poichè se mai possono dirsi quei barbari forti
di quella specie di fortezza che è di generosi sentimenti produttrice, lascioal
lettore pensarlo. E qui parmi il luogo di far notare il poco conto te nuto dall'
Ajello degli effetti prodotti sui barbari dalle loro trasmigrazioni, errore
essenziale, perchè la società ger mana, come è stato ben detto, fu modificata,
spaturata, disciolta dall'invasione, ed il suo organizzamento so ciale peri
come quello dei popoli invasi, gli uni e gli altri non mettendone in comune che
gli avanzi. Oltrechè (colla profondità sua solita osserva ilTroya ) « la grande
trasmigrazione di genti dovè necessariamente nel corso di più secoli trasmutare
la faccia ed i parlari della Germania di Tacito. Negli ultimi anni di Attila
gli ottimati degli Unni eran divenuti Romani pel lusso, e l'intera nazione in
Europa godeva di stabili sedi che le facevano aver men caro il suo antico viver
da pomade. Le antiche razze celtiche della Pannonia si eran confuse da lunga
stagione coi Romani, e quella provincia feconda sempre d'impe ralori avea fin
dai tempi di Diocleziano pressochè rimu tata la popolazione con le moltitudini
sempre crescenti de'nuovi barbari sopravvenutivi. La lingua tuttavia e le
discipline romane prevalsero per molte età nella Pannonia, e quando i
Longobardi vi entrarono, già molti discen depti di quei nuovi barbari eran
divenuti romani. Pur non credo che gli Unni ed alcuni altripopoli, de'quali ho
toccato fin qui, avessero perduto l'interaloro natura dopo Attila, sebbene
abitassero nell'imperio. Ma il tempo ed il vivere sul suolo romano cancellarono
finalmente anche in tali barbari l'impronta della loro indole natia » (1). (1)
Storia d'Italia. Uno dei più profondi e coscienziosi layori usciti alla luce in
questo secolo. Dopo le quali osservazioni non riusciranno molto ef ficaci
tutte le ragioni desunte dal clima c h e l'Ajello p r o duce in sostegno della
sua opinione. Volere infatti assumere che nei paesi meridionali sieno più bramose
e sfac ciate le donne, e sotto freddo cielo più schive e pudiche, non mi sembra
possa essere appoggiato dai fatti. Chè l'ot timo autore non potrebbe certo
asserire più delle fioren tine e milanesi donne essere schive e,pudiche le tede
sche, più delle napolitane o greche giovinette le donne di Francia, o
d'Inghilterra; la pudicizia non dipendendo totalmente dal clima, m a nella
massima parte dall'edu cazione, dal principio morale e buon senso più o meno
sviluppato di ciascheduna nazione. Naturalmente le genti di un clima
meridionale sono dotate di una sensibilità m a g giore di quelle che vivono a
settentrione, m a la posizione de'due sessi è relativamente uguale nelle due
contrade. Se le donne del nord sono poco sensibili, per far sentire i maschi bisogna
scorticarli. Quindi la diversità del clima importerà a spiegare la maggiore o
minore ardenza del l'amore; ma in quanto a quel misticismo o, mi si la sci pur
dire, platonismo dell'amore, pon saprei ben v e dere in che ilclima vi possa
contribuire, essendo una cosa tanto poco del corpo che tutta nella regione
dello spirito risiede. È in questo senso che io trovo giustissima
l'interrogazione del Gatti.- Come può un fatto che ha per condizione naturale
le nebbie ed i ghiacci del nord trasportarsi e fruttificare ugualmente sotto il
sole del m e z zogiorno? Alla quale interrogazione non è certo adequata
risposta dire che il fatto non era indigeno dei Germani, m a che questi ne
portarono con loro il germe, il quale sbucciò poi per opera dello scontro e della
fusione dei vin citori coi vinti. Questo germe portato da un clima lon tano e
freddo in uno meridionale, e che aspetta quisilen ziosamente per più secoli per
poi finalmente, cessati gli urti dei barbaricon uomini civili e compiuta la
fusione, uscir fuori come la ranocchia dopo la tempesta, io m'inganno, o è
troppo malagevole cosa a comprendersi. Nè posso ancora convenire
coll’Ajello che il freddo e duro clima faccia di sua natura libere e più
stimate le donne, quindi più divoto e rimesso l'amore, parendomi la
storiacontraddir del pari a tale asserzione tanto che non mi sarebbe difficile
mostrare la miglior condizione delle donde essere stata in ogni tempo in
ragione inversa della. Non inviderunt, è la bella espressione di Livio,laudessuasmu
lieribus viri romani, adeo sine obtrectatione gloriae alienue vivebatur;
monumento quoque quod esset, tcmptum Fortunue muliebri aedificatum dedicatumque
est. freddezza del clima. E per non dilungarmi di troppo, io non so se mi
si possa negare l'importanza da esse olte nuta presso il popolo Ebreo, e la
continua bella mostra che vi fanno, e se possano mai obbliarsi ibei caratteri
di Debora e di Giuditta, della profetessa Olda, di Rut, di Sara, di Rachele,
della moglie di Tobia é d'innumere voli altre, e la venerazione di che gli
Ebrei le circonda vano, ed il purissimo amore di che furono l'obbietto, e tutta
finalmente la legislazione Ebrea che in tanta con siderazione, a preferenza
delle altre genti,le avea. Chiaro argomento che n o n le nebbie ed i ghiacci,
non la fero cia brutale delle orde vaganti producono stima alle donne e danno
purità all'amore, cose poste naturalmente nella ragion diretta dello sviluppo
del pensiero e dell'incivili mento, e della migliore organizzazione individuale
d'un po polo. Ecco perchè la donna fu sempre in Italia più che altrove, avuta
in pregio e stimata. Senza parlare della scuola antica italiana o pitagorica,
che dir si voglia, e degli antichissimi costumi Etruschi, presso i quali le
donne aveano molta importanza, ENEA fonda una città e dal nome di sua moglie la
chiama “Lavinia”. Son le donne Sabineche s'interpongono frai combattimenti del
Capitolino e riducono gl'inferociti guerrieri a concordia, ed il nome di esse è
imposto alle curie di Roma. Fra il duello degli Orazii e de'Curiazii comparisce
lagrimosa la sorella de'primi, e basta la morte di lei a sospendere il gaudio
pubblico della città. In tutti gl'intrighisuccessivi del regno (come sem pre in
Italia )le donne figurano. La libertà di Roma è consolidata col sangue di Lucrezia,
come più tardicon quello di Virginia, e l'ardire e magnanimità di Clelia viene
eternato con una statua equestre. Veturia respinge le armi parricide di
Coriolano, è cosi tanti e tanti altri racconti che conservatici dal canto delle
tradizioni mostra no potentemente la verità di ciò che assumemmo di sopra. Fu a
Roma innalzato un tempio alla Fortuna muliebre (1), e fu dato il primo esempio
di onori pubblici alle donne, le quali vi sentivano in tanto alto grado la
propria dignità e tanto vi aveano d'importanza che spesso si dovettero le
pubbliche assemblee occupar di loro che vi si presentavano con petizioni e di
tumulti l'empirono. In R o m a aveano le donne il passo per le vie, non si
poteva fare o dir cosa disonesta in loro presenza, i giudici capitali non
potevano citarle e coloro che le citavano in giudizio non potevano toccarle, ut,
dice bellamente Valerio Massimo, inviolata manus alienae tactu stola
relinqueretur. Chi non conosce le sorprendenti prerogative delle Vestali?
Camminavano pre cedute da u n littore; incontrandosi con loro i consoli ed i
pretori abbassavano, in segno di riverenza, i fasci; andavano in cocchio anche
quando gli altri per legge nol potevano; avevano distinto sedile negli
spettacoli; la loro dichiarazione in giudizio avea forza di giuramento, ed un
reo di morte, che avea la fortuna d'incontrarsi con lo ro, rimaneva assoluto.
Tanto la verginità era in onore ! Ecco perchè quelle che eransi rimase contente
d'un sol matrimonio, corona pudicitiae honorabantur, e Spurio Carvilio,
comunque per tolerabile cagione, dice Valerio Massimo, avesseripudiato sua
moglie, non fu meno segnato di reprensione come colui che avea la fede
coniugale al desiderio di figli posposta. Il matrimonio era la comunione di
tutt'i dritti divini ed umani, ed era veramente bella l'istituzione della Dea
Viriplaca, nel cui tempio i coniugi in discordia concorrevano. Dea, dice lo
stesso autore, coși chiamata perchè placava i mariti, degna veramente di essere
onorata e riverita anzi adorala quanto altro I d dio, utpote quotidianae
ac domesticae pacis custos, in pari iugo charitatis ipsa sui appellatione
virorum maiestati debi tum ac feminis reddens honorem. Tralascio di ricordare
co m e usciti dell'infanzia i fanciulli eran dati in educazione ad una donna
rispettabile del parentado, e come sino alla età di quattordici anni aveano
essi comuni colle fanciulle gli studi della puerizia, e la esțesa coltura delle
donne romane, massime negli ultimi tempi, come di cosa ormai troppo vulgare. Si
che possiam dire col Michelet che par v tendo
pressogl'Indianidall'amormistico,l'idealedella o donna riveste presso i Germani
i tratti d'una verginità selvaggia ed'una forza gigantesca, presso i Greci
quelli della grazia e della scaltrezza, per giungere presso i Romani alla
più alta moralità pagana, alla dignità virgi ne nale e coniugale. Ma, per
venire a tempi più vicini in mezzo allo universal degradamento, dice uno
storico, ilcui nome sarà pronunziato sempre con riverenza, le dame romane non
aveado perduto l'avvenenza e l'in gegno delle antiche matrone,e d erano perciò
assai p o tenti. Anzi non ebber mai le donne tanto credito presso alcun governo,
quanto n'ebbero le romane nel decimo secolo. Sarebbesi detto che la bellezza
aveasi usurpato i drittidell'impero »E qualèilpaese,esclamailLeo,ol tre
l'Italia, dove la bellezza delle donne non dirò che accese, ma
solafecerisolvereipopoliallaguerra?dovele donne hanno più lungo tempo dominato,
non pur ne'negozi temporali, m a in quelli che appartengono alla coscienza? Nè
questa tradizione è stata,o potràessermai interrotta, chè vive e spira ancora
nelle donne d'Italia tutto ilsor riso di questo cielo d'incanto, tutta la
maestosa dignità di chi sentesi nato a grandi cose, ed esse inspireranno per
sempre l'ingegno dei poeti e degli artisti,e saran nostra guida e consiglio nel
periglioso progresso della vita. Esclusa cosi qualunque specie di potere dei
Germani sulla mutata sembianza di amore, penso doversi dire al. Histoire
Romaine. Cito con tanto più di piacere questo scrittore in quanto che egli è
uno de'pochissimi serittori di Francia i quali dotati di molto ingeguo e buon
gusto si giovano delle cose degl'Italiani rendendo loro giustizia. Si
vegga dopo di ciò se ilf reddoe duro clima renda più stimate e libere le donne,
e quindi rimesso e più di voto l'amore. Al mio modo di vedere, se l'amore può
essere ardente e bramoso senza che perciò abbia nulla di spirituale e di contemplativo,
quest'ultima qualità non può star però senza la prima. Petrarca e Alighieri non
avreb bero sublimato a tanta spirituale altezza i loro amori se 'amato non
avessero ardentissimamente. È la storia di tutti gli amori nel medioevo. Come
dunque il fatto in parola o la muliebrità potea venirci dai freddi amori dei
fred dissimi uomini del nord? trettanto della feudalità, opinione
sostenuta da uno scril tore di Francia troppo sventuratamente conosciuto, e dal
l’Ajello modificata con quel buon senso a lui proprio, e sull'appoggio di
ragioni che a m e sembrano sufficienti per escluderla del tutto. Non solo (son
parole sensalissime dello stesso Ajello) perchè a și grande effetto ella è trop
po scarsa e lieve cagione, ma e perchè non è cosi ge nerale, nè efficace di
tanto che possa pressocchè sola b a stare a render ragione del fatto » È di
vero (è lo stesso Ajello che ripete queste già conosciute ed indubitabili verità
) in Italia non è stata mai o pressocchè nulla, per chè le città conservarono
l'antica preminenza sulle c a m pagne, e gli uomini vissero anzi raccolti nelle
prime che divisi e sparsi per il paese, per non dir che proprio in quelle parti,
dove pria vigorosa ed ardita levò il volo l'italiana poesia, furon tosto i
signori o invogliati o co stretti a lasciar le castella e a venirne ad abitar
le città. Anche in Ispagpa (per la subita invasione, o per non essere stato mai
quel paese fuor che in picciola parte s o g getto a Carlomagno) o non furono
feudi, o almeno in quel modo che in Alemagna in Francia e inInghilterra. Eppure
non si potrebbe dire che le donne italiane o spa gpuole fosser molto meno
stimate che le francesi, nè che la poesia in quelle due meridionali contrade
mostrasse uno amor manco devoto e gentile » Ciò posto,trovo chiaro che non si
debba sul fatto in parola attribuir potere alcuno alla feudalità,
conciossiacchè, per potersi un fatto chia mar legittimamente causa dell'altro,
è mestieri che siasi mostrata trai due una connessione necessaria e continua, e,
dove apparisca o manchi l'uno, l'altro apparisca o manchi delpari. E questi
requisiti abbiam veduto non convenire alla feudalità, perchè non stata in quei
luoghi ove la letteratura ebbe più notevolmente quel che l’Ajello chiama
muliebrità. Si perdoni quindi a chi, con un modo di giudicar tutto francese,
crede spiegare ogni cosa con una causa sola, comunque non apparsa d a d dovero
che sul territorio di Francia, e che, non v e dendo al di là della Senna, cerca
con quella miseria di fatti che gli colpiscono lo sguardo metter fondo a tutto
l'universo. Il buon senso d'un Italiano non poteva m o strarsi
impacciato ugualmente, massime in riguardo alla feudalità, la quale tra noi o
non fu mai, o certo non vi si mantenne che come una eccezione, in guerra
continua col nostro modo di pensare e di sentire, senza importan tanza, senza
metter mai radice nei costumi. ciò che in ogni tempo ha segnalato il
carattere degl'Italiani, o m a g giononall'uomoma
aiprincipi,battersinonperun'in dividuo ma per una idea e che è stata la causa
della loro grandezza intellettuale e debolezza politica. Pure nel viver
disgregato e locale dei barbari con stituiti in feudale ordinamento crede
l’Ajello essersi svolte e rafforzate le domestiche affezioni ed aiutato lo
svolgi mento morale delle femmine, ed aver quindi molto contri buito a dar loro
pregio e riverenza. Alla quale opinione io non posso soscrivermi,perchè non mi
pare che nella vita isolata dei castelli e di continua guerra possano raf
forzarsi le dome stiche affezioni, e molto meno aquistarvi pregio le donne, ed
avere impero sull'animo d' un signore assoluto e brutale e costretto a trattar
continuamente le armi, nè d'altro bramoso o sciente. Chè in una vita tutta di
sospetto e di disgregazione fisica e morale, la donna lontana dal consorzio
delle genti, nè conosciuta che dal solo feroce obbligato compagno della sua
vita, non è altro d'un fiore che non olezza, o a cui non giungano gli sguardi
delle innammorate giovinette. Ora dicasi se ne'costumi feudali poteva
rattrovarsi in uno stato tale da trarre i caldi sospiri degli amanti e i teneri
passionati versi degli erranti trovatori. Certo la privazione eccita il
desiderio e il fa più che mai bramoso ed irrequieto, m a egli è pur vero che n
o n si desidera l'ignoto, e le donne racchiuse nei feudali castelli erano
appunto uno ignoto che non può desiderarsi. Quindi, se ci ha luogo dove le
donne potevano aquistar pregio, erano per fermo le città italiane o i castelli
de'Signori nel modo come stavano in Italia, ne' quali le donne erano si
custodite, ma non sottratte agli sguardi degli amanti. A ciò si aggiunga
l'estrema ruzione dei costumi feudali cor nella lettera tura di quel tempo le
tracce più capaci di fare arrossire la gente; la violenza e le rapine che essi
concedevano largamente si più a lungo durarono in Germania, e pochis, che
lasciarono simo, come è chiaro, in Italia. Nè si potrà fare a meno di
conchiudere che la feudalità nè per se stessa, nè in concorrenza di altre cause
poteva dar gentilezza all'amore, nė vi contribui in realtà, perchè l'amore fu
veramente gentile e purissimo in Italia, dove la feudalità non ebbe vita, o
almeno fu preminenza della vita cittadina che p o g giava sopra principi di
opposta natura. Oltrechè non do vrebbe dimenticarsi che il principio della
esclusione delle femmine dalla successione dei loro congiunti,almeno in con
correnza coi maschi, fu un principio tutto feudale e ri messo in vigore tra di
noi dai Germani, poichè già nella legislazione giustinianea era per opera, come
par Ed a questo luogo mi si permetta osservare quanto poco al vero s'appongono
coloro i quali sostengono averci i barbari trasfuso il sentimento della
indipendenza personale, e la feudalità aver fatto valere in Europa ildritto
della personale resistenza. Chè non so se quelsentimento si trasfonda mai negl'
individui distruggendoli o rendendoli schiavi, e se ottimo mezzo possa essere
la scimitarra dei barbari per coloro che sventuratamente ne sentivano il peso,
ed erano in quel modo conci che tutti sanno, sostituendo alla maestà
dell'imperio la forza brutale ed il governo ditantipicciolitirannotti.Nè
sosequalsentimento e dritto possa svolgersi in tale sorta di tempi, ne' quali
l'uomo era considerato come proprietà dell'altro uomo, e l'uno dominava
sull'altro, non in forza d'idee comuni ad entrambi, ma per se stesso ed il suo
compagno, il capriccio. Certo ove mi si dirà coll'Ajello che i barbari » ri
storaron la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro, che ci fecer
quasi nuovamente bollire e correre per le vene il sangue, che a colpi di aste e
di spade ci scos sero e ci affrettarono per la via del progresso e di moral
perfezione, è questo un linguaggio che intendo, ma quando si dirà che gli
stessi barbari ci trasfusero il sen timento della indipendenza individuale, non
mi verrà fatto d'intenderlo ugualmente. Conciossiacchè l'indipendenza non si
sostiene che in forza d'una idea,ed ibarbari non ci portarono alcuna idea
puova. Al che mi pare avere splendidamente supplito il Cristianesimo ed in
particolarità . ro, del Cristianesimo, all'intutto scomparso. sia chia
e la Chiesa Romana. Fu questa che sola in quei tempi si oppose al
soprastanteimperio della forza bruta con tutta l'energia della sua gioventù,
cheproclamò altamente l'in dipendenza del pensiero e dell'opinione, e svegliò
quindi negli animi quel nobile sentimento di dignità personale che i barbari
avrebbero suffocato chi sa per quanto tempo e stette in quel mar burrascoso del
medio evo come ter ribile e continua protesta contro le usurpazioni della for
za. Fu ne'municipi d'Italia che il dritto di resistenza si svolse ed, attulito
solo per poco tempo, primamente ri surse con più forza a vita novella. Cosi è a
questa Niobe delle nazioni che l'umanità dovrà esser grata della sua civiltà
presente, a questa veneranda vestale che non ha cessato mai di vegliare per
mantener sempre vivo il fuo. co sagro dell'incivilimento. Ecco come un uomo di
cui il nostro paese si onora, Luigi Blanclı, s'espriineva nell'antecedente
fascicolo di questo giornale a proposito dello stabilimento dei Normanni in
Inghilterra. Or la conquista e lo stabili iento dei Normanni inInghilterra, non
ostante che ilCristianesimo avea proclamalo il rispetto dell'uomo
indipendentemente dalla sua condizione o dellesuecircostanze accidentali,ma
perchè dotato d'intelligenza,di li bero arbitrio e di risponsabilità, non tenne
conto di questo alto e salutare principio, e considerò l'uomo vinto come cosa e
non come persona, fatto peresser posseduto e non governato. Dicasilostessodei Franchi,
dei longobardi, in riguardo ai quali l'opera su cennata del dottissimo Troya ha
p o r tato una luce immensa. Ogni buono italiano farà voti che lunga basli li
vita a questo nostro concittadino onde possa menare a fine il suo cosi bene
incominciato lavoro. DELLE VICENDE DELLA
STORIA DELLA DIVERSA FORMA CH'ELLA TOGLIE IN TUTTO IL SUO SVOLGIMENTO. Gli
uomini prima sentono senz'avvertire. Primachè l'io cominci a distinguersi dal
non -me e dall'assoluto,e a governare e correggerelasensibilità,e secondo sua
volontà far uso della ragione, ci ha un tempo ch'egli pressochè ignoto a sè
stesso se ne sta avviluppato e come un ascoso e tacito osservatore dei fatti
sensitivi e razionali, che indistinti e confusi gli si vengon mostrando nella
coscienza. Abbagliato e vinto dalla sensibilità e d o
minatodallaragione,egliama,afferma,crede,enon
sadiamare,dicredere,diaffermare:permodo chesi direbbe ch'ei sia tutto passivo,
se in lui non fosse una spontanea attività, certo involontaria, ma ad ognimodo
un'attività, una forza insomma che in sè stessa ha la ragione e 'l principio
del suo movimento. Ma a questo primo periodo della vita intellettuale, secondo
che noi dicevamo, un altro succede di veramente opposta e contraria natura.
Perciocchè, svoltasi a poco a poco la volontà, in che pro priamente è posta la
personalità nostra, cominciamo a scorgere che ci ha alcuna cosa che
lecontraddice,e però che non deriva o dipende da lei; che infinein mezzo a
tanta successione e mutabilità di fenomeni (che sono i volontari e i sensitivi
) ce ne ha di così fatti, che non m u tan viso come gli altri fanno, che in
mezzo a quel ma Ma perchè siavi riflessione (e si ponga ben mente a
questo, chè molto ce ne gioveremo) è mestieri che osservando d'una in altra
cosa si passi, che prima un lato se ne consideri, indi un altro, e cosi sempre
segui tando; è mestieri, a dir breve, della successione degli atli,non
sipotendo ben disaminare un obbietto,senza che gli altri si lascin da un canto',
e si dimentichino al menoperunmomento.Il perchè tra la spontaneità e la
riflessione tra l'altro è questa differenza, che la prima ha un veder largo,
istantaneo e complessivo, e la seconda un guardar lento, e uno scrutar
succedevole e parziale. E peròse riflettendo non abbiam tutte ad una ad una con
siderato le parti dell'obbietto, se giunti non siamo a quel supremo
gradodellascienza, che possonsi allaperfinerag gruppare e riunire le parti
slegate e divise, e ricostruirne quel tutto stato già scomposto e notomizzato,
non cene viene che scienza incompiuta, e l'erroreeziandio,sete ner vorremo per
l'intero quello che sia parte soltanto.E difatto pressochè sempre avviene che
la riflessione tulta quanta in un obbietto affisandosi, cosi trascurane e di
mentica gli altri, che anzi tempo si tiene in possesso di quella verità di cui
non ha contemplato e conosciuto che un solo e povero lato. Per il che nella riflessione
(e il dichiareremo innanzi più largamente), come in quella che per isvolgersituta
ha bisogno della successione degli aui e però del tempo, possonsi determinare
tre periodi o momenti che sivoglian dire. Nel primo il “me” e il “non-me” e i
loro rapporti son quelli che meglio fanno invito esolletico alla nostra
attenzione. Nel secondo, sviluppatici dal contingente, tro viamo l'assoluta
nelle eterneverità che sonoci rivelate reggiare, a quel continuo
trasformarsi, stan saldi: ed allora finalmente asceverar cominciamo e
distinguere dal per sonale l'impersonale, dal me ilnon-me e un certo che d’im
mutabile e costante, che è quanto dire l'assoluto. E pe rocchè sceverare,
distinguere, recar l'osservazione d'una in altra cosa è propriamente analizzare
e un far uso della riflessione; questo periodo ben è stato dai filosofi ad
dimandato di riflessione e di analisi in contrapposizione del primo che han
chiamato della sintesi e della spontaneità dalla ragione, e ne scopriamo la indipendenza
dal me e dalla natura. Nel terzo finalmente, che è il supremo grado della
scienza, attraverso a quelle idee assolute traguar diamo l'assoluta Sostanza,
di cui quelle non sono che m a nifestazioniedapparenzealcortoe
debolesguardodella specie umana. Dalle quali cose è manifesto che la rifles
sione, come quella che è molto lenta nelsuo lavoro, e che per l'intera
cognizione di un obbietto è necessitata di guardarne ciascun lato partitamento,
terrà un periodo i m mensamente più lungo della spontaneità, la quale di sua
natura ha un'assai corta vita e fuggitiva. Spontaneità e riflessione, questi dunque
sono idue necessari periodi e le inevitabiliforme del nostro pensiero. Nel primo
ci son rivelate dalla ragione, comunque al quanto confusamente, tutte le verità
prime. Nel secondo null'altro in sostanza aggiungiamo al giànoto;ma, per ciocchè
entra in giuoco la riflessione, distinguiamo, analizziamo, scopriamo i rapporti
e la generazion delle cose, e dove che prima tenevamo il vero soltanto, poscia
abbiamo la scienza: e, per dar alcun che di sensibile alle espressioni, nella
spontaneità la ragione svolgesi come in linea retta; nella riflessione ella si
rifà su propri passi e conosciutasi alla perfine, sopra sé stessa si torce e si
ri piega. Ancora, se nella vita spontanea,tutto è congiunto nel pensiero inuna
inviolata e vergine unità, ed avvi vatoevestitodaglisplendidicolorid'una
giovaneevi gorosa immaginativa,cuiquellasminuzzatriceelentadella riflessione
non è ancor giunta a sturbare ed agghiaccia re; se in quel tempo trascuriamo e
quasi ignoriamo noi stessi, e ciecamente credendo alla ragione, ci diamo a tut
to che ci paja bello, vero o buono e ilseguitiamo abban donatamente nel caldo
d'un amore vivissimo;èmanifesto che quello è tempo di poesia, di canto,
d'ispirazione, come il periodo che gli tien dietro è tempo di fredda e severa
analisi, di riflessione, che è quanto dire di filosofia: la qual cosa bene fu
antiveduta ed espressa dal Vico quando scrisse che tanto è più robusta la
fantasia,quanto è più debole il raziocinio. Però siccome nel primo periodo per
quel potere che dicemmo dei sensi e della fantasia, non chiediamo e non adoriamo
che il bello, o il bene e'l vero in tanto che belli; nell'altro, fatti
più rigidi é spassionati, al solo e nudo vero spezialmente ci inchiniamo,
avvegna che non potessimo mai più intutto distorci dalla bellezza. Del
rimanente ognun intende che questi due pe riodi, spontaneo e riflessivo, non si
limitano in maniera chequandol'unovengaamancare allorasolamente l'altro
cominci. Non ci ha mai in natura un limite e un taglio cosi netto tra le cose
succedentisi, che non ci sia nel digradare un cotal innesto,in cui lo spirar
della pri ma e'lnascer dell'altra vadansi percosidire sfumando, in quel modo
che nell'iride quei vaghi primitivi colori. E sul proposito notisi la bellezza
delluogo del Vico che abbiam voluto mettere innanzi a questo lavoro: nel qua le
oltre che in due righe è detto quel che altri han poi stemperato in tante
parole, scolpitamente è indicato quel l'inpestarsi che dicevamo dei due
periodi. Perciocchè tra l'etàdelsentireodellaspontaneità,equella del riset tere,
u n ' altra è frapposta dell' avvertire perturbato e c o m mosso, che è il
primo apparir della riflessione quando an cora in noi è grande ilpotere dei
sensi e della fantasia. Tutte queste cose (le quali verremo di mano in mano
applicando)volevano esserdettealquantopiùdistesamente e tratto tratto
avvalorate e dimostrate con una esatta e scrupolosa osservazione dei fatti di
coscienza; ma le son cosìnote oggidi, che sarebbe stata operavana e fastidio sa;
spezialmente dopo che quello stupendo ingegno del Cousin le ha esposte con
tanta efficacia e chiarezza in più d'una sua
scrittura.Ilperchèabbiamsolovolutotoccarle, per mostrar quali sieno in fatto di
filosofia le nostre opi nioni, per fermare almen brevemente le teoriche da cui
intendiamo dipartirci, e procedere in questo nostro ragio namento il più che
sapevamo ordinati e seguiti. PERIODO SPONTANEO Poemi o storie artistiche. Or
che abbiamo esposto brevemente e fermato quelle teoriche onde avevamo biso gno,
accostandoci e stringendoci al nostro 'subbietto, di ciamo che il primo apparir
della Storia è veramente nel poema, e nata che sia la prosa, nella storia
paramente ammirazion delle genti quel grandioso spettacolo ch'ei oon sa
bastevolmentea m mirare e magnificare. E qui è da notare che se la Storia nasce
poetica, questo avviene pel subbietto e per l'obbietto, vale a dire che non
pure avviene per lo stato dell'intel ligenza degli scrittori, chein quei primi
egiovani tempi ètutta spontanea e immaginosa, ma eziandio per le con dizioni
sociali di quella età; essendochè le antiche società, quanto alle moderne, eran
semplicissime, siccome quelle in cui non era contrasto di opposti elementi o
principi, ed un solo, come il teocratico nell' Indie e nell'Egitto, tutti gli
altri arsorbiva e signoreggiava:la qual cosa non è a dire quanto più armoniche
e poetiche lefacesse.Sen zachè sebensièintesochesiaspontaneità,echevalga
quell'involontario e irriflessivo svolgersidel pensiero;è chiaro che l'amore,
il disinteresse, la gloria, il patriot tismo, e tanti altri affetti
tuttiespansivi,generosi e gran di, sono a quei tempi le cause e gli stimoli e
le occa sioni alla più parte degli avvenimenti, e molti altri v a gamente
adornano e illegiadriscono; dovechè nei tempi posteriori è un venir su di tanti
piccioli e privati interessi, di tante passioni misere e vili, di tante cupe frodi
e in fami tristizie, che è uno sconforto. Onde assai andrebbe lungi dal vero
chi pensasse che Erodoto, per esempio, o Tucidide, sceverassero e scartassero
dalla narrazione tutti quegli avvenimenti che prosaici lor pareano e indegni
delle loro nobilissime istorie.Di prosaico poco o nulla vera nelle prime
società, e quel poco eziandio facea su quelle vive e immaginose menti dei Greci
assai diversa impressione che sulle nostre non farebbe. Quegli storici adunque
non sceglievano fatti da fatti, come ultimamente è stato scrit to, e che
sarebbe opera da Boileau, ma abbracciavano, od almeno credevano di abbracciar
l'intero, il quale alle lor menti si porgeva tutto fulgidamente colorato ed in
vaga artistica, o vogliam dire che altro più diretto scopo non abbia che
la bellezza. Percosso vivamente l'uomo dai fatti maravigliosi e grandiche
glisuccedonointorno, olicanta e li celebra nel primo impeto della sua
maraviglia, o li narra agli avvenire, non gli soffrendo il cuore che se ne
porti iltempo si care e belle ricordanze, e che abbia a toglier per sempre alle
lodie alle nobilissima mostra. Se non che costoro tutti intenti come sono alla
bellezza delle loro istorie, saran poco solleciti dispogliarla verità delle
tante favole statevi aggiunte dalla immaginazione e dall'ignoranza della
gente,e per chè il racconto se ne faccia più maraviglioso e attratti vo, assai
ve ne introdurranno. Ed infatti seessile narra no, nondimeno il più delle volte
non mostrano di aggiu starvi fede, secondo che fanno i nostri creduli e semplici
cronisti. Manna, di acuta e squisita intelligenza e carissimo amico nostro,
scrivendo non ha guari delle vicende, non della Storia moderna ma della Storia
in idea, ha detto che la Cronaca e la Ştoria filosofica son da tenere idue
punti estremi di tutto il suo svolgimento. In questo, a dirla schietta, non pos
siamo affatto affatto accordarci con lui,e poichèquicade in acconcio, vogliam
fare un po'di contrasto a questa sua opinione, e, cel creda, per solo amore
alla verità, edancheperfermarquiunpensiero,chenoncièin contrato finora di
trovar sostenuto da alcuno. Che la Storia filosofica sia l'ultimo estremo da un
canto, il pensiamo e diciamo ancor noi, nè potremmo a l tramenti;ma
chelaCronacal'altrosia,questorisoluta mente neghiamo. E qui preghiamo il
lettore che non si è stancato di venirci seguitando, che voglia alquanto cre
scere la sua attenzione; dappoichè dovendo farci da alto ed in fretta toccar di
molte cose, forse che il postro pen siero non si mostrerà così chiaro come noi
vorremmo; e temiamo non si annebbi la verità col dir disordinato ed Oscuro.
Comunque le società dei tempi di mezzo, per le in vasioni e leoccupazioni dei
popoligermanici,che per cosi dire le rinnovarono e rinvigorirono, una sembianza
aves sero di freschezza e di gioventù; nompertanto si grande era in loro la
parte antica della caduta società,o vogliam dire l'elemento romano, che molto
dal vero si scosterebbe chi le stimasse società semplici e primitive, e quei
fattie quella sembianza ch 'ei vi trova, volesse recare a ciasc un tempo di
nascente coltura: per non dire che all'elemento romano e al germanico si
aggiungeva l'ecclesiastico di. Or se noi troviamo la Cronaca nel Medio Evo,
non per questo dobbiam credere ch'ella sia d'ogni tempo di nascentecoltura,echeaquelmodolaStorianascaosi
risvegli. No certo, ch'ella nasce poetica, tutto chè disordinata e incolta. Nasce
neipoemi del Niebelungen, del Cid lla, e ardita mente poetica; e se
quella ci dà epistole,sermoni, eglo ghe, cronicacce ed altra merce cosi fatta;
questa ci of fre e novelle e poemi senza fine,e versidiamore eprose di romanzi.
niente inferiore, e cresceva la contrapposizione e la guerra. Questo fece che
accanto ad una cotalbarbara selvatichezza stesse una cortesia e una gentilezza
di tempi assai colti e politi; ad un soverchiar della forza e ad una
sfrenatezza senza confine, un'austera virtù ed un'idea assai svolta della
moralità e della giustizia, e al volo amoroso e spontaneo d'una giovane e bella
poesia, lo strisciar lento è vile di tanti scritti insipidi e senza vita. Di
contraddizione c'era dappertutto,finotraifattieleopinioni;ma inniente meglio si
manifesta che nella letteratura,spezialmente per quell'uso contemporaneo delle
due lingue, volgare e la tina, ch'eran come rappresentanti di due letterature,
e che valsero a meglio tenerle disgiunte e distinte. La la tina non era
propriamente che un po'di luce trasmessa, un povero barlume riflesso da tutto ľ
antico splendore,che non si era potuto interamente spegnere per quel soprav
vivere e durar della Chiesa dopo il misero cader dell' I m perio. Pertanto
ell'era tutta vecchia, squallida e scompa gnata dalla vita; e dovea essere:
perchè gli scrittori la tini (oltre ch'erano frati la più parte, viventisi,a
quei giorni assai ritirati e divisi dal mondo )per quel loroim. maturo e
sciocco legger negli antichi,ebber della barba rieilmaleenon
ilbene;n'ebberoadirbreve,lagrossa ignoranza senza il verde, la vita, la
spontanea vigoria. Dal che provenne ch'eglino desser poi fuori di quelle smorte
eanfibie scritture, barbare a un tempo,e fredde e scolorate; le quali solo il
Medio Evo poteaci dare, e di cui per mala ventura ci ha fatto si ricco e
grazioso pre sente. Con due lingue adunque nel Medio evo son due let terature
d'indole e di forma differenti: una tutta smorta, scarna e prosaica, l'altra
tutta fresca e bella, La Cronaca dunque è merce da mezzi tempi, per
ciocch'ella nacque dalle condizioni di quell'età, è veduta in altro tempo
d'incivilimento che spunti e ger mogli. Onde il signor Manna, per la
troppafretta forse, si è lasciato andare in un errore simigliantissimo a quello
del Vico, che pensò la Cavalleria potersi trovare in ogni tempo primitivo, e
sconobbe ch'ella fu ingenerața tra i crociati in Levante,
cosicchèvideroco'propri lor oc edellaTavola
Rotonda;ecompostasi'escaltritasilaprosa, nasce in Villehardouined in Joinville
che certo cronache non sono; od almeno in Guglielmo di Tiro, in Alberto d'Aix, inRaimondod'Agiles,
inRauldiCaen, enegli altri entusiastici e vivaci storici delle Crociate. E non
si dica che tra costoro parecchi eran frati, e che questo fatto in certo modo
contraddica al nostro pensiero; dappoichè anzi il riferma assai bene, mostrando
che tostochè essi usci ron di quelle condizioni che dicevamo, altramenti
scrissero le istorie loro. Basti dire che di quei monaci altri furon ehi quei
mirabili fatti che ci han narrato; ed altri furon sospinti in mezzo al mondo
dall'improvviso turbinė che a quei giorni sconvolse l'Europa, e dal vivissimo
entusias mo che vi accese tutte le menti Imperò vivendo eglino meno divisi
dalla società, dettero finalmente alle lor nar razioni quel colore e quella
rappresentazion della vita e dei costumi del tempo, che nelle cronache indarno
cercherem mo, e che sarebbero affatto perduti per noi, se non ci fosser rimase
della volgar letteratura tante opere bene rap presentevoli ed esprimenti, come
sono, sebbene alquanto posteriori, le novelle del Boccaccio e del Sacchetti, e
le istorie del Villani, del Compagni e del Malespini. enonsi tali cagioni, che
son tutte proprie del Medio Evo, e che in altre età indarno si cercherebbero.
Ci mostri il sig. na non dico una Cronaca Man,maunsolframmentodiCro naca prima
d'Erodoto.Quanto a noi,fermamente pensiamo che se potessimo avere tutto quel
che in Grecia si scrisse nanzi a costui,non troveremmo ip mente che
storiemaravigliosa poetiche, comechè ordinate con manco d'arte, e quel che è
più sicuro, poemi, e canti guerreschi polari. Veramente ci fa maraviglia e po
ingegno del Manna che quell'avveduto non abbia scorto,che avendo eglidi viso
tutto lo svolgimento storico in artistico e filosofico, era necessità che
quanto più si ascendesse ai primi tem pi,piùdipoesiaed'artevisitrovasse.Orcome
può trovarvi egli quelle insipide ed agghiacciate cronache m o nacali? In esse,
se ne togliete l'ignoranza che è vera mente degna d'una cultura bambina,
ilresto ci sa più d'avanzo dispenta e grave letteratura,che di comincia mento
d'una nuova e leggiadra;e a dirla in due parole, non ci vediamo che elemento
romano ed ecclesiastico. E quando si pon mente che per lo più furon monaci i
lor compilatori, quasi intutto, come dicemmo, segregati dal mondo, e quel che è
più, non d'altro conoscitori che d'al cun latinoscrittore;quando sipon mente a
questo,non sappiamo chi possa far lungo contrasto e non accostarsi alla nostra
opinione. Manna adunque, scambiando un fatto con lo svolgimento
dell'idea,'equel che accade con quelcheé, ha creduto logico un antecedente
meramente storico efor tuito.E sipotrebbedirech'eglicredaalricorsodellena
zioni, se per divinare un fattoprimitivo ha toltoesempio non da nascente, ma da
rinascente coltura.Perciocchè vo lendo egli parlare dei napolitani storici, e
non trovando nei primi tempi che i cronisti longobardi, se n'è lasciato
ingannare,ed ha stimato che la Storia a quel modo na scesse;eche
inquellesueteoricheeipotessefermareche la Cronaca e la Storia filosofica
fossero gli estremi di tutto lo storicosvolgimento.Sei volevatrovare
nellanapolitana letteratura ilprimo apparir della Storia, almeno cercar lo
dovea in Guglielmo di Puglia, e in quel poema che serisse, allorchè le ardite e
fortunate imprese dei Nor manni fecer maravigliare questa estrema parte d'Italia.
