Grice e Conti – filosofia italiana – Luigi
Speranza (San
Miniato). Filosofo. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or
rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek
embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa.
Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che
define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il
principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e
fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,
o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città
coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a
Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,
o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla
facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia
delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi
nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.
Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona
del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2
dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e
dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi
sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione;
discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual
mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista
deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include
giudizj e ragionamenti. 4. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa.
– 5. L'idea è universale, - 6. talchè i parti colari dell'arte non debbono mai
ecclissare o escludere l'uni versalità del concetto; 7. perché, altrimenti,
arte bella non c'è. – 8. L ' ordine ideale porge alle immagini formo sità -- 9.
eletta, che manifestasi o per cose straordinarie. 10. o per l'eccellenza
de'modi, o per tutto ciò ad un tem po, ma ſuggendo le ampollosità. 11. L'ordine
ideale si determina ne sezni. 12. onde s' origina l'armonia de'con trapposti.
13. Armonia dell'ordine ideale con la natura, 14. legge di corrispondenza e di
contrapposto anche in ció. – 15. Armonia col divino per natura.Il gusto del
Bello... 19 1. Regola prossima è il gusto. - 2. Sentimento di verità, di
bellezza, e di bene. - 3. Che cosa è il gusto?. 4. Ana logie del gusto
intellettivo col gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti
buoni, o vizinsi. 6. S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza.
7. Effetto del gusto. 8. Il gusto non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze
io giudicare il gusto loro dall' opere. 9. Quattro gradi del gusto. - 10. Aiuto
che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale coscienza.
11. Stato di sanità o di malattia, cioè buona o rea edu cazione. 12 E empj. 13.
Stato d' abiti buoni o vizio. si. 14. Esempj. - 15. Conclusione. 16. Come si
può guarire o correggere il gusto falso. CAP. XXVIII. Le leggi del gusto... 1.
Argomento. 2. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia del proprio gusto, 3.
affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un gusto cattivo, 4. e
primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio perciò di buoni
esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità – 7. e quanto a '
fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il quando dell'operare.
9. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza. Esempj. Equazione di tutti
gli elementi dell'arte con l'idea. 13. Gusto de' limiti. 14. Esempj. 15. I
limiti massi. mamente ne segni esteriori.
I Pedanti e i Licenziosi.... Pag. 53 1. Argomento. 2. Che sieno i
Pedanti e i Licenziosi. 5. Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si
gnificato più proprio e stretto. 5. Errori contrarj e vizj comuni. - 6. La
pedanteria va fuori di natura. 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9.
Esempj. 10. Non comprendono l'universalità i Pedanti. - 11. Esempj. 12. Nė la
comprendono Licenziosi. 13. Esempj. 14. Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e
la licenza è ignobilità. - 16. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono
fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine immaginato.. 1. Argomento. — 2.
Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e innovazione o invenzione. 4.
Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato. — 5. Legge univer sale della
fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi dell'invenzione
immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite. 7. Secondo; immagini
di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni oscure. 8.
Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose reali determinato.
9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad astratte
generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali, divine. 12.
Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13. Perché l'estro
abbia tal nome. - 14. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o vuoto, e vero
o fecondo. 16. Conclusione. CAP. XXXI. Armonia interna delle Immagini....... 87
1. Argomento. — 2. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza rispetto
all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte; e
rispetto agli argomenti. 4. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita
delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. -7. Unione del
sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj
dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna
imma ginar l'opera innanzi di farla. - 11. e che rispondano i par ticolari al
lutto, 12. e l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale.
13. Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Pag. 106 1.
Argomento e legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si
rifletta nelle immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità,
quantità, tempo e spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5.
Esempj dell'éra nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto
ne'linguaggi. – 8. Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo
e dello spiritua le. 10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e
nell'arte. 12. Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli
somigli. 13. Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura,
musica, e arti ausiliari. - 15. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea.
1. Argomento. -- 2. Legge naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono
immediati all'arte bella i sensibili rap presentati, - 4. Il lalto remotamente,
il gusto e l'odorato indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili,
salvo la poesia ch'è universale. -- 5. Legge naturale di simetria ne ' visibili
aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella. 8.