Per lequali cose,conchiudendo diciamo,cheleprime istorie sono i poemi,indi le
narrazioni puramente artisti che; che questo avviene pel subbietto e per l'
obbietto vale a dire, per lo stato dell'intelligenza dello spetta tore, e per
quello della società ch' ei ritraenei suoi rac conti: infine che la Cronaca è
scrittura propria dei mezzi tempi, e quanto alla Storia moderna, ella è storico
e non logico antecedente. PERIODO DI RIFLESSIONE. Ilme, il non-me e I loro
rapportic hiaman dunque i primi e sforzano la nostra attenzione: e se questo è
vero Storia morale o Secondo che detto abbiamo, corta durata ha S. Momento
del MB e NON-MB. politica. quel periodo di spontaneità, e tosto nasce e si
educa la riflessione per aver vita assai più lunga e meglio svolta.Ve ramente
ch'ella con quel suo analizzare e sminuzzare ogni cosa,con quel suo lento e
sospettoso procedere, or in questoorainquell'obbiettopartitamente
affisandosi,to glie ardire allaimmaginativa, ed or ne soffocaeimpedi sce, or ne
scolora ed agghiaccia ogni spontanea creazione: nompertanto induce lo spirito
umano, non certo in più belle,ma inpiùgraviesodecontemplazioni,cheapoco a poco
e come per mano il trarranno a quella compiuta e ordinata scienza, che è
l'ultimo obbietto, e insieme la pace e 'l riposo della sua irrequieta
intelligenza. Or noi dicemmo che la riflessione di sua natura è parziale e suc
cessiva, e che tutto ilsuo svolgimento potrebbesi distin guere
intrepartiomomenti,ondeilprimoèquellodel me edelnon-me. E difatto,chivogliaun
trattoprofon darsi nella coscienza, vedrà che se ci son fatti che più chiamino
e sforzino l'attenzione, certo sono i sensibili, indiivolontario
personali.Isensibilicomequellicheson manco intimi e profondi,e quasi
esterioriall'animo,sono i più vivi ed appariscenti, e imeglio osservabili;eivo
lontari o personali vengonsi lor mostrando allato tenace mente, perciocchè
l'impersonalità della sensazione indica subitamente e rivela la personalità
nostra, e quell' assi duo tramutarsi e succedersi dell'obbietto ci reca al senti
mento d'alcuna cosa che duri attraverso a quella indefi nita varietà delle
sensazioni, che è l'identità delsubbietto. Quanto
aifattirazionali,questiinverosono imenoap parenti, perchè non simostrando che
in mezzo allamu tabilità e alla determinazione dei sensitivi e dei volontari,
tolgon sembianza mutabile e determinata, e ci ha mestieri diaccorta e ben
ammaestrata osservazione per poterneli sceverare, e svestire di quella falsa e
mendace apparenza. (come vero è), ecco qual nuova faccią prenda la n o stra
intelligenza, e di quanto questo primo momento della riflessione si discosti
dalla spontaneità. In questa ilme non si scorgendo ancoradistinto da quel che
lo inviluppa e nasconde, e lasciandosi intutto andare a seconda della ra gione
e della sensibilità, senza mai volgersi indietro e por
menteasèstesso,èchiarocheseogniattoalloraèfe de, amor vivo e caldissimo, ed
estatica contemplazione ha da essere altresi pieno e bello di nobile
disinteresse; doveché nel primo momento dellariflessione,per quel ne cessario
mostrarsi e dintornarsi della persona, per quel considerar la natura solo in
tanto che ne dia pena o di letto, come pressochè tutto è dubbio, amor proprio,
e sospettosa e lenta osservazione, cosi pure le opere nostre la più parte
generate da personali e interessate cagioni; e se prima moveaci il bello,e il
bene e ilvero intanto che belli, muoveci dappoi l'utilità. Dicevamo che la
Storia si farà a cercar l'utile; poi con un tal rude passaggio alla moralità
sola il riduceva m o, come se niente altro esser ci potesse d'utilită, quivi
tutta si raccogliesse. Per voler soddisfare a questo dubbio, e farci incontro a
parecchie altre objezioni che ci sipotrebberofare,dichiareremoalquantomeglio
ilno stro pensiero, e il rafforzeremo in fretta almen tanto che basti. Tolto
via l'utilità fisica, che in verun modo non ci potrebbe venire dal racconto dei
fatti delle nazioni,l'uti Jità non può veramente esser posta, che nel giovare
al l'uomo o come agente morale, o come creatura intelli gente; perocchè non si
potendo allettare la sensibilità, alla Storia non resta che correggere la
volontà, o svolgere e saran per Però la Storia, dopo che si è mostrata
puramente artistica, vorrà avere uno scopo che le paja manco vano, e che dia
più pronti e certi frutti; vorrà insomma esser utile, ed eccovi apparir la
Storia morale, la quale, se più non guarderà la bellezza siccome unico ed
immediato suo scopo, se ne gioverà nondimeno per ornare ed avvivare i suoi
racconti, essendochè l'uomo, come dicemmo, po scia che l'ha un tratto
conosciuta, mai più non si di stoglie dalla bellezza. costantes generi,
contumax etiam adversus tormenta servo rum fides. Ond'iomi maraviglio che
ilsignorMannaabbiapo tuto sconoscere questo si manifesto intendimento di
Tacito, dandogli uno scopo meramente artistico, com'ei si da rebbead Erodoto. E
mi pare che in questosbaglioeisia caduto, per aver troppo semplicemente diviso
tutta la vita storica inartistica e filosofica,nonbadando che seconla riflessione
si può dir che cominci l'amor del sapere ola filosofia, non per questo ella è
filosofia, intesaintuttala determinazion della parola, cioè la scienza già
ordinala formata; e per dir più chiaramente, che innanzi all'ul tima forma sua
ben può la Storia esser riflessiva, e non esser pertanto ancor filosofica. Il
perchè non potendoegli di buona fedetrovare in Tacito la sua Storia filosofica
ha dovuto di necessità trovarvi l'artistica,quantunquela Storia avesse in lui
cangiato natura, essendochè l'artedi primo scopo e signora ch'ella era, è divenuta
istrumento ed ancella. SMomentodelleveritàassolute.- Storia positive. Per
affisarsi che faccia la riflessione al subbietto e all'ob bietto e ai lor
rapporti, verrà tempo alla perfine ch'ela sarà percossa da quella strana
immutabilità e indipendenza dei concetti della ragione; che anzi quello stesso
atten dere ed osservare i fenomeni sensibili e volontari sarà ca gione che le
si dimostri l'assoluto; essendochè di due o più cose non pur dissimiglianti ma
opposte sieme e confuse; più pensando ed osservando ne distrigate e dintornate
l'una", più l'altra vi si porgerà chiara edi stinta. L'osservare che sopra
una sorta di fenomeni non ha potere la volontà, e che lo stesso non-me non
sipuò sottrarre a certe.leggi immutabilissime e salde, fa chesi vadano
sempreppiùdistinguendo e sceverando ifatirazio pali, e apertamente se ne vegga
la indipendenza dalsub bietto e dall'obbietto. Oltre diche,inquellaguisachela
impersonalità dei fati sensibili rivela e determina la per sonalità dei
volontari, cosi la mutabilità, la contingenza, la naturafinita e dipendente
dell'animonostroe delana tura,distintamente cisvelal'immutabile,l'infinito,l'as
soluto; l'essere, in una parola, il quale non che dipen e strette
in dere da altre cose, a tutte
anzi è sostegno e fondamento. In questo secondo suo momento adunque la rifles
sione,disviluppatasidal contingente,separaepone l'asso luto,o vogliam
direl'eterneveritàrivelatecidallaragio ne. E però ch'ella suole, dimenticando gli
antichi, tutta a'nuovi obbietti abbandonarsi, e massimamente dopo che ha
scorto, che ilme e ilnon-me non son poi gli ultimi termini della scienza, e che
ci ha alcun più degno e nobile obbietto intutto indipendente da quelli,e che
anzi abbrac cialiecomprende,e ponloroelimitieleggi,da'quali, tramutinsi pure a
lor posta, mai uscir non possono, o sottrarsene.E megliovedràl'importanzae
ladignitàdel l'assoluto, quando si sarà avveduta che non ostante la caducità e
l'impersetta natura del contingente, le verità nondimeno stanno e
sopravvivono.Di questo procederà che alle personali vedute del primo momento
altresuccederanno impersonali e disinteressate, e seprima chiedevasi l'utile,
il vero poi soprattutto si chiederà. Eosi la Storia che abbiam veduto correr
dietro al l'utile,volgerassi a più nobile scopo escientifico,enon vorrà che il
vero; e purchè il trovi e narri, le parràdi aggiungere l'ultimo e naturale suo
scopo. Vero è, che non si essendo anco giunto a tale con la scienza, che basti
e valga a ricongiungere e riferire alla prima Sostanza quelle assolute verità,
e a considerare il vero come rive lazione dell'infinita Intelligenza. Vorrà la
Storia il vero, ma senza sapere iltrovarlo infine che importi;e conside randolo
partitamente nei fatti in tanto che esistenti e a v venuti, scambierà il reale
col vero, e solo vedrà negli avvenimenti la vicina dipendenza di cause ed
effetti, non si elevando mai a più larga e lontana connessione. Per tanto degli
Storici di questa età, sola e prima cura sarà trovare i fatti e accertarli,
mostrarne le immediate o poco lontane cagioni, o almeno le occasioni e i
rapporti, e solo che dieno una tal quale narrazione di importanti e certi fatti,
nissun pensiero si prendono del rimanente, e par loro adempiuto ogni ufizio
eche laStoriasiafatta.E non pen sate ch'ei sipiglino affanno di virtù e di
vizi,di giusto edingiusto,diquestaoquellacredenza;evidanno a divedere una
freddezza e un'indifferenza, che c'è da sconsolarsene, per modo che vi sembra
non abbian cuore,o senso morale, e sien tutto pensiero e intelligenza. Il qual
morale indifferentismo stimiamo sia tra l'altro ingenerato dai
costumidiquelleetàch'essersoglionoassaiguastie dissoluti:onde avviene che
disperato si del miglioramento, appoco appoco l'animo vi si adusa, e dopo di
averli con siderato come un necessario male e durissima legge del l'umana
natura,finirà colvenire in quella tristae scon solante indifferenza, di che non
è stato che sia peggiore. Anche questa maniera di Storia vediamo adunque inrap
porto manifesto con l'obbietto e col subbietto, con lo svol gimento progressivo
dell'intelligenza, e con le sociali c o n dizioni dell'età in cui suole
apparire. Se non che, acció che non ci si dia non meritato biasimo, vogliam qui
fare avvertire che se noi riferiamo la Storia al subbietto e al l'obbietto,
questo facciamo per guardar la cosa da più lati, e non perchè ci sembri che
quelli in sostanza sien diversi rapporti. Conciossiache limitando noi
l'obbiettività al solo mondo civile, il quale, come ha detto il Vico, è fatto
dall'uomo, ci avvediamo che il riferirvi la forma che vien prendendo la Storia,egli
è come riferirla un'al tra volta allo svolgimento della nostra intelligenza.
Questi sono gli storici, che abbiam chiamato positivi. E molti potremmo
indicarne che più o meno van com presi in quel numero; ma ci piace di nominar
soltanto il Davila e il Macchiavelli, come assai vivi esempi di que
stageneraziondinarratori.Solovogliamo quiricordare che se in molti di questi
storici alcun che ci ha di arti stico, morale o politico, non per questo non
son da te nere per positivi, quando loro intendimento sia stato il narrare
ifatti che veri stimavano senz'altra briga.Dap poichè se nell'ideale e nella
scienza tutto è ben distinto e determinato, nella realtà per contrario tutto
intrecciasi e confonde, e mai non si ha il fatto cosi nudo e segre gato dagli
altri che gli stan dallato, o che lo han pre ceduto o seguiranno, secondo che
la scienza lo ha de scritto. Cosi questa famiglia di Storici è a parer nostro
assai numerosa e comprensiva; e risolutamente vi chiu diamo e 'l Guicciardini e
l'Hume e'l Gibbon e 'l Giannone e 'l Robertson, avvegnachè di costoro, chi
voglia solo un lato considerarne, alcuno dirà artistico, un altro forse
chiamerà morale o politico, e in quegli ultimi per avventura gli parrà già di
vedere l'ultima forma della Storia, che è la filosofica, e di cui or passeremo
a ragio nare. Per ilche,quando perassaisecolisièveduto un sorgere e fiorire, e
un cader d'imperi e di nazioni, una catena lunghissima di successi grandi;
quando in somma il dramma storico dell'umanità di tanto è cre sciuto,che sene
può avereun'assai larga e svariata esperienza;èforzacheavedersicominci
allaperfine e un tal ritorno di avvenimenti al tornar delle stesse ca gioni, e
certi costanti rapporti e lontanissime dipendenze, e una certa comune natura
delle nazioni sotto alle dissi miglianze grandi che son tra loro. Oltre di che
al rovinare e mancar di tanti regni potentissimi, di tanti vasti e splendidi
imperi, che pare a non on d o vermi finire', e Storia filosofica. S.III. Momento
delle verità assolute come manifestazione La riflessione di sua natura, quanto
più va innanzi nel suo lavoro, della prima Sostanza. Tanto più visi addestra, ed
acquista di acume e di profondità, e noi tratto tratto più incontentabili ci facciamo
e vogliosi di sapere. Dopo di aver separato e distinto il
meeilnon-me,siamocielevatialquantopiùsu,edat traverso alla vicenda ed alle
permutazioni del contingente, abbiamo intraveduto e scorto l'assoluto in quelle
immu tabili verità, che son come le leggi del pensiero e della natura. Ma
giunti che siamo a questo punto di conoscenza, veggendo che quelle assolute
verità non derivano o dipendono di sorta dal subbietto e dall'obbietto; qual
sia dimandiamo la lor sorgente e derivazione, di qual sostanza essi fenomeni
sieno manifestazione nella nostra intelligenza. E questa interrogazione torna
inevitabile e necessaria per quei due principi disostanzae dicausalità, che non
ci lascian mai, eche ad ogni fenomeno,ad ogni cosa che cominci,a trovare o
pensar ci sforzano una so stanza e unacagione.Le veritàassolute adunque noi ri
feriamo e leghiamo all'assoluta Sostanza,all'Essere crea tore e intelligente, e
quivi soffermasi la riflessione niente altro chiedend, vi si appaga e riposa.
e tutto in loro accogliere e stringere il futuro destino dei p o poli;
non può la disingannata intelligenza non distorsi da quell'angusto e caduco
spettacolo, e non elevarsi a più larghe esublimi considerazioni. E scorgerà che
iregnie gl'imperi non son poi che apparenze peculiari e fuggenti, è che fra
tanta vicenda e permutazion di fortuna,duran nompertanto le umane generazioni e
governate da costan tissime leggi;e da tanti sanguinosi elacrimevolicasi,da
tanti mali e miserie incredibili, risorgon sempreppiù a m maestrate e
possenti,come se cavasser benedalmale,e a simiglianza d'un nobilissimo fiume,
il quale non che scemare e impaludarsi tra la rena e i sassi e i dirupi, sempre
crescendolesue acque,alteramenteprocedeverso l'infinito mare che l'attende.
Pertanto a quel modo che riferiamo le leggi del pensiero alla prima
Intelligenza, e le abbiamo per un suo apparire e rivelarsi nella ragione; così
pure quelle discoperte ed osservate leggi dellaStoria riferiamo al primo
Essere, e le consideriamo come forma visibile dellamente e del disegno di lui
sopra il destino degli uomini, che è quanto dire come la stessa Provvi denza
divina. Quando adunque dalla mutabilità, dall'incostanza e dalla contraddizione
del reale, elevar ci sappiamo insino all'idealeeilconsideriamocome espressionedellamente
di Dio; quando più non vediamo nella Storia una for tuita o capricciosa
successionediavvenimenti,ma losvol gimento di un'idea nel tempo, e
l'adempimento sopradi noidel provvidodisegno del Creatore. Sorgerà quella Storia
che detto abbiamo filosofica; e, conciossiachè la riflessione non vada più
oltre, questo è l'ultimo e più n o bile grado a cui possa ella giungere. Or
questo supremo pensiero,questo provvido disegno di Dio sulle umane generazioni,
certo in niente meglio si dimostra che nella Storia della religione; e se
aggiun gete che solo il Cristiano incivilimento pote acidare una cosi fatta
Storia; che, dalla nostra infuori, niun'altra religione non ha avuto un si
chiaro e non interrotto cam mino attraverso a tutte le età; che la scienza
infine non avea a cominciar da capo e far tutto di per sé, percioc ehè ella
potea lavorare per un sentiero ch'or silascia in travedere, or
profondamente è segnato nei Libri Santi; non è dubbio che dei cinque elementi
della Storia, che sono l'industria, lo stato, l'arte, la filosofia e la religione,
dovea quest'ultima prima costringer l'attenzione dei nostri scrittori, e,
lasciatisi da un canto gli altri quat tro, informare a suo modo la Storia,e
invadere a prima giunta e assorbire tutta la vita delle nazioni. Di qui av
verrà che questa prima e incompiuta Storia apparirà anzi teologica che
filosofica. E tale infatti è quella del Bossuet, per essersi quel dottissimo
Vescovo tutto chiuso e raccolto nel Cristianesimo, e fattolo centro, scopo e m
i sura a tutta la Storia dell'umanità. Ad ognimodo quello è il primo passo
verso la Storia filosofica, e il primo n a scere e incarnarsi di quella idea,
che dopo meno di un secolo vedemmo tanto allargarsi nell'Herder, che in quel
suo stupendo lavoro tutti abbracciò ed avvinse gli elementi della vita delle
nazioni. Se non che la Storia dell'umanità non si sarebbe per avventura a tanto
alto grado elevata nell' Herder, se QUEL MARAVIGLIOSO E POTENTISSIMO INGEGNO DI
GIAMBATTISTAVICO non avesse prima, con lo scriver la Scienza nuova, fondata ne
la filosofia. Di quest'opera straordinaria assai volentieri parleremmo, ch'ella
è primo vanto e gloria nostra, e Dio sa quantoci gode il cuore in pensare che
abbiam noipure il nostro Dante; m a sarebbe un varcar quei limiti che ci
siampostiinquestolavoro:dappoichènon abbiam voluto intrattenerci intorno alla
scienza della Storia, m a solo indicare una opinione che avevamo del suo
progressivo svolgimento,cavandolo daquellodelpensieroumano.Non però di meno
vogliam mostrare che quell'idea che d'una vera e compiuta Storia filosofica
osservando e ragionando ci siam fatta, quella stessa aver partorito e fecondato
la Scienza nuova.Infatti, poichè il Vico dallo studio psico logico dell'uomo
ebbecavato quella sua comune natura delle nazioni, vale a dire le leggi
universalissime della Sto ria, andò fino a riferirle alla prima Cagione, e le
tenne espressione visibile del Consiglio divino; ond'ei medesimo
scrisse,l'opera sua doversi riputare una Teologia sociale e una storica
dimostrazione della Provvidenza. E concios siache per potersi elevare, sccondo
che dicempo, dal reale all'ideale, ei bisogna che il primo ci sia noto,
as sai giovossi il Vico della FILOLOGIA DELLA LOQUELA DEL LAZIO, che al dir del
Michelet, è la scienza del reale, o dei fatti storicie delle lingue; e sull'ale
poi della filosofia cacciossi in quella potente e lontana astrazione. La
filologia adunque e la filo sofia, cioè le scienze del reale e del vero (ch'è
l'idea le ), son le due fecondissime sorgenti a cui ha attinto la Scienza nuova;
e una storica dimostrazione della Provvi denza è l'ultimo e proprio suo
obbietto. Ma se grande nella Scienza Nuova è la parte del l'uomo e di Dio che fuungran
passo do poche il Bossuet in Dio solo s'era affisato ), la parte del non-me o
della Natura è nulla, o incerta e poverissima; la qual cosa poi tanto crebbe e
ingigantissi nell'Herder per sual filosofia di quel tempo,che l'uomo ne venne
presso cheschiavoallaNatura,ev'ebbeaperdereilsuoli bero arbitrio. Perciò questo
elemento tra l'altro devesi aggiungere alla Scienza Nuova;essendochè l’Uomo,Dio
e la Natura sono i tre obbietti alla filosofia, e questi stessi entrar
debbono,e in bell'armonia legarsi nella Storia, sesivorràch'ellasiacompiutae
perfetta,echearrivi a quell'idealesupremo cheil progresso della scienza ci
promette,e cheledotteedoperosefaticheditantichiari uomini del nostro vivente ci
fanno sperare non lontano Raccogliendo ora tutte le coseche inquesto secondo
periodo abbiam toccato,diciamo che la Storia dopo di es ser nata artistica vuol
esser utile, indi vera, ed ultima mente filosofica; che questoavvieneper l'obbiettoepelsub
bielto, secondochè abbiamo or detto espressamente, or sol tanto lasciato
intravedere. Quanto alle vicende e al progressivo cammino della Storia,questo è
il nostro pensiero. E qui porremmo fine al nostro lavoro se tutti i lettori
così fossero, li vorremmo. Ma ci ha di tali uomini, che non san ve dere nei
fatti che dissimiglianze e contraddizioni, e non si elevando più che tanto,
stringer non sanno più di due cose insieme, e non diciamo porre un po' d'ordine
e d'armonia in quel caos d'avvenimenti, ma nemmanco innalzarsi a un sol
pensiero, a un qualche men che vi la sen gran fatto. come noi cino
rapporto. Costoro certamente vorranno che tutta la Storia vadasi per cosi dire
a adagiare nel disegno che in fino a qui siam venuti delineando, e che d'ogni
Storico subito e chiaramente si possa diffinir la natura e 'l tempo del suo
venire; e perocchè questo, non potendo essere non viene lor fatto, eccoveli
gridar tostoall'errore e al sistema: come se i casi valessero a romper le
regole, e come se negli uomini non fosse libero arbitrio, ed oltre alla ragione
non fosse la personalità del volere, la quale di quanto conturbi, e modifichi,
e arresti e affretti al l'idea il naturale e logico suo svolgimento, non è chi
non vegga. Per non dire che in alcuni storici la stima e l'imi tazion
dell'antico, in altri l'indole o le false opinioni o la povertà del sapere son
cause che sovente essi dienci parti fuori tempo; e che ifatti talvolta sembri
che vadano a ritroso con le idee. E valga l'esempio delBotta venuto troppo
tardi per esser, com ' egli è, storico morale e p o litico. Oltre di che alcuni,
venuti nella intersezione di due periodi, e però accogliendo quel che cade e
quel che sor ge, hanno in quei loro scritti alcun che d'indeterminato, il quale
cosi n e asconde e sforma la vera faccia, che non sapreste a quale specie di
storici li dobbiate propriamente riferire. Cosi in Livio vediamo a un tempo
l'artistico e'l patriottico o politico e anche un po' del morale, ed era mestieri
per i tempi in che scrisse; in Sallustio ancora l'artistico, ma il morale più
determinatamente; in Sveto nio quasi intutto il positivo. Del rimanente il
reale o quel che accade può ben rifermare, ma non ha potere di con trastar
l'ideale o quel che è: laonde se la nostra osser vazione psicolologica è stata
accurata,esatta e compiuta non ci si avrà a contraddire, e le vicende della
Storia quelle saranno, che abbiamo fuggevolmente descritto.Giambattista
Ajello. Ajello. Keywords: Roma antica nella filosofia di Hegel. Refs: Luigi
Speranza, “Grice ed Ajello” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51794314171/in/dateposted-public/
Grice ed Albergamo –
CROTONE – filosofia italiana – Luigi Speranza (Favara).
Filosofo. Grice: “Albergamo is a fascinating author – a very Italian
philosopher who can teach Lucrezio and the classics at the ‘gym,’ as they call
it, and yet survey the ‘storia delle scienze essate’ and the ‘storia delle
scienze empiriche.’ Alla Bridgman, he is into ‘the logic of the science.’ But
he can also define the ‘spirit’ in terms of ‘freedom.’ He has also analysed,
vis-à-vis- his interest in Galieleo and science, the very Italian idea (already
in Cicerone) of ‘super-stitio’ and magic – his approach to these matters is
phenomenological, which coming from Favara as he does, is understandable!”
-- Filosofo. e un pioniere della
filosofia della scienza in Italia. Nato a Favara, in provincia di
Agrigento, da Giacomo e Giuseppina Butticé. Suo nonno era un ricco proprietario
di una rinomata pasticceria di Favara. Il padre, ferroviere, fu trasferito
prima a Messina e poi a Palermo, portando con sé la famiglia. A causa di questi
trasferimenti, svolge gli studi liceali da autodidatta, conseguendo poi la
laurea in filosofia presso l'Palermo. Nel 1931, vinto il concorso a
cattedra di storia e filosofia, si trasferisce a Trapani, dove insegna al liceo
classico Ximenes, e dove sposa Maria Carmela Rizzo, da cui avrà quattro figli.
Insegna poi a Benevento ed infine a Napoli presso il Liceo classico statale
Vittorio Emanuele II, dal 1936 al 1967. Pressoché tutta l'attività
filosofica e didattica di Francesco Albergamo si svolge a Napoli, ed è
caratterizzata dal clima culturale molto vivo nella città di Benedetto Croce.
Come filosofo, si dedica a due principali linee di attività. La prima è
dedicata all'insegnamento ed alla didattica della filosofia, l'altra allo
studio del rapporto tra filosofia e scienza. In entrambe le linee, il suo
lavoro ha avuto una grande caratura culturale, e la sua personalità fu
considerata, nella città di Napoli, di grande spessore etico, per la generosità
e l'impegno che hanno contraddistinto la sua vita. Circa la prima linea,
il ricordo della sua attività didattica è rimasto a lungo nei tantissimi
giovani che hanno ricevuto una solida formazione filosofica di cultura laica,
razionale, liberale. Vero è che a Benevento, dove aveva insegnato per soli due
anni, gli è stata dedicata una strada che, significativamente, parte da
Piazzale Benedetto Croce per poi ricollegarsi a Via Francesco de Sanctis.
Al Liceo Classico Vittorio Emanuele tra i diversi allievi che si sono distinti
nel campo della filosofia e della cultura ricordiamo in particolare due delle
figlie di Benedetto Croce. Il suo nome è ricordato in una lapide dedicata alle
più illustri personalità che vi hanno insegnato, tra cui Giovanni Gentile.
Oltre all'insegnamento nei licei, è stato libero docente di filosofia teoretica
presso l'Napoli, dove ha svolto una intensa attività di corsi e conferenze.
Con i suoi manuali di storia della filosofia, e con numerose pubblicazioni
dedicate ai licei, FA costituisce un importante punto di riferimento nella
didattica della filosofia a livello nazionale, prima per il classico e poi
anche per lo scientifico. Una notevole attività è anche dedicata alla
formazione dei docenti di filosofia, con numerosi articoli, pubblicazioni,
corsi e conferenze. L'altra linea di attività, quella dedicata allo
studio del rapporto tra filosofia e scienza, si snoda lungo un arco di tempo
molto vasto, che va dall'inizio degli anni '30 fino alla sua scomparsa. I
risultati sono confluiti nella pubblicazione di importanti saggi filosofici. Di
formazione idealistica e kantiana, appena trasferitosi a Napoli, nel 1936,
instaura un rapporto stretto con Benedetto Croce, con frequenti visite e
colloqui nella sua abitazione a Palazzo Filomarino, guardata a vista dalla
polizia. Dalle sue lettere a Croce si evince un chiaro riconoscimento di
Croce come suo Maestro, oltre a forti sentimenti di devozione e di sincera
amicizia. In particolare, alla caduta del fascismo, esprime al Maestro la
sua "profonda gioia" perché "finalmente l'Italia comincia a
incamminarsi per la via maestra che le avevate additato", e prosegue poi:
"Gioiamo della gioia vostra e dei vostri cari: della gioia che ora, dopo
tutto quello che voi, giusto, avete sofferto, aleggia sulla vostra casa. Questo
rapporto si affievolisce a partire dai primi anni '50, quando più che la
filosofia fu la politica a provocare un allontanamento di Francesco Albergamo
dall'ambito crociano, per aderire progressivamente agli orientamenti ed alle
ideologie della sinistra e del marxismo. Già agli inizi degli anni '50,
aderisce al movimento dei "Partigiani della Pace", nato a Parigi nel
1949 sotto il simbolo della colomba della pace, appositamente dipinta da Pablo
Picasso,stringendo una forte amicizia con Lucio Lombardo Radice, Maurizio
Valenzi, Renato Caccioppoli, Ambrogio Donini e altri. Nell'estate del
1952 partecipò ad una delegazione in visita alla repubblica democratica
tedesca, assieme a Giancarlo Pajetta, Renato Guttuso, Francesco Flora. La
visita era, naturalmente, finalizzata a diffondere ed esaltare le
"conquiste del socialismo". Di ritorno dal viaggio, il Ministero
dell'Interno dispose il ritiro del passaporto, e quello della Pubblica
Istruzione gli comminò una ammonizione, come se avesse abbandonato il servizio
senza autorizzazione, mentre il viaggio era stato fatto nel periodo di chiusura
estiva delle scuole. Fu forse questo episodio, che Francesco Albergamo
considerò una manifesta soperchieria di stampo scelbiano, che lo indusse l'anno
successivo ad iscriversi al PCI, salutato da Togliatti con un cordiale
telegramma di benvenuto. Nel corso di tutti gli anni '50, partecipò attivamente
alla vita culturale e politica della città di Napoli, che in quel periodo era
in grande effervescenza. Il movimento culturale della sinistra napoletana non
si riconosceva pienamente in una ideologia, come afferma Gerardo Marotta,
"ma si fondava su un dibattito filosofico che traeva i suoi succhi da un
corale sforzo di comprensione del proprio tempo. Il dibattito raccoglieva e
valorizzava l'eredità culturale degli illuministi e degli hegeliani napoletani
del secolo precedente, attingendo alla lezione storicistica meridionale che va
da Vico a Croce, passando per F. De Sanctis e G. Salvemini, e collegandosi poi
al pensiero di Antonio Gramsci. L'Albergamo partecipa con conferenze che
venivano organizzate dalle associazioni culturali napoletane tra cui "Cultura
Nuova" ed il "Gruppo Gramsci", ed accetta, sia pure a
malincuore, una candidatura del PCI alle elezioni comunali di Napoli. Il
problema del rapporto tra filosofia e scienza viene visto in termini di nuovi
modi e nuovi contenuti per la didattica delle scienze e della filosofia. Tra i
primi in Italia, ed in aperta polemica con la scuola crociana ed il clima
dominante, Francesco Albergamo avverte i rischi, per lo sviluppo della società
italiana, di una cultura prevalentemente classica: Con la seconda rivoluzione
industriale che è in atto in tutto il mondo, noi italiani non ci possiamo
permettere il lusso di rimanercene ancorati ad una cultura prevalentemente
classica ed umanistica." L'Albergamo lavorò con la passione di una
intera vita, fino a pochi giorni dalla sua morte. L'ultimo suo scritto uscì
postumo su "Critica" marxista. In seguito alla sua scomparsa il
quotidiano comunista L'Unità dette notizia della sua scomparsa con un lungo
saggio. Possiamo, per semplicità di esposizione, dividere l'opera dell'A in tre
periodi. Nel primo periodo, il pensiero dell'Albergamo si muove nel quadro di
una concezione filosofica di tipo idealistica, dominata in Italia da Croce e Gentile.
Tuttavia, più che alle tematiche tipiche dell'idealismo, è interessato ai
problemi nuovi che si pongono al pensiero filosofico a causa dello sviluppo
impetuoso della scienza nel novecento, in particolare nei settori della fisica
relativistica e quantistica, della matematica, e della biologia. Albergamo
precorre, in una prospettiva idealistica, la necessità di un dialogo
costruttivo, osmotico, della filosofia con le particolari discipline
scientifiche ed empiriche. Nel primo lavoro scientifico (1),
richiamandosi all'insegnamento di Kant, sostiene che la scienza, come
esperienza dell'attività dello spirito, è resa possibile dalle forme
trascendentali. Tuttavia, sostiene l'Albergamo, gli sviluppi più recenti della
matematica (geometrie non euclidee, matematiche non archimedee, gli iperspazi,
ecc.) e della fisica (teoria della relatività di Einstein, meccanica
quantistica, principio di indeterminazione di Heisenberg) provano la
contingenza di tali forme trascendentali,. Affronta anche il problema,
fortemente dibattuto, dell'alternativa tra determinismo ed indeterminismo, e
perviene alla conclusione che anche l'alternativa indeterministica sia
egualmente legittima: la conoscenza scientifica può essere costruita anche se
si ignora il principio di casualità e si finge che i fenomeni si succedano a
caso, secondo le leggi matematiche della probabilità. Queste tesi originali
furono apprezzate e commentate, all'epoca, da diversi filosofi italiani, tra
cui C.Ottaviano, Aliotta, ed altri, fino a pervenire ad una ampia esposizione
della problematica filosofica connessa alla scienza del novecento. Il saggio La
critica della scienza nel novecento", pubblicato in prima edizione nel
1942 e poi più volte ristampato fu giudicato "assai pregevole" da
Croce. Di questa opera, Guido De Ruggero scrisse che essa "offre una delle
più efficaci sistemazioni speculative che io conosca delle vedute
pragmatistiche della scienza, compresa quella del Croce alla quale più strettamente
si connette. L'ambizione dell'Albergamo, che traspare chiaramente nei diversi
spunti critici nei confronti dei limiti dell'idealismo nell'affrontare il
problema della logica della scienza, è quella di "costituire una
confutazione dell'idealismo per via dell'idealismo stesso. In altre parole,
vuole in qualche modo superare la concezione che relegava la scienza nel limbo
degli "pseudoconcetti", per dare piena legittimità ai processi
conoscitivi, sia delle scienze esatte che delle scienze empiriche, restando
comunque ancorato all'idealismo. Benedetto Croce in qualche modo accetta
e favorisce la ricerca di A, giudica "assai ben pensato e ragionato"
il suo lavoro, ma rimane rigido nell'accogliere la storia della scienza come
parte integrante della storia della filosofia. Finito il periodo bellico,
l'attività dell'A si sviluppa poi in una serie di opere in cui
sistematicamente, ed in un quadro storico, vengono trattati i problemi della
logica delle scienze esatte e della scienze empiriche. In questo periodo A,
dirigendo per l'editore Laterza una collana di scrittori di teoria delle
scienze, propone alla cultura italiana la conoscenza di importanti pensatori
d'oltralpe, come Poincarè, Bergson, Bachelard, ed altri. Il secondo
periodo dell'attività di Francesco Albergamo può datarsi attorno ai primi anni
'50, ed è caratterizzato da un progressivo allontanamento da Croce e dalla sua
scuola, dovute alle difficoltà dell'Albergamo a trovare un pieno accoglimento
delle sue tesi sulla scienza, ed anche, in qualche misura, a diverse
valutazioni politiche. L'esigenza di Francesco Albergamo era quella di
dare piena legittimità filosofica alla logica del pensiero scientifico. Per
raggiungere questo obiettivo, era necessario operare un
"capovolgimento" dialettico nel rapporto Natura-Spirito della
filosofia crociana, allo stesso modo in cui Marx aveva operato nei confronti di
Hegel. Per Albergamo infatti "spiritualismo e materialismo costituiscono
in realtà una opposizione dialettica, nella quale di continuo ognuno dei due
deve vincere la resistenza opposta dall'altro... come già nella dottrina
hegeliana, così anche quella del Croce esige… un "capovolgimento", in
maniera che il suo oggetto…trovi proprio nel suo opposto la condizione per
vivere e svolgersi. Nel terzo periodo di attività, a partire dal 1967, quello
della massima maturità ed originalità, affronta una analisi sistematica delle
forme di "pensiero prelogico", inteso come "pensiero che,
spontaneamente, senza alcuna riflessione logica, veniamo indotti a formulare
per una suggestione tanto irresistibile quanto inconscia che inibisce la nostra
intelligenza. Analizza con grande attenzione tali forme di pensiero, sulla base
dei risultati e delle osservazioni di etnologi ed antropologi (da Frazer a
Levy-Bruhl, Levy-Strauss, H. Kelsen, ed altri), oltre che dei risultati della
scuola psico-analitica, da Freud a Cesare Musatti. Analizzando questa
poderosa base di osservazioni sperimentali, perviene ad individuare i
principali meccanismi della prelogica: automatismo associativo, intuizione
animistica, inibizione dell'intelligenza ad opera del sentimento. Vengono
così portati alla luce della consapevolezza quei processi inconsci ove si
generano mito e magia. Le molteplici e diverse credenze mitiche e
magiche, con la loro uniformità di struttura e le loro coincidenze spesso
sorprendenti, sono interpretate come il risultato di un automatismo psichico
inconscio, che persiste pur attraverso le situazioni storiche più
diverse. La tesi dell'Albergamo è che tali forme prelogiche, che sono
alla base dei miti, dei riti, e delle pratiche magiche dei popoli primitivi,
lungi dall'essersi esaurite con il progredire del pensiero scientifico e
filosofico, sono presenti in maniera diversa, non solo in età infantile ed in
alcuni soggetti psicopatici, ma anche nelle stesse persone colte, nonché in
alcuni ambiti dello stesso pensiero scientifico e filosofico. Accanto a questo
nuovo ed affascinante filone di ricerca, si intensifica l'opera di educatore,
con decine di opere destinate alla scuola, manuali, antologie, trattati, nonché
da studi e pubblicazioni sulla didattica delle scienze e della filosofia degli
scritti di Albergamo. Opere: “Saggio di
una concezione filosofica della scienza” (Napoli, Loffredo); “Disegno storico
della filosofia ad uso dei licei classici e degli istituti magistrali” (Milano,
Sig.); “La tesi finitista contro l'infinito attuale e potenziale” in Atti della
Società Italiana per il Progresso delle Scienze; “La filosofia di Spir”, in
Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli); “Critica del concetto di
infinito”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, “L'Italia di Augusto
e l'Italia oggi” in Augusto. Celebrazione nel bimillenario augusteo, a cura del
R. Provveditorato agli studi di Trapani, Trapani); Cura di I. Kant, Prolegomeni
ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza” (Bari, Laterza);
“Il criticismo kantiano e la scienza moderna” (in Atti della Società Italiana
per il Progresso delle Scienze); “Kant e la scienza moderna, in Archivio della
Cultura Italiana, “Le basi teoretiche della fisica nuova” (Padova, Milani); “Filosofia
e biologia, in Sophìa; Recensione di A.V. Geremicca, Spiritualità della natura,
Bari, Laterza, «Sophia», “La critica
della scienza del Novecento” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Lo spirito
come attività creatrice” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Il concetto di
realtà e le scienze empiriche”, in Ricerche filosofiche. Rivista di filosofia,
storia e letteratura, n. unico; “Vitalismo e meccanicismo nel secolo XX”; in
Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali; Versione, studio introduttivo
e note di G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana” (Verona,
La Scaligera); “La matematica nella critica della scienza contemporanea, in
Sophia, L'ordine nel mondo degli oggetti, in Logos, Recensione di A. Marzorati,
Spiritualismo, Milano, Bocca, Sophia», La natura: Saggi filosofici, Verona, La
Scaligera); “Croce critico della matematica, in Rassegna d'Italia; “Storia della
logica delle scienze estate” (Bari. Laterza); “Traduzione, studio introduttivo
e note di H. Poincaré, Il valore della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “La
scienza nell'antichità classica, in A. Padovani (a c. di), Antologia filosofica,
Milano, Marzorati); “Traduzione, introduzione e note di H. Poincaré, La scienza
e l'ipotesi, Firenze, La Nuova Italia, Cura di La scienza nell'antichità
classica. Antologia filosofica, Como, Marzorati); “La scienza nel Rinascimento,
in Grande antologia filosofica, XI Scienza, natura e storia in Gramsci, in Società;
Introduzione a S. Laplace, Saggio filosofico sulla probabilità, Bari); “Cura e
introduzione di G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, Bari, Laterza (Nuova
ed. riv, L. Geimonat eRedondi, Bari, Laterza). Storia della logica delle
scienze empiriche, Bari, Laterza); Le scienze naturali nella filosofia di
Croce, Bari, Laterza Il pensiero scientifico contemporaneo. Antologia storica; Le
scienze esatte e le scienze fisiche; Le scienze naturali, Firenze, La Nuova
Italia); Il pensiero scientifico nell' 800 e nel Questioni di storia contemporanea);
“Il millesimo anniversario della morte di Avicenna, in Rinascita, Il valore
teoretico della matematica, in Atti del Congresso di studi metodologici, Torino,
Torino, Introduzione a J. W. Goethe, Scienza e natura. Scritti vari, Bari,
Laterza); “presentazione di A.V. Geremicca. Prefazione a A.M. Frankel, Le
scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce, Bari, Laterza); “Cura di
E. Bergson, L'evoluzione creatrice, s. i. t., Mazara (Trapani) Le scienze nella dottrina crociana delle
categorie, in E FLORA (a c. di), Benedetto Croce, Milano, Malfasi Editore, La
critica della scienza oggi in Italia, Roma, Perrella); “Il dogmatismo religioso
contro la libertà e l'autonomia della scienza, in Il Calendario del popolo, La
vita nella dialettica della natura, in Società,
Recensione di S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza,
con una avvertenza di Sebastiano Timpanaro jr. (Firenze, Sansoni «Belfagor»); Recensione di C. Luporini, La
mente di Leonardo, «Belfagor», La geometria di Euclide non è la sola possibile,
in Il Calendario del popolo, Scienza e filosofia di Einstein, in Rinascita, Recensione
di H. Reichenbach, I fondamenti filosofici della meccanica quantistica,
«Società», Introduzione alla logica della scienza” (Firenze, La Nuova Italia);
“I rapporti tra la filosofia e le scienze nel liceo scientifico, in Convegno
nazionale di studio sulla didattica della filosofia I Licei e i loro problemi, Intuizione
e ragionamento nella matematica, in Atti del Convegno Nazionale "La
didattica della matematica nella scuola primaria", Roma, Matematica e realtà, in Società, “La teoria dei quanti nelle interpretazioni fenomenistica:
del Reichenbach”; in VIII Congrès International d'histoire des sciences, Florence
Milan, I, Paris, Direzione della sezione ‘Scienze’ del Dizionario Bompiani
degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature e redazione delle voci:
Albert Einstein, Luigi Galvani, Hendrik Anton Lorentz, Edme Mariotte, Carlo
Matteucci, Emile Meyerson, Hermann Walther Nernst, Julius Robert von Mayer
Storia della filosofia per i licei scientifici, voll. 3, Padova, Milani, Sopravvivenza
della prelogica nel pensiero scientifico e filosofico, Stabilimento Tipografico
G. Genovese, Napoli, estr. da «Atti dell'Accademia di Scienze morali e
politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli», Cura di A. Einstein, Filosofia e relatività,
Palermo, Palumbo, Pensiero e attività educativa nel loro corso storico, va.
Palermo. Palumbo; La natura: Saggi filosofici, Bologna, Patron); Fenomenologia
della superstizione, Roma, Editori Riuniti); Mito e magia, Napoli, Guida); L'educazione
scientifica, Milano, Vallardi, estr. da La pedagogia. Storia e problemi,
maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento,
diretta dal Prof. Luigi Volpicelli, La ricerca umana. Storia della filosofia,
Palermo, Palumbo Problemi del pensiero.
Guida interdisciplinare per lo studio della storia della filosofia, Palermo,
Palumbo, La teoria dello sviluppo in Marx ed Engels, Napoli, Guida, Lo
strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, in Critica marxista; Lo sviluppo
dell'Antropologia culturale, in Genus, La "Storia del pensiero filosofico
e scientifico" di Ludovico Geymonat, in Critica marxista, Il pensiero
filosofico e scientifico nell'antichità e nel medioevo, Napoli, La Città del
Sole (rist. del testo del 1963, con aggiunte di A. Gargano). Il pensiero
filosofico e scientifico in età moderna, Napoli, La Città del Sole 2006 (rist.
A. Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico nell'età contemporanea,
Napoli, La Città del Sole (rist. A. Gargano). Fonti Fondazione Croce, Napoli
Lettere tra Croce e Francesco Albergamo e di Albergamo a Codignola, Gentile,
Ottaviano e Sciacca, In Giornale critico della filosofia Italiana settima
serie, XIV anno XCVII, fasc.I gen.
Apr. Due lettere inedite di Croce a
Francesco Albergamo,in Rassegna Storica Salentina, La Veglia ed. Carmelo
Ottaviano, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in
Sophia, a.V n.3, luglio –sett. 1937, pp300–303 A. Aliotta, Recensione al Saggio
di una concezione filosofica della scienza, in Logos, R. Mck, Recensione al
Saggio di una concezione filosofica della scienza, in Journal of
Philosophy, 3Profondo cordoglio per la
scomparsa del compagno Albergamo, L'Unità, G. Marotta, Renato Caccioppoli, la
Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo, Napoli, la città del sole, Lettera
di F.Albergamo a M.F. Sciacca, 2Centro Internazionale i Studi Rosminiani,
Stresa, citat. Francesco Albergamo. Albergamo. Keywords: Crotone, il finito e l’infinito,
idea de la scienza, scientia, la scienza italica, la scuola di Velia, la scuola
di Crotone – la scuola di Girgentu – scienza naturale – scienza fisica – fisica
– fisica filosofica – scienza umana – scienza esatta – scienza empirica – anti-finalismo
– meccanicismo, galelei, il liceo classico, prmenide, zenone – la scuola di
crotone – girgentu – empedocle e i fenomeni – l’entita matematica alla scuola
di Crotone, disegno della storia della filosofia ad uso dei licei classici –
liceo classico – liceo scientifico – Benedetto Croce – carteggio
Croce/Albergamo – la logica della scienza – la non-sicenza, mito –
superstizione – animismo – l’italia nei tempi di Augusto ed oggi – la critica
della scienza in Italia oggi – lo spirito – lo spirito come liberta creatrice –
meccanicismo e vitalismo – il kantismo – la filosofia della scienza – la
metafisica – la filosofia nell’eta fascista – saggio filosofico sulla scienza –
la natura – saggi filosofici -- saggio
su una concezione filosofica della scienza – scienza della natura – pitagora e
la scienza della natura – fisicismo – naturalismo -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Albergamo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51794412383/in/dateposted-public/
Alberti (Bologna).
Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to
fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed
the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was
vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes
with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the
senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina,
fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni.
Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con
Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni
i propri interessi umanistici e storici. De viris illustribus,
Bologna 1517 Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede,
in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum
libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il
Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Nel 1521
tradusse dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto
Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè
compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso
De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse
tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes,
il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte
al capitolo generale nel giugno del 1530. Negli immediati anni successivi
rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le
decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i
bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città
dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione
scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici
Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la
Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata nel 1539 ed ebbe
altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi. Il 20
gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un
incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché dal 1538 è
sempre documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna probabilmente dal
1550 al 1551 o al 1552, anno della sua morte. L'opera più importante
dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de' Medici, è
senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna nel 1550. Ad
essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due traduzioni
latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per la prima
volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella del 1568 è arricchita dalle
incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca
in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e
migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando
scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per
la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come
Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi
precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella
critica storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di
tempi e di valore molto diversi, senza prendere posizione». Opere: “De viris illustribus ordinis praedicatorum
libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et
sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle
illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene
il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella” (Bologna);
“De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De claris viris reipublicae
venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue, Scheda delle opere di
Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A. L. Redigonda, “Liber
consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento di San Domenico,
Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma religiosa in Bologna,
Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro Alberti, in
Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L. Redigonda,Dizionario
biografico degli italiani, 1, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta Italia in Il Genio
Vagante, Bergamo, Leading Edizioni, Massimo Donattini, Il territorio emiliano e
romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni, Michele
Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in Rivista
di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione e
note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI Service,
Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia su culturitalia.uibk. ac.at.
LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO. Dialogo composto dall’illustre e
molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco Pico della Miradola, segnore e conte
della Concordia, volgarizzato dal Ven. P. F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine
de predicatori. LE PERSONE PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA.
APISTIO. FRONIMO. Dimmi do juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove
vendon sil herbe tanta moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche
noi un puoco, accio intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco
di no potra esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi in ver un
luogo. FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO.