Simetria di quantità nel grado. 9. Simetria di quantità nel numero de' suoni,
delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria nell'arti,
quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più cose. — 14.
Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap
presentato. - Armonie con la natura spirituale.... 1. Gli affetti. 2.
Somiglianza loro; 3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa
dell'unmo, 6. e della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi.
- 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. 9. Idem. ·
10. Il Materialismo non può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del
soprannaturale; 12. presa sostanzialmente da simboli e miti di credenze
religiose; 13. ma trasformate dal. l'estro. 14. La personificazione, ritraendo
l'uomo, ac cenna lo stato degli artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, 15.
Italia; suo scadimento; letterature straniere.. 16. Anche nell' altre arti
avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche 158....... 1. Argomento. 2.
Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? — 15.
Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione
tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e
dell' altra. - 9. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso,
tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e
nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come
in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Pag. 176 1. Argomento.
2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione
determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile.
Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza.
Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12.
Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15.
Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. -
2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e
rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione
del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8.
ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur
esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione
d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino
l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde
viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. CAP. XXXVIII. Armonia dello
stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee
rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5.
abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per
poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione.
8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e
scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche
nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia
dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde
alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare
le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa
all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge
di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello
stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile
tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10.
Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di
INDICE DEL VOLUME SECONDO, 457 esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande
han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità.
14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità
principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come
si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due
generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3.
Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di
spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti
di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure
naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità
e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari
dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili
determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al
mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno
e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la
poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte
musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16.
L'arte bella fa quasi un mondo novello. 266 Cap. XLI. Ordine fra l’ Arti
speciali del Bello...... 1. argomento. 2. Criterio per giudicare i gradi
dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una
invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de'
significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare
buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e
perfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In
che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura
e scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto
a ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta
un suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in
altro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia.... Pag. 283 1.
Argomento; definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia.
3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili
esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i
poeti, si è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò
ne' sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne'
sensibili esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne'
sensibili inter ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7.
e poi, nelle cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia,
quanto più rende viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto
più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende
alle più élette forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di
risolvere in armonia le contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne'
poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici,
ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte rappresenta in immagini
l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere perciò di componimenti
nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16. Conclusione. CAP. XLIII.
Le specie della Poesia...... 1. Argomento. 2. Tre modi principali della poesia:
espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa
nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà,
distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7.
Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8.
Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o
nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello
stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi
principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico
il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe 320 CAP. XLIV. Dell'idioma, 1.
Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale
unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha
sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra
le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra
lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici
nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e
come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma.
10. Con clusione. INDICE DEL VOLUME SECONDO. 459 CAP. XLV. Arti del disegno.
Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle
tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4.
Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma; 5. e può
risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. - 6. La
forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose, si
per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste l'ordine
ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc
corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la
linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare, comprendere
i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare; 13. e in
ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio
nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie. 16.
Conclusione. CAP. XLVI. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2. Si
originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel
lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea
perció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi
disegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della
massa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10.
Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del
disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma;
12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una
nazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra
civile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. 357 CAP. XL I.
S ulura..... 376 1. Che cosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti
figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione
de' lineamenti con la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4.
Indi all'arte sculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di
tutto rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è
limitata nel figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8.
Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si
comprende la fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura
piucchè della pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera
della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le
due arti nel nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual
sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia
essa, piucché nella pittura, il freddo 460 INDICE DEL VOLUME SECONDO, ed il
generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. CAP.
XLVIII. Pittura.... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare
alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura
esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal
prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma
non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose
reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità;
gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che
sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10.
La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti,
e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione
verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani.
15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. CAP. XLIX. Musica......
415 1. Che cosa è la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de'
suoni col sentimento umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4.
E indi attinenza principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione
de' suoni col sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente
significare ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli
af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune
alla poesia ed all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato
universale d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch'
essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si
determina nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità,
– 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori
sulla na. tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen
timentali, Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra
tutte l’ Arti del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2.
Unità d' obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3.
Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si
risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi
l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la
musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale
l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità
essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate;
15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. INDICE
DEL VOLUME PRIMO.. INTRODUZIONE CUI SI RACCOMANDA DI LEGGERE...... Pag. 1-881X
LIBRO PRIMO. La Filosofia e i Concetti universali. Cap. I. Idea della Filosofia......
Pag. 3 1. Che cosa è la Filosofia? – 2. È scienza del pensiero; 3. ma del
pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi lo giche astratte; 4. e
però è Scienza della coscienza e dello spirito. - 5. Scienza degli oggetti
connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; - 6.
Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin
cipj; -- 7. Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. – 8.
Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; -
9. e ivi troviamo la sua più alta verità. 10. Talchè la Filosofia e Scienza di
Dio, del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza
delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì
Scienza dell'ordine universale. - 11. Come in ogni altra Scienza, cosi nella
Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è
l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri
tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia separativa. —
15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. CAP. II. La Verità.... 1.
Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre
entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede
relazione in relazione. 5. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si
distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità
è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola,
e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello
Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11.
Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della
scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. –
15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali,
presupposto da ogni conoscenza. 16. Conclusione. 22 536 INDICE DEL VOLUME PRIMO.
42 - - 64 CAP. III. L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2.
Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4.
gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5.
L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d'
entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri,
il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli
Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. 10. Ma esaminandola,
bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo,
- 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da'
linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di
tre specie. - 16. Conclusione. CAP. IV. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea
d'ordine si distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di
correlazione. 2. Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3.
Ogoi en tità è un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita,
non essenziali. Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e
d'esistenza. – 5. La relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad
intra, o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o
di ragione. - 8. Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea
d'allo. Gli Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli
Scolastici, e il Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12.
Correlazioni. Unità e triplicità in ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò.
- 14. Il Dogma cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge
universale de' simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. CAP. V. Il
conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento dell'ordine si distingue il
Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice relazione della Verità col
l'intelletto, benchè io significato generalissimo ogoi relazione col nostro
conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell'
essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose
animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è manifesta. 6. La
verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè intelligibi lità. – 7.
Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi,
8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il
Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella
mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, - 12. e loro
convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e
nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il Bello
conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici abbiamo
riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. - 16.
Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del
Buono. 537 CAP. VI. Attributi metafisici
correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al
quale ci porta l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per
attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate
nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate
nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici
correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti
soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano
che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè
Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli
attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea
d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e
di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo,
14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16.
Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1. Possibilità razionale della
creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè
di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e
si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza,
benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto
essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte
le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause
naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il
soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza
intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia
tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una
somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li
trascende. - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono
dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14.
sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e
de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di
creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa
universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1.
Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per
l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che
non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda
per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella
contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più
alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue
nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non
predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. C 538 INDICE DEL VOLUME PRIMO. 462
C il pine. - CAP. IX. Idee relative all'Ordine della Natura....... Pag. 1.
L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione, 2. La relazione
delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, -
4. la causa, 5. e l'essenza reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come
(quomodo); – 7. ossia il principio, 8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle
cose ci dàono il dove, che può essere correlazione ancointellettiva, 11, e
correle zione materiale; - 12. ossia il punto, - 13. Y estensione particolare,
14. e lo spazio, 15, che non può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il
sublime si origina da cið. Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento......
1. Criterio della conoscenza; ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6.
l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la
formazione dell'idee universali, e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di
noi stessi, degli altri uomini, - 7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in
relazione del quale ogoi cosa dicesi un fatto, ed esso medesimo ha questo pome.
9. Forma del bellezza; - 10. e qui si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea
esem plare, 12. e il gusto. - 13. Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo,
- 14. la felicità, - 15. e l'utilitd. - 16. Conclusione. 182. 2. a. - LIBRO
SECONDO. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. 207. CAP. XI.