Tu giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per
givo con e periscrizzo, ma da dovero Conciosia che debbia esser molto aggrado a
ciascun huomo, ma maggiormete alli gentili e curiosispiriti, di
conoscerequello, loqualeno hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque
tuteaffas tichi diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque
il timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute
conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha
a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO. L.oaugello
Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino
sapere, di qualeger nerationedeucceglistalastregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio
chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai lettocomeeraconsuetudinenellitem
pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte & uscileftreghe cosa che
seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput: tare in uecediuiuandenel
pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto piu utile cosa chenon sapiamo,
intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che am e pa te,etragioneuolmére
istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre peruederla tantamoltitudinedipopolo.mesco
T a t o c o n li fanciulli. APISTIO. Habitano in questi luoghi le streghe? O
cercamente non mi serebbe grave di caminare diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor
su, sea dunque non m a i uedeftiueruna, forfihora fara satisfacco alla tua cu.
riosauoglia. APISTO. sepur accadesse cheiopoteffi ci trovare coteftoaugellodam
e contantodesiderio cerco,eno giamai citrouato Meftitia augurio infaufto edanno
efpresso Peggio chel bubo annontia porge, etlega.
Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi
nalalaStrega.Machecofasiaquella ediqual naturanon ficouiene.EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello
cheers scritto deltelitreghecioe che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli
fanciulli Da uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto
offeruato pinsino dalli Heroici tempi.' Quellecosemimoueno che sono venuti nellithalamieca.
mere delli Proci, o siano delli lascivi e molto libidino f i buo, m e n i
cosidicendo Ouidio. Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda
questoanimale, Aforbeilsanguelaftregainfelice, Delle Streghe gia preda
fortelangue, Puoco iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto
allanodrice. bb ii conuna uergadispinobianco,ecome hannoqueda natu.
ra,chesonobråminosiucceglicon ilcapo grandeliocchi
fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie
rampinate,eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere
nella spauenteuole norte. Hor tu uediilnomela cagione diello,lanaturadiquella
&ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo
quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi
differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fuccianocollelabralepopedi
fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola
spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile,
Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o
paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe,tanto diuer Se
nontidimoftranouaria& anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano ragioneuolmente
da efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano Ifficiodellanudrice,
ma quefti sonodaesserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni dalli quali sono occisi
li fanciullini havendoli bevuto il sangue.FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre
ftociascunadiquestecosefauolė,che altro.Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola
iopenso chenosias nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf.
Chalquinto giorno depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfifiguranola
uecchianelliuc.. celli.Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe.
moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma
della nodrice ethora dellainlidia triceE. questomaggiorméte am e lofa credere
percheildi monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas
tioniemaleficii,perliqualieranoligatelementi delli huo. mincio n inganni,econ
bugie,dicédofeefferGiano,uuole
uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödaleporteetuscii
cioeconlafrondadeunoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda
le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua,
e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma anzi
a b omine uoli sacrileg i i e p o rtéri, Bé che anchor de quelle confedica. Se
poil infanti per la nocte oscura Vesla ecilsangue elucca con l’esperti
Labrila Strega,etintalmodo leindura. Cosine tempinoftrihannoconsuetudinedifare
le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no
nellecune lifanciullininuouamente natiche piangono,
dipoiincontinentiledanoligioueuolirimedi.Liquali, co m e
ainepare,fonoinloroarbitrioepoßianzadi doucrlida re. Imperhomeritamenteegliederiuatoquestonome.Ca
ciofia che queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta
scelerita,anchorda noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate
streghe. APISTIO. Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con
moltialtri,cte dendo efferuero,quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche
fononoloche feminuzze,lequaliuolanonellamezza notte alliconuiti, et alli delette
uoli piaceri carnali delle L e muriofianodellispiritidellaoscuranottee che
coteftefer minuzze guastinocon incantilifanciulli.FRON.Meglio potreste parlare
Apiftio.Conciosia che non mai fe debbe di re
checoloroerrano,liqualiapertamenteracontano quello che hanno con locchio
dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci, &
amaeftraticólacõținuaprati 1 caet. sa
etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper
fuafo queftoche tu di percoralm o d o che lhabbia creduto. FRON.Per
qleragione,no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. Per que f t ca, i n e che pare
una cosa da ridere, come fiapoffibicleh e fattoun cerchio et unto il corpo conno
fo che unguento,in un'certo m o d o erdettepoicecceparole coun no fochemormorio
fecógiúganodettefemenuzze incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot.
te souradiunolegnodettoGramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua
oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper
aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi
Diana,ediHerodiade, E cheiui giocano,mangio no beueno,epiglianolasciui piaceri-
Puruoglioanchorago giungere un altra cosa cioechenonseaccozzanonelparla.
re,ficomeho inteso conciofiache alcune dicono efferpors tate moltoinalcoperaria,
eraltrediconoappo diterraalcu ne confeffanodiandaruifolamente con la
imaginatione e noncon ilcorpo,epoifermarsisouradellagodi Benacoo Hadi Garda, nellialtiffimimonti,
vero e chemolto m i m e raueglio chenondicanodiefferefermatefouradellacima
delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste a caminare
con Anaslagora, Ilquale c -u n n o n t e n o n guar i d i s c o s t o d a
Colophon e da continue neui affediato, dacuife conoscelatempeftadebbe venire.
Altrecacótano de esser portate allo albero di Benevento det tolanuce,rebême
arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto nelterritoriodi Arpino
piu vicino (fico/ me io penso) alla nostra regione coueroportate alla Quer zadi
Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono portate per infino
nella Cheronea alla Querza di Alessandro Dicesianchorache hannoamo
rosipiacerecolli demonii che non sono congiunti colli corpirei on oerro. Ma dimmi
un puoco Apistio, che toccame ci possono esser cotefti? Chepiacerisouerinche
modo poffo no haueceamorosisolazziconqueftauana, efintaimagine, efeminedicarne.
Ho letto come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno
pigliano piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO.
Dimmi Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO.
Io ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole,
e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni
effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento
confermate,edipoi quiuifermarsi ma moltomaggiornéte-eropera di coluicheedigradeinna
gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni. Donqueseiocolletueragioniticonduceroa
cosentirea quello decuihoratenemenibeffe,chefaraipoi? APIST. Che faro: Vimetterolemani.
FRON.Pensocheancho, sauiinetteraiipiedi. APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO.
Deh non hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece
desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione, collipiedi, e cole
mani, ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi, e desideri,sefaraiquelloche
tudietprometti. FRON. A me pare perilragionarehauemofattocaminan
do,chetuseimoltodottonellipoetidelliGentili,etanchora affai siaornato
dePhilofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche
beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari. C o n c i o f i a c h e e g l i
e m o l tomaggiorelacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo chesouerchia le
forze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia attribuire, hauendopuoco
ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra demente necessarioa
coluiauoleintendereefli poeti e philosophi, diconoscereetintenderenon
triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e latina. Et anchore gli e
bisogno d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti extratti fuori delle
crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili poeti
emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon
grandiCómétariidaAristo. tileetanchora dallialtriPhilofophidelladottaschuola.
Anchor c h o r h o i n t e s o c h e s e sforzo il Plutarcho con
uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente
ognicosadiuinaethumana,aquellociecoHomero.Ilperá cheionegoeffereinme
quellacognitione perfetta,sicome tudi,m a no nego
pechoesfermiessercitatoalcuna'uolta per piaceredellanimomio inleggere
quelli,licomeiocercaffi lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo
qualchi amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli
riputato ignorante, fra li amici e compagni, o c curendola occafione.Cosi
senóho beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti
author i a l m a c o (l i come di r e si suole). I h o t o c c a t a e gustat a
con l a l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credochetusiaconduttonon dalla
arrogantia ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita.Laqualeuertu
ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii.Imphoche dimostri di n ó
effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj
dettodellanotitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita. CóciosiachePlatoneetAristorelesonopieniditer
ftimoniidiHomero,diHefiodo di Simonide, Pindaro,E u
ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia molto dottonella
philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E cosiho
istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con
gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti,lequalidi. mostrihoradino sapere.
APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare
dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come
prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamia oppenionem a
anzi hai tu posto inme maggiore dubitatione con corefta tua risposta.APII STIO.
Chehaicudetcos 'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero eiche
meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da
quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho
desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare. ĄPISTIO.Io
DELLE STREGHE 8 to matrimonio prometto de responderti
liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai tu giamai
letto in Omero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO. Si. Et
anchora ho letto in chemodo andodaquella gére chefa ua nellaariacaliginofa.cioe
che erasenzauiada poceruien trareiraggidelsole.FRON.Dimmeseltepiace,checol
lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON.Nó leggiamoquel leparolediessoingreco,lequalihoraledicoinnoftrouolga'
re cosi.lo fu quello che cauai fuora allhora allhora ilcoltello
dellacosciasecominciaidicauareconilscarpellounafofla, allamisuradiun
gomito,indiequindiincerchioetancho rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbresAPIS.
Tu hai molto egreggianiétedechiarato il sentimento,eno manco ageuolmente
isposteleparole. FRONIMO. Credo habe bilettono una uoltam a louéte
ligiuochidiDiana,eliballi collecompagne Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON.Anchoriopensochetuhabbiri,
uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide Anchiseconlaimpudica
Venere eco 1 ·me fufferogeneratimolti Baroninellitempiantichidicote
Atifallacietingánatori Dei. APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu
debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi
huominicheerano deditialleopererufticaliepastoralisico me eracommunamente
lauitadi quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici.CosianchoraingannoilD
e m o nioPeleo pastorepadrede Anchise,conciolia che effo fico me
diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna
ombrosa ualle forto laimagin ne dellaThetide dea marina.cosiiftimatadalle
genti.Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento
demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There
madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno
altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere
commettere iltupro, n e anche lo a d u t l e r ' o, ma fi n s e d i u g o l e r
e contra h e r e i l l e c i. di quelli to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere
carito Hesiodo, ficomeseuedenellescritturede Greci.Ilpchepra babilméte
dicemoeffer da quiui deducto,cioedallo effem. pio diHefiodo,loEpithalamiodi
Catullo.Ilche anchorr dimoftrailtenoredelverso,chiaramétedemostradoquella
ancica facilitaetquestodechiarailcontinuo e sollecito ftu diodi
CatulloiseguitareliGreci,pcotalmodo che ispreffe
leintegreElegiediCallimacho,alcunauoltarendedoilsen timentoetaltreuolteisprimendoleparole.Anchora
inganno per co t a l via il demonio facilmente Paride, focto figura di quelle ore
Dec. Il quale fi come scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresadi Helena, nosolamentepafceualeper
corelle del suo padre, ma anchorli Tori, eptal modo feue ftiuadelleueftimente che
pareuàun rozzopaftore etigno fantebifolco. Le quali cose, ampiamente con sue
scritture quellolerecita. In questo modo fece inuisibile il Demonio quello
Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel
lo.cioeconquellapartegiacesottolagemma,epretiofapic tra,ma ciuolta,conlaquale
Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina.Il perche pigliauono li Demonii uariee
diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano uolgate,altreuokic
leformaucnoineffigiadelleterrestre Nymphe efouerere presentauenolefiguredelle Dee
marine.Epercheeracredu c o c h e s e nascondessino, con il suo ingegno sotto le
unde del e tacqua accio puotessino effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare
licuoridellimiserie ciechj huomeni, ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua
doue dicontinuoper driuoltarediquellacuisiritroualacandidafpumaet iuipa
teuafussero appodellenodrici,doue eranonudrigateda güellet Anchora
appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano
appareffe Giunone ad Tinone, De cuifingononascelliilsuppositi Coéraur. Cofifin
gono d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p pieta di Giove fu f f i
trasferito ne cieli, e fussi fatto secretariodiqllo,etpõstoufficio hauefli
ardireditécareGiunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando ad Ilione una
nuuolaafimilitudinedi Giu donc. cn la qualegiacedoIrionc,ecredendosi dipigliare
co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i demonii
apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie
incantarioni,collequaliiogannauenolegenci, popoli, etinescaueriocondoppiafrodeilcozzouolgo,ecan
choralidorcihuomeni.Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la quale
con diuerse menzogne e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla) conlaquas
le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo,afarsiadora re,etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee
to che anchora eglivergognasse Diana,laquale fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio
la fozza libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del
demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale senza uetun dubbio chiamauefli Diana
)raccótaueno fuffi fuergognata da Endimione,eda Hippolyto licome dimot
AtraFirmiano,fotto il nome di Diana ilqualepensava pers r e n e s e a quel
luogo. E il nome di Virb i o c i o e di tre volte huomo elaleggemolto
diligétemente cercata,doue fedo ueffe ponere,elemani
medicheuolidiEsculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe debbost credere fuffero
tutte queke lecose fauole etillusionidelliDemonii,epurfeuifuffe qual che
cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene
Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che
Efculapioalfinefupoipremiatoconlamercede epremia
delliincantadoriche/elamiserabilemorte. Concioliache eglienarrato da
tuttiliantichiauthori,qualmente fuoce cisodalfulguro,benchefianouarieoppenioniperqualecat.
gione,e per quale sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST. Dice
Vergilio che cosifufliocciso, percherefufciso Hippolyco dalla morte.Nonfajcu
cheduolendoHippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca
uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodallamadregna
Phedraetsendofalitosouradellacarretta e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,f icomenarra
Seneca, cadėdofuoci delcarroploimpito,etracciatoemorto,sendoitoneline ferno fu
resuscitato,efanato da Esculapio Veroie-chedice Plinioche
cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r cagio
nediCastoreedipolucefigliuolidiTjidareRe di Oebalia quello che scrive Tertulliano, cioechefur
& arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea effercitatolamedicina.E
cosiritrouiamomolto maggior us dietanellanarrationedicotefta cosa chenellamorte
diR o molo.Maegliebenvero checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra
gli Dei,benche coftui fuffe uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero
-e-chemoltopiu mimaraueglio digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben
péfaflılifattisuoiquelgradehuomo,ilğleerasoftēta toetenatocórâreifperedaun
certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le ubrigaua di far. FRONIMO. I n
altrom o d o scriffero Panaiaso,Poliantho, Phylaccho,eThelefarcho
Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure Esculapio.
APISTIO. Deh no ti siag r a u e d i r a mentare il cutto, i m p e r h o felti
piace e tu ti ricordi. FRON. Io son côtéro.Furono alcuni,liqualilcriffe
tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscitoTyn daro eno
lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da Esculapiom a
ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada Troezeneecofipquacaufa, fufli
percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyanthoscriue che cosi fuffiuccisopchelibero
lifigliolidi Pretodallasciochezza. E puo le Philarcho esser li cio iter venuto
p che a g i u r o li figlio bdi Phineo. Ma fraquelli cħ háno voluto
refufcitaffeimorci alcunidilorodicono cheresuscitomoltidiquelliche furo
noucefinella battaglia e guerra di Troia. Et altri scriveno che resuscitaffede
qlli chemancarono nella guerra de Tebani. Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho,
che dice come fusse in tal modo percoflo,perche se fforzaua di riuo
careallauita Orione nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la
guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer
ioisefece.E cosi designado ilcerchio,accio demostra Bidouiandarono,ecobarteronoThelamone
e Peleo figlioli di Eaco.c doue Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De:
monio,egiapiunó cóparfe inuerun luogo.APIST.Turac contimarauigliose cose.FRON.Sono
certaméte marauia gliose etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi:
CC cuaniluoghie paeli, etanchora'per infino nellaGermania
etanchoradiroequefto etdouenonmandoépercercare
guelhuomo:Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono Aroeccellete Caftello uno
dellsiuoi discepoli,chelaffoliues ftigiidelle sue malgradeuoli e diabolice
opere perinfinoallo noftrigiorni.Concioliachedesignaualaimaginediquella
chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano
Aatorobbarelesuerobbe,nellaincheftaradiacqua,osianel
kaamola,cocertifacrilegii.e fuperftitioni,etiujlefaceuauc dere la figura
iueftimenti con tuttiim o di erano fucoserua.
tiinrobbarequellacosa.Joconobbiunodaluimanifeftato,
ilqualehauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon
troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa
casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel
tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego lartemagicaS. e caminaffis mo
insiemediecegiorni,pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare
quellecose,lequaliho osferuar to enotato dellemanifefteinfidic del Demonioneanchor
ferebbonosufficientidipuorerenarrarelimodi,cheofferus
elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che
sempre fu,e,et fara nemica dellhumanageneratione,cosiincuttelealtre cose,come
in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quanto al modo che dimostra
dipigliarecarnalipiaceriio le dico che quello lo vuole negare (si com e
contrario a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda
quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no
dihauerloudito)e-riputatoftoltoepazzodafanto.Ago itino il qualescrise con ieftimoniidi
coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro.
HatifouentedelliSelaaniepergersiFauni faftidiofialledon
De,chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico
metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori
trouatidiquellichehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con effe.
Et anchor diceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiili quali di
continuoco grande importunita tentano le donne per avere l a f c i u i p i
š ceri, efouêtenedcuenenoalcocento dellilorobrimatid e fiderij, ecotetidanoifonoderij
Folleti. APISTIO. Ti priegoo, feguitapur olera, FRONIMO. Horquantopettenne
aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc c e t o se tu non
l’hauer a j letro) come ne vemn e Ab b a r e n e l l a
Italiafouradiunavolátefaecada Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodiPhebo.APIST.Ne
ancheque fto-e dame narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo
Philosopho Platonico. FRON. Se bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile
altri.Ilperchetu debbi Sapere qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor
pi morti.E cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa
nuouaqueftifigmenticfittionidifarelicerchi,m a anzifos no
antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li Poeti
Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c avare con il ferro la cavata terra altre,etutte
qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio
namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che
fufferoritrouatida Homero.Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere, liqualiconoscono
fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m e Omero ha seguita
qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora ha imparato essi nomi
congranfole lecitudine econnon menore offeruatione.Ilpercheferiue
GiustinoMartyre,come furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad
esempio delli primi uersi di Orpheo, liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E
coliconuarü riti, costumiciof feruationiogniuno desiderayaecercauadihauer compagnia
familiarita e ragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto come
quelli scende vanto giu nellinferno. che narrafi
interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo etHomero,edicesicome
uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper
quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe
reueritodalli Croroniati, etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto
efferui gran 1 demente cruciati, e martoriati quelli,che refiutaueno
di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere. Ma quanto atrapassare per
ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c c h e t u li
maravegli. Con c i o l i a c h e a m e parc non importa,febene misuri lepenne
delliuenti con una laeta o con uno scanno,ouero con una caura. Non fe dice in
qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, neinluunocarrodaduerote,oda
quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni,oda Olori,accio seguicaffeVes
nere,Medea ouerofulficondottoconduiserpentisottoil giouo comecòduceuano
Circe,ocollilioniamodo diCya
bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in
altosouraEuropeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi
Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato redelle fructa, e questo coltore
della philofophia, m a inueco furono amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia
e melitia del demonio. APIST. E cio mi ricordo d’avere udito narrare feno me
inganno, di Simonemago, ilqualeebbe are diméto diuuolereandareperaria
imperhoinsuamalhora. Conciofiache desidetandodi vuolersaliresouralaria.c fina
gēdodiuuolereascederenellaltocielo,ecosisendogiapore catomolto inalto
dalliDemonii,percomandamétodiSan toPietroapoftolfou laffato uenireconrátaftetagiu
interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte loffa,fu Ioétedella,
uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe
labrigliaalla Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano
inEuropa.Cosisediceeffernarratoda Ruggeri Bacchone. Ma
purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa accio tu no pens
voglia ramétare liuoli di Dedalo, liquali se n o s o n o s e m p l i c e
menzogne, sono al m a c ocre duticomefrodiet inganni del demonio eta nchorajotaci
in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano Cesare. Oltro
dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e succubi,cioe
che si d i m o f t r a p e n o i n f o r m a e FIGURA DI MASCHI e di femine
donand o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri
mor Y tali c o n
certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c
o n uerfeinunaaltrafiguradiffimiledallaprima.Ebenche,co teftohuomo
dotto,fingeffediessere trafinutato,non perho dicefufficóuersoinuno uccello
benchehaueffeufato quel® lamędememedicina. Ma bugiardamente narrafufftramu
tatoi uno asino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina, dubitandoperloerrorehauea
fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano inunoAlino.Il perche
dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a
lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfettoche fendodiuenuto
Asino, hauearetenutolame te,elintellettodi Lucio. Etanchotanó edaistimarechegli
ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a
c h i a r a fama come c o t e s t e cose erano molto inufanzaappodiquelledonnedi
Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno letefsercitauenoineffe.Non lo con
fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio, chepoi boseguito:fingendo
diessereprimaitoin Theffaliaauanti tali perquale cagione non uoi credere
chesiano anchora fimilifpiricipenoftritempiscóciosiachecotestosecôferma có
tálietátiteftimoniicliqualiioglicamétaro,feltipiaceras Quanto
allunguento,iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano el africano
Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco si se ha queste cose i scritte
da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te buffelette
equellooliodiquelladoma puoca istima nella sua CONVERSAZIONE. Di poi esfo m e d
e m e authoreledichiara dicendo.Incontanentefuunta delluny
guento,fufattaageuole dauolare.Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo
non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali
guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. Io non mai
crederei, che ver uno se potesse t r a f f o r m a c e d i una specie
dicreatura in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo per incanto magico.
No dimenoy voleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine fatto fingeffe
diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del
laprimarSedricamenteioreferiscoleparolediquello cosi
diče.pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai alcrecosescrissenelle
quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare ilSamosateno. Cóciosia
cheha fato tomentionedello Thebalicomormorio dellolio trasforma
uadiunaformanellalera edelliremediidellecosecontrodi quegli
incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura. APIST.Perqualcagionecreditusiafattomentione
diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ.
traquelliincanti,efrodimagicedFRON. Segliepurcosa uera egioueuolein queste medicine,penso
siapreso d’Arisotele. Nelle operedecuiholettcohe e ripostofralemera
uigliosecosecomee cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodoredelle
rose.IlchesapendoLucianoeLucio finseno di mancare dallaformadellalino,de
cuiprimaha? ueano fintiessernefigurati.Oueroforse egliequiui nascosta
unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemente eran o infamate le donne
di Thessalia e di Thressa, che fa ceflino delliueneficii e dell’incanti, et
anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a
colli u e r sida quelle, e chiamatelefiffeftelledelcieloilche anchora
cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio, etokro di cio diceuasifuffero inspirate
da Baccho eteranochiamateMis mallonecioeseguacidiBacchoporradolecornasicomefa
ceua ello,etanchoraeranodecreAdonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni
magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che
uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade
Alessandro.loistimo forseche quelle cose paionobugie Quotrebbenohauerpresoprencipiodaquale
che fimilitudinee colore deluero.Pare anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi
güemerauiglioseopere de demonii non senza qualcheue rofondaméto
dellauerahistoriacoloratoer adombratoco molteuanitatie fitrionichedallifonniilicomee
scrittoda. Synelio ilqualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit 1 tecCOG
m i ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do
haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria
etanchorafforzofididimoftrarecome dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore
cose effe fauolefondarefouta diefla verita dalla falra fama del cozzo vuolgo.E
coscredo iofcriuefleVergilioquelperso. La dotca carta teftese di Palephato.
1 il Sole confinteparoleeconaflạipersuafioni,dauaad inte.. derealledonne di
Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. Sfimilifinteopere,ouero dagrande aftutiae
faggacita.Ilper che fu uno greco chiamato Palepharo fe beu
teecofilialtii,daeflisonnü. Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso
di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome
ueduce fuoridel somnio collequalifufferotantotirauefforzatilhuo
minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii,maleficiiec
incantationiramércate,iscritte, enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini, Percia
da Vergilio e detto di quella antifti tee sacerdotessa della stirpe de Mafsilli,
la qualeprometteua disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come
lepiaceua, etdifarefermare lacquane fiumi,difareci
tornareadietrolipianetiedichiamare,etfareuenireafelc notturnemani
cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto
senarranolemedicineerincantidiCirce,diMedea diCar
nidia,equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no
lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si cilianoPhiltre di Simetha
ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo
pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver
toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe
segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia
laLuna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta,
ethorapiuno seue deua, perlainterpositionedellaonibradellaterrafraeflaet
facomelecoduceuainquel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Eco sidiconohaueffero
principio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro qualmenteochelhuomeni
eranotramutaticolliincaptieueneficiiindiuerse figure sig c o m e bugiardamente
et anchora scioccamente parlaueno alcuniouerocheappareuonocosi. Ilpercheparenonsepose
finegare senzaqualcheAtoltitiachealmancoquellinonpa
refsonoaleoadaltriefferefimilecofa.Non tiraccordidi quello che tanto chiaramente
se dice delle figliuole di Prei t o cioe che impieno con falli m u g i t i e voci
di animali li c a m pifet hauer havuto paura dello aratro, eta nchora hauer,cer
cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas uola;Come furonotre figliuole
di Preto, le quali sendogia. Nel fiore della giouentu e conoscendo seefter bellissimeintras.o
nel Tempio di Giunone, spreggiarno la Dea Giunone, cipucandosieffer piu belle
diquella perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia inesse che le pareua fulsero
diuenute in formadiuaccheilperche hauendopauradiportaree con ducereloaratro
fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, con il testimonio di Homero, ma Ovidio
dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus
dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli
haueanofurato alcuni animali dellar) mento d’Ercole. Le qualidi poifuronoreduttease,
etui suilluminatalafantasiada Melampo, ficomefu Lucio con la rosa,m a dicono
alcuni altri che furono fanatee ritornare allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi
uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero e-oche intraffinoin fimilifurie
pazzie, o fufli per ira opera del demonio, overo pe t qualche corporale
infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuolie diuerfici medii. Ma tu debbe
faperecome bebbero li Demonii uariie'diuersi modi, eranchoracótinuideingan
nareli uomini, in quelli tempi, nelli quali teneuano loim perio quali ditutto
il mondo, e non solamente per lifacerdo
dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora
ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalsoPichia,et
fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi
et ins. uiluppauono YA ma non gia con quello il quale seguito
Varrone nelle Satire. Conciosiache quello Litio e-moltopiu anticodicoteftoálcro
Menippo. Ben che so che tu intendi quello SIGNIFICA (SEGNA) Larva pur anche io i uoglio ramentare, per
parere disaperlo, etanchora per raj zentarlo lecosihora horanon te
occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre dello inferno,ouero ispauenteuole scon
bodellanoue ele Lamieeranochiamarealcuneimagini
efpiripimoltibrammosidelafciuiamorie fozzipiaceri,es mche grandemente
desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi
nonpaionoatecotestecoseche hauemo narrato s o p r a molto similia quelle
delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe dellanoftra etades APISTIO J
n neticaame paionoquasisimili.Iiperchehoraoccorrono a me quelle parole dell’antica
fauvola cioe Larva Lamia etIn cubicongutellodiersodi Ausonio. a l a p p a
don o quelli nelle precipitanti rouine delle scclerita, defotto colore della sagrata
religione.E perciopigliauono Qaric formeediuersefigure.Colisepuouedere e consider
rue Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro
in formadiuariifimulacri efigure,
ficomediceVergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco
efuriosa Tigre, squammolo dragone,et una Lioneffa con lafuluante egialda
ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno
quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche
liramenia in che m o d o agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal
tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o
fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee
conuertonseinuariefi gure et alcunauolcaincontinétechesisono rappreferiate
fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna
Larua,ofiaLamia,forrocoloredị hono. Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd
Dimofte bomio, Nora e-la stregain cunede fanciulli, con
quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo pur del altre cose,
a c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di
menzogna.Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu finitiuersidelliueneficii,et
incanci,dellilicquorie beuande delli Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate
fauole fchedociele Nenie Marsice cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come
sono iscritte e cantar ce o n una certame Laphora e similitudine quelle cose
che cosi leleggono,cioè che lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci,
perledonneche lusinghe e chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa
eche fufferoinstillasili amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful;
secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza
enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio tuintenda,come
non erano imperhodetci incantine anchora detre representatio
nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no, epauentaueno
quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente OliffeasfaltoCirce
incantatrice non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu
presodal ciecoamore,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non
nuocenosenza malegna sottilita delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi
leno ufano uariearti, e diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza
libidine,ecolli deletreuoli,etlafciuipiacerie
giranoasequellichesonodeditiallauita ciuilecollericchez ze,econladouicia
epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche puochi con lepromiffioni,econ laesca
dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese sono dati allistudi della
philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben. Sedito, come quelli
inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non perhofarodiscoftonedisconueneuole
dalli antichi scrittori. ConcioGache ritrouiamoiscrittoda Herodor."
todellamenfa del Sole eda Solino essere-istimata quella
unacosadiuina.CosiritrouiamonellauitadiApollonio Tia teo neo, il convito
della spora di quello, la quale era riputata una dell’antidette Lamie o delle
Larve, o delle Lemire, eLeg.
giamoiui,coine'sparbinoliyasipareuanodioro,ediariento cheeranofulamenfa. Etincoralmodo
appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure chiamate da
PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie,ofianoLate ue.Gia
puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto
alleLamieritroviamoin Esaia dicono.co m e raprefentanouna certa
beftialefigura:AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper leLamie
alcune ombre e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di Geremia
propheca dellem a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia derivato
cotefto nome dal lapiaree spaccare etalquantidallaLama cheuuoldirenok
sagine,oispauenteuole pronfondita.E dequindicredono sia derivato quel detto di
Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta, Lamia deluentre.
AnchornarrafifusserogiaconduttinelspettacolodaProbo Cesare molte Lamie.lu qual
m o d o e figurafufli quella che inganno Menippo,non lipuofacilmentecofidaaltroluogo
conoscere quanto da Philostrato. Ilqualenarracomefu ingamnatoeffo Cinicoda
quellaLamia,quandoellafinger ua dipigliarloper marito, edipigliare amorosi
piaceri con quello. Parimente i o i s t i m o fulfi uccellato e s c h e r n i r
o Apollonio, quando
erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera
ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemoltofacileadouereamare
Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri
coneffi,enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio
Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe voglie d eamorosi
pia propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del
fcontrodelliDemonii incubicioede quellichefedimostra no allhuomeniinfiguradifemine,
ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano coftoroche siano leLamie dihur
mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin giu c e r i n e condutti
da desiderii libidinosi, ma sono codutti dalla malgradeuole invidia
adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano nelprecipitiodelli
peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella infernale dannatio ne doue efli
sonoconfinatiinperpetuo.Etacciobenintens di infiamniano cotestisceleraci
spiriti,limiferi mortali,cioc quelliimperhochefilaflinoingannare
conunacerrafiam m a occoltam a non sono efiinfiammarida quelli ilche ini
teseilpoeta Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi
arricordochefunariatodallaStre ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti
suoi in diuerse e uarie forme haueainu sanza diconoscerlo e
didiscernerlodalliueri animali delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua
che uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era
certificatacome quelloerailDemonio.Anchoranarraua qualmenteera apparechiata alla
fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc conueniuano
tuttiauantila Donina, olaaukti del Demonio che seprefen
cainformadiornatiffimaReina con la quale fiammadice uache incontinentesecocceuanolecarni
femagnono ren dolemoftrateadeflafiamma.NonbrammanoliDemoni ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper
managiare, ma il tutto opera d o e p r o c a c c i a n o, a c c i o c o n d u c
h i n o lanimee corpi delli miseri mortali nelli sempiterni tormenti. Laqualcosaiofocheegreggiamente
inrenderai,quando udiraiparlareDicafto.Ilqualefebenuedoenonme ingan
palocchioperillongospatio,ame pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO.
Benben Fronimo. Tume haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe
nobile caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet
egreggieueftimente,ecintodiuna moltoornata {pata manon
credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi
sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora
delliChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu
per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta deluia, gio,
gio,chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento, et anchor puoffi
dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime
con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e
dechiaratione chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f avesse io ben
poi mastigare H o r n o perdiamo tempo, ma te priego seguita lagia comeciara
disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e,et anchor sarebbe
necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere fatiffarealletue
humaniffime petitioni No dimen o pur mifforzaro disatisfare a tequáto
porro.Cerraméte farebbeuilan,eprivodiogniciuilita,feionon efsaudillele
gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia conosciutoperlesueresposte
che grandemete desideraebrå ma deintéderelauerita.Dunqueseguirolagiacomenciata
difputatione,eramétaro quellecosepaionosianoaccómo date
aquelloauãtidiceuamo,quáto imperhociconcedera ilbreue spatiodel uiaggio.Giahauemodettomolte
coseet hora uoglio rispóderea quello tu dicesti cioe che pare nale
accozzanoleStregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe dal Demonio,eparenó
fecóuieneno inreferire quelle cose delloro sceleratogiuoco,ma cheunadiceinunmodo
elal t r a i n altro modo.I o ti r i s p o n d o che c o t e f t o puo intervenire o dalla paura o da mancamento
di memoria, perche c o m u n a mēte fonogroffe de ingegno,ecôradinedella
uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia del demonio il qual
inganamano tuttoiunmedemomodo.E questofacilme. te lepuo conoscere
nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione dejucătationinello
Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella Italia E fében
consideraraj conoscerainon esserfimiletotalmen re quella
PharmaceutriadiTheocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede
ueneficii et incanta, menti unacon altra.Anchorpareinteruenisseilfimilenel li
oracoli e responsioni. Perche altre erano le resposte date per le femine inspirate
dalli malegni demonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture e coragini
della terra, et altreanchoraquellecheeranopigliate dallhuomeniper
lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem piadiPaliphea,elmiedici
Calabresianchora essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi
Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora
emanifefto comesoleuanogia Geceaffaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon
solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino.
De cuiraccontaHerodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione.Anchoraleggiamo
q u a l m e n t e h a u e u a n o consuetudine li oracoli di dare r e f p o n f
i o n i p e r il mezzo di intier esta r u e, e t a n c h o r a p e r m e z e
zestatue,emediante anchoralecolombe,ofufferoquelle neriaugelliofusserofemine
disimile nome non loro,m a benfoperdetci modireuelaueno lecoseocculte etannon
tiaueno quelle doueano uenire. Anchora assai auttori narrano come erano farte
simili cose nella India per il mezzo del Jalberi, et in Dodone,ficomeracconto
Aleffandro Magno, Erano anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo
furore narrauano marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni
ficoteitietaltrimillimodi,ediuerfiJunodallaltroda reuela re
lisecret,etannonciare le coseda uenire.E come erano di uersespecie
egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del
fceleratorico,damanifestarelecoseoccoltee da aluontias rele cosedouéano
uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora
diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano
diuersili incantamentidelliantichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon
manco sonofatticon altrisceleraticoftumie modi
chesoleuanofarequelliantichiRomani.Sononarra tealcunecosedallanticoCacone
nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache retrouansipuochile poffonoleg
gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono imper r h o i scritte DA UNO
UOMO ROMANO, il quale fu censore e triomphatore.
Ma quanto al moto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio,equanto alluogodoue
fono ferma te tunon tidebbimerauegliare.Concioliachequellacosa che
e conåfuoingegno.bugiardafallace,etingannaterigcel i e quellafouentdee
piumodi,ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaallasemplicita.Ecorefto
efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo
conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola
fedariietanchorcótrarii.Etanchefpeffeuol
tequelloferitrovanellenarratehistorie.Ilperche fouente seritrovauna
cosascriccainduoietremodi,etanchorqual che uoltaipiuan o cótrarioallalto,esepurno
seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse uarii.lisimile intecujene anche
nelleoppenionide philofophi, enellerefponfionidelli(auii
(ureconfolti,edoctoridelleleggicosipontificalicome imps riali conciolia che se
citrouano varieoppenioni circauna medema cosa,Manon maiimperhoseritrouaquea
cofa, nelle (criteurede Theologgi, eccettoche inquelle cosel e quali sono
communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle
cose,lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio
ecosinella! He cose, che pertengonoallafedecatholica,etaliicoftumi,
chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a
fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia
etinunomedesimomodo.Ve to-e-chelDemoniomalegno amicodelladiffenfione,con c o m
e -e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio.Ilquale
uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle favole
delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai Thuomeni
nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio
ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della
dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti
modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari) ecosicomeanchoragia tirauaafe
de donneci uole con il mangiar e beuere, imbriagaree con lila sciui e carnalii
piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e donniciuole c o n
fimili piaceri,liquai c o m e chiaramente sevede furono sprezzati da moltiPhilofophi.
M a quelliPhilosophiconduceuaconmoldimodiafarliado es tare
cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti
cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e
per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialliOracoliquero
all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione dellecose
chedoucano uenire,etanchor pareuali diotteniredicflereportatiperariaindiuersi
luoghi.E coj fendofatięquestecose con loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano
ad una certa cosa diuua,che pareua fufli 11€ dettihuomeni.Inchemodo
altramentehauerebbonopor furouedeteli discepolidiPichagoraestofuo
precettoredif. putarehoranelTaucominiodiSicilia erhoranelMetaponto in cosi
puoco spacio di tempo. Per quale via f e r e b b e camminato per aria Empedocle
et anchora in che modo cofi
prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares Coluigrandementeseinganna,chicrede,
che Apollonioconosceffeaffaidellecose doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per
paurahauciserodiluiFengeuaiDemonioaftutoemalus gio diesseremartoriato da
luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della
finta diyi nita,dipoipiuforcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente
rouinalenellipeccati.Ilche facilmente,fel apiace. i puotrai conoscere dal fine
che seguicaua.Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e
dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco
loqualehaneacoduttoatantasciocchezza checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom
pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu uomo mortale m a
douentar ebbe Dio immortale. I m p e r h o c o f i f c c i f f e q u e l l o in
greco, m a i o l o voglio e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io
f o n o a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte,
quero di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello
pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda
pensare chelipaffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel
Demonio. Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche
diceua come gia erapassatalanimafuaperdiuerficorpicon questepar role grecelequale
uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun
fanciullo.Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelliDemonii,econilfpiandore
dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof
lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o. La quale morte no
parech e h a i n d e g n i a alli n j a g h i e t i n c a n t a t ori. Con cio
la che variamente egli e narrata la morte di esso, perche sono alcuni che dicono
come mori in Efeso ultriscriuenochemoriin Creta, et alquanti alttiuuolero
mancale inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors
toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri
frodidelDemonio manico etheb befinefrapuoco spatio di tempo.Cofianchoraporloayenimento
di messer Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li oracoli
respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa.
toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale apercaméte,epublicamentedauaresposteperliora
coli per liIdoli,eper lialtrim o d i hora fcioccamente parla
perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono
uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares
Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin
piacerigloriofredigrar de reputatione ne tempi eroici, ma anchor nella era di
Alessandro e di Scipione. Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che
eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E questomolto
maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia raccontare
cioe cheera credutoche il D e. monjo chesefaceuachiamareGiouein
figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne, econOlympiamogliere
delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin
coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che erano la f c i u i libidinosi e
carnali, m e s c h i a n d o l i i mpe r h o a n c h o r a ce ii LIBRO
PRIMO qualche colore di supexftnione.Anchor cofiinelengaquelli,
liqualidefiderauenoebrammauenola gloria,eteccellencia
dellihonorimondani,liqualitendofralimortalijeshauédo
proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano
hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce
pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidiOrpheo comesendouiuofu riputaco
profeta. et dipoisendo morto fedice comedauaanchorresposte.È dicefle
anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando
effocaponelLelbono;etiuihabito in unaspauenteuoleruppeuaticinando
edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedellaterra.Portauanoanchora in
yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoanchee
gliuiuietil simile fecero doppo la morte, Ilche forsigrandementedefidero Empedocle
quidouuol. fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac contano
comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte
efaceuanobattaglia,ecombatteuanoa cheandauanoacacciarelianimali,e
luccellietcayalcauay poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca,
uainRhodope. Oltradiciodiceuano comenosolamente fc
eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con
lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora
spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriue Philoftrato,leappresentarsiAchillealTianeo,
etal Vinicore Protesilao,collaltri Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche
lafaccia juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli,perchefonodialtra maniera emolto
diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor
diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio
ediDittoCreteseteinsegnanoquantosianolijnganoi delli Demoni
elebugiechehannopoftonellacognitione etanchorti dimostrano li noceuoli deliramenitie
pazziem e fchiatecollibuonicoftumi.PerilcheseilDemonio hauccel
laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti
credendo lecose contrarie e totalmente da l ragione discoste quale ci la cagion
ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere molte co feuarie, diuerfe
collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo comanda quellofceleratonemico
deIddioachiunqueuuo leentrarenellasuaprofana,maledetta,eperfidecópagnia, che
abbandonino, preggino,etischetniscanolanoftra fan:
ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare
neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o
n la luce n e a n c h o r la fuperftitione c o n lareligione.Io credo ilmio
Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di
quello decuihauemocóferitoedisputatoetanchordi quellodel qualemi
addmandasti.Deh pertuafedeuediuedicola la Strega, che
eagrandiragionaméticonildotto Dicafto, nel portico avanti del sagrato tempio.
APISTIO. Diovi fa lui. DICASTO.Siatie benuenuti checosa ci e dinuouoil no
sciocchee pazze econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a
anzimaggiormente cu tidebbi merauigliarediquellaeccellentesapientiaepoffan
zadiChrifto,laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto ilDemonio malegno
eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tantiReggi,Oratorie Philofophi delle
genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni sapientia hora a
pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e donniciuolecioeche lo adorano
loreuerisco Do Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu
odebbemacauegliarechequello chegiaerafatropublicamenteintuttoilmondo,etfratutte
le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli
picciolie Atretti canto n i d a p u o c h i secretamente, e con ignominia e vergogna.
Ma voglio che tu ben consideri una cosa de divina gloria frale altricioeche
glie, tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede de Chrifto
chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadinoallesuefcelerate congregarioni,eradunamenti,
neanchorauuole che conuersino con luile Streghe,fepris manop
reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar
nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano Kro Apiftio
APISTIO. Loaddimandamo ate.Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti quiaccio
udiama imperhosettipiace. STREGA.Heime doue fon giuntai DICASTO.Non hauerpauraM
a ftapurdibaonauoglia eparlasenzauerunpauéto.E nodubitaredi meconiciofia
cheiotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata feliberamente
manifeftarai iurre letue maluagic opere
lequalinonpoffonopioefferpalcofte,perchegiaho
liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato fi comeiográdemenre
desiderauo. STREGA. Deh heime. Gia lho detto. Per qualecagionedonque m
itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere? DICASTO,Perche e
bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi duoiu e r ditre
teftimoniim s anchoraauantidipiu etalfineanchedavantidituttoilpo polo
fedesideridiIchifare la pena tassata dalle leggi e a voi che setidi
questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, et ā r e f c e l e r a t e o p
e r e c h e uoi facte. Vero e che gia h i a m e promessodi
faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso
seruandotulepromiffioniantidectedinon confo gnartinellemani delGiudice ilqualeincontanentetifareb
b e brugiare cosi sendoli c o m a n d a t o dalle leggie.Hor a noir tic o m a n
d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta quelle c o s e c h e t u h a i f
a t rco o l i demonii nel giuoco o s t a nel corso come fedice uolgarmente. STREGA.
O maladerco giuo co, O giuocoinfelicepme, mala fortemia.DICASTO.
Nonbisognanohoralagrime,non piantineanchegridi. STREGA.Deh
perquellahumanitaetgentilezzachein uoi leritroua,priegouinon mi uogliateperhora
piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi concedermiun puoco fpatio di tempo,etun
puoco diriposo narta tantochemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa
chehofatto:DICASTO. Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda.
Conciosia chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo,
conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti
perinfinoadomanc.Doue haueromolto Alberti (Bologna).
Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to
fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed
the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was
vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes
with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the
senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina,
fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni.
Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con
Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni
i propri interessi umanistici e storici. De viris illustribus,
Bologna 1517 Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede,
in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum
libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il
Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Nel 1521
tradusse dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto
Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè
compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso
De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse
tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes,
il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte
al capitolo generale nel giugno del 1530. Negli immediati anni successivi
rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le
decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i
bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città
dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione
scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici
Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la
Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata nel 1539 ed ebbe
altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi. Il 20
gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un incarico
che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché dal 1538 è sempre
documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna probabilmente dal 1550
al 1551 o al 1552, anno della sua morte. L'opera più importante
dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de' Medici, è
senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna nel 1550. Ad
essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due traduzioni
latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per la prima
volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella del 1568 è arricchita dalle
incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca
in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e migliorandola
nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando scarso spirito
critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per la parte
storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come Raffaele
Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi precedenti
ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella critica
storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di tempi e di
valore molto diversi, senza prendere posizione». Opere: “De viris illustribus ordinis praedicatorum
libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et
sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle
illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene
il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella”
(Bologna); “De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De
claris viris reipublicae venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue,
Scheda delle opere di Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A.
L. Redigonda, “Liber consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento
di San Domenico, Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma
religiosa in Bologna, Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro
Alberti, in Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L.
Redigonda,Dizionario biografico degli italiani,
1, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta
Italia in Il Genio Vagante, Bergamo, Leading Edizioni, Massimo Donattini, Il territorio emiliano e
romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni,
Michele Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in
Rivista di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia,
introduzione e note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele
Orlando, UNI Service, Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open
MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia
su culturitalia.uibk. ac.at. LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO.
Dialogo composto dall’illustre e molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco
Pico della Miradola, segnore e conte della Concordia, volgarizzato dal Ven. P.
F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine de predicatori. LE PERSONE
PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA. APISTIO. FRONIMO. Dimmi do
juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove vendon sil herbe tanta
moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche noi un puoco, accio
intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco di no potra
esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi in ver un luogo.
FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO. Tu
giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per
givo con e periscrizzo, ma da dovero
Conciosia che debbia esser molto aggrado a ciascun huomo, ma maggiormete
alli gentili e curiosispiriti, di conoscerequello, loqualeno
hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque tuteaffas tichi
diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque il
timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute
conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha
a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO.
L.oaugello Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino
sapere, di qualeger nerationedeucceglistalastregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio
chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai
lettocomeeraconsuetudinenellitem pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte
& uscileftreghe cosa che seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput:
tare in uecediuiuandenel pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto
piu utile cosa chenon sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che
am e pa te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre
peruederla tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO.
Habitano in questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di
caminare diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i uedeftiueruna,
forfihora fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO. sepur accadesse
cheiopoteffi ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio cerco,eno giamai
citrouato Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio chel bubo annontia
porge, etlega. Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi
nalalaStrega.Machecofasiaquella ediqual naturanon
ficouiene.EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello cheers scritto deltelitreghecioe
che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli fanciulli Da uiciaticorpiaforzaegreffo.
Er egliecoteftoluto offeruato pinsino dalli Heroici tempi.' Quellecosemimoueno
che sono venuti nellithalamieca. mere delli Proci, o siano delli lascivi e
molto libidino f i buo, m e n i cosidicendo Ouidio.
Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda questoanimale,
Aforbeilsanguelaftregainfelice, Delle Streghe gia preda fortelangue, Puoco
iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto allanodrice. bb ii conuna
uergadispinobianco,ecome hannoqueda natu. ra,chesonobråminosiucceglicon ilcapo
grandeliocchi fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie
rampinate,eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere
nella spauenteuole norte. Hor tu uediilnomela cagione diello,lanaturadiquella
&ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo
quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi
differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fuccianocollelabralepopedi
fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai
fanciulliniuola spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto
conlalinguainfatiabile, Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o
paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe,tanto diuer Se
nontidimoftranouaria& anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano
ragioneuolmente da efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali
faceuano Ifficiodellanudrice, ma quefti
sonodaesserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni dalli quali sono occisi li
fanciullini havendoli bevuto il sangue.FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre
ftociascunadiquestecosefauolė,che altro.Mapurseuisiri
trouaqualchecosadiueronellafauola iopenso chenosias nonatiquelliaugelline
anchor che se ritrouano nell’inerf. Chalquinto giorno depuo fuo
natale Perche quelli fallititolieuerfifiguranola uecchianelliuc..
celli.Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe. moniiiniquiemalederti cio
echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma della nodrice ethora
dellainlidia triceE. questomaggiorméte am e lofa credere percheildi monio insegno
il gioueuolerimedio contro delleincantas
tioniemaleficii,perliqualieranoligatelementi delli huo. mincio n inganni,econ
bugie,dicédofeefferGiano,uuole
uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödaleporteetuscii
cioeconlafrondadeunoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda
le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua,
e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma
anzi a b omine uoli sacrileg i i e p o rtéri, Bé che anchor de quelle confedica.
Se poil infanti per la nocte oscura Vesla ecilsangue elucca con l’esperti
Labrila Strega,etintalmodo leindura. Cosine tempinoftrihannoconsuetudinedifare
le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no
nellecune lifanciullininuouamente natiche piangono,
dipoiincontinentiledanoligioueuolirimedi.Liquali, co m e
ainepare,fonoinloroarbitrioepoßianzadi doucrlida re.
Imperhomeritamenteegliederiuatoquestonome.Ca ciofia che queste crudeli e
bestiali femine lequali cometter no tanta scelerita,anchorda noi cosicome
dalliantichi có. uenientemente sono chiainate streghe. APISTIO. Hammi parccute
inganni Fronimo pariméte inlieme con moltialtri,cte dendo efferuero,quello
chescioccamentediceiluolgo,cio eche fononoloche feminuzze,lequaliuolanonellamezza
notte alliconuiti, et alli delette uoli piaceri carnali delle L e
muriofianodellispiritidellaoscuranottee che coteftefer minuzze guastinocon
incantilifanciulli.FRON.Meglio potreste parlare Apiftio.Conciosia che non mai
fe debbe di re checoloroerrano,liqualiapertamenteracontano quello che hanno con
locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci, &
amaeftraticólacõținuaprati 1 caet. sa
etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto
cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che
lhabbia creduto. FRON.Per qleragione,no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. Per
que f t ca, i n e che pare una cosa da ridere, come fiapoffibicleh e fattoun
cerchio et unto il corpo conno fo che unguento,in un'certo m o d o
erdettepoicecceparole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze
incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot. te
souradiunolegnodettoGramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua
oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper
aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi
Diana,ediHerodiade, E cheiui giocano,mangio no beueno,epiglianolasciui piaceri-
Puruoglioanchorago giungere un altra cosa cioechenonseaccozzanonelparla.
re,ficomeho inteso conciofiache alcune dicono efferpors tate
moltoinalcoperaria, eraltrediconoappo diterraalcu ne
confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon
ilcorpo,epoifermarsisouradellagodi Benacoo Hadi Garda, nellialtiffimimonti,
vero e chemolto m i m e raueglio chenondicanodiefferefermatefouradellacima
delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste a
caminare con Anaslagora, Ilquale c -u n n o n t e n o n guar i d i s c o s t o
d a Colophon e da continue neui affediato, dacuife conoscelatempeftadebbe
venire. Altrecacótano de esser portate allo albero di Benevento det
tolanuce,rebême arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto
nelterritoriodi Arpino piu vicino (fico/ me io penso) alla nostra regione
coueroportate alla Quer zadi Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß
costo perchenon sono portate per infino nella Cheronea alla Querza di
Alessandro Dicesianchorache hannoamo rosipiacerecolli demonii che non sono
congiunti colli corpirei on oerro. Ma dimmi un puoco Apistio, che toccame ci
possono esser cotefti? Chepiacerisouerinche modo poffo no
haueceamorosisolazziconqueftauana, efintaimagine, efeminedicarne. Ho letto
come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno pigliano
piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO. Dimmi
Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO. Io
ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo
ragioneuole, e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni
effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento
confermate,edipoi quiuifermarsi ma moltomaggiornéte-eropera di
coluicheedigradeinna gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni.
Donqueseiocolletueragioniticonduceroa cosentirea quello
decuihoratenemenibeffe,chefaraipoi? APIST. Che faro: Vimetterolemani. FRON.Pensocheancho,
sauiinetteraiipiedi. APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO. Deh non
hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece
desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione, collipiedi, e cole
mani, ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi, e
desideri,sefaraiquelloche tudietprometti. FRON. A me pare perilragionarehauemofattocaminan
do,chetuseimoltodottonellipoetidelliGentili,etanchora affai siaornato
dePhilofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche
beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari. C o n c i o f i a c h e e g l i
e m o l tomaggiorelacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo chesouerchia
le forze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia attribuire,
hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra demente
necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi,
diconoscereetintenderenon triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e
latina. Et anchore gli e bisogno d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti
extratti fuori delle crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili
poeti emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon
grandiCómétariidaAristo. tileetanchora dallialtriPhilofophidelladottaschuola.
Anchor c h o r h o i n t e s o c h e s e sforzo il Plutarcho con
uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente
ognicosadiuinaethumana,aquellociecoHomero.Ilperá cheionegoeffereinme
quellacognitione perfetta,sicome tudi,m a no nego
pechoesfermiessercitatoalcuna'uolta per piaceredellanimomio inleggere
quelli,licomeiocercaffi lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo
qualchi amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli
riputato ignorante, fra li amici e compagni, o c curendola occafione.Cosi
senóho beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti
author i a l m a c o (l i come di r e si suole). I h o t o c c a t a e gustat a
con l a l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credochetusiaconduttonon dalla
arrogantia ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita.Laqualeuertu
ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii.Imphoche dimostri di n ó
effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj
dettodellanotitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita.
CóciosiachePlatoneetAristorelesonopieniditer ftimoniidiHomero,diHefiodo di
Simonide, Pindaro,E u ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia
molto dottonella philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E
cosiho istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con
gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti,lequalidi. mostrihoradino sapere.
APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare
dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come
prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamia oppenionem a
anzi hai tu posto inme maggiore dubitatione con corefta tua risposta.APII STIO.
Chehaicudetcos 'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero
eiche meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da
quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho
desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare.
ĄPISTIO.Io DELLE STREGHE 8 to matrimonio prometto de
responderti liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai
tu giamai letto in Omero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO.
Si. Et anchora ho letto in chemodo andodaquella gére chefa ua
nellaariacaliginofa.cioe che erasenzauiada poceruien trareiraggidelsole.FRON.Dimmeseltepiace,checol
lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON.Nó leggiamoquel
leparolediessoingreco,lequalihoraledicoinnoftrouolga' re cosi.lo fu quello che
cauai fuora allhora allhora ilcoltello
dellacosciasecominciaidicauareconilscarpellounafofla, allamisuradiun
gomito,indiequindiincerchioetancho
rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbresAPIS. Tu hai molto
egreggianiétedechiarato il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole.
FRONIMO. Credo habe bilettono una uoltam a louéte ligiuochidiDiana,eliballi
collecompagne Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON.Anchoriopensochetuhabbiri,
uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide
Anchiseconlaimpudica Venere eco 1 ·me fufferogeneratimolti Baroninellitempiantichidicote
Atifallacietingánatori Dei. APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO.
Tu debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi
huominicheerano deditialleopererufticaliepastoralisico me eracommunamente lauitadi
quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici.CosianchoraingannoilD e m o
nioPeleo pastorepadrede Anchise,conciolia che effo fico me
diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna
ombrosa ualle forto laimagin ne dellaThetide dea marina.cosiiftimatadalle
genti.Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento
demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There
madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno
altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere
commettere iltupro, n e anche lo a d u t l e r ' o, ma fi n s e d i u g o l e r
e contra h e r e i l l e c i. di quelli
to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere carito Hesiodo,
ficomeseuedenellescritturede Greci.Ilpchepra babilméte dicemoeffer da quiui
deducto,cioedallo effem. pio diHefiodo,loEpithalamiodi Catullo.Ilche anchorr
dimoftrailtenoredelverso,chiaramétedemostradoquella ancica facilitaetquestodechiarailcontinuo
e sollecito ftu diodi CatulloiseguitareliGreci,pcotalmodo che ispreffe
leintegreElegiediCallimacho,alcunauoltarendedoilsen
timentoetaltreuolteisprimendoleparole.Anchora inganno per co t a l via il
demonio facilmente Paride, focto figura di quelle ore Dec. Il quale fi come
scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresadi Helena, nosolamentepafceualeper
corelle del suo padre, ma anchorli Tori, eptal modo feue ftiuadelleueftimente
che pareuàun rozzopaftore etigno fantebifolco. Le quali cose, ampiamente con
sue scritture quellolerecita. In questo modo fece inuisibile il Demonio quello
Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel
lo.cioeconquellapartegiacesottolagemma,epretiofapic tra,ma ciuolta,conlaquale
Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina.Il perche pigliauono li Demonii uariee
diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano uolgate,altreuokic
leformaucnoineffigiadelleterrestre Nymphe efouerere presentauenolefiguredelle
Dee marine.Epercheeracredu c o c h e s e nascondessino, con il suo ingegno sotto
le unde del e tacqua accio puotessino effer ucdure etpiu fortemente abr
bruggiare licuoridellimiserie ciechj huomeni, ftauanoa p po delliprofondiluoghi
dellacqua doue dicontinuoper driuoltarediquellacuisiritroualacandidafpumaet
iuipa teuafussero appodellenodrici,doue eranonudrigateda güellet Anchora
appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano
appareffe Giunone ad Tinone, De cuifingononascelliilsuppositi Coéraur. Cofifin
gono d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p pieta di Giove fu f f i
trasferito ne cieli, e fussi fatto secretariodiqllo,etpõstoufficio hauefli
ardireditécareGiunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando ad Ilione
una nuuolaafimilitudinedi Giu donc. cn la qualegiacedoIrionc,ecredendosi
dipigliare co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i
demonii apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie
incantarioni,collequaliiogannauenolegenci, popoli,
etinescaueriocondoppiafrodeilcozzouolgo,ecan choralidorcihuomeni.Ecosinonlaflauauerunocoloreet
imagine della diuinita (la quale con diuerse menzogne e bugie sifforciava di
usurparlaetafeattribuirla) conlaquas
le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo,afarsiadora
re,etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee to che anchora
eglivergognasse Diana,laquale fugeuadi amare lauerginita
accioforfitirassiasesllihaueanoiodio la fozza libidine. I dl e c u i gioco,
havemo scoperto in di forccio del demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale
senza uetun dubbio chiamauefli Diana )raccótaueno fuffi fuergognata da
Endimione,eda Hippolyto licome dimot AtraFirmiano,fotto il nome di Diana
ilqualepensava pers r e n e s e a quel luogo. E il nome di Virb i o c i o e di
tre volte huomo elaleggemolto diligétemente cercata,doue fedo ueffe ponere,elemani
medicheuolidiEsculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe debbost credere fuffero
tutte queke lecose fauole etillusionidelliDemonii,epurfeuifuffe qual che
cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene
Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che
Efculapioalfinefupoipremiatoconlamercede epremia
delliincantadoriche/elamiserabilemorte. Concioliache eglienarrato da
tuttiliantichiauthori,qualmente fuoce
cisodalfulguro,benchefianouarieoppenioniperqualecat. gione,e per quale
sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST. Dice Vergilio che
cosifufliocciso, percherefufciso Hippolyco dalla morte.Nonfajcu
cheduolendoHippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca
uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodallamadregna Phedraetsendofalitosouradellacarretta
e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,f icomenarra Seneca, cadėdofuoci
delcarroploimpito,etracciatoemorto,sendoitoneline ferno fu resuscitato,efanato
da Esculapio Veroie-chedice Plinioche cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r cagio
nediCastoreedipolucefigliuolidiTjidareRe di Oebalia quello che scrive Tertulliano, cioechefur
& arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea
effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us
dietanellanarrationedicotefta cosa chenellamorte diR o molo.Maegliebenvero
checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra gli Dei,benche coftui fuffe
uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio
digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben péfaflılifattisuoiquelgradehuomo,ilğleerasoftēta
toetenatocórâreifperedaun certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le
ubrigaua di far. FRONIMO. I n altrom o d o scriffero Panaiaso,Poliantho,
Phylaccho,eThelefarcho Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure
Esculapio. APISTIO. Deh no ti siag r a u e d i r a mentare il cutto, i m p e r
h o felti piace e tu ti ricordi. FRON. Io son côtéro.Furono
alcuni,liqualilcriffe tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscitoTyn
daro eno lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da
Esculapiom a ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada
Troezeneecofipquacaufa, fufli percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyanthoscriue
che cosi fuffiuccisopchelibero lifigliolidi Pretodallasciochezza. E puo le Philarcho
esser li cio iter venuto p che a g i u r o li figlio bdi Phineo. Ma fraquelli
cħ háno voluto refufcitaffeimorci alcunidilorodicono
cheresuscitomoltidiquelliche furo noucefinella battaglia e guerra di Troia. Et
altri scriveno che resuscitaffede qlli chemancarono nella guerra de Tebani.
Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho, che dice come fusse in tal modo percoflo,perche
se fforzaua di riuo careallauita Orione nolorefuscito imperho.Anchoreglie
moltomanifefto uedere la guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e
tuttilimodi delcome batrer ioisefece.E cosi designado ilcerchio,accio demostra
Bidouiandarono,ecobarteronoThelamone e Peleo figlioli di Eaco.c doue
Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De: monio,egiapiunó cóparfe inuerun
luogo.APIST.Turac contimarauigliose cose.FRON.Sono certaméte marauia gliose
etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi: CC cuaniluoghie paeli,
etanchora'per infino nellaGermania etanchoradiroequefto
etdouenonmandoépercercare guelhuomo:Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono
Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli,chelaffoliues ftigiidelle sue
malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo
noftrigiorni.Concioliachedesignaualaimaginediquella
chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano Aatorobbarelesuerobbe,nellaincheftaradiacqua,osianel
kaamola,cocertifacrilegii.e fuperftitioni,etiujlefaceuauc dere la figura
iueftimenti con tuttiim o di erano fucoserua.
tiinrobbarequellacosa.Joconobbiunodaluimanifeftato,
ilqualehauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon
troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa
casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel
tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego lartemagicaS. e caminaffis mo
insiemediecegiorni,pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare
quellecose,lequaliho osferuar to enotato dellemanifefteinfidic del
Demonioneanchor ferebbonosufficientidipuorerenarrarelimodi,cheofferus
elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che
sempre fu,e,et fara nemica dellhumanageneratione,cosiincuttelealtre cose,come
in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quanto al modo che
dimostra dipigliarecarnalipiaceriio le dico che quello lo vuole negare (si com
e contrario a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda
quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no
dihauerloudito)e-riputatoftoltoepazzodafanto.Ago itino il qualescrise con
ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro.
HatifouentedelliSelaaniepergersiFauni faftidiofialledon
De,chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico
metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori
trouatidiquellichehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con
effe. Et anchor diceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiili
quali di continuoco grande importunita tentano le donne per avere l a f c i u i
p i š ceri, efouêtenedcuenenoalcocento dellilorobrimatid e fiderij,
ecotetidanoifonoderij Folleti. APISTIO. Ti priegoo, feguitapur olera, FRONIMO.
Horquantopettenne aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc c e t
o se tu non l’hauer a j letro) come ne vemn e Ab b a r e n e l l a
Italiafouradiunavolátefaecada Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodiPhebo.APIST.Ne
ancheque fto-e dame narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo
Philosopho Platonico. FRON. Se bentutiramenta taiqueftecole,
facilmerecrederaile altri.Ilperchetu debbi Sapere qualmente comenciaffe
cutiaquella Necyomátia di Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor
pi morti.E cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa
nuouaqueftifigmenticfittionidifarelicerchi,m a anzifos no
antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li
Poeti Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c avare con il ferro la cavata terra
altre,etutte qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio
namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che
fufferoritrouatida Homero.Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere,
liqualiconoscono fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m
e Omero ha seguita qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora
ha imparato essi nomi congranfole lecitudine econnon menore offeruatione.Ilpercheferiue
GiustinoMartyre,come furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad
esempio delli primi uersi di Orpheo, liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E
coliconuarü riti, costumiciof feruationiogniuno desiderayaecercauadihauer
compagnia familiarita e ragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto
come quelli scende vanto giu nellinferno. che narrafi
interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo etHomero,edicesicome
uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper
quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe
reueritodalli Croroniati, etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto
efferui gran 1 demente cruciati, e martoriati quelli,che
refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere. Ma quanto
atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c c h
e t u li maravegli. Con c i o l i a c h e a m e parc non importa,febene misuri
lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno,ouero con una caura. Non fe
dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle,
neinluunocarrodaduerote,oda quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni,oda
Olori,accio seguicaffeVes nere,Medea ouerofulficondottoconduiserpentisottoil
giouo comecòduceuano Circe,ocollilioniamodo diCya
bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in
altosouraEuropeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi
Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato redelle fructa, e questo
coltore della philofophia, m a inueco furono amenduoiingannati da Pallade cioe
dalla astutia e melitia del demonio. APIST. E cio mi ricordo d’avere udito
narrare feno me inganno, di Simonemago, ilqualeebbe are diméto
diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiache desidetandodi
vuolersaliresouralaria.c fina
gēdodiuuolereascederenellaltocielo,ecosisendogiapore catomolto inalto
dalliDemonii,percomandamétodiSan toPietroapoftolfou laffato
uenireconrátaftetagiu interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte
loffa,fu Ioétedella, uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili
quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe labrigliaalla Dragoni,
edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano inEuropa.Cosisediceeffernarratoda
Ruggeri Bacchone. Ma purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa
accio tu no pens voglia ramétare liuoli di Dedalo, liquali se n o s o n o s e m
p l i c e menzogne, sono al m a c ocre duticomefrodiet inganni del demonio eta
nchorajotaci in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano
Cesare. Oltro dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e
succubi,cioe che si d i m o f t r a p e n o i n f o r m a e FIGURA DI MASCHI e
di femine donand o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri
mor Y tali c o n
certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c
o n uerfeinunaaltrafiguradiffimiledallaprima.Ebenche,co teftohuomo
dotto,fingeffediessere trafinutato,non perho dicefufficóuersoinuno uccello
benchehaueffeufato quel® lamędememedicina. Ma bugiardamente narrafufftramu
tatoi uno asino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina,
dubitandoperloerrorehauea fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano
inunoAlino.Il perche dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a
lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfettoche fendodiuenuto
Asino, hauearetenutolame te,elintellettodi Lucio. Etanchotanó edaistimarechegli
ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a
c h i a r a fama come c o t e s t e cose erano molto
inufanzaappodiquelledonnedi Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno
letefsercitauenoineffe.Non lo con fermoanchora quefto, quello Platonico
Apulegio, chepoi boseguito:fingendo diessereprimaitoin Theffaliaauanti
tali perquale cagione non uoi credere chesiano anchora
fimilifpiricipenoftritempiscóciosiachecotestosecôferma có
tálietátiteftimoniicliqualiioglicamétaro,feltipiaceras Quanto
allunguento,iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano el
africano Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco si se ha queste cose i
scritte da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te
buffelette equellooliodiquelladoma puoca istima nella sua CONVERSAZIONE. Di poi
esfo m e d e m e authoreledichiara dicendo.Incontanentefuunta delluny
guento,fufattaageuole dauolare.Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo
non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali
guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. Io non mai
crederei, che ver uno se potesse t r a f f o r m a c e d i una specie
dicreatura in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo per incanto
magico. No dimenoy voleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine fatto
fingeffe diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del
laprimarSedricamenteioreferiscoleparolediquello cosi
diče.pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai
alcrecosescrissenelle quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare
ilSamosateno. Cóciosia cheha fato tomentionedello Thebalicomormorio dellolio
trasforma uadiunaformanellalera edelliremediidellecosecontrodi quegli
incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura.
APIST.Perqualcagionecreditusiafattomentione diquellemedicinedicose
lequalieranoinagiucorio,econ. traquelliincanti,efrodimagicedFRON. Segliepurcosa
uera egioueuolein queste medicine,penso siapreso d’Arisotele. Nelle
operedecuiholettcohe e ripostofralemera uigliosecosecomee
cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodoredelle
rose.IlchesapendoLucianoeLucio finseno di mancare dallaformadellalino,de
cuiprimaha? ueano fintiessernefigurati.Oueroforse egliequiui nascosta
unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemente eran o infamate le donne
di Thessalia e di Thressa, che fa ceflino delliueneficii e dell’incanti, et
anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a
colli u e r sida quelle, e chiamatelefiffeftelledelcieloilche anchora
cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio, etokro di cio diceuasifuffero
inspirate da Baccho eteranochiamateMis
mallonecioeseguacidiBacchoporradolecornasicomefa ceua
ello,etanchoraeranodecreAdonidee furiauanocollo complicate ferpefrali
Thyrliconillusioni magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore
e veneratione che uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia
madre delgrade Alessandro.loistimo forseche quelle cose paionobugie
Quotrebbenohauerpresoprencipiodaquale che fimilitudinee colore deluero.Pare
anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi güemerauiglioseopere
de demonii non senza qualcheue rofondaméto dellauerahistoriacoloratoer
adombratoco molteuanitatie fitrionichedallifonniilicomee scrittoda. Synelio
ilqualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit 1 tecCOG m i
ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do
haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria
etanchorafforzofididimoftrarecome dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore
cose effe fauolefondarefouta diefla verita dalla falra fama del cozzo vuolgo.E
coscredo iofcriuefleVergilioquelperso. La dotca carta teftese di Palephato.
1 il Sole confinteparoleeconaflạipersuafioni,dauaad inte.. derealledonne di
Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. Sfimilifinteopere,ouero dagrande
aftutiae faggacita.Ilper che fu uno greco chiamato Palepharo fe beu
teecofilialtii,daeflisonnü. Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso
di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome
ueduce fuoridel somnio collequalifufferotantotirauefforzatilhuo
minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii,maleficiiec
incantationiramércate,iscritte, enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini,
Percia da Vergilio e detto di quella antifti tee sacerdotessa della stirpe de
Mafsilli, la qualeprometteua disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi
come lepiaceua, etdifarefermare lacquane fiumi,difareci
tornareadietrolipianetiedichiamare,etfareuenireafelc notturnemani
cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto
senarranolemedicineerincantidiCirce,diMedea diCar
nidia,equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no
lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si cilianoPhiltre di Simetha
ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo
pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver
toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe
segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia
laLuna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta,
ethorapiuno seue deua, perlainterpositionedellaonibradellaterrafraeflaet
facomelecoduceuainquel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Eco
sidiconohaueffero principio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro
qualmenteochelhuomeni eranotramutaticolliincaptieueneficiiindiuerse figure sig
c o m e bugiardamente et anchora scioccamente parlaueno
alcuniouerocheappareuonocosi. Ilpercheparenonsepose finegare
senzaqualcheAtoltitiachealmancoquellinonpa refsonoaleoadaltriefferefimilecofa.Non
tiraccordidi quello che tanto chiaramente se dice delle figliuole di Prei t o
cioe che impieno con falli m u g i t i e voci di animali li c a m pifet hauer
havuto paura dello aratro, eta nchora hauer,cer cole
cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas uola;Come furonotre figliuole
di Preto, le quali sendogia. Nel fiore della giouentu e conoscendo seefter
bellissimeintras.o nel Tempio di Giunone, spreggiarno la Dea Giunone,
cipucandosieffer piu belle diquella perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia
inesse che le pareua fulsero diuenute in formadiuaccheilperche
hauendopauradiportaree con ducereloaratro
fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, con il testimonio di Homero, ma Ovidio
dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus
dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli
haueanofurato alcuni animali dellar) mento d’Ercole. Le qualidi
poifuronoreduttease, etui suilluminatalafantasiada Melampo, ficomefu Lucio con
la rosa,m a dicono alcuni altri che furono fanatee ritornare
allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero
e-oche intraffinoin fimilifurie pazzie, o fufli per ira opera del demonio,
overo pe t qualche corporale infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuolie
diuerfici medii. Ma tu debbe faperecome bebbero li Demonii uariie'diuersi modi,
eranchoracótinuideingan nareli uomini, in quelli tempi, nelli quali teneuano
loim perio quali ditutto il mondo, e non solamente per lifacerdo
dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora
ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalsoPichia,et
fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare
ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins. uiluppauono
YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire.
Conciosiache quello Litio e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Ben che so
che tu intendi quello SIGNIFICA (SEGNA)
Larva pur anche io i uoglio ramentare, per parere disaperlo, etanchora
per raj zentarlo lecosihora horanon te occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre
dello inferno,ouero ispauenteuole scon bodellanoue ele
Lamieeranochiamarealcuneimagini efpiripimoltibrammosidelafciuiamorie
fozzipiaceri,es mche grandemente desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo
chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi nonpaionoatecotestecoseche hauemo narrato s o
p r a molto similia quelle delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe
dellanoftra etades APISTIO J n neticaame paionoquasisimili.Iiperchehoraoccorrono
a me quelle parole dell’antica fauvola cioe Larva Lamia etIn
cubicongutellodiersodi Ausonio. a l a p p a don o quelli nelle
precipitanti rouine delle scclerita, defotto colore della sagrata religione.E
perciopigliauono Qaric formeediuersefigure.Colisepuouedere e consider rue
Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro in
formadiuariifimulacri efigure,
ficomediceVergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco
efuriosa Tigre, squammolo dragone,et una Lioneffa con lafuluante egialda
ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno
quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche
liramenia in che m o d o agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal tente
figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o fiaspauenteuoleimagine
auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee conuertonseinuariefi gure
et alcunauolcaincontinétechesisono rappreferiate fpareno,epiunon feuedeno.
Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna Larua,ofiaLamia,forrocoloredị hono.
Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd Dimofte bomio, Nora e-la
stregain cunede fanciulli, con quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor
piuolcre, ramentiamo pur del altre cose, a c c i o f e possa donare egual
giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di menzogna.Credo chetu fappi,qualmente
sonoscrittiiu finitiuersidelliueneficii,et incanci,dellilicquorie beuande delli
Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate fauole fchedociele Nenie Marsice
cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come sono iscritte e cantar ce o n una
certame Laphora e similitudine quelle cose che cosi leleggono,cioè che
lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci, perledonneche lusinghe e
chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa eche fufferoinstillasili
amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful;
secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza
enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio
tuintenda,come non erano imperhodetci incantine anchora detre
representatio nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no,
epauentaueno quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente
OliffeasfaltoCirce incantatrice non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi
comená fu presodal ciecoamore,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti:
Li quali non nuocenosenza malegna sottilita delli demonii.
Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi leno ufano uariearti, e
diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza libidine,ecolli
deletreuoli,etlafciuipiacerie giranoasequellichesonodeditiallauita
ciuilecollericchez ze,econladouicia epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche
puochi con lepromiffioni,econ laesca dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese
sono dati allistudi della philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben.
Sedito, come quelli inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non
perhofarodiscoftonedisconueneuole dalli antichi scrittori. ConcioGache
ritrouiamoiscrittoda Herodor." todellamenfa del Sole eda Solino
essere-istimata quella unacosadiuina.CosiritrouiamonellauitadiApollonio Tia
teo neo, il convito della spora di quello, la quale era riputata una
dell’antidette Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg.
giamoiui,coine'sparbinoliyasipareuanodioro,ediariento cheeranofulamenfa.
Etincoralmodo appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure
chiamate da PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie,ofianoLate ue.Gia
puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto
alleLamieritroviamoin Esaia dicono.co m e raprefentanouna certa
beftialefigura:AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper
leLamie alcune ombre e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di
Geremia propheca dellem a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia
derivato cotefto nome dal lapiaree spaccare etalquantidallaLama cheuuoldirenok
sagine,oispauenteuole pronfondita.E dequindicredono sia derivato quel detto di
Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta, Lamia deluentre.
AnchornarrafifusserogiaconduttinelspettacolodaProbo Cesare molte Lamie.lu qual
m o d o e figurafufli quella che inganno Menippo,non
lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato.
Ilqualenarracomefu ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua
dipigliarloper marito, edipigliare amorosi piaceri con quello. Parimente i o i
s t i m o fulfi uccellato e s c h e r n i r o Apollonio, quando
erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera
ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemoltofacileadouereamare
Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri
coneffi,enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio
Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe voglie d
eamorosi pia propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del
fcontrodelliDemonii incubicioede quellichefedimostra no
allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano
coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin
giu c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono codutti
dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano
nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella
infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo.Etacciobenintens di
infiamniano cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali,cioc
quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono
efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto
fuogo. Conciosiachemi arricordochefunariatodallaStre ga che quando se
appresentata il demonio allisentimenti suoi in diuerse e uarie forme haueainu
sanza diconoscerlo e didiscernerlodalliueri animali delliqualiello hauea pigli
ato la forma in questomodo.Lepareua che uiintraffenel pettouncertocalore,etuna
certafiamma,per laquale era certificatacome quelloerailDemonio.Anchoranarraua
qualmenteera apparechiata alla fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua
nelgiuoco, douc conueniuano tuttiauantila Donina, olaaukti del Demonio che
seprefen cainformadiornatiffimaReina con la quale fiammadice uache
incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren
dolemoftrateadeflafiamma.NonbrammanoliDemoni
ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare, ma il tutto opera d o e
p r o c a c c i a n o, a c c i o c o n d u c h i n o lanimee corpi delli miseri
mortali nelli sempiterni tormenti. Laqualcosaiofocheegreggiamente
inrenderai,quando udiraiparlareDicafto.Ilqualefebenuedoenonme ingan
palocchioperillongospatio,ame pare gia fiaallemani,a combattere con la strega.
APISTIO. Benben Fronimo. Tume haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno
degnoe nobile caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet
egreggieueftimente,ecintodiuna moltoornata {pata manon
credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi
sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora
delliChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu
per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta deluia, gio,
gio,chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento, et anchor puoffi
dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime
con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e dechiaratione
chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f avesse io ben poi mastigare
H o r n o perdiamo tempo, ma te priego seguita lagia comeciara
disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e,et anchor sarebbe
necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere
fatiffarealletue humaniffime petitioni No dimen o pur mifforzaro disatisfare a
tequáto porro.Cerraméte farebbeuilan,eprivodiogniciuilita,feionon efsaudillele
gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia conosciutoperlesueresposte
che grandemete desideraebrå ma deintéderelauerita.Dunqueseguirolagiacomenciata
difputatione,eramétaro quellecosepaionosianoaccómo date
aquelloauãtidiceuamo,quáto imperhociconcedera ilbreue spatiodel
uiaggio.Giahauemodettomolte coseet hora uoglio rispóderea quello tu dicesti
cioe che pare nale accozzanoleStregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe dal
Demonio,eparenó fecóuieneno inreferire quelle cose delloro sceleratogiuoco,ma
cheunadiceinunmodo elal t r a i n altro modo.I o ti r i s p o n d o che c o t e
f t o puo intervenire o dalla paura o da
mancamento di memoria, perche c o m u n a mēte fonogroffe de
ingegno,ecôradinedella uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia
del demonio il qual inganamano tuttoiunmedemomodo.E questofacilme. te lepuo
conoscere nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione
dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella
Italia E fében consideraraj conoscerainon esserfimiletotalmen re quella
PharmaceutriadiTheocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede
ueneficii et incanta, menti unacon altra.Anchorpareinteruenisseilfimilenel li
oracoli e responsioni. Perche altre erano le resposte date per le femine
inspirate dalli malegni demonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture
e coragini della terra, et altreanchoraquellecheeranopigliate
dallhuomeniper lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem
piadiPaliphea,elmiedici Calabresianchora essihaucano confuetudine, con&
Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi
Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora
emanifefto comesoleuanogia Geceaffaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon
solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino.
De cuiraccontaHerodiano chean doa Pergamo perlanti decta
cagione.Anchoraleggiamo q u a l m e n t e h a u e u a n o consuetudine li
oracoli di dare r e f p o n f i o n i p e r il mezzo di intier esta r u e, e t
a n c h o r a p e r m e z e zestatue,emediante anchoralecolombe,ofufferoquelle
neriaugelliofusserofemine disimile nome non loro,m a benfoperdetci
modireuelaueno lecoseocculte etannon tiaueno quelle doueano uenire. Anchora
assai auttori narrano come erano farte simili cose nella India per il mezzo del
Jalberi, et in Dodone,ficomeracconto Aleffandro Magno, Erano
anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore narrauano
marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni
ficoteitietaltrimillimodi,ediuerfiJunodallaltroda reuela re lisecret,etannonciare
le coseda uenire.E come erano di uersespecie
egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del
fceleratorico,damanifestarelecoseoccoltee da aluontias rele cosedouéano
uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora
diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano
diuersili incantamentidelliantichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon
manco sonofatticon altrisceleraticoftumie modi
chesoleuanofarequelliantichiRomani.Sononarra tealcunecosedallanticoCacone nellilibridella
agricoltu raditátasciocchezzache retrouansipuochile poffonoleg gere senza gran
riso etischerno.Nondimeno furono imper r h o i scritte DA UNO UOMO ROMANO, il
quale fu censore e triomphatore. Ma
quanto al moto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio,equanto alluogodoue fono
ferma te tunon tidebbimerauegliare.Concioliachequellacosa che e
conåfuoingegno.bugiardafallace,etingannaterigcel i e quellafouentdee
piumodi,ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaallasemplicita.Ecorefto
efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo
conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola
fedariietanchorcótrarii.Etanchefpeffeuol
tequelloferitrovanellenarratehistorie.Ilperche fouente seritrovauna
cosascriccainduoietremodi,etanchorqual che uoltaipiuan o
cótrarioallalto,esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse
uarii.lisimile intecujene anche nelleoppenionide philofophi,
enellerefponfionidelli(auii (ureconfolti,edoctoridelleleggicosipontificalicome
imps riali conciolia che se citrouano varieoppenioni circauna medema cosa,Manon
maiimperhoseritrouaquea cofa, nelle (criteurede Theologgi, eccettoche inquelle
cosel e quali sono communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle
cose,lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio
ecosinella! He cose, che pertengonoallafedecatholica,etaliicoftumi,
chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a
fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia
etinunomedesimomodo.Ve to-e-chelDemoniomalegno amicodelladiffenfione,con c o m
e -e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio.Ilquale
uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle favole
delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai
Thuomeni nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio
ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della
dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti
modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari) ecosicomeanchoragia
tirauaafe de donneci uole con il mangiar e beuere, imbriagaree con lila sciui e
carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e
donniciuole c o n fimili piaceri,liquai c o m e chiaramente sevede furono
sprezzati da moltiPhilofophi. M a
quelliPhilosophiconduceuaconmoldimodiafarliado es tare
cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti
cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e
per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialliOracoliquero
all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione
dellecose chedoucano uenire,etanchor pareuali
diotteniredicflereportatiperariaindiuersi luoghi.E coj fendofatięquestecose con
loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano ad una certa cosa diuua,che pareua
fufli 11€ dettihuomeni.Inchemodo altramentehauerebbonopor furouedeteli
discepolidiPichagoraestofuo precettoredif. putarehoranelTaucominiodiSicilia
erhoranelMetaponto in cosi puoco spacio di tempo. Per quale via f e r e b b e
camminato per aria Empedocle et anchora in che modo cofi
prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares
Coluigrandementeseinganna,chicrede, che Apollonioconosceffeaffaidellecose
doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per
paurahauciserodiluiFengeuaiDemonioaftutoemalus gio diesseremartoriato da
luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della
finta diyi nita,dipoipiuforcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente
rouinalenellipeccati.Ilche facilmente,fel apiace. i puotrai conoscere dal fine
che seguicaua.Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e
dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco loqualehaneacoduttoatantasciocchezza
checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom
pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu uomo mortale m a
douentar ebbe Dio immortale. I m p e r h o c o f i f c c i f f e q u e l l o in
greco, m a i o l o voglio e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io
f o n o a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte,
quero di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello
pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda
pensare chelipaffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel
Demonio. Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche
diceua come gia erapassatalanimafuaperdiuerficorpicon questepar role
grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun
fanciullo.Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelliDemonii,econilfpiandore
dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof
lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o. La quale morte no
parech e h a i n d e g n i a alli n j a g h i e t i n c a n t a t ori. Con cio
la che variamente egli e narrata la morte di esso, perche sono alcuni che
dicono come mori in Efeso ultriscriuenochemoriin Creta, et alquanti
alttiuuolero mancale inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose
polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors
toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri
frodidelDemonio manico etheb befinefrapuoco spatio di tempo.Cofianchoraporloayenimento
di messer Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li
oracoli respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei.
Nelliqualierainusluppa. toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello,
dquale apercaméte,epublicamentedauaresposteperliora coli per liIdoli,eper
lialtrim o d i hora fcioccamente parla
perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono
uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares
Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin
piacerigloriofredigrar de reputatione ne tempi eroici, ma anchor nella era di
Alessandro e di Scipione. Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che
eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E questomolto
maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia raccontare
cioe cheera credutoche il D e. monjo chesefaceuachiamareGiouein
figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne,
econOlympiamogliere delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte
checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che
erano la f c i u i libidinosi e carnali, m e s c h i a n d o l i i mpe r h o a
n c h o r a ce ii LIBRO PRIMO qualche colore di supexftnione.Anchor
cofiinelengaquelli, liqualidefiderauenoebrammauenola gloria,eteccellencia
dellihonorimondani,liqualitendofralimortalijeshauédo
proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano
hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce
pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidiOrpheo comesendouiuofu riputaco
profeta. et dipoisendo morto fedice comedauaanchorresposte.È dicefle
anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando
effocaponelLelbono;etiuihabito in unaspauenteuoleruppeuaticinando
edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedellaterra.Portauanoanchora in
yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoanchee
gliuiuietil simile fecero doppo la morte, Ilche forsigrandementedefidero
Empedocle quidouuol. fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac
contano comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte
efaceuanobattaglia,ecombatteuanoa cheandauanoacacciarelianimali,e
luccellietcayalcauay poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca,
uainRhodope. Oltradiciodiceuano comenosolamente fc
eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con
lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora
spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriue
Philoftrato,leappresentarsiAchillealTianeo, etal Vinicore Protesilao,collaltri
Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche lafaccia
juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli,perchefonodialtra maniera emolto
diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor
diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio
ediDittoCreteseteinsegnanoquantosianolijnganoi delli Demoni
elebugiechehannopoftonellacognitione etanchorti dimostrano li noceuoli
deliramenitie pazziem e fchiatecollibuonicoftumi.PerilcheseilDemonio hauccel
laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti
credendo lecose contrarie e totalmente da l ragione discoste quale ci la cagion
ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere molte co feuarie,
diuerfe collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo comanda
quellofceleratonemico deIddioachiunqueuuo
leentrarenellasuaprofana,maledetta,eperfidecópagnia, che abbandonino,
preggino,etischetniscanolanoftra fan:
ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon
laueritanellete n e b r e et oscurisa c o n la luce n e a n c h o r la
fuperftitione c o n lareligione.Io credo ilmio Apistio,chehormaitutifiaaffaj
certificato e chiarico cosipian pian caminando di quello
decuihauemocóferitoedisputatoetanchordi quellodel qualemi addmandasti.Deh
pertuafedeuediuedicola la Strega, che eagrandiragionaméticonildotto Dicafto,
nel portico avanti del sagrato tempio. APISTIO. Diovi fa lui. DICASTO.Siatie
benuenuti checosa ci e dinuouoil no sciocchee pazze econtrarielunadellakira
nelleStreghedenoftritempirM a anzimaggiormente cu tidebbi
merauigliarediquellaeccellentesapientiaepoffan
zadiChrifto,laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto ilDemonio malegno
eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tantiReggi,Oratorie Philofophi delle
genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni sapientia hora a
pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e donniciuolecioeche lo adorano
loreuerisco Do Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu
odebbemacauegliarechequello chegiaerafatropublicamenteintuttoilmondo,etfratutte
le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli
picciolie Atretti canto n i d a p u o c h i secretamente, e con ignominia e
vergogna. Ma voglio che tu ben consideri una cosa de divina gloria frale
altricioeche glie, tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede
de Chrifto chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadinoallesuefcelerate
congregarioni,eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile
Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar
nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano Kro Apiftio
APISTIO. Loaddimandamo ate.Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti
quiaccio udiama imperhosettipiace. STREGA.Heime doue fon giuntai DICASTO.Non
hauerpauraM a ftapurdibaonauoglia eparlasenzauerunpauéto.E nodubitaredi
meconiciofia cheiotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata
feliberamente manifeftarai iurre letue maluagic opere lequalinonpoffonopioefferpalcofte,perchegiaho
liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato fi
comeiográdemenre desiderauo. STREGA. Deh heime. Gia lho detto. Per
qualecagionedonque m itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere?