L'Enciclopedia.... 1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve.
dere le sue parti e l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, 2. Ordine di
formazione, ordine di logica dipendenza. 3. Criterio armonicamente oggettivo e
soggettivo per trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. 4.
Quattro classi di conoscenze: - 5. onde vengono la Teologia positiva, la
Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6. Parti della Fi losofia universale. -
7. Filosofie particolari e applicate. 8. Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia
sacra, umana, na turale. – 11. Arti filosofiche, matematicofisiche e storiche.
12. Tradizione perenne dell' Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. 14.
Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario, le quali spezzano la continuità del
sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti: la Dialettica, l'
Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. CAP. XII. La Dialettica. 1. Che cosa è
la Dialettica. — 2. È quasi un dialogo. – 8. Esemplare unico dell'Arte logica è
la natura, - 4. se no 539 - 8. e s'op v'è ignoranza. – 5. L'Arte logica è
osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e preoccupazione
appas sionata. – 7. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio. – 9. È
inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14. È per
fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s' accordano
e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene deter minata
dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità ripensato, 15.
ragionato, — 16. e significato. CAP. XIII. La Critica interiore vera e la falsa........
Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono scenza porge alla
riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar
l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte
oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si
contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e dell'altra nel
Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può; e questa
è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve
cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico. 7.
Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone, qualunque sia
l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione, - 10. o di
misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il oaturale
co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la forma naturale
in relazione con gli oggetti, - 14. e la realtà degli oggetti stessi, che
costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15.
Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.
Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle
verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de'
Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza
naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7.
e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro
confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella
notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti.
13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o
spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi,
del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La
Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza.
CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la
forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde
provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; –
5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità
primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze
sensibili son segoi reali, realmente vera. - 540 INDICE DEL VOLUME PRIMO.
corrispondenti alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze, che
dano'occasione d'inganno, procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i
segoi apparenti delle distanze. – 9. For me intellettuali, corrispondenti
all'entità e verità delle cose, ue' concetti, - 10. ne giudizi, -11. e oei
raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi,
e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo;
– 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; - 14. per l'intendimento delle
qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; — 15. e per la conoscenza di
Dio. 16. Conclusione. CAP. XVI. I Principj armonici della ragione... Pag. 318
1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle idee
universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli
universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all
' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del
l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della
relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si
distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9.
Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10.
Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si
hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo;
11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di
modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine,
com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio
della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. – 14. In che stia
l'utilità de' principj uni versali. – 15. Due opinioni estreme ed erronee: l'
una che li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. -
16. Conclusione. CAP. XVII. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. —
2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle
verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come
scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per
suggerimento di natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità
intellettuali pure, 10. cioè negli universali della Metafisica e delle
Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e
ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento storico
delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E
anche nell'Arte pedagogica. CAP. X III. Metodo che imita la Natura...... 1. Che
cosa è l'imitazione dialettica: parte sostanziale del metodo. 2. Sintesi
primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 - secondaria. 5. Legge dialettica. 6.
Il metodo allora è quasi un contrappuoto musicale. -7. Però non può essere nè
solameote analitico, nè solamente sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro,
- 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età
verso l'analisi eccessiva o la sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. -
12. Il vero metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle
Scienze; 14. nell' Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16.
Conclusione. CAP. XIX. L'invenzione dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è
l'invenzione scientifica, o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di
conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una
definizione nominale; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione, – 4. con
la tési e con l ' antitesi, con la prova dall'assurdo, e con l'elimina zione; -
5. fochè si giunge alla definizione dialettica, che può essere o intrinseca o
per via disole relazioni. - 6. Poscia, passando alla sintesi, abbiamo l'ordine
induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è una ricerca delle
ragioni, e uno spiegare per esse; oode gli Antichi dis. sero che saper vero è
un sapere per le cagioni; - 8. cioè per principj; - 9. e questo s'avveranella
teorica degli universali, - 10. e nella Scienza dell'uomo, dell'universo e di
Dio; 11. s'avvera nelle Scieoze civili e storiche; Delle Matematiche, e nella
Fisica. 14. Indi si spiega l'inven zione degli stromenti e delle macchine; 15.
come altresi la ipotesi e l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo. - 403 - CAP.
XX. Il fine dell' Arte dialettica.... 1. Argomento. 2. Connessione logica. - 3.
Che stato der essere quello di chi cerca la verità, 4. e difetti che bisogna
evitare. - 5. Si può errare io ciò per leggerezza, 6. o per una preoccupazione.
7. Chiarezza, - 8. e difetti da evitarsi, -9. Errori che procedopo da
leggerezza, - 10. e da preoccupazione, prendendo per chiaro ciò che non è. -
14. Certezza; 12. e difetti evitabili; 13. badando anche ip ciò di non errare
per leggerezza d' assensi -14. e per qual che preoccupazione, stimando che sia
certo l'incerto, e vice 15. Connessione, chiarezza, certezza, non possono
realmente trovarsi che pella verità. 16. Si concbiude: che fine d'ogoi Scienza,
e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi mancanti d'ogni
ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si l' ordine
riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che l'Arte dialettica è
altresì un abito morale; e ancora, che l'abito del parlare meditato giova molto
all'ordine del pensare ragionato e retto. versa. - I Criterj della Verità o Leggi universali
della Dialettica. Cap. XXI. L'Evidenza, o il Criterio della Verità..... Pag.
427 4. Argomento, e qual sia il disegno della Dialettica, e qual ragione
v'abbia di trattare qui de Criterj; e dottrina loro semplicissima. -2. Il
Criterio è uoa regola, perch'è un segno della verità in relazione con
l'intelletto. - 3. Non può negar si, fuorchè negando la conoscenza; non può
travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi ha una dottrina
costante sulla natura del Criterio. - 4. Il Criterio è un segno apparte nente
all'ordine della verità, 5, ed è universale. - 6. II Criterio, perciò, è l '
evidenza dell' ordine di verild; – 7, è quindi uno e moltiplice, ossia è un
ordine di Criterj; 8. perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e
ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè
l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. 9. Il Criterio
vale altresi nelle cogni. zioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può disco
noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,
l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio
naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal
dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.
Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che
quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un
ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio
indiretto e più ristretto. - 16. Conclusione. - 451 Cap. XXII. L'evidenza del
Teismo, come di verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la
verità di Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La
Scienza de' limiti è scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri
limiti. 3. Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin
telligibile, soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa
serbare questi limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del
sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle
cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende
soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono
a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica,
12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la
legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi,
opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi
l'apoientano. - 16. Conclusione. - - 543
- Cap. XXIII. Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il
Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro
posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, -
5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che
difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte;
- 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a
Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz),
- 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che
balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti
più sublimi della coscienza. CAP. XXIV. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io
che il Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl'
Indiani. 4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8.
Dualismo tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del
medioevo; 10. e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori
scola stici; - 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up
Dualismo nuovo, non antiteistico, macosmologico e antro pologico. – 12. Il
Cartesio; – 15. ed effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14.
e nel Leibojtz; 15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo
poste riori. 16. Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe
ogoi armonia. CAP. XXV. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l
' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che
propriamente consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone
con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel
Sensismo la coscienza umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto,
essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la
riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11. non la certezza nella
cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma
falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15.
com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto. INDICE DEL VOLUME SECONDO. -
Cap. XXVI. Lo Scetticismo...... Pag. 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e
fra gl ' Italo greci; - 3. nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età
moderna. – 5. Eclettici e Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè
gli concedono di partire dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo
scettico. 7. Razionalismo, 8. e Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo
metafisico, antimetafisico, - 11. che bensi trova la Metafisica per tutto. –
12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo. 13. Con seguenze principali di
questo. Desolazionee scherno. - 14. Dif ficoltà pelle controversie, o
Dommatismo scettico; abito di giudicare de' fatti umani da sole circostanze
esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10. e 15. e CAP.
XXVII. L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo pieno il Criterio?
Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza della Verità. 2.
Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono scenza è affetto. --
4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale affetto. 5. Come
l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento, l'accompagni e lo assicuri,
e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a quella compagnia e a quel
riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che di visero l'affetto
dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono l'evidenza
dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed io Fisica.