DICASTO,Perche e bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi
duoiu e r ditre teftimoniim s anchoraauantidipiu
etalfineanchedavantidituttoilpo polo fedesideridiIchifare la pena tassata dalle
leggi e a voi che setidi questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, et ā r
e f c e l e r a t e o p e r e c h e uoi facte. Vero e che gia h i a m e
promessodi faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso
seruandotulepromiffioniantidectedinon confo gnartinellemani delGiudice
ilqualeincontanentetifareb b e brugiare cosi sendoli c o m a n d a t o dalle
leggie.Hor a noir tic o m a n d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta
quelle c o s e c h e t u h a i f a t rco o l i demonii nel giuoco o s t a nel
corso come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo co, O
giuocoinfelicepme, mala fortemia.DICASTO. Nonbisognanohoralagrime,non
piantineanchegridi. STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi
leritroua,priegouinon mi uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi
concedermiun puoco fpatio di tempo,etun puoco diriposo narta
tantochemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO.
Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia
chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo,
conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti
perinfinoadomanc.Doue haueromolto ápiace re,felno uifera graue
uiritrouiacipresenti.APISTIO.NO parui Pauigraueaquellihuomeni
desiderosididottrinadiparz cicledesuoipaesia andarperinfinoaGnosocittadiCreta
allaspeluncae tempiodiGioueperudireleleggiualiee di Puiocomomento di
Minoffe,ediLicurgo,etferaame dun que faftiddioi
caminareunmiglio,accioimparqiuellecose lequalinfeo
sonovere,almancopaionouerifimilipladispu tatione di Fronimor FRONIMO.Hora mi
callegromolto perchetiucdotantoiftimareiionm e nialauerita, puran choraseben
nolhai certa cu faialmaco contodellafupility dinediefi.IIperchenoseraanchorame
grauedicitornare quidalnostroCaftelloperessercitiodelcorpo.DICASTO
Cofi.dunqucretornareridanoi,etioue aspettaro con gran
difio,Andatidunqueinpace,E tu guardianodellacarcere ritorna colala Strega,etu
Strega pensa benil turco, accio il polli ordinatamente,
efenzauerusiabugianarrare. IL SECONDO LIBRO DEL DIALOGO DETTO S a r e g a d e l
S i g n o r e Gio u a f r a c e s c o Pico dalla Mirandola &c.
molgariggiato dal Veń.P.F.Lcadro delli Albert Biologuese. LE PERSONE RAGIONANO.
DICASTO,APISTIO, STREGA. FRONIMO, DICASTO. O fiatreeben uenuti.Atempo
fecigiúti,con Icioliachehorahoraseracondutto fuoridella pregionelaStrega
esecamenataauktidinoi. APISTIO. martoriare quel lachegiahacófeffatorAPIST.Deh
buonadónano-e-ita to portato quiuerunacosa da sormérarti Vero e cheFroni moetio
Gamouenutiquisolamétcp uedertietudirtietan chor p aiutarti quáto
potremo.FRON.In Heritacosi-e c o m e ha detto Apifio.STR,Deh quäto grauemetemi
mars torianocotestemanettediferro,ecotefinodiegroppidelle legatureDeh cheioho
pauran o mi siendatimaggiori tor menti. F R O N.TipriegoDicafto,comanda
chelasciolta. D I C A S T O. I o son cöteto.O caualiere supresto sciogliela.
STREGA Hormai cominciaro'un SNN DELLE STREGHE 10 Ecco coco che e-menata
legata. STREGA.Eime,cime.Inquestomodo ferua sile p r o m i s s i o n i P e r q
u a l c a g i o n e u u o l e t i poco diripigliar lispiriti
DICASTO. Sta purdibuonauogliaperchetipromettodi n o n m a n c a r e i n u
e r u n a c o s a d i quello ti ho promesso o u t
chetuserualepromiffionididireiluero senzabugia edi narrareognicosaa punto
diquelloferaiinterrogara.Siche racconta iltuttointeramente. Vi prometta di
feruarequello cheajho promessoliberamétefenzaalcuna menzogna.DICASTO.Dunque
comeciadinarrarequel lecoselequalilaltrogiorno,etalichorahierifuiltardoam e
folo cöfeffaftiscriuendoleilNotaio.STREGA.Seuoilerar mencarete,elereducerete
amemoria,colleuoftré intercon gationirefponderocon quelordine,cheuoreti.DICASTO
AddimadatiuoiApiftioeFronimo,concótentolepofsetiin terrogare
cócioliachehoggifarauoltroquestospettacolo, cotesta impresa.Ma eglie be uero
che uoglio'effecuipresente acciola ammonisca
leusciffefuoridellacarreggiataçlıcome fifuole dire cheritorniallauiadrita.
APISTIO.Hor luStre g ad i m m i a n d a f t i m a i a l g i u o c o d i D i a n
a o u c r o d i H e r o d i a d e r STREGA. Si sono bene andata al giuoco m a
chel fia o diDianao diHerodiadenon il-fo.Conciosia chepia non houditoramentare
quelligiuochi.FRONIMO.Gia tedif Si b i e r i Apistio come il Demonio ingannava
i uomini in diversi modi. Il perche in queltempo, nelquale era adorata Diana
dalle genti, et era molto honorato e glorioso iln o m e d i q u e l l a p e r
ilm o n d o, p a r e u a u n a e c c e l l e n t e c o s a d i p o t e r
uiessereannoueratofralecompagnedieffaDiana.Benche
inpechofufferodetteuergininondimento eranochiamare Nimphe cioespore,
ecofilepiaceuadieffereaddimandate f p o s e, m a m a g g i o r m ē t e l e a g
gra di valo effetto et opra, ben che non fuffecercatacon
legitimorito,ecostume.Concia. siache erano iui continuiftuprietadulterii.
Perilche serie ueHomero nellisuoiuerfifouentequellacolgata sentens
tia,Nellamefchiaraamicitia.Imperho fauolescamentedi cano comely Dei falsioueroquelli
antichiBaconiebbero amorosipiacericonlacompagniadiDiana,ouero diunal
traNimpha,odiNapea odiOreade,odiDriadeFengrua noefferleNapeeleDee
dellefelue,dellicolliemonticelli, dellifiori,ficomediceuano esserele
OrcadeNimphe delli monici I monni,ele Driade Nimphedelli alberi, Anchora
credeuang li Gentili,etilgozzouolgo,chefufferoinamoracęleN i m
pheMarineedellifiumi E. Colifouenceleggerai di Cirene
Leucotheafintadallantichieffecla Dea Matutacioelauro ta chiamata Dea marina p c
h e e r a s o u r a s t ā r c a k c e m p o m a i s mino Et anchor
ritrouacaiscrittodiCimgdecene cioediquel laDea,laquale faceua acque care le
onde marinesche, secondo le loro fauole, nomanco uederai iscritto molte cose
del laltrefinte Dee odelmare,odellifiumi.E percheglipareua efleremolto piu
sicuro diconuersareperlim o n i,che som mergersi nellonde delacque
etanchorpareuaeffercosa pia aggradeuole.dimitromettersinelle
cacciagionidiDiana,che inuilupparfinelliprocellosiflutidi Tritono enelleondema
r i n e s c h e, in per ho maggiormente se deleitarono nel giuoco di Diana, ene
balliesalci di quella ficome cosepiuaggrade uoli, gioconde,e piaceuoli.Anchora
tico dapoi molti altri conlusingheuolimodi sottolafiguradiHerodiadeIdumea
laqualegrandementesedeletrauanelliColazzeuoliecraftu. Fattamentionedicotefto
giuoco di Diana, ouerdiHerodia
debelleleggiedecretidePonteficidouifiramécanoleleg. gifuronocófermateper
ilConcilio.Nelqualfu fatto quel l o f t a t u t o, che si dove f f e r o s
cacciare le maghe et incantatrici. FRONIMO.Deh ptoafededimmiDicafto,iltimitueffere
cotefto quelmedemo giuocode cuinefattomemoria juic DICASTO.lote dito ilmio
Fronimo.Sono uarieoppenio nidiquestacosa,conciosiachesonoalcuni,chedicodnoe 6,
etsonoaltriche uuoleno siauna noua heresia.FRONIMO Dirolamiafancasia.Iocredochequelloinparcefiaantico
etinpartenuouo,cioenuouoquantoallenuouefuperftitio niceerimonie
iuihorsaesatino,ficometudicefti,parlando da Philosopho,chelfüfliantico quáto
allaesseruia,etsiuouq quanto alliaccidenti. DICASTO.Ben ben Fronimo,cerca mente
tuhaiiniaginatouna eccelletedistintione;conlaqua
keaffaicofefesciorånochehannodependentiada quelluo 8o,
dacuihannopigliaioalcunigrandeoccasione dierrore
Iftimadochecotestedonnuzzesianosempreportatealgiuo . RAZO. BIBLIOTECA
EMANUELE LOORIO ) ff co solamente con la fantasia enoni con
ilcorpo. APISTIO. I D u n q u e ru istimiche le Streghe F a n o sempre
strafferrite e portatealgiuococon ilcorpo DICASTO.Nonfongiadi quefta oppenione
che sempre fano portate cola al giuoco con il corpo, perche a l c u n a v o l t
a f o n o f u s e r i t r o u a t e p c o c a le modo accostato f o u r a di un
travo c n tanto profondo sono chenofemiuanocosaalcuna benchefufferofortemērebuf
sate,etelledipoicredeuonodiefferstateportatealgiuoco, é nondimenoeranojui.
Anchora altreuoltesonostateuedo tefralegambe de aleurie,efra lecoscie,esserui
delle feope feratecon tanta fermezza chen o sepuoreuano cauare fuori rida che
fouente sono portare al giuoco e con ilcorpo e con lanima,et altre uolte pur
credendo di efferportateinquelmodo,folamentesono iuipresentecon
lafaritafiaetimaginatione: DICASTO. Eglie alcunauolr ta preftigiodelDemonio
ouerofalsademostrationeetuna aftura delusione etaltreuolte efecondo che
uoglionolestre ghe.Imiricordodihauerelettonellilibridifrate Artigo,e
difrateGiacoboThodeschiMaeftriinTheologia dellordia ne de
fratiPredicatori,qualmenteeglienarraro diunaftee, ga laquale pensitu
occorca questo
quellechedormiuano,collequalecofe credeuanoeffe dieffereportate al
giuoco.APISTIO.Per qualcagione pafsaua quellispatiiintuttiduoi e modi fecon. do
che le piaceua,cioe con ilcorpo uigilando etanchor (per fe uolte folamēre con
lafantasiacioe quâdo le rincresceua i uiaggio.Ilpercheallhorafedendonelletto
ethauedodetto alcune diaboliche parole, regli rappresentavano tutte le com e!
del giuocoi una uerdanuvola etoscuracome lacqua det mare
ficomeuifufferorealmentestatepresente. FRONTIMO.Che cosa responderefti
alliaduerfarii. DICASTO. Primieramente cosiglirispondereicheiomi maraueglio
come uoglianomisuraretuttilimodidellisacrileggidelle fuperftitioni edelle
magiche uanitadi,con uno folom o d o delviaggio
alcunauoltaferuatoinunaregioneepaesedel mondo dauna certafcelefte
compagniadidonne profane e rubelledinostrafede ecosivoglianoiftéderequestacosa.
atuttelepartidelmodo.Et anchordireiche pěsanoforfidi Capere
scrittore di maggio te autorita dicoluilo racconta.Conciosa che fano
aflaicore daGratianoaltrimenteiscritteerivolte,enarraremolto di nerfeda quelle
chefuronopublicate nellicöcilii,edallion teficiIperche credoche coteftafussiuna
cagione fralaltre perlaqualeironfußlipercoralmodo approuatalacompilaa
tionedelDecretodaluifatta,dalliVenerabiliPadri della cose cheseucdeano in
quella regione,lequale sonod a n nate perilConcilio.Nondimeno se fanno imperho
affat core dellequalinonseleggefufferofattejui I fapere táto che glipäre
di potere coftrēģere tampiao f á n za
delDemono,laqualehebbedalprincipiodellasuacrea
tioneinunomoriario.Dipoianchoradireichecostoronon polionopatire che siaispofto
quelcestodellalegge co ilgiu diciode altrui,liqualicertameresonodi maggiore
dottrina acciachecauano fuoriquelle egiudicio,dieffi, coselequali pertegono
allanatura,da quellechesonopertinentiallafe de catholica.Anchorfefforzatiodi
dimoftrarelaperiamente cfenza uergogna chenon siaquellacosa,laqualenó poffor n
o negare chenon sipossa fare etanchorache non siafatta qualcheuolta,eccetto
senonlauuolenonegarecon suagiá de profomprione,etignominiacioe negando le
migliara deteftimonii.Mafotlianchoruno dimaggioranimodime direbbediuuoler
uedereun piufedele effempio delle leggi delConciliochefuffiramentatoda un
Chiefa, chefullofferuatainuecedileggiedallaquale non
fuffilicitoauerunodiappellare.Horlupuranchoragliuud côcederequelloche diconom a
consideraben cheglisiaan choraferratolaboccaad effraduerfarii con la tua ottima
di Aintione, ficomeam e pare erinueroegliecos. Perlaquale facilmentefepuo
conoscere,qualmente ilcorso ofiailgiuo co dicotefte donniciuole
ethuomiciuolineconuienein •parte con quello giuoco,etinparte euarioe diuerfo da
quello.Conciosiache nonse dice quichese creda Diana effereDeadelliPagni,neanchoraseuedonoquiui
quelle che sono pur impercio communi collealtrifuperftitionidelliGentili
Pagani, etanchorafansiaffai schernieuituperiode Dio,c 2 & ola i
bialimeuoliofferuationqi, uariiritiemaladettichefonofino insegnatidallimalignifpiritie
Demonii a questimiferih u o miciuolie donniciuole licomenellidannariunguéti da
un gerfi,nella deletratione difpargere ilsangue innocente del
lifanciullininella offeruationedelcerchio,nellimagichijn
cantamentinellaltrimoltidiabolicimaleficii,eneluiaggio) e discorso grande per l
a r i a con il corpo. Colui che e g a l
s e, che il Demonio non puotessemaggiormente mouere licor,
pi,chenópoffonoruicilhuomeniinsieme,parládoimperho,
naturalmente,equantoalliprencipiinaturalidiciascunodia effiiopenso,cheferebbedaefferreprouatoedánatocome
Heretico,perchediceilfan&iffimolobbo chenonepoffan, zafouradellaterrada
egualareaquelladelDemonio.Ants choraritrouianoneluangelioqualmente fu portato
Miffera GiesuChristonoftrosignordalDomoniosouradelMonte eranche foura delpinnacolodel
Tempio.E tenuto indubin tabilmėteuero dalli Theologgi c o m efonoubbedienti
cugi licorpi allefortarize separate o fiano alli spiriti ispogliati del corpo,
quátoperteneimperhoalmouereda luogoaluogo, ecoli
effifpiritinaturalmentelepuonomouere afuopiacess te purnon sianoimpediti
daIddio prima causa di tuttele creature ecosi quefta euna
disputationedellalegge natu rale cioefepoffonolispiritiignudie priuidimatermiao
u e te licorpilo no,m a chesianoportatida luogoa luogo questihuomenicdonne inucritae
senza menzogta,eglie, dispurationedel fatto cioe fecost-e-ueramenteIlperchetu
debbisapere chgeuadore-certochelepossafareunacolae
chetuuuoiintéderedapoieconoscerelee -fattaofefaci, i nólefacialtrimëreno
lopuotraiintendereeccettocheper boccadelliteftimonii,ochelhauerannoeffifatto,oueroIba
ueranno veduto coli essere; overo l h a y e r a n o u d i t o d aquelli che
l’averano fatto che feranostatoueriet certie fidelihuo meni.E cosihora quanto
apertene a noi cioeche siano por: tatialmaledetto giuoco,queftirebelliidnoftrafantiflima
fede, Ma ve m o fermoechiaro eper cofa indubitabile peril mezzo de gran numero
di testimonii, liqualilhannomolto largamente narrato. FRONIMO. Non
/ermaraueglia se quelli ghellisciocchezzanoinan
tefto,cociofiachecoficompren dono laueritacollialtri.I]perche
ficomeilgloriosoIddione wahe ilben dalmale cofilhuomenidimalo animo,edima
laopeniojie,sefforzanodicauareilmale dalbene.Écolipa rimente
perlamalignitadellicatriuihuomeni sonoftateca uate tutteleHereniedallesagre
litterenonperdifettoecol pa dieflifagratissimilibri,efantissime littere,m a per
la p e r uerfamalitiadellhuomeni.APISTIO.Deh peramore de
Iddioaipriegononuogliateinterromperelemie interrogazioni. Benche gia abbia
deliberato de interrogar u i poi de dettecore purnon parehorailtempo,fiche ui
priegonon m i datiadeffo noglia m a laffatimi seguitare. DICASTO. Tu hai
ragioneilnostroApiftio,Seguitapur oltreer addis manda aleiquellochetipiace.
APISTIO.Su Stregadimy m i, Andavi tua l g i u o c o c o n l a n i m a i n s i e
m e c o n i l c o r p o, o s pur con uno senza laleros Viandaga e con lanimae
con ilcorpoinsieme. APISTIO. Come e chiamato quefto. uoftrogiuocor'Eglie
chiamato dallinoftriCom, pagni il DELLE STREGHE, giuoco della Donna. APISTI. Inchemodoane d a
ui tu col a r Deh c h e nogli andava, ma ben gli era portata. APISTIO.
Conchecofa: Con una Gramicadacascetareil Lino. APISTIO. Comefiapoffibi lequesto
chesiaportataquella,non la portandoueruno STREGA.Má beneraportatadalmio
amoroso. APISTIO. Chi-e-coftui STREGA. Ludovigo. APISTIO.
EglieforsiunoqualchehuomocosichiamatoSTREGA.. Nonhuomono,ma
ilDemonio,chesepresencauainfor ma dihuomo,loqualecredeuofuffiDia ĀPISTIO. Mima
raueglio assai certamenteche il demonio ingannatore del Ihuominihabbipigliato
questo n o m e de Chriftiani. FRONIMO.T u si marauegli che colui habbia
pigliato quelto nome deriuatodalliGentiliePagani,ilqualefefuoletraffi, gurare
nello Angiolo della luce. APISTIO. Tudici molto gagliardamente
cheegliederiuatodalliGentili. FRONIMO. Anchoraildicoche ederiuatodalliGentili.Concio
wachenonmairetrouaraiinuerunoluogone inGrecone ipLatino osiaconefsempio,ocon
origine (senonme ingå noimperho)dondefiaderiuato.Vero e che mi
ricordo di avere letto solamente ne Commentarii di Giulio Cesare r Litavico, da
cuidipoiun puoco-e.ftatopiegatoerecorto nella lengua franciefaer-e-detto Luilo
eriuoltatoanchor poi nella lingua del Lazio, e scritto Lodovico dovi quello se
referrisée. APISTIO. Nonuogliopiuoltrediqueftacofadisputare,
maggiormeieperhora,percheho deliberatoinqucho tem po divuolerragionare con
questanoftraStrega. FRONIMO.IlmioApiftio,hodettoquelloame pare,sempreim )
perhoapparecchiatodiudireleoppenionidepiudottiepia prudentidime. APISTIO.Non
piu.HorfSutrega.dehnó cisiamolesdtoi scoprireameinteramentelicuoilasciuipia
ceti. STREGA. Dimmi de checosahaitudelideriode ing. Tédereç. APISTIO.
Pareuaateunohuomo queftoruoamor roso: STREGA.Sipareuahuomoi tuttelemembrá cecet
tochenepiedi.Liqualisemprepareuano piedidiOcchari uoltati a dietro e riuerfatip
e r cotal m o d o c h e era riuolto'm dietroquellosuoleesseredauanti.APISTIO.Per
quale ca gionecredituDicafto chefinga,ilDemonio tuttelaltrem e bra dahuomo
elipiedidaOcchasDICASTO.Setulegt geraituttiliproceflidicotefteStreghefatti
dalliInquisito titu ritrouaraiinefliqualmente ilDiavolo osia ilDemo nio,o
periluoglichiamare Saranaqffuo,a n d o secangiain cffigiadi huomo,sempre
apparecontuttele membrada huomo,eccetto checollipiedi.Dilche inueritatidico
cheso uentemenesonomoltomarauigliato ecoliframe hopen f a t o c h e forfi q u e
f t a e la ragione. C i o e c h e I d d i o n ó p e r m e s techeelloisprima,e
fingatuttalauerafimilitudinedellbuo mo,acciononingannieslohuomo
conlaeffigiahumana. E laragioneperchenóhafimiliipiediallaltriniembradel ta
finta EFFIGIA de llhuomo credopossaessereperche-e-con fueto
diefferelignificatoperipiedinellimisticiparlaridella fcrittura leaffertionie
desiderose uoglieet imperho gli pore tariuoltiadietro.cioe cheha
lisuoidefideriisemprecontra de Iddio eriuoluicontrodelbenfare.Ma perchecagione
p i u p r e f t o h a u uoluto fingere li piedi
de Occa che daltro animale io confesso chiaramente di non
sapere,ccettofelnoix 1 ui
fuffi ulfuflequalchenascostaproprietanelloccha,la qualsee poi feffe
ageuolmente adaptareallamalitia.Ve r o -e-che hora nonm i
arricordodihauereuedutoin Ariftotele che siaftai M offeruatafimile cofa da
quello,m a anzipiu presto dice; che-e-quella generatione di uccelli molto
uergognosa,fe ben m i r a m e n t o. FRONIMO. Diro dua parole Dicafto.
Puorrebbeessereanchorachelnoftronimico hauelliuolu to anchoraspargerealcune
occoltereliquiedellaantiqua Superftitione delli Genrili.A
cuieranogiafagcificateleocche fotroilfallofimulacroe fintaimaginedeInacho ede
Ina chide.Jlperchecosileggiamoin Ovidio. se Ne giova il Capiroglio per 'w a
Occa - e x f t a t o, $11.Turo,chelfeganon dia Inacho in lance Ma sicomeuuoleno
altricofifedebbe dire Inachide ioilfeganon traggiin piattor DicePliniocome
eraconsuetudinedipresentareilfigato dellocchaadInachoDiodelloArgiuo
fiume.Ilqualeuccel bo dilettaflimolto di praticare perleacque. Ma che fuflifa.
grisicatoad Inachide parqueltofacilmenteseproua,cong
cioliachefeuedeperlebiftoriedi Herodoto comehauea.
nouranzaliSacerdotidelliEgipriidimangiarelecarnidel le ocche, et era i ui rece
r i c a et adorata con grande superstiztione Isia cioe Diana.Anchora-emoltopiufaggiala
Occa. chenon-e il Canericomediceello et chefacilmentecomo pe c o n meravigliosi
modi il silentio della n o t t e e conturba il
teporo.AllaqualenottecredeuantoefferefourastanteDia
na.IlpercheforsipigliailDemonio lafiguradellipiedidi coreftouccello,peruuoler
dareadintenderallisuoiprofani
esceleratiseruitoridiquestariaemaluagiacompagniache
debbianoseguitarequellouccelloin ftareuigilanti,enon dormirecome quellofa
ilquale eruigilanteedipuocofone no,e quando,etpigliare piaceri,equel tempo
cósumarlo nellisceleratiediabolicigiuochi.Anchor
raccontasappodalcuniscrittoricome egliequalcheparte di detto aagello
bisogna farelaguardaemoltopreuifta enon dorme etcofidebbono efferquelliche
uanoalgiuococioe essereuigilanti et ftarefuegliati c h e prouocaeteccitalefeminea
libidines Puo essere anchesegnodequalche occolto,epazzescoamo
te,conciosia che fernroga iscritto qualnienceb r a m m a r o n g leOcche
dipigliarelasciuipiaceri con altragenerationede
animali.IlpercheritrouiamoscrittodaPlinio,comeseina? morarono le ocche di Oleno
fanciullo di Argo, e di Glauco sonatore di Cetra del Re Ptolomeo.Ma
egliebenueroche credo chemalefeacicordaffePlinioinquestoluogo,Cócio fia c h e q
u e l l o f a n c i u l l o n ó b e b b e nome Olen o, m a A m p h i locodellapatriaOleno
ficomeramientaTheophraftonelli broamatorio.E non
fuquellacosacoralmentefuoridiragio ne,perchegiafurono annoueratele
palmedellipiedi delle Ocche fraledeletteuolietaggradeuoliuiuandedellameo fa.E
penso per quefte de efferesignificatole pretiofiflime ui uáde
elaggradeuolicibidellaDeliamensa,cioedellamen
sadelSole,cheeranoperlaloroeccellentiadamettere auã tiruttiquellicibicheerano
dellamensa delSole di Ethio pia.Nellaquale non se legge;ui fuffero posti soura
de effa. auantiliconuitati,lipiedidelleOcche,conciosiacheanchor nonhauea
penfatoMeffalino Cocta,didoverliarrostire.Par ionoa m e cotestecosemolto piua
proposto che quello dico n o a l c u m i, cio e che le ocche abbiano prudenza
perche se narra che domesticamente conversaveno nelli bagnic on Lascido
Philosopho, Il perche io istimo chequestomodo dicon
uerfationcedibeneuolentia,piupreftofuffifimileaquello, c o n i l q u a l e c o
n u e r s a u a A i a c e L o c r e s e c o n il d r a g o n e. E c o s i
anchora pensonon fuffimolto discosto daquesta cosa,quel
lafamiliareuoce,laqualeudiua Socrate,etanchora iftimo
fuflimoltosimilequellaltrauoceper laqualediuinaua leca seoccolteetannotiaua
quelledauenire Atridea Laomea dontiade,sicomenarranoquelli
Versi,fccitcidaOrpheo con iltitolo dellepietre,ficome sedice.Non -e-anche total
'mente discostodaogniragioneloproprietadellanaturadi questo uccello,quäto alla
uelocita del caminare che fanno nel uiaggio,laquale uelocita e'molto fimile a
quella del giuocodelleStreghe.Ilperchenonretrouiamochefulsigia maiuerunoaugello
ilqualefaceffeapieditantolongouiag gio,quantoleOccheLequali uenerodalliMorini
lipopoli ( cioedal etancho fada
Ciceroneilqualenonerauedutodaalcroeccettoche dalai. DICASTO.Nonsolamente
qucftointeruieneinuc derelispettacolietfinteimaginidelDemonio m a anchors
nelliprodigiietapparitionidiuine,cioeche quellecosesono alcunauoltadapupchịuedute.Et
dimoftrate siano acciolas Gli altrisolamente ioramentato di quell u m e che era
soura delcapodifantoMartinozilquale fuueduto dapuochifico me
narraSeueroSulpitio etanchorpurdirbediquelaltro
lumecheilluminauaSantoAmbrogiochi padaua,loqualso JamérévedeuaPaulino.Ma
chequeltaimaginedel Demonio, solamente l i q u e d u t a dalla strega, i o d i
r o la mia o p p e li popoli Belgicichesonoliultimidellhuomeni,licomedice
Plinio,etcaminarono colliproprijpiediperinfinoaR o m a APISTIO.Dimini
Strega,Dimoftrauelo mai altrafornia delli piedi,quando ueniua da te,eccetto
chedi Occa. NO maidiniostroe alıcamente.APISTIQ.In chemodo
ueniualodatesSTREGA.Alcunauoltaaddima datodame
etanchefouentedaseisteffo.APISTIO.Neue n i y a m o s e m p r e in FORMA DI
UOMO. Si sempre fedimostrayaineffigiadi uomo quando pigliauaamorosi
piacecimeco, APISTIO. Q quegliconuna rugosa egia grinzafemina STREGA.Eie me
Eime,OimeOime.DICASTO.Dichehaitupaura Chi e quello che cifpaventa
Vedetile,uedetile DIGAS.Doui,douirSTREGA.Colti,cofti,almuro alm u to.DICASTO.Informadecui?STREGA,Di
Passece. DICASTO. Dehbémicati comehorahapigliatolaeffigia diun molto libidinoso
aụgello non contrasio alcagioname codellamiala femina,laquale fouerchja
conlasua infaçiabir lecifrenatauogliaturcisimoftridellafozza libidite.APIE
STIO.Hoquantomimaraueglio chenonsiaverundinoi, cheuediquestafintaPafferă
eccecto,chiella.DICASTO. Ben iopoffomirare,m a gianonlapoffo yedete,e cosipara
menon siauérundiuoichelaueda.APISTIO.O certame marauigliolacosa.FRONIMO.Deh
uedetiinchemodo semarauegliailnostro Apistio.Matunonsimaraueglidello
anellodiGigeLidiopaftore,ramétato daPlatone, che piaceri yuoreuano eßerç gg 0
el 70 CO 21 el al di no del Tagnione, lo penso posla interuenire
questofacilmereperlami citia,egrande familiaritahacon quello. E cosioccorre per
janridettafamiliaritache-eportataefanellamantocioein quellocherätoamanonsolamente
conliocchima anchor confla poffanıza imaginaria. E t anchora ilconosce e
distize guedallialtciuccellietanimali,quandoseglirappresenta,
ineffigiadiquegli,sicomehoudicoda effa,percheleparë una fiammaardente
glijmpinganelpetro,ilcheno leinter nienenelscontrodellialtrianimali.Giafolio
tregiorniche raccontotuttaspauentata dihauere uedutolantidettofuo amoroso
informadiunatortuofaserpecjuolainmododi un cerchio. FRONIMO.Cosi haitu letto
Apiftio,qualmen te apparelli ilD e m o n i o alliGentilii n effigia diserpe,et
ant chorainfimilitudinediaugelli.Nontiricordidihauerueda tonellilibricome
guidarcizoli CoruiAlessandroalloOrae culo eTempio diHamone,doui,egliandauas
APISTIO. Siholetto etanchorahorixouato,(febenmiricordo)com me fecerolimileufficiopur
ancheliDragoni.FRONI M O,Chenedicudiquestecosemarauigliore?Non istimie f u c h
e f u f f e r o q u e l l i li demonii im a l u a g i i,i n f o r m a d i C o r
u i t Etanchor non creditu fufferofimilmente liDemonii quel l i d u o i C o r u
i a n n o v e r a t i fra le g r a n d i m a r a y e g l i e d a Arifto
tele,chestavanoin CariacircailTempio diGioues D u n g perchetantonimarauegli
conciolia cheritrouiamoinPli nio come fufle usanza diuscire fuoridella bocca
diAci fteaProconesiolauaga anima di Hermolimo Glazomeno in
fimileeffigiadeCorui.De cuisediceua fauolofamence chiquellafullanimadieffo,non
datuttiuedutam a Sola: mente daalcunihuomeni. Mamancotutimarauegliaretti se tu
fapefliquello che-e-raccontato daAriftoteleetanchor dapiualtriscrittori,diquellohuomo
Thalio.APIST.Deb p e r t u a c o r t e s i a r a c o n t a q u e l l o g l i i
n t e r u e n i f f e. F R O GN l. i interueneuache
gliandauainantiedietrolaboccaunalimi le figura,laqualenon era ueduta
dallalecihuomeni.APIST. Dunquesenzaleggerezzadianimofepuo crederéaleuna
uoltachequellimuoiono,ficomediconoalcupniorkojjoue
derelibuoniereifpiritinelliassumpticorpiliqualinon fon ueduci geduti dallaltri&
FRONIMO. O fi fi,questa-e-cosacerta. Conciofia che e creduto questo a tanti
prodi,et eccellenti huomeni,liqualinarranocotefto etanchoraeglieda molti dotti
authori suco scritto.APISTIO. D i m m i b u o n a d o n n a, feļanchora
parritala paura,che haueuis S T R E G A.Si ben
feparte.coliperiluoftroragionare,come anchoraperlauo ftraprefentia. APISTIO.pEoflibile
chetuhaggicançapau ra del tuo amorosos Qime.Gia non lo temeus, M a dipoiche
sono condutta nella prigione,et haggio con: tra suauogliaconfeffato
linoftrilasciuipiaceri,grandemen te,etoltrodiquellofiapoffibilediraccontaremi
spauéta.E qualche uolca se fermaaquellousciuolodellaprigione,eta quella
feneftrella,reprehendomiedimoftrandosimolto for
teturbatocomeco.Edipoimiprometteogniagiutorioper cauarmifuoridi quiui,purche
ioftiaquerae tacciperloaue nire,epianoconfeffiuerunacosama anzinieghiquelloche
gia ho confeffato.A P I S T I O. T e spauentauelom a i quando
tuandauialgiuocorSTREGA.No certamente.APIŞTIO Andauicu quiui ogni giorno,o pur
inqualche tempo deteira minato:S T R E G A.Viandauanella secondanotredopod
giorno dalSabbato,edipoida quindi nellaquarta notte, cioe'nellanottedelLune
edellaZobia.APISTIO.Glian daftimaidigiorno:STREGA.Nomai.FRONIMO.De quindi sipuo
anchorconoscere lereliquie dellamica super Aicione,fetutiramentarailj
ululatiuoci.egrida,fattiad He cate,altrimentechiamata Diana,eLuna,nellinotturni
Teja u i p e r l e C i t t a d e. A c u i f o l e u a n o f a r e o r a t i o n
e le d o n n e f i c o m e scriue Pindaro,quando limaschi separati,secondo la
lo to usanzasoleuanoancheeglifareorationealSole,per con ikeguire liloroamorosi
piaceri.Ijpercheeradedicatolanoki " re a c o r e f t i r a g i o n a m e n
t i et a p p a c e n d o il g i o r n o, i n c o n t a. nientierano terminati
esiparlamenti.E percio leggiamo quel uerfo. M i h a fiato laspro oriente
collieqai anheli. APIS.Forhgiacesottodiquesuton a cosamoltopiuascoffa
FRON.Chicosa APIST. QuellochediceilgrecoPoeta Menandro.M a iolodicoinuolgare
quelloieringreco cofi. Com O
nortererbisogno a tedi affaicaénalipiaceri.D I C A S T O. Cerraméte ciascun di
uoidotcaméte,m a humanaméte par l a. M a i o u o g l i o r a c c o n t a r e u
n a d i u i n a fetentia e n o n c o s a d i paocomomento
neanchoraproceduradalloinganneuole o r a c o l o d i A p o l l i n e,m a d a q
u e l l a s o p r a n i a u e r i t a d e I d d i o. APISTIO.N o n bisognatanto
proemio,fu di presto,selti piace. DICASTO.Ioildiro,nonhauerepauca. Cofidice C h
r i f t o n e l u ä g e l i o. C o l u i c h i m a l e o p e r a h a in o dio
la luce. FRONIMO. Certamente tuhairamentato quello chi e
veriffimo.APISTIO.Horlu dimmio bona Strega chivuol direche non andauati a
questi balli e giuochidiDiana,odi Herodiade ouero ficome le chiamatia quellidella
D o n n a, nellaltrinortif Maaccio iodica piu chiaraméte, perche non
erauativoipresentelealtrinottiallimal gradevoli prestigii, e b j a r m e g o l
i i l l a f i o n id e l D e m o n i o r o u e r p e r c h e n ó p a r e u a a
teuifuffipresentes STREGA. I nollo fo.APIST.Te appa recchiauicu,ouero
loafpetrauicheteportaffe STREGA: C o s i f a c e u a f a t t o il c e r c h i o
m i u n g e u a, e f a l i u a a c a u a l l o d i un fcanno,
etincontanenteeraportataperariaper insinoak giuoco.Anchota alcunauolaconculcauacolli
piedilah o Atia fagratanelcircolo,conmoki ischerni,etallhoraallhora
sepresentavailmioLudouico,con ilqualepigliauaamorosi
piacerifecondochemipiaceua.APISTIO. Dichecofare. composto quefto uoftro
maladetto unguento:S T R E G A Fra laltticose, epermaggiorparte
fattodifanguedefanciul kini.APISTIO IncheparteteungeuitisSTREGA.Eime
Mivergognodiraccontarlo.APISTIO.Dsefacciataetim pudica
meretrice,tutiuergognidinarrare quellocheto nonseivergognatodifare?ŠTREGA.E
coreftamocofi gran merauigliar APISTIO.Sutielenara ferpe gera fuori I u e l e n
o. V i a u i a d i fu i n c h i l u o g o u n g e u i t u r S T R E G A.
Giachefiabisognolodicahor fuildiro.Vngenammiquel lifuoghicolliqualimi pongo
asedere. APISTIO.Dehuer deticonquantahoneftaibadetto.M ahograndesideriode
intendere inquantofpatioditempoeri túportatada cafa tuaperinfinoalgiuoco.STREGĂ.In
puocospatio.API STIO.Quátomo puocor STREGA.Inmanco dimezza: 1 hora.
APISTIO.Quanto eritu discostoda terraquando te
eriportata?STREGA.Tátoquanco-e-laltezzadiuna gius ftaforre.APIST.Ho pur gran
defideriode intendere quello che sifain questo uostro sceleratogiuoco.Iperche o
buona Strega se desideriche fa quiuenuro per douertiagiutare, de no
tirecrescadi narrare currequelle cose che iuisefanno per cotal modo ficomelerappresentaffitotalmentea
noi.Il faro sendo dunque giuntaal fiume Giordano. APISTIO.Aspettaun
puocoluSiregama dimme Fronimo;Che cola odiť llfiumeGiordanos FRONIMO, Credo que
ftaefferuna bugia del demonio cioechesefacci tanto uiaggioperiosmoalfiume
Giordaso in cofipuocofra tjoditempos Perilchepensocheellodica queftinocabuli
eccellentiluoghiaquestedonnuzze acciomaggiormente leucceglie
leinganniemoltopiu'letegalegalecollilega m i delin o m i d eprimi e magnifici
luoghi.. nore da creder t e c h e sia p o r t a t o u n o h u o m o in m e z z
a h o r a d e l l a I t a l i a n e l laAlia.Ma forfihapigliatoSathanafloda
quindiilcolore della fauolapchehabitauacola Herodiade.Veroc chemol
tomimarauegliononfingachesianporcate nellaScithia alTempiodiDiana.
Ilcheforsfiengerebbe quello fraudu tente nemico dellhuomo,fefufficoli domestico
e familiare il n o m e d e l l a S c i t h i a, q u a n t o q u e l l o d e l
Giordano: L o g u a leconosce ciascunchi ha udito recitareiluangelio nellia
grati Tempii. Dipoinon -e-molto conueneuole quefto fute m e a quello fcelerato
giuoco,m a fiben ferebbe a propofto quello Taurico,non sagro m a facrilego
perle crudeliffime a c c i f i o n i e f p a r g i m e t e d is a n g u e. M a
f o r s e l e c o n d u c e a d u n altro fiuineiui uicino,efa parere alloro,
che siano altroui. Benchesianodella trilequaliconfeffanodinon esserepor tate
allacqua ouero alfiumem a fiben foura delle fomitati
dellimonti,etiuifermate.DICASTO.Non pareameim possibileche possonoefferportate
alGiordanealmanco per fpatiodi due hore,ficome quasituttele streghe fra fecouie
neno, edicono.FRONIMO.Iftimitu chequellepoffong
misuraretantospatio,quanto/e-fraquestanostra patria ela
Siria,elaPheniciaincofipuocotempor DICASTO.Dimmi Fronimo. Non puo il Demonio
mouere li corpi afuopia cece FRONIMO.Si.Manon seguita pecho cheglimuor
uaincofipuocotempo cioecheleconducaosiasouradella terra,uerloloIlluciohora
chiamata SchiauoniaOuero alla finestrauersola Ibracia,quero alladestraper
lAfrica odero passandoilmare lonio eloEgeof,ouradiCorcitadelPelo ponesfloo,u r
a leCiclade,guardando Rhodo eCipro,ecosi leggendofiano porte foura della rippa
del G i o r d a n o. D E CASTO.Chi prohibiffecoteita cufarFRONIMO.Lituoj
dottori.DICASTO. I n che m o d o ilprohibisconosFRONI M O In quelmodo
cheuieraSantoThomafo.deAcquino come
nonpuoeffermoffatuttalagrandezzadellaterradal
Demoniodaluogoaluogo,facendoliresistentialagranmae
Atranatura.Laqualeuierachefiarouinatoetotalmentegua
ftoloimegroordinedellecreature e delli elementi.Eglic c o n t r o l a n a t u r
a d e lc o r p o h u m a n o d i e f f e r p o r t a t o c o n c a n ta
celerisa con laquale insiensefe conferui et fi guasti.Ilper che uiueno
quellecose cheferebbe neceffario perloimpi todellaria chemancallino,perchenon
effendo in ueruna cosamutata lanaturadiquello gliferebbegrandeoftacolo e grande
contrariera.M a lepurfimuralie diuentaffipiura do
facilmenteseabbruggiarebbeedouentarebbe fuogo,er anchora
sedouentaffepiuspeffoefodo,maggiormentei m pedirebbe la uelocita,etageuolozza
delcorso.Anchoraiosi uogliodire piu chelecumoueflituttalariacon latuafantam Sia
ficomefermoilcielo Ariftotele conla sua etappodelki Greci
feceancheilsimulePhilopono,efimilmenteScotoap podelli fuoiseguaci anchora
serebbe cotto dite,sendouiin oppositol a intrinsecanatura f i a d o, e d e l l
i u č c i, o d e l l a r i a l e c ó s u m a r e b b e p i u t e m p o a s s a
i diquellochediconointerporui.APISTIO Vipriego,lagi cötenti,dilasare a
dechiararequefte sottilitadead uno altro giorno.HorsuStregaseguitaparoleo. S T
R E G A.Sendo dunque cola giuntivediamo federelaDonnadel giuoco 1 d e l l
a quätita.Perlaquale bife gnachesiaportatounapartedopo laleradieffo corpoper
quelgrandeuacuo dinullaariariempiuto.Iperchedaqui uiin Afiatoleo uiaogni
impedimento della resistencia del insieme 12 20.Eglie staro Berno
molto conos al la 10 OL ud NI 10 Hal insiemeconilsuoamoroso:APISTIO Chie/coluie
S T R E G A. N o n lo so.M a soben questo che è uno belliffie m o h u o n o d i
u n a r i c c a u e f t e d i o r o m o l t o b e n a d d o b a t o. APISTIO.Seguita
pur.STREGA.Quiuiporrauamoal. sembianti receuendole,lecomanda chesiano pofte
rouradiunoscanno,edipoicicomandalidiamoindi sprégiodeIddio
dellipiedifoura,edipoianchoracúole che gliurinamo foura eche lifacia
motuttiliuituperii poffemo. APISTIO. O Diobuono,oimeche odidire?Chifu quele
Jotantomaluaggio huomo chetidequestesagradehoftie daportarea
coteftomaledetto,etiscommunicatogiuocot sciutoinquesto Caftello DICASTO.O
scelerato.O inico operuerfohuomo:fouidicoche credosiastatouno delj p i u s c e
l e r a t i h u o m e n i c h e m a i fi r i c e o u a f f i n o a l m ó d o. I
l p e t che hauendolo ritrouatoimbratato in mille sceleritadelo giudicai fulli
primieramente degradato,cioe priuato della compagnia delli miniftri di Chrifto
e dipoi ilconsegnai al Podefta,etello incontenente,segondola ordinatione delle
leggi,lofecebrugiare.APISTIO.DehStreganon laffareil comenciato ragionamente.
Poimangiamo,be temo,ecidiamo amorofipiaceri.Hormaicheuvoletipia
intendere?APISTIO.Voglioche raccontiaparteper par teiltutto.Ma primadimmichecosamangiatic
STREĠA. Dellacarne edellialtricibi,chefifuolenousarenellicon
uiti.APISTIO.Dondebaueticotefteuiuande:STREGA. Vecidemo dellibuoim a eglieben
uero,che dipoi resusciz Tano. APISTIO. De chisono&STREGA.Sonodellinor
ftrinemici etanchora cauamo deluino fuoridelle uegge e
delliuaffelliacciopossiamobere.Et dipoichehauemomant giatoe benbeuutcoiascun
addimanda ilsuoamoroso,cioe Demonio informadihuomo'perfatiffareallasualibidino
fa uogliae con huomenichiedeno lesuc amorose, anche el 3 D i m o n i i i n e f
f i g i a d i b e l l i s s i m e p o l c e l l e, e g i o v a n e e in t a l
modo ciascunpigliaamorosipiaceriefatiffaallefireffrena, an del Tai pi na 5ell
ap Tin adi 60 laDonnadellehostieconsagrate.E quellaconallegrafaca oli cia e
gratiofi 36 teuoglie.DICAS.Paiono am e illusioni efauole quelle che diconio
dellibuoi.FRO.Sonosimiliaquellecosedellequali narrafauolescamente colui.
APISTIO.Chicola:FRONIMO.Conosco chetuvuoilodicainuolgare,quello che e scriccoin
greco,Hor fucosidice. Vápoje caminano e cuoi,ç
muggislenolecainidellibuoi.APISTIO.Vetaméte fono
simili.Chedifferentiaechicaminafouradellaterrailcuoio del buc,e che moto libra
m u g g i f f e n o e ftridano le carni m e z z e cotte, da
queftoprestigioefincaimaginatione,cioechepiegatala p e l i e d e l b u e g i a
m a n g i a c a, f a l i l c a f o u r a li p i e d i: F R O N I K
MO.Gócederonoli antichichemandaffelauocelanauedi taggio di Argo,etanchor
diflenoche diuinosu cauallo di Achille.MacoluichinonnjegaparlafsıXanho
cioeilca. HallodiHettore,iltimamochenegara ilPegaffo,cioeilca
uallocollealidePerfeo oilDedalo,ouero coluiloquale ci
portomarauigliosefpogliedelmoftrodiLibia,ilqualeAtrac ciaualatenerellaariacolle
ftridentialitAPISTIO.Masetu c r e d i c h e u o l i e f f a Strega, Per c h e f
o r r i d j e t u n e s a i b e f f e q u a d o c u l e g g i, q u a l m e n t
e le P a r c h a l i e p e i n e p o r t a r o no Perseo: FRONIM O. N o mirido
fe tu ftimichesianofacceque ItecoseconactedelDemonio,mafibenmi rido,etmene
fobeffefecuctedichesianofacteperopera etingegno del thuomo lopensochenone
/similemoftro,cioe difingere che l’huomo o ilcauallohabbialepenne
peruolare,odifins gerecheilcauallohabbiaintalmodo lalenguachelapossa tiuolarlaepiegarlaperproferireleparole.cócioliachemol
siaugelletrisenzaalcunomiracoloperopera egradeactifs,
ciodellhuominiapuocoapocoimparanodiprofericemol
teparoleecofifendouiulaiileproferisconoS.e dunquese inlegna dirivolgerela
lengua acoteftiaugеlletiper cotale m r t che proferisconolhumane parole,quanto
maggiore menteseporradire chelopossanofarelefoftantieseparate osjano buoni
oreifpiritiecioe di poter riuolgere la lengua per labocca
dellianimalipercotalmodo che proferiscano dritamenteleparolesAPISTIO.Tu
dichequestofępuo fare. FRONIMO. Anche ilconfermo conciolia che solo
ciascundeeffifpiritidinaturaeguale.APISTIO Ilpuoise ftiprouarecon
qualcheeffempio: FRONIMO. Molto ben i pollo prouare,M a h o t a ne baftiano
raccontato nel fagta libro d e i N u m e r i,cioeche la Afina di B
a l a a m parloe.E dit conoeTheologgicheparloeperoperadellangiolo concio fiache
effanon fapeua c o s i lendoli quelloche dicesse, rivol tae conduta
lalenguaadire quello cheera commodo er ageuole per loeffercito delliHebrei.D e
cuine hauea gouee noe curailbuon Angiolo;sicomeraccontalascritturaecosi b o
narrato quefto effempio solamente accio io tacci quelle historiegia'narratede
quellibuoidelliGentili,che parlaro 00, APISTIO.DedimmiStrega.Noisapiamocomenon
hranno liDemoniicarneneoffadunque come mangiano, b e u e n o, e l u f f u r i a
n o r S a r e f p o n d i p r e f t o. S T R E G S A i c o n. me ame pare,
fonosimiliq,uantoallepartiuergognosealla carne,APISTIO.Patreftidarciuneffempio
diqualcheco fa c h e sia f i m i l e a q u e l l i suoi corpi. STREGA. N o lo so ben Ma
purpaionoaffaisimilialla ftoppaouecoalbambagio, quando e-coffrettoinsiemee
condeniaio.Cosipaionoquel lineltoccare,miasempre sonoimperho freddi.APISTIO. H
o r seguica piu a u a n t i. STREGA. P o i e r a u a m o satiatidelli carnali
piaceri erauamo portatiallenoftrecase.APISTIO. N o n tiueneuam a i
quiuiaúisitare: STREGA.E fpeffeuola te.Anchor qualche uoltaquando andaua
almercato,eritor naua accompagniauammi.E ricordammicome ritornando
acasaungiornofuiltardodalCaftello effendoegliinmia compagnia,tre uolte
pigliaffimoinsieme amorosi piaceri auantigiongeflia casa.APIS TIO.Quanto
-e-discottola tua casadallemura delCastellorSTREGA.Circadiun mi gliaro.
APISTIO.Danque non emarauegliafelfimoftro effomaluagio Demonio informa
dellamolto libidinofa paf feratM a pur Fronimo,iotedicoiluero,anchora non posso
capirceon ilmio ingengno cheuoglionosignificarecoretti
tantosozzipiacericarnali.FRONIMO.Tidirolamiaopi pênione Iopenso
chefaccicotestoeslo ingánatoredellhuor menipersatisfacealleffrenateuoglie
diqueste facciate et impudichemeretricilequalinonhannoiltimore'de Iddio, Chi e
quellofienochefacaminarelhuomosecondoilraa gioneuole appetito
egiustodifio.Ilperché remofio tantideta t o f r e n o d e l l a r a g i o n re
i m a n e l h u o m o c o m e u n o a n i m a l e hh LIO 10 Eté 11 1 TO
xrationale, efi comeunabeftia, ecosidipoidesidebraram. ma et anchora
cerca le cose da bestia,etineffefedeletra. APISTIO.Ne
anchepercioeglieposibilechepoffacapite con lanimo donde poffono hauere tanti
lasciui piaceri DICASTO:Chehabbianograndipiacericredochelpoffa
interuenireperpiu cagioni,dellequalialcuneneraccontato
Jarrelaffaropermaggiorehonefta. Conciosiachehauemo a parlare sempre in cotalm o
d o,eprencipalmente incolga k cheanchorlapudica orecchiauipoffaftare.Puodunque
guestointeruenire,almiogiudiciopercheseglidimostrail Demonio
maladettoinunamolto aggradeuole figura,cioc belladifaccia colliladrjocchiecon
ilgiocondo uolto con ciofiachepuocoimportaalDemonio difingeree difigura. Re una
formadiariaofozzao veramente bella, ecosifigura te
formeficomeparepoffonpiacereaquellicheuuoleinga nare
Ilperchecofilosinghaetiraquellemeschinelledonni ciuolea fecon effa
fintabellezzaecolliocchicosifigurati,
etconlafciuifembianti.Etanchoraacciochemaggiorment tele ingannano fingonodieffereinamotatidiloro.11fimile
fannouerfodiquelli sciagurati huomeni,diinoftrandosi in forma di belle
damiselle,ecosi uifanno apparerecuttele
proporcionidellemembra,etuttelebellezze,etuttililasci. uisembianti che
desidarano accio che meglio glipoffono ingannare. Dipoianchorgli
fannoparerequellipiaceriche hannoconqueftefinteimaginisianomoltomaggiori che
poffonohanerecolli'uerihuomeni,econ leueredonne: Hor pensacome sono
inganriati,etuccellatidalDemonio.Ecoh n a r c a u a quello scel e r a t o, e
(maledetto incantatore di Don Benedettoauantinominato.IIqualeraccontauaqualmeno
tegliparcuadihauerehauutomaggioredelectationecon il Demonjoiqueftafintaimagine
chiamatadase Armelina checon tuttelalaifemine,collequalihaueamaihauutolara
uipiaceri.Etaccionon pensaftiche con puochefefuffii m pazzatio o
tiuogliodireche questafozza bestia,piu presto cofilo chiamaro che h u o m o
anchora hauea hauuto uno fie gliuolodella propria sorella.Ionon dicocosache sia
secreta cóciosiachetuttequeftecosecheraccoratosonoiscrittenel ljgrocelli U p r o t e f l i f a t t i d i lui. Era tan
t o i m p a z z i t o d e t mt o i s e r o h uomo in queftodiabolico
amore,epercotalmodo beftialme t e brugiaua di cotefta fua Armelina. cioe del
Demonio in do ficomefannoduoicompagni insieme benchenonfuffo ucduta
dalcunoaltro. Ilperchefendouditocosi ragionare, n o n sendo ueduta quella
pensaua chiunque ludiua chefufti doucntatopazzo.Debuditelescelerateopete
checostuifa ceuaperamoredicotestasua Armelina nonbattiggjaua fanciulliniquando
glierano portati fecondo la conluetudi medeChristianiperdouerebattiggiare, ma
hauendo fino de battiggiarliconliremidadaacasasenza battesmno, o n consacrauale
hoftic quádo diceualam e s a benche fengeffe diconsegrarleecolligefti,econ un
certomormorio,perna fcondere lisuoifrodi,ecosifaceualeadorare alpopolo,non
fondoconsegrate.Veco-e-chesepur qualcheuolcadritame t e h a u e f f e
consegrate, alzando la sagrada hostia in alto per dimostrarla al popolo ci o e
ilcrocifissooaltrafu gura collipiedi riuoltiinsuinuituperioetiscerno de Iddio
edallasuafantiffimafede.Dipoileconseruauaperdarlealle
fccleratefemine,etallimaluaggihuomeni,accioleportaffe
toalmaledettoetiscómunicato giuoco.E coliquellodiabo tico ebeftialeamore era
causa dicantipeccati. Anchora -e nellam e d e m epazzia unaltroftoltoe
pazzo,chiamato ilPi heao ilqualetantopazzescamente amaunodiauolodetta dalui
Fiorinache seglidimoftraiu forma de femina,che fouente hămidettoiftaminandolo
piupreftodiuuolerepa. siteognimartorio,che abbandonaretantabelligimafer mina
conlaqualehahauutotantiamorosipiaceriquarant taanni. Eper
cotalmodo-erdivenutoatantapazzia chenå eredeefferaltroIddicohe
quella.Vedetiquantosonoinui, luppati costi meschinelli h u o m e n i nelle reti
del dem o n i o. Etanchor non pensati chesolamente commettano cotefti fceleratispreciatori
dellafantiffima c triomphacifima fede 1 formdai
femina,chesouentelhaueainsuacompagniaspas leggiandoper
lapiazza,ecosiandauanoinsiemeragionan f i c o m e sisuolela alząua con lafigura
luie-figurataridottaalcontrario 11 1 hh ii f el diChristo,dellipeccaticircalasagrahoftiaereffagloriofiff
m a f e d e f e n d lo e g a t i d a q u e s t o p a z z e s c o a m o r e, m a
a n c h o c o m m e t c e n o dellaltri male opere senza numero. C o n c i o
Siache cobbano lecose dealiruiimbrattano ogniluogo col lisuoimaleficii
esouradelcurto sonosommerli coralmente n e l l i a d u l t e r i i, n e s t u p
r i i n c e s t i e f o r n i c a t i o n i. N o n h a n n o c o
spettodicommettere lipeccati con pacenti,sorelle,fratelli et
altrepersone.Vccidenoli fanciulliasciugano ilsangue di
quellifannouenireedescendece dalcieloacerbiflimetemi p e s t e g u a s t i n o
li c a m p i e l e f r u t t a c o n l a g r á d i n e, e g r a g n u o s la
con tanta ruina, che pare se ferebbono portati piu m o d e l Atamente quelliche
anticamente incantauano le feutta
controdelliqualidipoifufattalaleggeescrittanelledodeci tauole.APISTIO.
Dunquenon folamente sefforzano di daredannoallefrutta,etallealtrecose
cheproducelaterra ma ancheracercanoperogniuiadinuocereanoicon ilcic loe con
laria checi copri: Caccio so. DICASTO.Addimandalotua dei, APISTIO.
HaigiamaicuStregacommoffolituonice, Catto balenare laria? Sifpeffeuolte.
APISTIQ. Hai tu guaftele biade con la grandineouerotempeftas STREGA. Nouna
voltamalouentefi. APISTIO. Inchi modorSTREGA, Fatto chehauea
ilcerchioeccocheinco t i n e un u ei n i u a i l m i o Ludovigo, m a n o n i n
f o r m a di bu o m o mainfigura di fuoco. Allhoracomençiquenodiscedere del
lariafulgore,efenteuasituoni,ebalenaua il cielo edipoicas Scauala grandineetempeftasouradellicampie
prencipal mentesourade quellicheeranonoftrinemici,delliqualide
fiderauafufferotouinatie.guafti.APISTIO.Deh dimmi,
peramore:decuifaciuicucantarouina:STREGA.llface uaperodio,enon
peramore.FRONIMO.Miricordodi hauerlettoneuersi comeeDemoniifaceuanoli
ftrepiti,co fidicendoloingegnosopoetaOuidioinquestomodo nos minádolisottoilnome
delliDei,oueroquellimaleficiiicuc.. cedella persona dieffo.
Perqualagiutoquandouolfaftrenfor: Ifiumiinfoncisuoitornare e mosh
Inftabelcofe,ftabelfompreuenfi, Regietto,euenci echiamo
quandopiacemmi. Ma questanoftraSirega,piupotentechMeedeaeccitoan
thoralatempeftae grandine elaconduffefouradellebia de. Anchora tirano gli animi
dellbuomeni'ne peccati colli fuoilafciuipiaceri,perchelosinghanolisentimenticon
effi. Ilperchehomai-e-qualirinouatoquel detto diLucano in queftonoftroCastello
cosidicendo, Ārfenoiuecchi dillicitafiamma Netantola bevanda nofsia uale 1.
Quanto la modella caua l l a e r e t t o Ri f a t o i n f u c c o, l a m e n t
e f e i n f i a m m a: E perisce incantata,né piu fale Deluelen haufto pura del
defetto. Eraquelmaluaggio Don Benedetto,decuihauemo ragio nato de annisettanta
duoi,quando gliscacciaflimolafiami niadelfceleratoamore con laqualetanto ama
quella sua Armelina,o quellofuoDiavolo,informadifemincaon una altra
grandiffimafiamma uscitadiuna granftipadi legoed E cosiromaseturcoincenere.E
questo-e-ilmodo dascaccia re u n fuogo con laltro.Vine-unalcroin quefto fcelera
s a m o te rommerfochibaoltrodisettanciqueanni,etanchoruno altrocheha vedutooccanta
folfitü,Liqual andauano aldet toprofanoetifcommunicatogiuoco
delDiauoloottouolre m e s e l e c o s t -e f t a t o c o n o s c i u t o pe r t
e f t i m o n i o e c o n f e f f i o n fiede molti
dieffriniquiemaluaggihuomeni,chenon sono folamenteunao due puero treStreghe,m a
sonoingrande moltitudine,ecofiche non sono solamente ute o quatro stre
gonierscelecacimaschi,liqualiuannoa questo indiauolato
giuoco,ethannoquestiprofanipiaceri colliDemoniiinefli gia difemine,m a
egliesutotitrouatopercerto comeuiuar noingrannumero ecin
granmoltitudinpeercotalmodo che credono secondo la loro iftimatione che ui si
ritroua a quefta maledetta congregatione oltro di due migliaradi persone
APISTIO. Oh chefenteio diceslaantiquitasola,
mentebalaffatoinscrittoditreouetquarto Maghe digrå
Caccioconlamiavoceilmalfe fpiacemmi Carco dinebbie,enebbiealseren genero
m a ame parechenenoftri fama, giorniseritrouanomolte Medee,no puoche Candie, nó
una sola Ericho. FRONIMO. Tu cinaraucgliiche se ritrouano-secento M e d e e con
cijoria chetusaibecn h e son inuna Citra della lialiadodece
migliaradiCircecioedimeretrici,lequalisonotenuefora lenondimenotunon
timeraueglidieffe.APISTIO.Ben bente intendo.I percheperbuon rispetto,no
bisognaalati mente cercareouero inueftigareil sentiment dellpaarabo la
perlinascostiluogbj. FRONIMO. Diroe anche due pa role.loistimo chehabbiaIddio
con sua gran prudemtia uos lutofermareestabilirelasuafanciffimafedenelliapimi
del lifideliindiuersimodiperfarecrescerepiu ampiamentein ogni canto la christia
n a r e l i g i o n e in q u e s t o infelice tempo, Helquale
pareuadiognicoladimale in peggio. APISTIO, Inchemodo FRONIMO. Prencipalmėteincemodi.E
primaperilfucceffodellecosegiapredetteetannunciate,de poiper
limviracolifattidiuinamente epoianchoraperillco prireche ha fattoladiuinaprouidentiadellescelerirade
de de corefti indiauolari riti,e maledetteopere dellantidecco molto bialme uole
giuoco. Giahauemouedutouenireapun tole sanguinolenti guerre la crudele fame e
carifteia lahore tenda peftilentia licomegia auantjerano state annontiate
diuinamente permoltjarniHauerebbono forsipoffutocre derealcunifacilimenteper
cotalmodo oppreflidallagrans dezza di queste tribulationi che fusseroproceduteo
casual menico fatalmentedate calamitadi etribulationifelnon fuffisutonuouamente
fuegliaraeteccitatalafedeinquesto
noftroCastellocontantimiracolifattidallagloriosaVecgie ne Mariamadre
deIddio.Lequalicofeficomedaseconfer m a n o,efortificanolafede
Chriftiana,cosianchora per acq denslaconfeffionedicotesteAtregheglida uigoria
eforza Per la quale confeffionee per il gran numero delli'teftimos nud i a m e
n d u o i li f e f f i c i o e c o s i d e l l i m a s chi com e d e l l e f e
y mine,cognoscemoapettamentequalmente liDemonijco
donemicietaduerfariidellafedeChriftiana Laquale e di tanta forza chequanto
maggiormente e con ognisuafor za,aftutia p e r fare dipoidello
unguentod a ungere di luoghiuergognofiquando uogliameoffereporcati algiuos co.
DICASTO. Acciononiftimatieffercoteftefavole eche fano sonniio
imaginationiechefianosolamenteillusioni, e non
siainverita,erealmentecioèdiandareper lecase di q u e f t o e d i q u e l l o a
d u c c i d e r e l i b a m b i n i, u i d i c o q u a l m e n t tefono
ftatoritrovatidellifanciullini,ben certamenteinfen
ci,cheanchorpigliauanolapopa,etillatte,liqualihaueano ledita
forate,elepiagheebucchisottoleunghini. APISTIO.
RefpondiStrega.Aflaimimaraueglio chenon greffino,eche cridaslinodetti
fanciullini,quando uoili trag tauatitantomale,echelipungeuati.S T R E G A.
Sonoal Ihora per coralm o d o indormentatic h e n o n feiitino. M a dipoiquando
sono fuegliaticridanoad alta uoce e piango no e Aridono,efeinfermano,etanchoraalcunauoltamon
teno. APISTIO. Perche non muoiono tutti.
Perchelifanamo.Conciosiacheglidiamodelligioueuo /
lireniedi,ecofilikberemo.Hiperchenetiramograndiguza dagni. APESTIO. Chi uiha
infignato questi cemedii STREGA. E demonii. APISTIO. Questo a meno n p a s
teverifimile.FRONIMO.Eperche.Non faitucomeit Demonio conosceleuirtudedelleherbe,lequalianchora
za aftucia,etingannilacercato di rouijare e di ofcurare, tantomaggiormente se
alza erefpiandeperognilato. APISTIO. O quáto ben lhai codutto questo
tuoragionaméto. M a horfu dimmiobuonaStrega.Vccideftigiamaiuerun
fanciullorSTREGA:Non un folo,m a simolti.APISTIO. Conilcoltello
oueroconlamazza.STREGA.Con laagus gliaecollelabra.APISTIO fucbimodor STREGA.Ine
trauamodinottenellecase denoittinemici,perle porteet usci cheeranoapertia
noi,dormeudo e loro padriemadei cpigliauamoi fanciullini,econducendoli appo
delfuogo, forauamoconlaaguglialortoleunghi,dipoiponendowic
fabraasciugauamotanto sangue,quantone puotevamote n i r e n e l l a b o c c a.
E p a r t e d i q u e l l o n e d e g l u t i u o, c i o e ilm a n
dayagiùnelRomaco epartene riseruauoinunabuffua o inuno uafetto piaa
comeptatitis hanno conosciuto lhuomenisanchortudebbifaperecome
giafuconoscrittemolteregoledamedicare nel Tempioda
Esculapio,lequalidipoilecolse Hippocrate,ele Scriffenelli suoi libcisicome
citrouiamo.Anchor sono fccicci molti g i o ueuolireinediciosialle
piaghe,efedice,come contro delli geleni,nellehistorie che
furonoritrouatiperlifonnii. E puf anche leggiamo qualmente soleuano dormire nel
tempia diPasipheaenelláltri Tempiidelliifimati DeidalliGentils ficomegiapiu
auanti diceflimo,quellichi cercauauo li res mediicontro
delliinfirmitade,sapendo chegliserebbono reuelatiperilsonnio.Ilperehetunon
tidebbimarauegliaro seanchoranerempipresentiglireuela ilDemonjoliremes diiaquestariaemaluaggia
generationedihuomeni,edifc mine lequalifrequêteméreconuerfano con lui,APIS TIO
Dichecosauidannospecáza,douiatihauerdaloro:S T R E GA.Longa
uita,Grandedoujtiaericchezze,econtinui pia cericarnalilequalihauemo,ene
pigliamo delettatione. APISTIO.Deh dimmiperquella fede chenonhai.Ti dok nologia
maidelli danaris Gia m e nc donoe ale quanti ucro'e che disparfono.Pur seruai
alquanti puochi quatrini.APASTIO.Veramentesonograndiricchezzeco
tefte.Dehpensachecosapoi serebbe felteprometteffeli T h e s o r i d i C r e s o
q u e r o ci promett e s s e m a g g i o r e d o u i r i a d i quella di
Alessandro Magno,cóciosia che era portato lo ora. diquellodaquarantamigliara
denuli,five-uero quello che scriueCurtio,quero ficomediceilPlutarchoin
Greco,ilqua lecosidicoinuolgarepersatisfarea ciascuno eraportatolo
orodieffodadiecemigliaradigiogatiOrichiisulecarrette erdacinquemigliarade
Cameli. FRONIMO.Paredicon tentarsicoteftauilee fozza fecedihuomenie di
donnesele d o n a t a n t i p i a c e r i q u a n t o n ó h a u e a S a r d a n
a p a l l o,n e S m i n dre,ne Stratone.E cosipiuolicanon cercanopurhabbiano,
queftipiaceridiabolici.APISTIO.Almáncoquelleerano h u m a n e e u e r e, b e n
c h e u e r g o g n o s e e b i a s m e uoli, m a q u e ftedelleStreghesono
coseda ridere,eda fars-beffe,esono: menzogne finteeuane.FRONIMO. Tunondirai che
quellesianowane,setu ben considerarai questo uocabulo pi 10 nie lo comentátitieecimaginarie cioe
parte finte,epartenuoue. DICASTO.Iftimo chequelle siano inparteuere cioe fon
dareinquellacosache-e-erinparcesianofallaciefinte,enó firmate
inuerunuerofondamento,emaggiormente circa diquelle
coke,dellequalenarranoalcunicomesecangiano in forma diGatteetinaltre figure di
animali,Ihuomenic d o n n e di questo maledetto giuoco,etche resuscitano libuci
che hånomágiato,sendolipoidatodellauerga dalladonna o dal Signore del giuoco,
fouradellapelledouiuisonoposto d r e n t o To f f a d i d e t t o b u o
mangiato. I p e r c h e f i a t i c e r t i c o m e tutte quefte cose sono
imaginacioni illufioni,etcose che cosifaapparere ilDemonio Icelerato,et aftuto
chesiano, mainueritanonsononeanchoraessolepuofare.Ma che
fianoalcunauokaporcatiperariaetchefouentemangiano
beueno,etdianslibidinofipiacericolliDemoniicofiin for
madimarchicomeinformadifeminenon e-danegare, neanchordariputarecosa
falsanecontrariaallauerita.Puo trebbi narrare afraicose confermate da
digniffimi testimo nii fe v o n hauefli paura che poi ui lamencafti di m e,d i
c e n do cheuihauefliingannatorobbandouiiltempoconcefloa uoi da douer udire la
Strega.APISTIO. Ti priego,fiacona tento di riferuare cotefta curiora
disputacione per infino a d o m a n e. D I C A S T O. G i a -e-diputato quello
ad altriragio.namenti,purmolticuriosi.Vero.e-fetu purtanto brammi deintendere
questo,fiaticontétodidisinarehoggiconmieco, benche fiamonella uilla non
mancarano imperhotandi cibiquantoseránoneceffariida iftinguerelafame. FRONI M O.Non
-e-darifutareilconuitodelloamico,douisiritroj u a n o a f f a i d o t t i r a g
i o n a m e n t ib, e n c h e p u o c h i c i b i. C o n c i o
fiachere-moltopiuaggradeuoleallifpiritigentili,etaquel l i c h e s e d e l e t
t a n o d e l l a d o t t r i n a il c o n u i t o o r n a t o d i c u r i o l
i parlamenti chede uariera edi moltitudine di uigande. APISTIO.Piacémmi
assaiciascunadicorefte cose.Perche c o n u n a si p a s c e il c o r p o e c o
n l a l t r a J a n i m o. D I C A S T O, HorchiederipuruoidallaStregaquelloche
vipiace,laffal. to coftuiquiVicarioetinmioluogo,perinsinoritornaroda noi.Perche
uoglio impore alsopraftäte della mensa,quello c h e d e b b i a f a
r e. APISTIO. S u S t r e g a d i. H a u e a il t u o a m o r
roso'uerunsegno,con ilqualeaddimandatodateuenesse n e l c e rchio: STREG A. S i
h a u e a in q u e s t o m o d o. c h e o g n i uolta chemi fuffidiscostatadalli
altri,ecosi sola due uole Ihauesichiamato incontanenteuiueniua. APISTIO.M a per
quale cagione non treouero quatro uolte. Non
loso.Coferaammaestratadalui.Maanzimolto for teme ammoniua
nólochiamassetreuolte.APISTIO.Chi ne pensitu di questa cosa Fronimos FRONIMO.
Questi pattidel demonio daluipendeno,esonoin fua dispositio ne,enon
solamentequestipattimanifefti,m a anchor li occulti. D e l l i q u a l i il n o
s t r o f a n t o D o t t o r e A g o s t i n o i n s i e m e c ó a l c u n i
altri D o t t o r i n e h a n n o scritto. N o n d i m e n o p u r io c t e do
chenon sianaturalecaufainquesto numerodi duoine a n c h e p e n s o c h e u o g
l i a dimostra r e c o t e s t o il m i s t e r i o d e l l a
Diadeosadelladualita,dimostrato da Zarera Caldeo,per Pithagora alli Platonici. O liacoftuida
chiamare Zareia, frcome diceOrigenenellibrodelliPhilofophimenoni,o fa da
scriuereZarata ilcheulaPlutarchoCheroneodesignano doilMaestro di
Pithagora,dechiarando una parricoladel Dialogodi Timeo oueroanzisiada dire Zaradaconciosia
chenellibrodelleleggi,lanominatodaTheodorito Theo logo ZaradonM.ache
cosaimportaalDemoniodidisputa rediquestacosaediquestonome loistimochequiuigia
ce nascosto qualche inganno,equalche aftuta frode delD e m o n i o m a l u a g
i o. O u e r a n c h o r i o p e n s o c h e il f a c c i a c c i o n ó se
accordi con lavoce della santiffima Trinita,e cosi uuole
pareredinonapprouarequella.LaqualeeDio uiuentein sempiterno.O
forsianchorailfaacciotiraetauertiscamag. giormenteThuomodallaconsuetudinedellecerimonie
del la nostra religion e Christiana, A n c h o r a il puo fare per quale che
altro ingannoetfro de il quale noi non sapiamo ritrovato dalli antichi Gentilie
Pagani sottoilnumero pare.Loqua
leuuoleuanofufficonsegratoalliinfericioeallispiritierano giu nel profondo elo
dispare allisuperi,cioe allispiritihabir tauano Touradellicieli.APISTIO.Aftaisonfatiffatto.M
e dimmi Strega.Conosceuitudiesser ingánatada questotuo amoroso STREGA.Non
mai.APISTIO.Come-e-posli! b i le
cotesto: Quando tu vede u i d e s p a r i c e l i d a n a r i, c h e c o s a
ittimauiturSTREGA.In chemodo de parefsinonon con, Sideraua,Vero-e-cheeglidame
ritornaua,etmicompara uaconmolciamorofipiaceri,epercotalmodomi legaua, chenon
pensauaaltcochedela.APISTIO.Che cosaaddi mandaua che uuoleflida tequando
tiprometteua ianitecol se,quandocidayatantipiacericarnali,echefingeuadiesser t
a n t o g r a n d e m e n t e i n a m o r a t o d i t e s STREGA. N o n a d i.
mandauaaltrodameeccettocherenegasselafedediChri/ Stoenon uuoleffehauersperanzapiuinello,ma
cheme ilu genocchjassealuieloadorasse eloteneffeper Div. FRONIMO. O
iniquiilimo,o fpurcissimo,o fceleratiffimofpiri to detto ueramente dalliHebrei
Sathanaflo ouero aduerfä rio,edalligreci Diauolo,edalliLatiniCalunniatore.Se
puo pensare maggiore calunnia,emaggiore ingiuriacontrade iddio quáto eche
faccicanta forza questo fcelefto colle fue maluagie parole
diuuolerlirobbareladiuinita,echelauor gliaattribuireasecontantaatroganza,econ
tante bugies IlpercheforsihaamatoquestonomediDemonio osiaper dimostrarechehabbiala
scientia ouerper daretimorealle creature.Eglie uero cheecosasupremante
aluipropria efa miliare ditessere ordinaree comporre le isisidie et ingani,
Coliparimenteingannoilprimohuomo,sottoilnomedelli Dei donde-e-uscitoiluocabulo
del Calumniatore,ficomedi ceGiuftinophilosophoemartire. APISTIO.Sa Stregadi,
Inchemodo erasu discernuraeconosciutafralialuribuoni Christiani:STREGA.Non
uierauerunadifferentiaframe elialtri.AndauaallaChiesa,miconfessauaneltempo
della QuaresimaauantidelSacerdote decurtiemia peccatieco cerco che diquefto
Dipoi andauá collalori a comunicarmi alloálcare.E cosinon
eradifferenciaalcunaframe elaltre donne.Non uierauaane coteftecoreilmio
amoroso.Sola. mente eglimi comádaua che douessedirealcune cosepian
pian,enafcoftamentefacessealcuni arcilequalicosedetree faite altro da nienon
uuoleua. APISTIO:Racconta iltur to aparteperparte.Sendo nella Chiesane giorni
delle feste,comandauaame cheleggendoilSacerdote lamessa
adaltauoce(sicome;Tesuole)diceffeiopianpian ii ii Hon euero,tunenientpierlagolaequandoleuauaquel
lola hostia consagrara soura del suo Capo per dimostrarla atuttoilpopolo
acciochesiaadoracae reuericamoleus cheioriuoltafi liocchialtrowe,enon
laguadasse, etanchor micomandauarivoltafsilemani dopo lespallee piegaffele deta
sottoleueftimente incotestomodo,sicome uoi uedeti io facio.cioecheglifaceffele
ficca.Dipoianchoramidiceua.
nondouesliscoprireuerunacosadellinoftriamorofipiaceri, al Confeffore n e
anchora di quelle cose che pertengono al giuoco.Egli iftimaua poiche non importafle
cosa alcuna se ben uuoleffedirealConfefforelealtrecoseoueronon ledi
ceffe.Voleuaanchora,chesendoandataa communicarmi, fecondolausanza
incontinentisendonimipoftal hoftia consagrata nella bocca, la giraffi fuora
fingendo di asciuca r mi la bocca e laconferuaffenelfacciuoloperportarlaalgiuoco,
accioilbeffalimo, etischernissimoconquelli fceleratim o di,sicome disopra
disse,etanchora perche il conculcassimo collipiedicon
quelliuituperiigiaauantiraccontati.Dipoi portauadicontinuo due
hoftieconsagratenella miaueste culite,percheellome diceuache
uieratālauectuineffefen dole portate in quel m o d o senza riuerentia,m a
anzicon uie tuperio,chemainonpuotrebbe confeffarelinoftripiaceri,
neanchoraaltracosa delgiaoco,benchefußiancheinterro gata dallo Inquisitore n e con
tormenti,ne con altrimodi. N o di meno aftreggendommi imperholo Inquisitore em
e pacciandommidiuuolermgirauemente martociarefenon
confefauaquestenostrescclerate operemi commando quel demonio maluaggio,
legetraßein queluafo,loqualehai uea portato a m e ilGuardiano della pregione
per farele mie necesitati.APISTIO. Facefti questoiscómunicato.com mandamentos
STREGA. O me mischinella, et infelice's bubbidi.Ma non ui rencresca diudire una
cosamolto hori rendae pauentosa cheoccorse.Rompendoioinfeliceescia gurata
quellesagratissimehoftienelfterco,con unuaerga, vide uscire da quelle il vivo
sangu e. FRONIMO. Che odi dire hoggi: Puoesserequesto Credocercamentechemai
piuno udiranolemie orecchie finilioperefcelerate etis communicate. DICASTO.
Andiamo un puoco nel giardino ecosiforsicaminandoefpasseggiandouiritornara lo a
ppetito. H o r f u r a m e n a la strega nella pregione. APISTIO.
Inueritauidicochenómaihauerebbecreduto che fe poteffino,non dico fare,m a pur
penfare tante fceleritade, tantemaluagioperee tante ifcomunicate cose,quante ho
udito hoggidalla Strega.Ilperche avanti facilmenre haverebbe perdonato
acoteftagenerationedihuominie didon ne credendo chefufferocondurrida qualche
leggierezza o ueroda qualchemancamento diceruello adintrareinque fto errore
etanchora iftimaua che fusserocotefteStreghe e Stregoniingannati dalle
apparentiuisioni e illusion e fittio nidelDemonio
etanchora(iodirolamiaoppenione)non giurarebbichenon sianoingannati, ma
hora11comebuono e fedele Chriftiano c o m e sono itato eth o creduto quello,
che debbe credereciascunuero Chriftiano, non mai con fentirebbifedouessedare
uenia,neperdonareacoresti ini. quifcelerati
emaluagginiolatori,efpreciatoridella nostra fantiflimafede. DICASTO. Se
tidimostraroche cotestoap pertenne alla Religione Christiana di douer credere
che sia noinuerirafattedaqueftifcelerarihuominialcunemaluag gie opere etseiɔti
conducero tantiteftimonii, ilperchne o n puottaifaredinon credere efferemolte
cosenellantidetro giuoco chesonouere,enonfintene ancho imaginate,m a Li come siamo
consue t i d i parlare che siano reali io penso che dipoinon farajostinaraméter
efiftentia. APISTIÓ. Ancho ranon sepiegailmio animopiuinunaparte che nellaltra.
DICASTO. Dimmifettepiace,Vedeftimairefuscitare municate.APISTIO.Anchora
iosondicoteftaoppenione dinonudiremaipiufimilisacrilegginesimilihorrendeope te.
FRONIMO. Dehperamore deIddiopartiamocidi quietandiamoincontrodi Dicafto,
feltipiace,cheritorna danoi. APISTIO. Moltomipiace Andianio. DICASTO Hoben
comeuafecifatiffattir Vi-e-anchorarimastaalcuna cosa da dovere intendere.
FRONIMO. D e h il n o f t r o D i cafto,iotedico chepercotalmodo siamostomacati
cheno hauemopiubisognodipranso.Iotesoben direchesiamo per una uolta
sariati uerunmorto. APISTIO. Non maihoueduto tantomira, colo. DICASTO.
Creditu che possono resuscitare e mortis FRONIMO. Non lonegara no.
Conciosache-e-quefta cofamoltocancataefouente ramentaca dalli Poetietand
chora-e-scrittadalli Philosophi, e maggiormente da Platone. Liqualinarrano come
resuscitarono limorti,etusciros no dell’inferno. APISTIO. Ne ancho per queste
cose m i acqueto,incoteftaoperachi-e-ditantomomento. Ecolino
credoalliPoetinealliPhilofophidicioma libenaluange lioDICASTO.Io
tiuoglioproporreanchordelliefsempii dialtracosade cuinonlefamentionenella
fagrascrittura, Dimmi credi tu siano uscite le naui dalle Gad i cioe da quelle
due Isolecheso non elfinedella Bethicanellaetremita della terra
noftrauersolooccideniedouife diuide la Euro padallaA
fricaretanchorchesianouscirefuoridelportode VlissiponadiLusitaniaosiaPortugalljareche
quelleriuolte versiol Zephiro siano stato portate da circauentimigliara di
ftaggi,o piuomanco fiacome silioglia,perinsinoa quel
larantoampiaterra(lagrandezzadecuianchornon fecor nof c e) e cosi portando le
hora il Zephiro per il mare atlantico
siano giunte allo Indico feno. APISTIO. Si lo credo. DIGASTO.Tu locredi.
MadimmiacuilocreditAPIST. A tantimercatapti liqualiraccontanoin che modo hanno
fattotaluiaggio souradellelarghespaledelmare colle 11o dantinaui. DICASTO.
Haicu maiparlatocon quellis. APISTIO. Non ho gia ragionato con quelli ma pur alcunayol
ia ragionando di cotesta cosa curiosacon quelli liquali h a uerano udito
daquelliche hannonauigato per detti luoghi lo diceuano,etconfermauano che coli
era. DICASTO. Il mio Apistio dimmi non ti hauerebbono poffuto ingannare quegli.
APISTIO. Deh, no chi serebbecoluichi dubi tal, che l’huo m e n i gravi e gia
maturi di conseglio si d e l e tra s s i n o d i favole e di menzogn e s
DICASTO. e dunque io producero quiuinelmezzo non menore numero ditestimonii
dinon manco grauica:edinon manco.oppenioneet istina tione,de quellituoi
liqualihanno cófermato con giuramer to come. Sono portate algiuo cole streghe e
li stregoni, come li demonii danno amorosipiaceriállhuomini in effi g i a
d i donne et alle donne in figura di huomini, e cotesto Thanno havuto dalla bocca
dies li stregoni e streghe conil 20 line old od sagramento costretti
chene dirai esera tu poi fatiffatto. FRONIMO. Se potrebbedire ueramenteche
coluinon fussiin talmodo satisfatto,fuffioscioccoo pazzoouero oftinato.
APISTIO. Deh pertuafede di'per quale cagione. FRONIMO. Percio chequando sono
moltidiunamedeme voce, 11on pare c o n u e n i e n t e c h e sia u e r u n la d
e b b i a n e g a r e eccettosilnofussida qualchebuonaragioneper cotalm o po
costrettolaqualehabbiatåraforzacheportagettareal baffo quellaoppenionecosiconfermata
ditantihuomeni. Jlchecredotunon habbi.APISTIO.Questatuaragionc h a puoca forza
in quelle cose che paiono louerchiare lefors ze dellanatura,m a ben affaine ha
in quelle cose ne ueneno nellulodellhyomo.Ilperche non ho fattodifficultadi
crede requelviaggiodellenauidiSpagna nella Indiaetaquella
terranuouaecofiaquellialtriluoghima benfogran diffisculta in credere il giuoco
di Diana. FRONIMO. Puo' esserre uno molto maggiormente contrario a quelli che
raccontano il viaggio della India che aquelli che narrano I givo;
codellanotturneHecare cioediDiana.Concioliache dets.
touiaggiononfugiamaipiùperuerun modo conosciuto dalla antichita,m a solamente
furono ritrovatialcunipuochi segnali con liqualidicono gia giongeffe non soche
naui dal JaIndiaal litto di Spagna. M a hora senauigadella Europa per il mare
di Ethiopia nella India. Eco si hora gia f o r o s r o
gnatiiporti,etilittinellecauoledepinte.Anchoraalpresen Refono ftato
ritrouatealcune Isoledi marauigliosa grandez za chemai non furono conosciute
dalli antichi.Et anche nonfumai ramentata nescrittaquellaampiaterra,emol to
marauigliosa per lasua grandezza retrouaraquesti anie ni
paffatiLaquale,fefusiAtataconosciutadalliPhilofophi,
liqualiseimaginauanoesserepiuMondi nellordinedella natura,forsicon maggiore
ragione hauerebbono dimo, Atratolaloropazzia.Delle qualicofeinouamétecontantefa
ticheritrouare'non hanno fattopur uno puoco dimentione o Strabone,o
Ptolomeo,quero anchora quellialtri;che for no suco
reputatipiufauolatoridiefli.M a delle Streghe ne fattochiaramentione
nellilibridelliantichietanchor delli moderni.APISTIO.Io lento, m a nó
foimpechoin chem o do,apuocoapuocomouersilanimomio accioconsentialla
quaoppenione.Vero-e-cheuolétieriudireieteftimoniipro mellida Dicasto
diconducerliauantidinoinelmezzo,ec a n c h o r a d i s i d e r o d e i n t e n
d e r e d e l l e r a g i o n i se ne ha della l e tri,olcro di quelle che ha
detto. FRONIMO. Deh il mio Apiftio tu debbefaperecome-e-fegnodipuoca
Atabilicadi animodiuacillare,erdipiegarsimoquiidimo riuolgerli indimo
fermarsiedipoimouersidalluogodouieraferma, to. Conciosia che quelle
cose,dellequaliauanti diceuamo. Senonpareuanoateuerepurpareuano imperhomolte fi
milialuero dapoianchoracontradiceuie dicenichemeri tamente era da
esserecontradetroda tea similicose,m a ho ta c o n una certa inclinatione di
anim o confeffi dieffere tirar
toesforzatodidouercósentireallanostrafentétiaetoppeni one. llpercheame
pare(perdonamiperho)chemeritame tepuotreffieffernuotato diinstabilita
eccetto,setunon ha) ueffiusato iconia,ouero simulatione,e ficcione. E cotefto n
o serebbe meraueglia, perchetuseiusatonellifintigiuochide gli Poeti
etanchoraseitumoltoeffercitatonelliDialoggidi Socrate.Perilche interujene che
lepersone sono usate in der tilibri, onon maio uero con gran difficulta
sepossono rimo ueredallidettimodi.APISTTO. Fronimo mio io non fingo in cosa
alcunane anche giudico che fiabi sognofra teem e de Ironia ouero simulatione,
ma io te dico il vero, che non quorejcofi prorontuosamente credere una
cosaditantom o mento.Ilperchepaream echedamegliodidubitare pur che modestamente
sefaccietanchoradiscoprireetidi e quindiledubbitationidellanimomio,cioemoa
temoa Di cafto,ficomescopreloinfermolesue infiaggionie piaghe. Al
Chirurgico,checrederefacilmente senzaragione.Cone ciofacheiersententiadiungrandehuomo(fiben
miricor do )come sedebbe andarepian pian,edipaffoin passo in
quellecoselequalipaionoche Couerchiano lepoftre forze accioche se inconcanéti
fufferosprezzate n o s a m o da nasco ftoinuiluppatinellifrodi, epelcontrario,seincontanétefuf
ferocredutedanoi 1100siamopresinelleceticollesuspicior ni delle
fcioccheuecchiarelle.In uero'fisonftato dubbioso nell’animo mio, c o s i m i p
a r e u a d i d o u e r dubitare N ó h o i m perhomai contraftato
conlaninoostinaco.FRONIMO. Secolie-echetusiadiquestobuonanimo cioeche uogli in
coresta cosa usarelintellettoenonla uolonta,certaniente possemo havere buona
speranza dite. M a t i u o g l i o d a r e u n buonricordocosiinquesta cosa
decuihoradisputiamo.co m e n e l l a l t r i c h e p o r t a n o p e ricolo, e
sono de importanza (si o m e si s uole
dire) c i o e c h e p e r c o t a l modo fa c c i c h e n o n u a
diauantilauolontaallointelletto cosiuogliodire chenon uogliuna cosa seprimanon
hauetaibenintesa econosciu ta.M a sono alcunichecaminano pel contrario
nellordine delliftudiidelladottrinacioeprima diffiniendo,e concludendo con l a s u a uolonta, ouero secondo il suo u
uolere che cosasiailuero auanriben consideranoconlointelletroeffo vero.APISTIO.