- 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli affetti
con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; - 11. cioè
l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione affettuosa per
l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello è anche
Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni
l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza
si converte in sapienza. 500 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 42 - - 63 - salità;
CAP. XXVIII. Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? -
2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i
quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj,
6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e
generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè
dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del
Senso Comune, per la contrarietà delle opinioni. – 11. Obiezioni contro la
testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de'
vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole
che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla
ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia
credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza;
15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità
di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. CAP. XXIX.
Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni
scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo
verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli
errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6.
Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8.
Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e
son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11.
perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro
conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè
i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo
criterio storico. - 16. Conclusione. CAP. XXX. Relazioni fra le Scienze e la
Religione..... 1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, –
2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia
debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per
l'esame, debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia
un Crite rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe'
Misteri, o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso
metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia
delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la
Religione s’ è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla
coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza
evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce
l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare
validità razionale lenza non filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima
l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me.
ditazione più alta. 16. Sunto. 84 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 501 LIBRO QUARTO.
Leggi speciali della Dialettica. oi. - - 6. e Cap. XXXI. Dell'Ordine, come
suprema Legge razionale. Pag. 107 1. Legge suprema razionale. 2. Leggi concrete
o datu rali, 5. Legge soprema è l'ordine. 4. Unione de' termi 5. Cercare questa
unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell'
Arte buona, 7. come dell'Arte dialettica. 8. Cercare la somiglianza de' ter
mioi, – 9. le loro differenze, - 10. e le loro contrarietà, 11. escludendo i
contradittorj. 12. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. – 15. Errore,
deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte
soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e
senza cui non è più verità. - 14. Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo
eccesso. 15. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura
interiore ed esteriore. 16. Coo clusione. Cap. XXXII. Ordine dell'idee 127 1.
Ripensamento dell'idee. - 2. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; - 5.
quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione
s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa. — 4. Bisogna esaminare il
positivo del l'idee; - 5. nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi
bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar
l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè possiamo negare
l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; -7. e bisogoa esa
minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell' idee. - 8.
Idee a priori e a posteriori? 9. L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va
riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle,
adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. 12. Bisogna, in line, ch'
esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e
comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un
esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere
alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Cap. XXXIII. Ordine della Memoria..
1. Argomento.– 2. La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.
Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,
concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È
neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,
dell' idee, molte cose. ſaomo, 502 INDICE DEL VOLUME SECONDO, - considerare la
coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil. mente richiamarle. - 11.
Inoltre, acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e de'
raciocinj, per il pronto discorso scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è
neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa dronanza
dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna, occorre rammemorare il
nostro passato. 15. Per unità morale del genere umano poi, occorre la
Tradizione, ch'è me moria. – 16. Conclusione. Cap. XXXIV. Ordine de' giudizj..
Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj; - 3. onde i
giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4. Categorie, 5.
oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina. - 7. Categorie
oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie soggettive: 9. I. quanto
alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali, ge nerali, particolari,
singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee, categorici, ipotetici,
disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, - 12. diretti e
comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13. analitici e
sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi, negativi,
limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj, equipollenti,
convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come
sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta, chiara, adequata, e
quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Cap. XXXV. Ordine del ragionamento.. 186
1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. – 5. Idea media; e come il
raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4.
Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione
dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe
reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —
9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e
dell'induttivo? - 11. Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla
vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve
mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la
materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.
Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che
cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in
Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.
– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.
Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro
che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che
negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;
216 Car. XXXVII. Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1.
Argomento. 2. La verità, com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può
vedersi dalla Storia della filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè
vana è la disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e
quindi ancora si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è
psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma
neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura
dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10.
e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più
analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la varietà delle cose, diversificano
pure secondo la mente di chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro,
a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. CAP. XXXVIII. Abiti necessarj al
ragionamento 1. 11 Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito in
tellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito dell'Arte.