Hogran seredintendere che cosa ha da direinqueftonoftro caso
Dicasto,Joqualeuedo ritornare d a noi. Certamente non puotrano essere(almio
giudicio ) eccettechedegneeteccellenticose,purcheluuoglia ferua tele
promisfioni. FRONIMO. Bisogna primeraméte iftin guere lanostra fame
edipoisifatiffaraallacuasete. DICASTO. Andiamo
perche-e-apparecchiatoilpranso.Dehpec noftrafedenon tardiamo piu conciosia che
affailongamen tehqucmohoggidisputatofichenonbisognapiu dimota re.Equando
poihaueremoinkaurato ilfarigatocorpo di quelloeglieneceffarioperla continuarouinadelnaturale
caloreintraremo poi nel giardino della disputationec h e cirimane.fando fram e
fe-e-uero imperho quel lo che ha narrato la strega. DICASTO. P i a c i m m i,a
d d o manda lantis dettiuitiiesceleritade,cioeche spesieuoltefacionola penin tentiapelliufernodopo
lamorte etiuisianomartoriatigrai uemente.Non ferebbemegliocheleprohibiffeIddio
non si faceffino,che dipoi lhauerano fatte didarli la penitentias
DIÇASTO.Meglio certainére ferebbe felsereferisceque, Hoa
coluichihafattolemaluagieoperepercheselnonhain uefleoperatomale hauerebbe
fattoben per fo.APISTIO. DunqueperchenonleprohibiffeIddio.Non ferebbemag giore
cosa epiudiuina,lefusserodiuinamente 'uietare& DICASTO. Sono b e n u i e t
a t e c o n la l e g g e m a n o n c o n l o p e t e ra CioeIddioļeprohibiscemediantelalegge,m
a nowole per forzateniceIhuomo non operia suo piacere.A P L S T I O Perche
épermeņa da Iddiolamalgradeuole operatione, et il peccato
cioeperchepermettechelhuomo facciopecca to DICASTO.Perchere
liberolhuomo,er-e-infuoarbi. trioe volunta elibertadioperare ficome alai
piace,oilben oilmale.APISTIO.Nóferebbestatomeglio chenófufli
mainatocoluiloqualeconosceuaIddio,chedouea fouina rcin. APISTIO. JIP OICHE
HAVEMO SCACCI a t o l a f a m e c o l l i c i b i e u i u a n d e t i p r i e
t. g o Dicafto Inquisitore delliHeretici uoglieffer concento,chepossachiede
reinantidituttelaltrecele,una certa m i a dubitatione Laquale ha granden mente
feditolanimomio,no con uno scrupulo niacon una agura láza,pen pur quelloche tu
uuoi.APISTIO.Non guarimi sa tiffanoquellecosechediconoalcuni della
pena,chi-edata da Iddioacoteftibiafimeuolihuoineni e donne, 3 e,per
teinquefe grandisceleritadeetiniquitade&DICASTO. Si
Terebbestatocertamentemeglio chenon fuffimai apo paruto almondo coluichiperfeuerane
peccatiper infinoal f i n e d i s u a u i t a, m a c h e f u f f i m o r t o n
e l u e n t r e d i sua madre. APISTIO. Maremainonfuffeftatoperuerunmodo peii
fituchelfuffemeglioperquello DICASTO.Perchi: APISTIO.Per luj.DICASTO.
Perdonamiilmio Apistio Tu parli moltoscioccamente. E poffibiletunoucoulideri
che questaje,unapazzescaquestionesConciofiachetanto
ifrasesonocorrarij,elloreniente cheuno-e-rouinatodallalt t r o: N o n f a i t ü
c h e n o n p u o i n t e r u e n i r e u e r u n a c o s a o sia p r o fperaouerfineftraa
niente chediinaginamorAPISTFO. PerqualcagionedunquehacreatoDio coluiloqualecono
fceua douefte andare allieterni fupplitii DICASTO. Per sua
fommaetinfinitabönta.APISTIO.Come fiapoffibi. de coteftor DICASTO.
Cofve-poffibile.Perche non sia for uerchiata lainfinitabonra di Iddio
dellaperuersa malitia dellhuomeni.E cosisenarra cherespondeflesamo Pietro
Apoftolo a Simon M a g o,rendointerrogato da quello quali di fimile cofa feben
referisceClemente ladisputationefatta f r a ' e f i. D i m m i u n p u o c o A
p i s t i o ti p a r erebbe fuffi b e n c h e ceffafliIddiodacantogranbeneficio
cioedicreareleante m e pedrespettodellhuomo chel doueffe dapoimale ufarec
conciosia chereioperadifomina bontae de infinita poteny tia
Anchorasebenconsideraraiconlameitėtuatuttele uercudeetopere
dilddiodimostratealmondo tu uederái che secauafuorila Giustitia
dasemedeme,folamenteftren gédo quelliliqualipiuprestohanno puolutofuggire
fabori t e la benignita di quello che receuerla.N e anchora per
questoseiftingue ouero se diminuisce lamisericordia cory cioliachemanco punisce
quellicherechiederebbeilrigo redellagiustitia.Efouenteuseissequalche cosa
daeflafcelel tagine perpetratapfreie carciuiliuomeni edonne cauata d a I d d i
o p e r q u a l c h e m e g l i ore fine. De cui dice farito Agosttino, che
etantobuono,chenon permetterebbeueniffe ueruntmale fenonvuoletteda quello
trarne maggior ben. Ilche spefeuolte,li1100fempre,elftátoüeduto uscirnede kk
ii la cariftiadellauixuaglia.Etanchot conoscono qualmėteseguicaronoperdettaingiustauendu
ta moltiegrandimisterilliqualiramentano con gran ciuerentia. Anchor per i
tormenti et occisioni, e crudelta de che feceroi Tiranni contro delli secui de
Iddio, cispiandelauercia egloriadicflimartiri.MachepiudirorPerlacrudelemots te
e durissimapaflione etuituperofamorte dimiffer Giefu
ChristoueroDioethuomo,apparuilainfissigabuontadeId dio riscuotando,eredimendo
tutta lhumana generatione dalla eternal morte, etaprendo
laportadellamilericordia ec anchordellaGiufticia.APISTIO.Dob quantoben hanno f
a t i f f a c t o a m e c o r e ft e tue ragioni. Cos i a n c h e p a r e a m e
c h i fiailueroquellochituhadetto.Ma horasendoiofatiffatre da re quanto
aquestedubbitationi pregoriuoglifeguicart il giacomenciato ragionamento auanti
delpranso,ciodi narrarecomeegliecoreftogiuoco cosavera enon finta ti
Titrouatnaelle fauole,sicomeprometteftįdidouer dimotta
re.FRONIMO.Vuotucredereatuttelhistorie APG
STIO.No.percheseritrouanodellefauolenarrate con co lorede historia,licome
equellafauola Samofatenacioe di Luciano.Anchorasonomoltealtrehistoriepercoralmodo
incertee scritreinduoimodi,efouenteancheinpiu,tanto
uarieediscopueneuolifrafediuna medeme cosache paio n o ellernon guari discosto
dallesemplicifauole. FRONIM O. Certamenteturespondibenenonmancobeninten
di.Ilperche ficome alcuna uolta rispiande fralletenebreet maliilben,
dallidottihuomeni, feben forsinofiafutócon fiderato dalrozzo uolgo. E per
dimostrare che colisia ftato uoglio narrare alcunipuochi effempii,benche
sepuotrebi boiioramentareintiniti.Leggiamo qualnientefuflivendu -to ilgiusto
Giosepho da frategli,con graue loro peccato.Il rozzo uolgo non pensa piuolaa,m
a solamente eglieag, gradevoleihistoriam a lhuomenidottiedigranfpicito,pici
tofamenteconsiderandoauertisconoqualmenteperdetta iniqua emaluagiamercantia,interuienechedipoifufatto
Iosephoquasisignore,eRe dituttoloEgittoecheliberoil padre efiategli
etuccalafameglia dallamorte,che glifey rebibneteruenura per
ofcurita dellefauoleun puoco ditumedellauerita.colifral
denarrationidellehistorieche sonofra le contrarie,forfaucie
ritroueraiunauera,ecosisendo Jaltce false,eneceffario dian
nouerarlefrallefauole.Conciofia chenon fie poflibile,che
combarrijlaueritaconlauerita. Mao Dicafto,amepare dintendere quello chiuorebbe
Apiitio. DICASTO. Chi cosa s. FRONIMO. Vna historia da molti teftimoniirappro
uataa cuinoferitrouaffealtranarrationecontrariadimag
gioreouerodiegualeauttorira.APISTIO. Jaueritatuhai dettoquello
chedesiderauo.DICASTO.Iuiprometiodi dimostrareche ficomepertenealli Chriftiani
didouercrede reche fifacciquestomaladetto e iscómunicatogiuoco.com
fianchegliapertene didouerlo iftirpare esuelgere,erouina re.
Ecofruipramettodiparcareaffaihiftorienon contrarie frafe, mafjben
moltoconcordeuolie fimili.Anchor uoglio farecodacui qui auanti la Strega,
elacostregnerocon ilgiu ramentoaccioconfeffiiluero.Suoguardiano della carces
tepreftoconducequivilaStrega.Efapiatiqualmére testi monii,che uiproducersoo n o
molti,esonopigliatidaquel di che fono ha u u w i dall’huomeni costretti colli
giuramenti et anchora sono iscrittipermemoriadequelliseguicaranodie tro anoiet
anche per approuarelauerita:APISTIO.Core ifto ho a piacere deintendere. Horfu
dunque comenza. DICASTO. Benche uipotrebbimádare a leggere li-libriferic
tidiqueste cose congransollecitudineefochecotestonon fpiacerebbe a Fronimo,
ilqualemoftra dihatere ftudiatoin tuttelegeneracionide
scrittoriperquelladegnadifpurcacio ne che hafacto,purno mi parephoradi farlo
perche cono fcoche Apiftio non remanerebbe contento,ilquale dechias facon il
suo parlare tanto elegante di hauer gran pracicanel lilibriscritticon
ilpolitoetersoftilo,etanchorpacedilettat fi grandemente
dequelliscrittoripolitietben accommoda tinelparlare etornatidiun
certofaufto,epompadieloqué
tia,ecosiparechenonlipiacerebbonoquellialtrilibripriui dedetta policita,edidettaelegátiadidire.APISTIO.Puo
effer Dicasto che tu condanni quesse figure di rhetorica hi uit Ea nico
Zio U ouero cheforecilornato parlare cofidellidersi come della prosa o
fia sciolta oratione DICASTO. No. Non maillofatto ne anchorfonperfarlo. APISTIO.E
pur imperho usanza de alcuniliqualiquandoharannointeleladoctrina dePaci
secioequellachire-scrittaperquestjúcellediuuolerilehet nire,ebeffate
lacontinuata oratione,ben ordinata ediftit tamentecomposta
collicoloriefigurerechorice,benichean
chotapurhoueggiutodellilibriiscrittiaPacifedaeflıBarn bacielegantemente
etornatamere compofi. DIGASTO. Vuoreftimai cuchefufliunodiquelliche sono
amouerati frallirozzietinelegatirconciosiachefocome colielegante
mentefecissecoSanGiovanniGrisostomo,ilmagno Baglio, Tee Gregorii in Greco, et
in Latino san Geronimo, Agoftino Ambrogio, Cipriano conmoltialcis APISTIO
cioefodaefenzaerroree senza fauple, laela quentia non solamente debbe
efferecondemnata eciproua. ta,ma anzidebbeefferdacuctilodataficomeeccelétebud
non fralliinortali,chi-e-approvatoconlaragione etauttori
tadelliantichiefapientidoctori. APISTIO. Chelibrifono
coteftisetinchetempofuronofcrircis. DIGASTO.Sono molti.Veto
echealcunidieffifuronoscrittigiafesantaany nifactunoui-e-chifucópoftonellanoftraeta.
APISTIO. Chi furonoliauttoride dictilibri. DICASTO.Credo chi f u f f e r o
Belgici o e Galli, over Germani e Thodeschi. Ma di que h o ultimo de cui h o
det o Furono li scrittori duo i Thodeschi. Liqualilif forzaron odispaccaree
rompere limaghi incantatori, e le Siregheconunmaltello, emolto piu'forter
menteeconmaggiore giustitia,chenonfeceNicocreonc ciránodi Cipro ad occidere
collimaltelliAnaffarco Abdeci de philofopho.APISTIO. De chiftillosono. DICASTO.
Di quello chiuolgarmétesechiamaPacifinocioeperque ftiuncelle Dimmi
Scrifferoanche egliikerli:DICASTO.Sialquátidiloco,ac ciolaffanoalcunididire
comeeraconuenièrenellantidetti sempidiscriuereinquelmodo,conciosiache
anchoracom batteuanocollinemicidellafededi Cbrifto colliuerft.Non mancano
anchoranenoftritempidi quelli liqualifacilme tesonoriratiallefagre
cosedellasantiffimafedediChrifto, conloelegåteftilo econ loaccomodato
parlare.Purchesia calta,e fobria EN 0 0 1 1 2 lo Y li libri. Et anchor la
strega la quale gire appropinqua a n i c i condutra dal Guardiano della
prigione forsiramentaradel laltrecofe altro diquellecha racco:ato che nófono
anche elleiscritrein uer un libro.DICASTO. Son contéto difare horacome
uuojparimpechochiedédoniperdouăzs,ledi toequalche cosa chenon fiaticonfueri
diudire. Cosiciofia fiqhcelle,m a fono (crittecon molta sottilira,quanto fiapof
fibileascriverediessamateria,decui parlano, ficomeimpe sho h a m m ipareet
anchorsonofermati con la verita delle teftimoniidefantihuomeni.E non
folamentepareame co teftoma anchoraamolijeccellentiTheologgi.Ilprencipio
diquefto ultimo uolume comencia dal Pontefice Maximo, ecil fin-erapprouato con
la auttorica di Cesare.Gia ho chiai ramenteefermamenteintefecome
landdettolibrofu publicamente approvato dalli dottori di sagra Theologia del
Juniuerfita di Colonia Agrippina. APIST10.Vuorej Dicaa
ftochetuminarraffiquellecose lequalituhaipromeffodi narrare al propofito noftro
ofiano di quelle da quei luoghi cavate, overo de altri luoghi accio le possam o
meglio intendere con il cuo parlare concio sia ch e meglio le dechiarara i
narrandole tu.Tlperchefendo anchorquiuipresentealladi fputationeilnoftroFronimo
credocheanchealuinófera grauediramentare dellalırecosecheforfinonfiritrouano
Icricce,ficome p suagétilezza hieriethoggi non liparuigra medinatraremoltecose
degue,chenon fonoscritteinquel che de ben h o apparato le littere Grece e
Latine, non di meno imperhonionm i fono con menore Audio effercitato fralli
Theologgi. Liqualiłassanolapolitiaerornamento dellino caboli etanchora
tantatersitudinedi parlare folamente se fforzanodiconoscerelecosecome
inueritafono. FRONIMO. Eglie menoredanno quello delleparole che quello delia
cognitizione delle cose. Mare-ben neto cheioiftimo,
chccoluidebbeellereffaltatoelodato fouradellaltriilqua
Jehalornarodelparlarecongiuntocon la cognitionedelle cofe cioefoura di quelli
chi hanno solaméte o lungoialtro. Vero
echesepurnonliposloviohauereamenduoi,iftima shec'megliodịhauere
lacognitionedellecose chelparla re polito,et ornato,dieloquentia.Benche
ficome ho poflur coconoleereperiltuoragionare,pofseuilafare ftacediad.
domandare questa uenia eperdono. DICASTO. Io diro latinamente al meglio puoco.
Hor sucomenciaro. Auanti diognicosauoidoueresaperecome egliechiaroemanife.
fto,chicolui,chinegaffeesserelaDemonii,meritarebbedi eserschacciatofuoridellacatholicaChiefia,licome
grádea. meiitecontrarioallasagra scrittura,e maggiormetre aluanı:
gelio.APISTIO.Concedo cotefto effer uerissimo sanza ver un dubbio. FRONIMO.
Anche meritarebbe di essere Scacciato coftuidisinileoppenione cioeche diceffenó
effer iDemonii,fuoridella Accademia edalLiceo.cioe fuoridel
JaschuoladiAriftotele.Concioliacheappo diPlatone e di tutiie Platonicie
fationon puoca memoria delli Demonii, acuinone-contrarioAristotele,m a
anzifouentenefamen tione non solamente nella Ethica, Politica e Rethoricama
anchor nell’altri luoghili qualihoranóscrivo. DICASTO. E ben vero che ne
faniioricordo, ma sonoimperhoinques Sto differentiate dalli nostri dottori
cioechequelliistimano aisianodelliDemonü buoniedellimaluagieperuersi.Ma noi
diceno che cutri i demonii sono perversi, iniqui, e malegni. Liquali benche li
nominamo sotto dicotetto nome Sat canasio e di diavoli pur piu chiaramente
anchora sono SIGNIFICATI per questo nome “demonio”. Il perche dice il Propheta
David, tutti li dei delle genti sono demonii e lo Apostolo Paulo anche egli
scrive. Non uuoreidouentafticompagni del i demonii e in uno altro luogo dice,
Credono e demonii, e tremanodi paura. Non fugia maiuerun huonofa uioche
dubitaffe,chequandolimalificiincantadori,eStre gheeStregonirouinanolefruttacollisuoimaluagiincana
elegano edipoisciolgono a suopiacerelibeni del cagioni ? matrima
nio,cioeche fannopermodo che licôgiugatinel matrimo nionon
poffoliohauerehonefti piaceriinsieme,edipoiqui dolepiaceglidanno
facultadipuoterli hauere,etche an. chora tormentano
lecreaturefuoridelconsuetomodo del lanatura
chenonsianofattedettecoseconpattieconuen tionidellDemonii.Boperqueftoetanche
permoltealtre cagionisonofateordinatemolte altrecosecontradicotefti
teretiniquihuomenje donine dalliTheologgi cosi antichi c o m e moderni
etanchora dalla facra scrittura, edalleleggi Canonice della santa Romana Chiesa
etanchordalleleg giImperialt.Imperbo cheritroviamoilcomandamentode Iddio
nelDeuteronomiocome fedebbonoucciderelima. leficietincantatori_ilfimilecomanda
nellLeutico,cioeche SranolapidatiliAriolie, quellichihanno ilfpitico Phitonico,
dioe lidiuinatori. E Gratiano radunaaffaicosenella vigesima festa causa de
decreti contro dicoteftifcelerati malefici. Anchora sepoffonouederequelle cose
chescriue SantoAgostione libridellaCittadiDio;edelladottrina Chriftiana
diqueftamaladetragenerationed /perchefepor fon piu p u o c h e cose raccontare
oltra di quello, che h a esso fantiffimoe doctissimo huomo scrittoinquejluoghi.
Iocacı giolimoderni Theologgi liqualinon puoco hanno scritto contra
dellimaleficietincantatori,eparimente anche con trodellimaleficiter
incantamenti sono anchora constituce
leggicontradieffumaleficiemathematicinelleCiuilileg.: gicioenel Codigo di
Giustiniano Imperadore: FRONIMO. Anchor se vedono affaicolene libride moderni
philosophi.colide Platonici come de Peripatetici, cioedilambli co di Proclo, e
di Porphinio, lequali poffoneffer'moltoapro pofito. APISTIO. Sicomeiononnegoche
siano e demonii e chepoffonfareaffaicofeconlafuaperfidamaliciacosián theio
defidecochemifano dechiarate quellecose, chipro, priamentepentengonoa quefte
Streghe, cioesedannoal giuoco ouero uisiano portate con ilcorpo enonfolamente
con la uolontao con una imaginatione, e finta reprefenta tione. DICASTO.Suole
dare gran faftidioquefta queftio. ne
ecagionaregrandubioinmoltepersonetragendoneof calionedalleparole del Concilio
dell equaline faicoquanti mētione. Lequaliparoleleggonfinellaquintaquestiondel
LaurigesimafefaCausa.Ilperchecredonoalcuni noefferui presentialli
dettigiuochiqueftedonnuzze ehyomuzzicon il corpo,una solamente con
lainagniatione.M a alcuni altri diconoeffercocefto
giuocounanuouafpeciediHereliadi versa da quella antica superftitione.
Anchorà altrinuoletto chelafiatotalmente quellamedememacheiuifiafatiofo lamételaquerellaetimpoftalaperda
quellicheistimano essere Diana Dea overo Herodia, ferebbediuerfanaturadelcapro
dadiuerfopeco cipiouscita.Vero echesonoportatialliballieconuiti,etal lila fciu i
piaceri della norte uuolendo euigilando. Il perchie Fronimo e dame approuata la
tua diftin&ione della disputa rionedihieticon laqualeconchiudefticontecoteftogiud
codelle streghee malefiche e antico quanto alla essential e oftantiamare nuouo
quanto alliaccidenticide quanto - lecerimonie. FRONIMO.Sehoritrouatonellantichefu,
pecftilionidej Demonio ilcerchio,lounguento !, lincanto, il caminare de lcl
iorpi humani per il spacio dell a r t a, li conviti apparecchiati di piaceri
carnali donati all’huomeni e donne dalli demonii in figura de maschi e di
femine chi cosa ci manca piu accionoiftimamoessereantico ilcommertiot
familiarita dellis piritimaluagie scelerati colliperuerfiet in quihuomini?M a
percheseritrovano alcunecofe in questo vituperoso etis communicato spettacolo
di demonii hora da moltinarrate; lequalinon fileggono fussero anticamente
dimostrate ho detto lacagione, cioecheiltuttoseattribuiffe allagrandiffima
afturia emalignita, delsceleratoeperuerfo n e m i c o dellhuomo.ilquale in
diuersitempi a diuerfiordim e gradidi huomini haue apparecchia tomoke aru, e
modi dingannardi accio che cosicondettiuarii coftumiecondi uecli ingannie
piaceritrageffe efli huomeni delle precipito ferovine delli peccati. DICASTO.
Per cotefta ragione assai ouerochicredonochi.fi cangianoe trasformanoe
corpi humaninęlicotpidi Gatge ode alorianimali, per opera del demonio e
anchoraquel liche affermaucnodiefferforfipentalmodo difcetuto il rapto della
mente quando sefachefeipuo bên conoscereic reconoscerepereffofel fia portato il
corpoinquelluogodo Disalisselamente consciosiachedicaSanpauloapoftolodi n o n
sapere cotesto:M a quefte Streghe q u a n d o sono portál te con ilcorponon
sonorapitecom låninocioe ficome G fuoledirenon sono in fpirito, ma purse.
Fussero rapite in questo modo ami al 01 tel do od th que Ich til che ON
efto ad LO me ol fal ad cit ced era din hadi ad 20 il a m i e piaciuto quello
chehaidetto APISTIO. D u g uoi cerdetechesianoportaticolaconilcorpo DICAS Sicre
dochesiano portatialcunauolraconilcorpo etalcuirauol ta che cosi facilmenre
posson esser ingannati cioe che rendo naadamente illurae schernitala imaginaria
potemiase pene fano, e gli parediessere portati corporalmente oltro di Carr
gatacheier nodelli colli del Morite idea, et anchorglipa
reditraparfareloAscaniolagodi Frigia,etanchodiandare oltro dello
ululatodelloaltiffimoMonte Caucaso dellai n diacollarmi delle Amazoni. E
péfano,diuolare colle penne di Dedalo sicome lepare nel sonno. Ma per queste
coseno fono perseguitatineprelidalli Inquisitori neanchorefsami nati, ne
tormentacinecondentatiouero giudicati.MAPer Questonoicerchiamoconogni
diligentiacocesti STREGONI E e Malefic iperche hanno renegato lafede di Chrifto
chipigliatononiel fantiffimo battesimo,e
promiTonodiferuaria.eranchorperchehanno ischernicoc beffaro Wlagraniéti della
santa Chiesa, et hanno sprezzato Christouero dioeuerohuomoredétoredelmodo
ethino adorato il nefandissimo e spur i f li mo demonio invece de Iddio,et
anchora permoliialtrimaleficii che hannofarro liquali serebbono troppo longhida
douerliraccărare. PER Quelle cose Et Altre fimilifatte contro de Iddioe
dellasua trionphantillima fede noili perseguitamo,elieffaminamo e facciamo
liprocessi e cosidipoiretrouati e conuinri nelle lorofceleritadepertalmodo che
non lopofson negare, dia moli nelle mani delli Reggi, Signori, PrencipieBaronio
gerodelliloro ufficialiaccioli puniscano egli diano la penitentia secondo che
comandano non solamente le leggi an. sichedella Chiesama anchoralenuoue
etanchorane no. ftrigiornirinunuate,primeramenteda Papa Innocencio Otrauo, ed a
Papa Giulio secondo.Vero-echetiammonia sco che ben auerufle da iftimare,che non
sianoporrato al giuoco corporalmente la maggiore parte di coreftirei huomini.
FRONIMO. Il nostro Dicasto hieriammoni Apistio egli feci intédere.comne n o
doueffe fprezzare e farfi beffe di I. quellochịe creduto da tutti o
uedr’alla maggior parte probabile cioechelepoffa fareintaleeralmodo.
Concioliachg ersententiadi Aristotele, come non erin tutto falsoquello chi-e
decto da tutti. Il che intendendo quel Glorioso Thomaso Acquistato annouerato
frallisanciper lasua bonta e piet ta,&anchor p lasuaegreggia
dottrinarepucato frallieccel
lenriffimidottoriiftimoefferedelliDemonii,liqualidaua nocarnalipiaceriallhuomeni&
alledonne ineffigiadima. fchiedifemine:dertiIncubi esucubi equestomaggiormés
teconfermonelsecondo libro delle sententie, percheuiera. No molti saggi, prodi,
& anchordorti huomenidicotefta oppenione. I perche o Apiftio,non vuole
contradirea quello chive-statorenuroueroconiantapublicafama,& anchorap
prouato con ilcosentimientodicanti eccellenidottori.DICASTO.Ben
etottimamentelhaiammonito.M a anchor accio se posta haver maggior
certezzadicotefta cosa,uien qui dame stregae giura allisantiu angelii de Dio,
liq uali ho posto fo r c o l e r u a m a n i come tu vedi, di racontare, e di
respondere il vero di quello ferai interrogata. Esappiqualme tefeiubbrigara
atalegiuramento chesetune mentiraiedi raipur unam e n o m a bugia,no
ritrouaraiperdono,ne remis fione; appo dinoi,& anchorpurpensa
dinonritrouarlanel Jaltromodo appo de Iddio. Ho giarato, E cosisia ricerticheno
uiingānaco;neanchorm i.DICASTO Dunn que
dimmieratuportara'algiuococonilcorpo,ouerofajn lamente con lanima o sia con la
imagination. Con ilcorpoinsiemecon lanima.DIGASTO.Come puotu
saperedieffereftataportataperariacola con il corpo congiunto con l’anima
Perchejo toccava con que mani il demonio detto Ludovico. DICASTO. Deh, chi co s
a t o c c a u i t u r Il corpo di
quello. DICASTO. E m o quel tale, quale e ciascun delli nostri. E porpiumolle.
DICASTO.Vieranoquiuidellialtri colli corpi r O l i fi in g r a n moltitudine.
DICASTO. E cosi diconotuttilaloricheho giamai essaminato, anchor sanza
darlinerunmartorio & il simile anche diconodi Inquisioridelaleriluoghi,cioechieframinando
quellidi questamaladetra compagnia comesimilmentehanno di [posti,vo
discostandosi da quello cheh a mconfessatoquel liinquesto medememodo. BENCHE
SAPÍAMO checo teftanone la cagioneperlaqualedebbianoeffermartoriati e puniti,
ma anci per havervi o l a t a e t o t a l a fede promessa nel facto battesimo
non dimeno imperho tuttie maschi e le femine di queftafceleratiffimaradunanzae
compagnia.co fidiquestoCaftellocomedellaltriluoghidelmondo,coli dellicaliacome
fuori di essa dicono inqueftomodo etcone fermano esser il vero di esservi
portati corporalmente con quell’altre cose, delle quale ne ha detto la strega.
Et a c c i o maggiormente lo poffeti crederevi voglio narrare unahifto siachenó
fu favola ne anchorae cosaancicamangoua,Gia puochi mesi paffari eta porcato
nelle brazza della madre un faciulito maschio, fi comesifuole aquella
fortiffimaroc ca diquesto nostro castello chi'c circodata di larghiffime
fosseet incorniata di fortiffimeetanchoraaltiffimemura, hora vedendo detto
fanciullinoquello fceleratiflimo Don Benedetto Bernio,ilqualefudipoibrugiaroperle
suemale magieopereficomeauanti diceflimo) che parlava all’hora copil Castellano
della coccafuo parente, gliuieneincontinente una brammosa e bestiale voglia di
asciucarli il sangue. Al perche moltogliparuipiulongoquelgiorno che non pa
reaquelliJigualidebbono receuere lamercededellesue
Atentarefatichepertantobeftialeappetitoe desiderioham uça diguftare
dellinnocente sangue del destofanciullino. Hor sendo pur alfinegiunto laoscura
notte dellescelerira. de madref, efeceportarperaria al demonio efermarfinel Ja
casa doue giaceua ilmischinello fanciullo nella cuna.Et asciugotantsoangue
daquello infelice bambino,cheroma Sefi comeunatrasparente ombra,che preko
preftopalla, non hauendoeffigiahumana.Ma nomaiimpo faconosciu itala cagione
dellinfirmitadieffone della pallidezza perin finochenon
fugiudicatoecondannatoeffomaluagiohuo. m o al fuogo. Perche
allhoraelloaddimaudo perdonanza al padre del fanciullino, per il male havea
farco. Ecosiandoe ri cornoperariapassandofouradiquellealtemura
dellanuje detta rocca
laqualeuedericola. Vadimo auantarfilantiqui cadelli antropophaggicive de quelli
popoli di Scithia chi magnaveno le carni dell’huomini, et anchora purmaraue
gliatlilanottraetadiquellihuominįhoraritrouatinelle110 de detmare Eoicide
orientale che ancheessisecibano colle carnihumaineconcioliachenelmezzo
dellaItaliain una regiunemoltohabitataefrequeritatadalli mortali, discolo da
ogniferitae bestialica, fi-e ritrovata una gradiliima c o m pagtira d’huomim
cosi maschi come femine laquale/e-par sciucapinftigatione del demonio
disanguehuinano. M a ritorijateStrega.Che piacerihaueuitunclloprelafciuccó un
corpodiaria STREGA. Non soc on chi corpo. Malo ben questo che havea molto
maggiori piaceri con lui che con il mio marito: DIGASTO Non faueuiumai paura,et
horrore efpauonto conoscendochi quello era il demonio, icon ilquale cu haueui
questi iscommunicati e sceleracipira c e r i: No. C o c i o sia che n o u e d e
u a a l t r o c h e una figura di huono. cccettochenepiedi,liqualinon pareuano
am eficonelafacciailperco, el altre membra. APISTIO. O chi figura o chi aspetto
o chi effiggia di finuto animale, er di finta bestia. FRONIMO. Eglie imperho
taleche nascon de lacrudeleaetasprezza edimostraunagentileforma,et fuauemolilia
con altribeltadedallequalif.noquellidol cemente tiratielusengati.Fingono
lantichiche essercitarse Venere lufficio dicacciatrice cercando per le Selve li
lasci uti piaceri di Adono, ac c i o n e t r a g g e f f e à fe il cacciatore.
H perche dicelo ingenioso poeta. Noda il gignocchio al modo di Diana
Cintralauefte,ecaniellanimali. Della predafecuraadhorta, e inganna. Et anchora
non alorimére inganno ilpaftore Anchise,eccet t o c h e in q uel modo, che
e’aggradevole ad un huomo che habitasse nella villa. Cohanchorcalitafsiinun
cerco Hii Hio da Homero inchemodoferapresentopuressaVenereaus tididetto
Anchiseineffiggia egrandezzadiAdmeta uergi nie.llpcheiuisiritrouano
quelleparole greche lequali hora Jetaccio. DICAS. Dehpertuafedeegentilezza,fiacontéto
di Simile a Adameta fanciulla pura. DICASTO. Chicora pensi tu
uuolefli SIGNIFICARE quellasimi Jitudine del Poeta: FRON.Non puo
coildimoftranoquel le coseavanti precedono,& anche quelle che seguitano.
Conciofiache addomando coluichi caminaua solo disco Ato dallisuoi buoi
eloeccito efuegliocon ilsplendore e con Na gratiae lotiro a douerfi
inarauigliare, fingendoff mors ditrafferricleinbolgaré. APISTIO.
Horfudilleinquel modo che face f t i h ieri, quando tu dice f t i q u e l l altri
p u t greche nel nostro volgare. FRONIMO. Non semprese accorda
talacerra,ficomefisuoledireperdouerefuonarene anche
Temipresuccedennapiacevolmenteesecondoildifioleco Yefatte allaf provedurae
prefontyofainéte, Cojneltrasferim t ë i patlare greco in latino et in volgare n
o n sid e b b e face enzabuonpenserb esageublezzaditempo. DICASTO. Priegoti
cheluoglihoratrafferiregiustamente fepuoi,feair choranonpuoifarecome
uuoi,faalmegliotifiapoffibile. FRONIMO.Io son contento,pernonparere
diefferofti. nato. Cofiuuoledire. Dar Sre Venere nata delconante Gioue. Avanti
di Anchifein forma e figura,
taleecosidipoihauendoliraccontarolageneratione,esuc ceffionedelli fuoi antichi
con longhe fauole,lo conduffe alfineallilasciuipiaceri. APISTIO. Holettocome
feciA n chise la meriteuole penitentia per dette cose,conciosia che f u p e r
cof f o d al fu l g u r e e cosi ritro o che gli fu a nnonciato qualmente
cofiglidouea interuenite.Ilperche ritrouiamo queluerso scritto in greco,
loquale hora hora cofi lo dico it? nolgare perchefo uiferamoltoaggrado.LoadicatoGioue
fediffecon lardente fulgure.E benche dimostra chiello d o ideaefferpercoffo con
talepena epunitione perrefpettodel peccato chi era manifeatato, non
dimenoanchora inanji fignifica c o m e colui ferebbe punito dalli dei, il quale
d e fideratebbe diuuolerehauere amorofi piaceri elibidinofe
deleteationicoeffiDei:Penichecôigegnofee maravigliose fauole
fingonolantichiqualmėte per simili cofe fuffjuccisa Semele
figliuoladiCadmodallo fulgure.N e anchorasong cótrarioa Callimacho,inquella
cosa che se narra di Tiresia at. ce che 710 qui Erg hon havuto figliuoli,
conciofiache foué tefe leggi delli figliuoli delli Dei. Anchemi ricordoqual
méte giadoidifadicellicomeerapurqualchefondamento delle favole. Pe č i l c h e
s e g l i c q u a l c h e fondamento d e c h i Cortijslono. Thebano
cioechisupriuatodesuederedallaDea Giunone perchehaueahauutoamorofipiacericon
Pallade,oalman cohauea cercatodihauerlibenchealtramenteloracconi
taCuidio.Vero-e-chi Callimacho,finge questa cosacon 'piuhoneftoparlaredicêdochecofigli
interueneffe, perche uide Pallade ignuda. FRONIMO. Chicosa ne hauemp per queata
facola? APIS IO. Io te lo dico. Havemo questo al mio parere chejopensoo al
manco dubitochehanocge te quefte cose efimulateefinite. FRONIMO. Ifimatuche
apparefseno li Demonii in quelliantichitempidiquelliB a Toni di Troia e di
Grecia Li quali demoniic redoche tufen do Chriftiano sianofermamenteda tetenuti
effere una ria emaluagiaschiattae generatione de spiritie APISTIO. O si. fi
fermamente lo credo. FRONIMO. De b n o n ti r i n f cresca di rispondere. Da
chi procede che pare tu non uogliccedere,
chequellimaluagiTpiritidefideraffino,etanchecers
cassinodidarelafciuipiacerialledonne informa dihuomi ni &
allhuominiineffigia didonnecAPISTI0.Doh cbi e'beni gran cosa questa da doverti
rispondere. Io te lo dico. Per ciono locredo, perche non sapiamo qual
menrenolonjo i demonii di carnenedioffa, comenoi.Ilperchenon sipossono
delentareincoresticarnalipiaceri. FRONIMO. Egliepur una gran cosa Api f t i o
che tu n o n ti u u o i r a mentare di quello che f o u e n t e h a u e m o d e
ciall perche se tute lo ricordafi, noti maraueglia restine anchor direfti,
quello che horadi. Gia fpeffeuokre-e-ftatodetto, comedannoeflimaladeeti nemici
de Iddio erdellihuomini coteftifceleratipiacericar naliallihuomeni,er alle
donne n o n per delectatione,chi habbianoeflireispiriti ma
solamenteperingannaregli huomeni e conducerlinepeccati eralfinehell inferno
dove efli sono confinatii n perpetuo. APISTIO. Il mio Frenimo ti pregono t i
turbare, Pur anche io ho un dubio, Se l n o fussiperaltroeccettochep
qirarelhuomeninellipeccatino se ditebbe che haueffero. l fono dong
figliuoli quelli detti figliuoli delli Dei, pche lispi ricisenza carne
&oftanópoffono generare: FRON. Core Atanó epuoca dubitatione, cociolia che
facendo Moises, mer moria nel Genesisdelli figlioli
didioedellifigliolidell’homi ni furono alcuni che istimarono fuffero
SIGNIFICATI peili alli piaceri carnali hauutifralli demoniie le donne, &
altci,uno Jenofianosignificatililibidinosipiacerichehaueano lhomj.
Nidellagiustagenerationeeftirpedi Sech:collefeminedel
laingiuitagenerationedellaschiatadiÇainIlperche seale
cunauoltafeleggediqualchuno,chefulle decto figliuoloo di Gioue o di Apolline
non perhosedebbecrederechecoftui ueraméte fianato delsangue
delliDemonii,cóciohache nó hanno sangue,m a sedebbe iftimare chelsia nato del
semç di qualche huomo, dacuilhaueranpigliaro. Serebbonoass Saicosedar accontare
delmodo de cuipaiono esse regenerati gli figliuoli dalli demonii che hanno
libidinosi piaceri colle donne:m ape c non aggravare le orecchi e del pudico
lettore paream etitacerlene parlar volgare. Anchorpuo effe rche
qualcheuoltaquellichesono ftaroreputatifigliolidellidei
odelleDee:ssanoftatocubbati fendofanciullioidalle loro madre,peri Demonii,sendoanchoressenelparto,
etoccul, taméte postisottodiquelledóne.che ingánauano etledaua n o libidinosi
piaceri facédole parere cħefli lhaueffono gene ratidiquellee cosico doppia le
st mm De 70 li al frode leingånauano,cioe pri mieramenre facendole parere che
glicócepiffeno e parcuri scenoedipoifacendolinudrigareinuecede suoifendo de
altrui. Ma se p r f u f f i q u a l c h u n o che vuolesse dice che in verita
fuffero faci generaci quelli chiamati dalla antichita fi gliuolie
figliuoledelliDei,edelleDee,enon efferstarafro deinportarli,ma
checosifufferogeneratidalli Dei e dee (ben che credo che sia il falso conci o s
i a che conosco come sono alfaicose fauole)direicome furonogeneratidelseme del
JiuerihuominiportatodalliDemonii nel tempo della concettione, quando dauano
lasciui piaceri aquelle,E cosi in questomodo
sedefenderebbedaefliilnascimentodiEnea nellAsia e quello diAchillenella Grecia,
li quali furono digniffimi huominine tempi heroici, o siadiquelli
eccellenti Baroni,cosidiTroiacome dellaGrecia: Alichorfepúotreb:
bedirequalmentein questo modoconcepilaReinaOlim p i a m o g l i e d i Philippo,
Alessandro Magno, nella Macedonia e nella Italia lainadre del grande Scipione
Africano. DICASTO. Il nostro Fronimo cercamente paiono corefte cose che tu hai
raccorato molte semiglianti a quelle che narra santo Agostino. FRONIMO. Dirotti
anchor molto piu quanti come non solamente tirauano a fe li Demoni t i n i q u
i e fceleraci le femine collilasciuie carnali piacerim a anchor tentaueno
l’huomini del'maladetto uitio della sodomia, colli maschi. Il perche facilmente
era persuaso alli mortali cotesto sozzo e uergognoso amore de fanciulli
coll’essempio dequel lili quali erano tentati dalli demonii dicendo che
pigliaua. no il fioredies li fanciulli. Hebbe questo vergognoso e seele rato
uicio di contra natura primieramente origine dell’Asia, e' deindi nella Grecia
e nella Italia, e poi i puoco spatio dite po introperinfino nelli Celti popoli
della Gallia. Per il che non e dubbio che la captura e presa di Ganimede in
Troia non sia antica e non solamente e manifesto lo molto antico incendio e
ruina con il fuogo di Sodoma, di Gomorra,edi quelle altreCitade della āfia,
appo delli Christiani e delli Giudei,m a anchoreramentatodalliGentili.Fu primo
au thore appreffodelliThracicosidi questopuzzulentouitio, come delculto&
honoredelliDei, Orpheo sendo andato di Asia nellaThracia,Veroe che sonoalcuni
altrichiuuole no fuffiilprimo inuentoredieffofcelerarissimopeccato,np Orpheo,ma
Thamira. Fugiapercotalmodouolgatoemãe nifeftatoqueftotantofceleratiffimo
uiio,che eracredutb dallireiemaluaggihuominichelfuffilicito. E cosi'pareja
appreffo delliCeltichelfuffefatizauerun punto dipeccato, ficome dice
Ariftotele.Veroeficomecrediamochesiaistin to
eruinatoinquellipaesiperilbeneficiodellafantissimafe de diChristo,
cosimaggiormente uie-ftacoinconsuetudine
appodelliPerfi,perlagiaanticasceleritae perchenon uie
ftarafermalaleggedimefferGiesu Christo perlaquale fan tiffimalegge conoscemo
quellochie bono,eche sedebbese guitareeparimêreintédemo quello chiemaloepeccato
e chi fedebbe fugire.E costilDemoniorio eperuersonon sol laniente ritrouo
quelli maladetti giuochi e quelli scelerati
piacericarnalipertirarealecosimilipiaceri quellefemine erano inclinate alla
libidine & anchoriquicandole alla ge. neratione dellifigliuolilanatura,m a
anchora ritrouo questa abomizatione dellasozza esporçalibidine contra natura. E
non contento anchor di hauerla solamente ritrouatam a facciomaggiormente ne
tiraffiIhuomeni,anchorprometre? jua diuersipremii,aquellichesefusserográdemetedelletrati
& efferciratiinefa.llperchepromesse adalcunila perpetua
vita,cioelaimmortalita,sıcomefeceaGanimede De quira scontano liibri qualmente
crederonolantichi,uonmácoim piamentechescioccamétechelfullportatojucielo.Ad al
trianchorpromesseloindiuinare,ficomeaBranco pastore, D e cuidiconocolle fue
faliole che glifuinspiratoilu perche loistimocheben sipuo
suonarelarecolta,(licomecomuna mentefedice quandosehaueratrascorsodallitempi
Heroi cicioeda quelli temp iquando furono quelli Baroni e huoi miniriputaci
Dei,ecapitaniiforciflimipecinsinoaScipione, perchecredonon
hritrouanochesianopiuftatesimilecofe. DIGASTO. Chi cosaditurTudebbe sapere
comesonoin teruenuteinognitempo,& inognieta qualchenotabilico ke.APISTIO.
Ma perchenon losano DICASTO, Affaibe fonomanifeftemanoimphotutte.APISTIO.Da
chipce de chenosianomanifeftate DICASTO. Perhora occorce noa me
duaragioni.Vnaeche sendo fcagiato ilDemonio malegno nemico dell’huomo dalla
segnoria del mondo p forza del sanguee dell atrjófantemortedimeßer Giesu
Christo non cofi importunaméte epublicamétecollesueillusioni
ingánalhuomo,Percheficomefcacciatoebaditobabitanel Jiluoghinascostiedeserti,m a
anticamente era adorato sot tospeciedidiuinita.Laltraragioneeperche
giaistendeuale retidello amore lafciuoatuttele generationi
dellbuomini, Ito 1 di Appolline
APISTIO. Io ti priego non parcarepiudicote fecofelequalesicomefonomanifesteam e
colifonomnara uigliofe, Ma uoreiintéderedi quellechesonooccorse peral tritëp
Ci, óciofiachecredosianopocheroseoccorse Haticinio. 1 te $ mmi ma
horaforzasigrandementedipore lilaciuolifolamente perpigliaredue
generationidhuoniinicioeliottimieliper limi. lo ad domando ottimi que gli che
se sono dedicati e cosegrati ad Iddio con tutte le sue forze havendo conculcato
esprezaroturteledelectationiepiacerianchor boneftidi questo mondo. Efa
continuamente a q u e s t i aspera e crudele guerra. M a sendofactaquesta
guerra danascostoetoccul tamente nosimanifestauerunacosadiquelle,eccettoche
alcuna volta per essempio e per salute delli altri. Poi io chiamo quell’altra
generatione pellima, cio e quella delle becer ghe edelli Seregonidelliquali
hora parlamo,Ta sai ben quanteminacie,equantitormétifienobisognoper cauatı
lifuoridellaboccaquellifuoiindiauolatiamori efceleratiffi mi
piaceri.Ilperchenon parlanoliberalmentedi quelli non liraccoranocome
fonio,eccettochecollisuoinefandiffi micompagnidelgiuoco. APISTIO.Dung anchor
iftéde J a r e t e d e l l a s c i u o amore il demoni o alli f a n t i huomini
e t a figura della ingainatrice Venereshauendosi pinto le guan c i e e le l a b
r a c o n la c e r u facio e con un bello colore, e c o n il
quellichitotalmentesefonoaugotatiaDior DICASTO. fetu hauefli
cognitionedelleuiteedelloperediquelliiscrit tenellilibrinon hauereftipuntodi
dubitatione.M a accio tu ne conosciqualchepartesepiunó lhauerai conosciuto,a
uogliopurraccontarealcune puoche cofe diquesti ottimi huominie fanti,
cioeinchemodo sefforzasse il demonio di doverli pigliare con
lareteelaciuolodellalibidineelasciuo amore. Narra Sufpitio Seuero, come fece
ogni forza esso nemico dellhuomo per ingánare quello gloriofifsimouescouo santo
Martino in figura diGiouedi Mercurio,diPallade,e di Venere,Dimmiilmio Apistio
non iftimituchequando fefingeuade esser Giove no gli promettesse delli Reamie
dellelignoriere che quando sedimoftrauaineffigiadi Mercurio
chegliprometesselaeloquentia eladottrinaecogni tiondei tuttelescientiehumane
equandoseappresentaua in sunilitudine diPallade che non glioffereffela
fapientia,e laprestancianellartemilitarelaqualegiahaueuasprezzato e renunciaror
Chi cosa puo tu pensare gli promettestesottola purpuriffo con lo quale tingono
le femine le maffelle con il bomagio, eccetto che diletteuoli elasciui piaceri
N o n penso tuchelfingefsediesserueftirodericcherobbe eueftimétidi
diuerficolori,ethauesse anche fintoin questa imagine liua
ghielusingheuoliocchipertirarlonellasciuo amoreset an chorchel ragionale
delasciui & libidinosi piacerisTi dira Athanafiosanto,conquantiuariinodi
tentoilmalegno spi ritoquellogloriofoabbate.S.Antonio nel deserto,ilquale
Athanafiofcriffelauicaecostumidiquello.Anchore buon teftimoniolafreddaneue
diquátofuogodilibidinetentaffe ilserafico Franciefco nella quale accio
iltingueffeloincen / dio dieffo,segligeto dentro ignudo.Te inligaara anchor il
cespugliodellepungenti spinne quanta delicatezzadiamoro fipiaceri presentaffe
auantidellocchidellamente del pudi coe cafto santo Benedetto,collequaleritrouo
ilgioueuoleri medio controditanta Cozzacosacruciandolapropria pelle
delsuodelicatocorpo. Non crediariimperhochelmanca di punco anchehoradicicarealcunidellaturba
emoltirudire nello pazze s c o a m o r e é volgari piaceri carnali, pur che
veda di possere, ma anzi di continuo grandemente cerca con milli modi e con
mille arti percoducerlinellasuamaluagia eriauoglia. FRONIMO.Vi voglio narrare una
cosa intervenuta ne nostri giorni a comfermatione di quelloche ha detto il
nostro Dicasto. Ho conosciuto uno huomo molto essere citato nella militia, a
piedi il qualehammi dico fovente di haver havuto piaceri libidinosi o n il
demonio, *credendo che* lfuffs una vera femina. E fu in cotesto modo sicome
egli narrava, chi era huomo semplice e senza malitia. Sendo ello nella Toscana
e caminando peralcune sue occurrentie verso Pisa e venendo da un castello pur
del Pisano, dovi havea perduto nel giuoco de dadili danari, eco si molto di
mala voglia lamentandosi dellifanti& anchor ed Iddio per la per dutadielli,
ecco rivede seguitare dopo lui dui a cavallo che parevano mercatanti, e
parevano che cavalcaflino molto infretta, doue adietro diunodjeflisedeuaingroppadelcas
uallo una femina la quale dimostrando dinon poterepiyol troftarea
canalloperlagran fretra che facevano paruiche 3 scendeffe interra. Hor
costuiuedendola bella & anche sola pigliandola per la mane caminauano
insieme e la inuito allo allogiamente seco quando serebollo a Pisa, e cofi
parupi che quella gratiofamemreaccecai se l’invito. Eco si pur oltca caminando
insieme e anchor piacevolmente ragionando, canto colui se in siammo di amore di
lei, che senza ver un freno della giusta ragione, ec iecamente chiedendola de
piaceri dishonnestie quella consentendo linediuiénea quello che tanto
pazzescamence bramata. Ma' uditi cosa meravegliosa, come hebbe havuto li suo i
s c e l e r a t i d i s u r e i s c o s
t i da ogni ragione di huomo, ecco che incotenenti quasi tramortie diurene
tanto manco di animockegiacque nel campo dovi la vea comesso il fozzo peccato
dalejhore come mezzo morso.Vero eche foura giungendo e suoi compagni chi ne
venevano dopo lui d a longhi e ritrovandolo in coral modo giacere fanza forze corporali,
il portarono alla citta e fusei meti infermo, e gli cascarono tutti gli pelli
dalla persona e narrava come per tal modo vi fussero brugiate le calze nella
soperficie disoura comme selfulfiftatoil fuogo vero l’havesse brugiare. Dipoi
diceva comesericor dava che quella femina, ma piu presto quel diavolo in forma
di femina l’havea molto pregato cheldevesse getare a terra una
haftateneuaiimane douiuieranel Ja cima un ferro in forma di croce, cioe un
pedo, li corne noi diciano promettendoli di darli una molto piu bella lanza
segliubidiua. APISTIO. Molto mi ritrouo fatisfactoquae
toallipiacericarnaliprocuratidalli Demonii dalprincipio dellaniquita. FRONIMO.
Hor voglio chetuintèdicome ha ilDemonioquestausanzaperdouerpigliareThuomini, di
ufare ogni frodo nel conuerfare collhuomirificome iften desseuna
reteperinuilupparli.Ilperchenon solamente usa queftonelli piaceri carnalim a
anchor intutte le altre fami: liaritade. Etacciotupoffi conoscerechelfia
vervooghioh o racomenzare dalle bataglie di Troia. Che penfitu uuolefle
SIGNIFICARE quell Dragone di altezza di fette gomiti canto dia mestico
chibeueuacóAiaceLocrese& andaualiauantinel liuiaggi
demoftrådoltlauiarecoliftaua tantodimefticame teconlui,
ficomefuffiftatouncagnuolo. Che cosauogliono dimostrare le penne diDedalo:e
lealidelPegafloretuttel. laltcicose,annouerate frallimoftri delle fauole Et
anche quelli tapti prodigii emiracoli delli Philosophi C h e crediçu uuoleffe
direquellotantoaceleratouiaggio che fece Pythagora andando e ritornando per u n
aviam o l t o longa d a (t a. Jiaperinsino nella Isola de Sicilia in cosi puoco
tempo.Cor m e pensi tu puotesse caminare tanto spario di paese cosiuelo
cementeri come uno uccello Empedocle inchemodoisti mitucheandaffecon tanta
uelocitalicomelaborea Abaro fouradiunafaetadi Appolline a vificare Pythagora.
Di che luogo creditu uscisse quella voce, che refiro Socrate, ma non losforzor
Ghi vuol dire quel genio e familiare spirito di Plotitro: Che significaquella
Occa che habitava tanto dimesticamente con Jacy de philosophore fic ome fono
puochie philosophi in comparatione dellaltci huomeni,cosianchor
questoperuerfonemico dell’huomo tirauamolto piu delli mortali nella uoragine
precipitosa della sporcha libidine che litentaffidi vanagloria.
Enonfolamentelitencauaisteriormente e visibilmente, ma anchor f o u e n t e
interiormente e invisibilmente. E se tu pensarai che puoco importa siano
tentati l’huomin idal demonio dilasciuiaedi. Carnali piaceri o interriormenteo
veco isteriormente, te lasaperadire que itadifferentia Santo Geronimo Il quale
chiaramente scrisse ledicedi quelli fantiheremite,doujraccontale grandi ten
tationipatirononeldesertodalliDemonii,ecoteftofeceper ammonitione di quelli
doueano uenire,Atchor 11on m a n
coeglifcriffequellegranditentationichelfuftene,dicendo qualmente inuna carne
quasi morta solamente bugliua. noliincendii& asperifuoghi della fozza
libidine. APISTIO. Dung feaffatico anchor Venere, cio e il demonio di u u o l e
r combatare con Santo Geronim o colli dardi del a puzzolente libidine? FRONIMO.E
bensefforzo difaretutto quello puote & anche non fece manco cru delleguerra
con ilglorioso Pontifice.SantoMartino,sotto questo n o m e di Venere ficome
racconta Severo doveder scriue li laciuoli e itele retida quello nemico in
effigia di Venere. Ma chelfedimoftrafiea santo Geronimo vi
fibilmenteoueroiltentaffe interiormente, non Ihaveto chiaro.Vero
echecredotuhabbilettonelliantiquissimiau thoridelliGentili,come hauea
consuetudine Venere dim o were lhuomini interiormente & ancoisteriorméte.Ma
eglie ben ueroche quando serapresentaalliocchicorporali,efaci lecoladadouer
conoscerem a quandosolamentesedimo A t r a nella imaginatione, & e c c i t
c a e m u o u e li sentimenti i n t e riorinonsonocosi
facilmenteconosciutidaogniunolisecre *titradimentietaftureinsidiediquella.Ilpercheeglie
detto pellihinnidiOrpheo Venereuifibileet inuisibile. Et anchora e detto che li
amori u s c i f f e n o d i quella f e c i s c o n o l a n i m e colle
intellettualisaete. Imperhodice Orpheo in quell altro himo greco coli in
volgate noftrohorada me trasferito, aparente e non aparenteo vero paiono e non
paiono. E pur ancheinun altrohinnocosiscriueingreco quello che hora diro
volgarmente uuolendo dimostrare che sianopercorso lanime
colliintellecualidardi,queste fedissenolanime colle intellettualisaete. Anchor
feuedonoquelliuersi di Procolo Platoniconellhinnofatto alla licia Venere in
Greco uiauia da me co f i i n volgare tra dotti acci o si manifestano le
intellettuali nozze. Hauendo INDICIO delle intellettuali nozze edel
liincelletcualihymenei, cio e delli intellettuali Dei delle nozze. APISTIO.
Dice Apulegio che qlo spirito ilquale couet s a u a t a t o d i m e s t i c a
mente con SOCRATE era dio e no il demonio. FRONIMO. Ma pel contrario scrive il
Plutarco & a n Co Massimo Tirio chiamadolo il demonio. Decujunodieffi ne
hascrittoun libro,elalcrodui. Perqualcagionefedicech unaltro demonio
pigliafféilpatrocinioegouernodiplatone o di Zenone ouer di Diogene Perche fu un
altro demonio inolto domestico di Plotino s9i veriraui dico che questo fa ceuanope
ringanarli. Sono tutte menzogne quellechedie cono alcuni comesonouarielenature
del Demonio, cioe che alcuni dieslisedeletranodigouernare le Cittade, ele co
sedomeftice, efamiliarieraltriuolentierifeoccupanonelle coferufticaneedella
uilla,etalquantiallegramente se in tromettono nellopre della terra,et anchora
fono reputati molti che habbino cur adelle cose marinesche. Sono tutte
coteste cose & aliri ale loeffercitarsi nellarmi della
battaglia. Ilperche fauolescame tenarrauano, cheinspirasseperlifomnijlamedicina
Esculapio e Podalicio, e che fussero T o u r a f t a n e i a l l e p r o c e l
l o s e o n d e etépeste delmare li Dioscuri, cioe Castore e Poluce figliuoli
di Gioue, et anchor dicevano che essercitasseno le opere della guerra dopo la
morte Rheslo & Achille, & in antichi tempi di Troia, Theseo.
ueroecheraccotauanochequelliprimi nascostamenteeffcrcitauanolarme,m a
questoultimoaper tamente enellampio campo. Racconialianchor perfama
checombatreffenellicampiepianuradi Marathono laeffi giadi Theseoper li
Atheniefi contradelli Medi, equeftoan che scriffe il Plurarcho. Deh vedi una
gran pazzia. Credeuano foftoro che li demonii fuffero lanime
separatedallicorpill., gerche diceuano che Asculapio medicaua, Minone e Rhal
damáto giudicaua,Scacciaua le gragnuole etépefteli Dioscurio sia Castore e
Polluce, Diuinaua Amphilocho, Mopro, Orpheo, eT rophonio,elebattaglie eguerre
trattaua Rhei fo, Achille,e Theseo.Ditutte coteste cose era authore ilD e r
monio,Ecacciolifuffero preftatelorecchie edato fede,ecoli maggiormentefusserotiratilhuominieglifaceffinolifagri
ficiilicomeallanime delli Baroni signori & eccellenti huomini con una cerca
vana speranza f, ing e vano tutte queste cose. Dalle quali superstiitioni e
inganni, non furono contrarii Platone et Aristotele, e maggiormente scrivendo
li libri delie publice leggie disputando delle institutioni & artici
uiliecittadinesche. Anchor e cosa publica,comene noftri giorni son ftato tenuti
e portati delli demonii nelle guasta, deo sianoualidiuctro enelle annelli,&
inaltrecose, & anie chorcomequellineinici dell’huomini hanno dato resposte
perilgérre,perlacosta,&altrimembri dellimortali ficomie dalspiritodi
PythiaodiApolline,acciopoffemofacilmente coteste cose
elalorisimilisonniidellisciocchiepazziGecilie pagani,propriamente semilia
quelli narrati daalchunifa uolescaméte,qualmente alquanti
diquellifeeffeccicauano nella medicina,& alirihaueano cura e gouerno delli
naui. Gheuolilegnie delli gouernator idieffi, & chealquantierat no
sourastantialdiuinare,enon puochialleleggi, cono s c e r e come il
f c e l e r a c o nemco de Dio e dell'humana generatione ha pensato in diuersi
tempi diverse vie e modi de ingannare Ibuomofouo specie di familiarita.
APISTIO. In uerita cosiancheioistimo, DICASTO. Nó dubitarem a siapurdibuona
uoglia,cóciosiacheapuocoapuoco ne ue. rainella nostra ferma oppenione e vera
sententia. APISTIO. Ma nongiain questomodo.Maegliebenuerochemilasto coducere
dalleragionie dalliteftimonii. DICASTO.
Vieni qui Strega, esappiacome fei coffretracon quelmedeno giurainento
cheeriauanniesappia qualmente in brieuisem
raipunicaconilnostrofuogo,edipoiincontinenciconquell altro che mani o n
mancara: fe tu mentirai in pun to d i q u e k
locheteinterrogarodeluoftromaladecco giuoco, I doso,enon houerun dubbioin
questa cola. DICASTO. Dimmi. Magirali e beueti cola al giuoco uostro scele
ratorVero echequantoallipiacericarnaliaffaisiamofacil fatto.E cosipiu non
bisogna diaddimandartine. Simangiauadainquelmedemomodo ebeueua comeera cófueto
dimīgiareincasaconilmiomarito,econlimieifir gluoli. FRONIMO.
HieritipropofiApistio iefsempio quel lamensadelsole cotanto noininarae
iamentara da Heroi doro,edaSolino,& anchordaPomponioMela.Ilperchetu debbe
(appere qualmenteil Demonioastuto ne cira affai dellipoueri e delcozza uolgo
collipiaceri della gola olico dellasperanza lo chiariffeneanchor
dicecheufcisfenoledittecarnifuo kidellaterrane che saliscenosouradicffamesa
béchelodi caHerodoco.VeroechePomponioMelae, GaioSotivo dicono
cheeranodiuinaméteportatedittecarni.Machies coluidi cosicozzoingegno chinon
adaerciscacome fussero quelleuiuandeecibilusingheuoliingamida ingannareil gufto
dellaignoranteturba,Et anche chi'e-coluidicofipuo R e
promissionidelledelettationicarnali.Che cosa pođemo istimare
uyolessunosignificare quelle carni poste souradellapridettamensadel Solerde
cuilefameir tione fanto Geronimo fcriuendo a Paulino,ficomedi una cosamolto
uolgata,emolto marauegliofarMachicofa fuffe nó co discorso co
discorso, il quale veda Solino contrario ad Herodoto, et il Mela contrario di
Solino chenon coilofcacomeuariament tee dimostrata quefta fuperftitioner
cóciofiache quello fcri ua qualmente eranoiuiportelecarni nelpratoappo della
citadalmagiftratonellaoscura notte,chesemangiauano nelgiorno,echedipoieradetto
daquellidel paesfeu,ffero uscitefuoridellaterrasEgliebenuerochediceSolinocome e
quellaméfainunluogodellombre,etiersempreapparec chiata abondantemente di
lauri,dolei, etaggradeuoli cibi, et uiuande,dellequaline
puomágiareciascunchevuole et atuetasuauoglia,ebenchenefianomágiatein grancopia
da quellicheneuuoleno,non dimeno imperho non mai mancano, ma sempre
iuicresconodiuinamente. Ma Pomponio non dicepurunamejionaparoladoue fifa questa
mensa,o apreffodellaCittaouernoellaoscuracarcereeca cetto che dice com e
divinamente iui nascono li cibi. E ben o
che cotetti Scrittorinon convienono insiemein ogni cosa, purimperho eglie
fermamentedacuttiquellicenuto feno za
contrarierac,omeèunamarauegliosacofa,&anzidiuis nalantidetto conuito del
sole. Ilchere-molto conueneuol le conquesto di Diana, sorella di Phebo o del Sole
sicome egli dicevano. Anchora istimono essere puoco a noftro proposito quello
che racconta PomponioMelanelladescricio, niedel Mondo cioeche
seritrovaunluogodoni continua mente tilpiandono grandi
fuoghinellaoscuranotteetpaio noefferiuiquafieffercitidi soldati chi occupano
ampiopa ose eriuifiano fermati suonandocimbalitamburini,fiauti, e trombeche
paionomoltomaggioredequelli cheusano Thuomini. Dimoftrauano anchora una
fimilitudine diC o n uito lincantamentiemagicheopere deOliffe,sendofpar
foilsangueintornointorno. Nelqualeluogo ui ueneuono li demonii, e t f i
demostravano in diverse et varie figure. In qual modo diceva il Vinitore, che
conuerfaffi l’anima di Olisse cauata da Homero collombre &imaginidi Pro
tefilaoedellialcriBaronificomedicePhiloftrato.Ma hora
lescelerateemaladetteStreghee Stregonidenoftritempi, TI ro fir Tiel TOY
MU feron ii be KTOV DIO I cavano il
sangue dalli fanciullini, epermaggiorpartelocon servano
nelliuafiperfarequelmaladettounguento, E bep che paiono
coteftecoseaffaisofficienci, per hauernarrato il detto convito, non dimeno
imperhouoglioanchorloggiun gere la mensa di Achille. APISTIO. Che cosa s e c a
m o g u e. fta fiammo pucadudire. FRONIMO. Non ti marabigliare E t anchorari
pricgonon uoglisprezzare quello,che uoglio nafcare conciosiachenon
fingouerunacosa Ipera che senonmivuoicredereaddimadalotua Maflimo Tirio, Il che
fe f u f a r a i, te l o raccontara, ma anzi te lo dimostrara colle suecatre
scritctei o e iinarrara dimia certecosaiferittapermo lu i secoli, ci o e avant
i d i mill e s a n n i c o m e a c f u o i tempi fiz manifefta la Mensa di
Achille che eramolto simile a quella delle ftreghedouidicono chehocauiseggiono
mangiano'e beueno APISTIO. Il mio Fronimo io creda alle tue parole. FRONIMO.
Puc quando anchornonmiuuolesti credere, ioti moftrarebbi il libro
dell’antidetro authoree Greco e anche latino cbieapreffodim e. Nelquale
anchorvie foritto di unacerta isoladelmare Euffindouie il Tempio di Achille
Nella quale Cove n t e e f t a t o u c d u t o d a l u i, esso Achil e ch e ha
fatto conuiro a quellihuomini iuiandauano & che ha cono sciutoP atroclo
figluolo di Thete e altri demoni (& fico meeglidice)
lichoridelliDemonii.cio elemoltitudinidief ft& anchobaneucduto di
Dioscurichedannoagiatorioal., lenani chepericolquotio,accioiolascidiramentarequello
cheeffofcriffc.comeera confuetudine diefferueduto nello Ili o le forze di
Hertore. Ma co r e f t e c o s e n o n p e r t e n g o n o a l conuito
delleLemuri.APIST.Nó pareno queftecolemol. todiscosto dalconuito diNereo
edelloceano,delliqualine fannomemoria diuerst-poeti.FRONIMO.Réfo I lmaligno
Saftuto nemicodellhuomocoreftivelenatiConuiti,accio
priuaffeIbuomodelloeccellentifmocouitodiChristo che: ha apparecchiato f o u r a
d e l l a mensa s u na e l suo R e a m o. M a h o r a, u r voglio raccontare,
non un convito finto e scrito dalli poeti ma w a maraveglosa cosa gia puochi
anni passati ha mi narrata da un grande huomo ornato cosi di eccellentedi
gnitacome didouitiae di ricchezze. Fuunbuonfacerdote nelle nelle
Alpi Rhetie cioe di Germania gia dodicianni fa ilqua le dovendo
portareilfagrosantouiarico del corpo di Messer Giesu Christo
adunogravementeinfernio: &efTendolimola to discosto, eaedendo dinon poterlo
cosiprefto portare ca minando apiedi,sicomeerailbisogno,falisuilcauallo e le
goflralcolloinona affaihonoreuolecaffetta dilegnos fan, tiffimosagramento, e
comenzoaffaiinfreta di caminareper f a c i s f a r e a l d e b i t o f u o. H o
r s e n d o a l quanto caminato f e g l i f e r ceincontrauno che
loinuitoascienderegiu del cauallo, et andare cô luiper uedere uno marauegliofo
fpetracolo.Ilche imprudentemente eglifacendo per uedere cotefta curiosa
cofacome fufcielo, ecco incontenentisentidiesserportato
perariainfiemeconcoliche Thauea inuitato, & in puoco spacio d itempo feue diporre
foura la cima diun akiflimo monte dovie rauna molto ampia & ameneuole
pianura, in/ c o r n i a r a da altissimi alberi e con pavente voli ruppi se
trata. Nel mezzo de coi ui fiue devano diversi e varii balli, & an c h o t
u t e le maniere de g i u o c h i c o l l e n i e n s e apparecchiate
dilautirdiuecficibi, & ancheseudiwanotutre le generationi de fuoni e di
deletteuoli canticono gni dolcezzaetrastullo cbrieuemenite semteuasi &
udeuafitutte quellecose, lequali suolenorallegrarelianime dellhuomiui.Dilchenjoliomara
uegliandosiilbuonefemplicefacerdotee purnonhauendo ardimento
diparlareperlagrannjaraueghia,& sendomez zo fuoridi feifteffo
glifuchiedutodal copagno, che lhauea condotto
quiuifeuvoleuaadorareefarerinerentiaallaM a donna cheera jui, & ufferitliqualcheduono,fecondo
che fa ceuanolaltriEraasederenelmezzo unabellissimaReinari c a m e n t e u e f
t i t a f, o u r a d i u n a r e a l e f e g g e, a c u i l e p r e f e n t a u
a ciascunaduoiaduoioaquattroaquattro conuarioordine areuerirla & ad
adorarla presentandolidiuerfi duoni. Horudendo costuitainentare la Madonna e
uedendola ornata ditantofpiandoriedatantisergentiferuita istimochelafus filagloriofamadrediDio
eReinadelcieloedellaterra,cô ciofiachenon sapeva
checotestecosefufferoinaencioniere trouidelli Demroni
ilpercheselohaveffeiftimato,novaise rebbeandato.Horafrafeben
pensandochecofaglidouelle presentareperifdoi non puoterleoffericepiuaggradeuole
presenteallamadre che ilcorpo fagratiffimodelluounige n i c o figliuolo, e c o
l i a n d o d o u e f e d e u a q u e l l a e t a d o r o l lia n ginocchiadoli
alli piedi; edipoileuádolidalcollolacafferra doueerail-fagrauiffimocorpodi
Misser Giesu Christo, divotamente u i l pa o f e n e l g r e m i o. O di cosa
meravigliora, ecco che incontinenti, come la hebbe poftasoura del gremio di
quellaReina,coliprestofparuilafeggedi oro elaReina erauifu con tuttaquella
moletudine,etcon ognicosa che pareuaiui,epiunonfuuedutopurun puoco diueftigiodi
quellinedelļicóukinedeli giuochi, neapparui quelloche fuffe fatrodelcompagnio.
Hor conoscendo ilfemplizzotro p r e t e come full e stata quest caos a opera
del demonio tutto smarrito e mezz o fuoridife fteffo comentio di pregare Ido
dio che non lo abbandonasse in quellifilueftri luoghipriui
diognihabitationedemortali.Ecosigirádohorindiequin dilocchi,eandadomo
qui,noliperquelliaspriluoghiper uedere sepuoteuaritrouare
qualcheueftigiodihuomini ac cioplotesse intenderedove fuffe, eritrouandofi
sempre in maggioriruineeboschie feluealfinpurranto caminoper quelle precipitose
ruppi, che dopo molto longa fatica, edoi po longospatioditempo con
grauiaffanniritrouo unpaz Atoredacuiintese,comeeradiscostoda quelluogodoue
andaua a portare ilcorpo di Christo da circa cento miglia, Poi che fu
ritornia:o con gran strache zza alla fuahabitatio ne
andodalMagistratodiMassimiliano Imperarore,erae coiolíiltuttoper ordineficome
horaio honartaro. Ma che coteste cosepoffoirefferfattedal Demonio telo dirano
Hi Theologgiliqualimostrano comelanatura dellicorpieub bediente alla uolonta
delle foftantie separate dalla materia quanroimpechó pertene almouere daluogo
aluogo.A n chora puotraiintêdereallaiessempiidellicorpihamanipot tatiperaria da
luogoaluogo,seryutoraidallilibridiFras teArrigo,etdi FrateGiacopo Thodeschi
eccellenti Theo Soggi dellordine'de Frati Predicatori chiamati il maltello,
loquale fecero,confirmandolocon affaiteftimoniodimoke cole che effi uideno
colliproprii occhi.Loquale maltello puotrai
hauere,fetulouuoraiusarecontrodiquellicheso noduri,enon uogliono credereiluero
acciochetu lipieghi à douer crederequellochesono abbrigaci ouero lilpacchi in
cento migliara de pezzi. APISTIO. Cenamentehoudij tounamarauigliosa cosa,
laqualenon puooffuscare la sera nottene anchose puo direche fusseun fomnio
nechesalu ta cófeffataper paura,ouero permatrocio,operqualche al
trafintacagione.Ma uorebbiintenderedachepuotepros cedere che sparislinotutte
quelle cosenel toccare diquella hoftia fagraca, concioliache li demonii, non
solamentete m a n o il toccare d i quella ma ancho cercano. e c o m a n da no
che siano portate assai di quelle al giuocoe di poi le fa m o gettare in
terracon grādi scherni e lifanno dare foucadelli piedi elifan faretuttequelle
uergogne siposson fare,fico m e disouraha parrato la Strega. DICASTO. Tunáti
deb biper questomarauigliare conciofiachefapiamo come se (pauentanoeDemonii
perilsegnodella santissima Croce,e nondimeno anchora qualche uolta
apparisconoinfiguradi Chrifto crocifisso accio piu facilmére posson ingånare
lhuol. mini.Inueritatidicochetunon timacauegliarestisetu ha. Yefli
Jettoleopereelauicadi santo Martino e di. S. Francesco di molti altri santi
eseancho. tuhauefliben effaininato come Messer Giesu Christo sendo anchor in
questa mortale CarneilqualescariaualiDemonii silasciotétatead esso De monio
eglipmeffecheloportafferouradelpinnacolodel
Tempio,edeindipoi'sourdaelmonte,& anchepermesle maggiorcosa,cioeche
fuffemalerattato da quelliperfidi Giudeiferui del demonio e tormentato, et ultima
menrecrocifico. Olcrodecio tupresupponichelaStreghenarrano
cheliDemoniiconculcano,ediano dellipiedisoucadelle hostie consegrare, ma non e
c o l i, con c i o l i a che non fanno corefto li Demonii m a/elbenverochelofa
questo lamay legnita dell’huomini asuggestione dieffiDemonii.Anchos
racredochecosicomefalafedeinsiemecon lariuerentia che fanno l’huomi in essa
santissima Croce,enella fagrolan (a hostia consagrata che il maladecto demonio
se ne fugge: cos ianchor uifaccifaretantiuituperiieffoperlagranmalistia de
essi, eper ilricuperio lifanno. Ma quanto al semplice u coprere. Credo
chefuflila semplicita diquello cagioneche sparefsinotutti quelli
apparecchiamenti, etuttequellalerico fé,emaggiormiére la
forzadellafedefecechenon solamente non f u ingannato in suo danno, ma anchor
fece c h e f u p e r e serunoacciopuotes le narrare allialorie dechiarare come
quella cofa dequihocą parlamehepareua effermoltodu biofa, cioelele streghe e
STREGONI vano al giuoco con il cor poouero solamente con la fantasia & imaginatione
ouero se vi possono andare punefleruera, & e verae non una imaginatione.
Auchar permette alcuna uolta la possanza de id dio,chesiaschernitoilsagramento
elaCroce,ellaltricose diuine, &alcunavoltano:segondochealuipare.E perchela
fa,sepuosempredarequalcheragioneingenerale,mianon re puo imperhosempre
isplicarein particolare, conciolia chi e tanto rozzo e grosso l’occhiodell
intelletto poftro, a dovere INVESTIGARE li secreti della divina magiesta.
APISTIO. Hormai son satisfattocon queste ragioni, ecitrouomi conten to
rendouscitodellenere& ofcurecauernedelledubitatio pi.FRONIMO.Ben
uedisetuhaialtrodubbio,efupresto chiedelachiarezzaa Dicasto, perchegia glimolto
poffenti euelocicaualliquasi hannotiratoilcarrodelsoleappo del suo SEGNO,
quabto al nostro hemispherio, accio non bisognali poi remanere quicoteftanotte,
sendo ferate le porte del castello. Il percheftareffimomolto
maleagevoli,questanotte delfinuerno,in cotesto Monastero a pena comenzato doui
non stritrouaanchor uerun letto. APISTIO. Hamnipare. che non cifiaaltroda
chiedere eccetto che delliueneficii o fano incanti. DICASTO. Di che cosa
dubith. APISTIO. Se fouofatti veramenteo purchepaionoesserfacti solamente con
la imaginatione. Conciona che affai ha manifeftato la forza
delladiuinaGiusticiasempregiustaenon sempre co: nosciuta perche Iddio alcuna
volta permetta, fepursefallo, & alcuna volta il prohibisca. FRONIMO. Non te
ricordi di: Lucio Samofateno, e di Lucio Madautefo. APISTIO. Si ben. Et ancho
mi ricordo di hauere alcunauoltaletto dette 5 cose, & anchegiaduoigiornifaleho
uditoramentarea te. Ma egli e ben vero che dubito affainon fianofauolee che in
ueritanó fufferofattecofiquellecoseche se narrano in quel asino greco et anche
latino. FRONIMO. Coli come iono dubito che siano assai cose finte emoltopiudiquellochelo
Etanchor sepurcoliuuoi che sianotutte quellecose che for n o ne detti libri
fauole et imaginationi, cosi anche credo che dett e favole e f i t c i of n i i
a n o c a nate da qual che vero fondamento.Conciosia che il nostro Divo Aurelio
Agostino iftir mo chequelle trasformacioni e tramutationiiscritteda Varrone cio
edelliaugelli di Diomede, delle bestie di Circee delli lupi di Archadia
pigliaffono origine e principio da qual, che cofa uera. Et anchor raccontanel
decimo otcauo libro della Citta di Dio, comeerausanzanetepi' suoi difaremol te
coseaffaifimilia quellechenarraouerofingea pulegio. Veroe che dice, come gli
demonii non possono fare ver una cora con la forza della sua natura se non la
permette Iddio. Lioccolti giudici di cui, fono infinitie non uisiritrouaimpe
tho verun dieffiingiufto. IIperchesepare che li demoni fa ciono qualche cosa
similea quelleche ha creatolomnipo. tente euero Iddio, eche pare chemutano una
speciedi uno animaleinunaltra:ouerotramutanouna creatura in unal tan,on euerochecofi,fia,maebenuerochecosifaappare
teouero imprimendo dettefpecieefigurefintenellimagi, natione e fantasia, overo
mettendo avanti li occh i corporali un altraf inta specie e figura. E
cosi io ile di 5 lui che ha conturbata la fantasia, diesser una cosa in
luogo di analera & il simile parera allaltci. non dimeno fera imperho quel
medemo, overo gli prepora una similitudine auktiloco chi la quale di
continuoglifaraparereefferecofi, ecosicre. deca dieffer veduto anchedall
altri.E coteftanon egramel raueglia,percheseun corpo puo ingannarelifeptimeci
corporali e farli parere una cosa altrimento di quello che e-fico m e vediamo
che failuietro, il quale imprime quell suocolore nellocchio percotalmodoche fa
parere tuttelaltrecosefimi leaTenelcolore, benche fianoaltrimentoinsecolorate,quá
t o maggior mete i spiriti ignudi da ogni corpo, cio e li demo qualche uolta
pareraacoi nit Quotrano conturbare la
fantasia er ingannare l’occhi elal trisentimenti delle creature inferioris E
coliin cotéfto modo iftimaraifuffero quelle operediquei Almi, e di quella
specie di quello prestance cauallo, chiporcaua li gradi pesi ladispu tatione
del philosopho, chdiifpucaua senza corpo le cose di Platone le astute opere
delli lupi di Arcadia, e liuerfi di Circe che trafformaronoli compagni di
Oliffe. Ecosituttecol tefte cosefedebbono attribuire al spirito imaginario,
ouero alla fantasia. che cosi era ingannata a cui pareua essere quel la cosa
che non era. Il simile anchor diremo della cerva in uecede Iphigenia, e li
augelli i uece delli compagni di Olisse, cioe chefufferoposte simili imaginie
figure dalli demonii auktilocchidellhuomini,opur ancheforliuifuffipoftauna uera
cerua,etancheueriaugellinóuiapparëdoIphigenia nelicompagnidiOliffe,o
sendoiuipresente,oueroportati in aloriluoghi. DICASTO. O quanto ben, e quanto
brieueme tehaicuraccontatoquellecosdei santoAgoftino,enóman co uere ficomeio
iftimo.Eglie ferma cóclufione tenuta dal li theologgiqualmente sono soggietti
naturalmente i sentimenti dell’huomini e la imaginatione e fantasia alla
poffanza delli demonii, perche sono essi sentimenti e imaginatione inferiorie
manconobili di dettefoftārie separate eprine di ogni corpo eco si sendo
piunobili,glisonosoggietrequei Accosemen nobili,Iipercheanchor uoglionarrare
alcune verissime coseacoteft opposito per confermare quello che havemo detto
Eglietaccotatonelleuitedesati Padri come fuacconciataunagiouenenper incanti
incoralinodo ch epare g a u n a sfrenar a cavalla. I perche sendo presentata
avanti di santo Machario, perle orationi dieffu fuleuato d avanti l’occhi
diciascun quel prestigio, equellaillusione del demonio, eco si pareva in quel
modo sicome era in verita. Puote il demonio commovere li interiori sentimenti a
molti, alliqua lipareuafufli altrimentequellameschinagiouine di quello che eram
a non puote mouere imperhoeffisentimentiinte tioridisanto Machario fortificati
principalmene con loadiu torio di Iddio aface parere quello che non era Anchor
non aftregnega la finta figura di quel huomo, che paceua uno asino nella Citta
di Salamina della Isola di Cipro,liocchi
diciascuncheloucdeuadaiftimarecbelfuffeun Alino.eca cetto di quella donna m a g
a el incadratrice laquale glih a. uea per talmodo conturbato la fantasia colli
suoi maleficii, che anchealuipareyadi esser douentato uno asino, ecosi portaua
le legna in vece di giumento.Vero erchefaugiutato per prudentia dialcuni
niercatanti Genoueh, liquali ue: la Chiesa perfareriuerétiaetadorare Iddio
iftimaronoche quello non fufleuna vera bestia, eco si cercarono di agiutar. e
difareportarelamerite uole pena alla incantatrice. In verita ui dico che
possono fare li m alegni demonii appare temoltecose altrimente di quello che
fono,epossonom o ueremoltecoseerappresentarlenella fantasia,efareparece u n a
cosa in altro m o d o di quello chi-e-et anchora fare i li mile nelli corporali
senrimenti in un medelimo huomo. Oltro dicio occorre che fono ingannati liocchi
di quelli che vedono, et ancho e conturbato l’occhio della mente, fendomoffa la
imaginatione. Anchorsıcome,giaauantidi ceffimo,puo esserportatoilcorpo per
diuerfiluoghi.Ilger cheinteruiene che quelliliqualinon ben e sollicitamente
ellaminanoquestecosea parteaperparte facilmente sono ingannati ecosi non ben
chiaramentec onsiderando lilibri delli doreielitterati huomininon possondcitta
mente giudicare quanta differentia e fralle cose create, equelle che uscis seno
da qualche natura delle creature efra quello chi e intiero, e quello
chilerparte,efra iluero,e quello che erfimile aluero,equellochedimostra
lasuaimagine,equello che dimoftraquelladaltrui.Enon ben pesanocon la giustabio
y lanza la forza di tutta la natura nelaportanza delli demonii Er
alfineanchonon confiderano ligiudiciide Iddio,liquali speffe uolte sono
occultissimi anoi,ma impho sempresono fatlicolomma giustitia. FRON. Hormaise
appropinquala fera egia comencia di apparere la oscura noite il oche l’hora
tarda ciinuita di ritornare a casa. Siche Apistio se non seifatis Gattopģīta
nostra longa disputatione n ó poflo piu ueder che. Chi inginocchiare e
prostrare in terra aukti la porta del coradobbian
fareacciopollieffercôtéto.Cöcioliachetuhal poffutoconoscere come
queftomaladetto eriscommunica to giuoconon efictionene fauola. coliperli libri
dell’antichi, con e per l’opere fatte ne tempi nostri, e come egli e in
sostantia antichissimo e nuouo per molte conditionier che e Atato mutaro
secondo la maligna e perversa volonta delli demonii, eforsianchorlomutara,
percheetantalaasturiaelucili tadieffoiniquo inganrratoredell’huomini che
continuamen e cerca nuovi modi daposferingannarenoi. Ho dimoftrato a te li
Cerchi li unguenti, le parole magiche et incanti liu i a g o
giperligrandifpatidellariali lascivie libidinosi piaceri del li demonii che
sisonoritrouaricosi' ne tempi nostri, comene tempi delli Baroni antichi. E tho
dimostrato qualmente pen Saronolipecaerfi demoni di douer calonniaree
uituperare l’humana generationedallaprimaantiquitacioedalprimo huomo
perinfinoadhora.E comehaingannato Ihuomo collesueresposte,colliragionamenti con
lafamiliarita edi mestichezza,ecome ha cercatoperogniuiaemodo di ingå nare
ognifeffo,etognieracollifimulacri euarie imagini,et che
seesforzatodiufurpareladiuinita,e farsiadorarecome Dio,etche ha fatto
nuoceuoliconuitiallimortali,etcheliba portatoasimilitudinediun giumento
chehabbialeali, eco me hadesideratodihauer lisceleratiffimipiacericarnalicolo
lihuomini.M a perche iotiueggiohoramolto Atracco per tantouiaggiochehaifactocon
lanimotuoin diuerseregio nie paesi della [calia della Sicilia,etiolcrodel Ionio
mare e dello Eulino e tan cho r perche te ho codoico colli mei ragionamenti
nell’Africa nell'Asia, e perinsino alli Hiperborei Mode dovi non ci ho
condotto. Il perch es e ra h o ma i tempo ne debbicitornaremeco acasa. APISTIO.
Tudiiluero, liben hormaiehora.E cositecone uengo,emolto satisfaco. DICASTO. Se
i tudung content di quello chehauemodetto: Ec in uericaneuieninellanoftra
oppenione. APISTIO. Si certamente son contento, et inueritauidico, che credo
quello che e statodetto. DICASTO. Dicupurdado vero o pergivoco. APISTIO. Puo
effer quefto Dicasto, che tu iltimiche io dica quello per iscrizo e giuoco che
ha creduto tutta l’antiquita e tutta anchor la pofterit ad Io dico quello che
ancho confermano colli isperimenti & efsempii, li Poesi, Oratori, Hiftocici
leggitti, philosophi,theologgi, Ihuominipruden tili soldati lirufticie contadini,
beniche le ritrouano alcuni Sauioli, liqualiripucandosi piu
dotiefauiiditurcilaltri,che queftoniegano, DICASTO. Dung ficome io uedo tu hai
mutato oppenione. APISTIO. Che bisogna piu affirmarlo, Gia te l’ho detto, Eco
sipercheioho uefitolanimomiodi un altrohabitocuesta, epareame
dihauerritrouatola verita di quello cheprima non credeuo in questa cosa
giacendo nella nera et oscura tenebradella igriorantia e della fallita,
desiderograndemetediunutareilnome edipigliarneuna tro conueneuoleaquefto nuovo habito,
de cui hora son vefito. DICASTO. Molto mi piace, Eco li per fatiffare alla
tu honesta voglia cidarounnome
conuenientesicome addj mandi. Dug perlo auenire serai chiamato. PISTICO.
APISTIO.O. quantohammi piace queftonome.Horacoliper ognimodouoglioefferchiamato.
FRONIMO. Se piu non cirestacosa alcuna de cuitu habbi desiderio de intendere.
egli e hora che ci partiamo con buon al i centia del Reverendo padre
Inquisitore e che presto retorniamo al castello, Il perche Vale Reverende
padre. DICASTO. Ite tan in pace. Leandro Alberti. Alberti. Keywords:
diavolo, satana, mefistofele, angelo caduto, demonio, eudemonico. Refs. Luigi
Speranza, “Grice ed Alberti” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51794356528/in/dateposted-public/
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