– 2. Abito morale, cioè amore della Verità. 5. Bisogna essere preoccupati solo
da questo amore; 4. unito alle virtù morali, - 5. e come dagli abiti viziosi
opposti s' of feoda il ragionaiento buono. — 6. Abito intellettuale del rac
coglimento, – 7. donde nasce il diletto della meditazione, 8. e che porta con
sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, 9. e di
ordinare i proprj studj. 10. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso
delle regole. 41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti
razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de'
ragionamenti, a mezzo e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e
indi viene il possesso della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio
della pewna e della disputa; 16. purchè questa sia conveniente. Cap. XXXIX.
L'Esposizione.... 264 1. Iinportanza dell'argomento, 2. Ufbej della parola:
interpo e sociale. 5. La parola s’unisce strettamente al pen siero, ma non lo
costituisce; 4. bensi lo determina. 5. Non bastano i fantasmi, ma ci vuole il
segno dell'idea 6. tanto più che il discorso esterno aiuta con la successione sua
la riflessione discorsiva. – 7. Legge dell'Esposizione si è la legge dialettica;
8. ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero; il che apparisce
anche da' nomi che si dànoo a'ter mioi della proposizione e del raziocinio, e
al congiungimento de' termini; - 9. e poi, la bellezza dello stile dottrinale
ac corda il Vero col Buono. 10. Regola perciò è: determinare cop l'ordioe della
parola l'ordine del pensiero; -11. in con formità dell'idee e dell'idioma, 12.
donde si traggono le regole tutte grammaticali, 13. e dello stile. 14. Quindi è
impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla pro fondità e
dall'ordine del pensiero. – 15. Se non determiniamo con le parole il proprio
concetto, - 16. in conformità dell'ig 2 504 4. ma timo legame fra i concetti, e
in couformità del linguaggic, ven gono gravi errori. Cap. XL. L'Interpretazione..
Pag. 283 1. Argomento. — 2. In quante maniere debba determinarsi l'ordine del
pensiero altrui. 5. Relazioni del discorso con la Jingua; e perciò la sappia,
chi vuolesser critico; tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; 5. e
allora valersi degl'interpreti migliori. – 6. Relazioni del discorso con la
mente altrui; e perciò stare al senso letterale, quanto si puo; – 7. oon
interpretare alla leggiera né cop troppo di sot tigliezza: 8. non alterare né i
difetti né i prenj; – 9. ba dare ai fini che il testimone o lo scrittore si
proponeva. 10. Relazioni del discorso con l' animo altrui; e pero guardare alla
capacità e alla veracità con argomenti intrinseci ed estrioseci;: 11. nè la
capacità negare, preoccupati da un'idea; 12. nè, per la veracità, eccedere ne'
due vizj opposti d'una Critica adulatrice o caluoniatrice. - 15. Relazioni con
la Società uma na; e però con l'incivilimento, 14. con la Religione, 15, con l
' uniune delle prove. 16. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. 305 0 Cap.
XLI. Metodi speciali..... 1. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le
Discipline va rie? - 2. Quanti sono i Metodi speciali, - 3. che procedono dalla
relazione varia degli oggetti con la mente? 4. Ogni errore sostanziale di
Metodo procede da un errore su detta rela zione. - 5. Gli errori de' sistemi
sul Metodo, esaminati, ren dono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina.
6. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero, come si
distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello; – 7. e chi oega la differenza
de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come
nell'Arti Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10.
e ciò si vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi
la distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici
diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze
diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto.
- 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Cap. XLII.
Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj
re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca
propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le
dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi,
8, e come gli 324 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 505 - Avversarj neghino
irragionevolmente questa possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in
genere de ' fatti divini, ma esclusa sempre la necessità; - 10. poi ancora,
circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi de preliminari della Fe de,
11. come nelle Verità misteriose. 12. Unione del Metodo filosofico,
dell'interpretativo e dello storico, per le origini del Culto e per la sua
universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni universali con le Scienze e
con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, - 15. e con tutti gli altri Culti.
Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi s'accorda.. Pag. 342 1.
Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico, perchè muove
dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto
differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte filosofica, non è
meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e filologico, percbė
storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto
sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal Metodo matematico, perchè
risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. – 7. Si distingue
dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi, che non
debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono
considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col
filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e
Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e
l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra Filosofia
e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali. – 11. II Metodo
teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla
Storia universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare
alla Storia religiosa e ai monumenti sacri. 13. S'accorda col matematico, per
la severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine
fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. – 14. S'accorda col
fisi co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė
il fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni
sacre. 16. Sunto. Cap. XLIV. Metodo della Filosofia.... 361 1. Argomento. — 2.
Proprietà del Metodo filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame
de' fatti interni, delle loro leggi e cause. turali; - - 5. Delle relazioni con
gli oggetti; 6. e però avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli
oggetti stessi, e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si
distingue dal Metodo teologico, e dal critico o filologico: 8. dal matematico,
per la natura de' concetti, la natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la
natura de' fat ti, e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la
ricerca delle classi loro, e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. -
12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per 506 INDICE DEL VOLUME
SECONDO. - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio
dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico,
per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra
le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. CAP. XLV. Metodo della
Filosofia Civile.... Pag. 381 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo nella
Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro
precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere
l'analogie per identità. - 5. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non
separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma
senza trascurare l' esteriori. - 8. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi
supreme della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza,
dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la
libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò
risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle
cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è
avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che
governano le nazioni, non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si
può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza
civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si
distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Cap. XLVI. Metodo critico
nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in
ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica,
Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in
eccessi con queste disci pline. - 6. Ipercritica. – 7. Esame delle cagioni; e
iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9. particolari,
generali, 10. psicologiche, A1. divine. 12. Oggettività della Storia; 15. e
come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo storico si
distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, CAP. XLVII.
Metodo critico nella Linguistica. 420 1. Proprietà del Metodo interpretativo
delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come bisogna valersi dell
' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi moni dell'uso. A chi
ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi
de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. – 6. Io che con
siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali estremi bisogna
fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente; – 9.
e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni; che sono
massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E iodi anche
vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca, la
Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la Fisica,
sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. CAP. XLVIII. Metodo matematico...
Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte
da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento
elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea
straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il
Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso;
dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della
Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal
letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le
dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche
possano dissestarli.. 16. Sunto. Car. XLIX. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento.
Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia
dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere
fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. – 6. Essa è di
molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e
dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però
al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono
allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti
alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze..
479 classi, 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi
fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai,
se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6.
de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio, e
dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti
meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie,
poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde
l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende
l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; - 14. per le Matema. tiche; -
15.per la Gritica. 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. -
Epoca seconda dell' èra pagana. Civiltà degl' Italogreci; successione dei loro
sistemi.. 245 XIV. Scuole italogreche. Epoca quarta dell ' èra pagana. Si stemi
grecolatini. - Cicerone. Giureconsulti romani. EPOCA SECONDA DELL'ÈRA
PAGANA. CIVILTÀ DEGL'ITALOGRECI; SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi
dell'incivilimento ilalogreco; i l'elasghi, la trasfor mazione loro negli
Elleni, le colonie. - Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. – Cinque
cagioni più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italogreca:
colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr ' esse; tutto
dall'oriente, nulla e opinione media. – Dj pendenza non generica nė volgare
della filosofia italogreca daʼsistemi orien tali. – La civiltà jtalogreca fiori
primamente dove più vive le comunica zioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore
incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama orientalitalogreca, o più breve,
italogreca. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il tempo
socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italogreca, religione e civiltà.
Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi,
de ' Mi steri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de '
Pelas ghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somi
ilianze tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. - Misteri: quelli di
Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto
simile al panteismo dell'India. – Ciò pur anche ne ' Misteri eleu sini;
panteismo naturale, metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia
d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di
lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. –
Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di
simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni
antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione
collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane.
Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son
certamente molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il
panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra
l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico; adorazione
degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre più specificate e
che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima e volgare del
politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni
simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo
cre scente. - La filosofia, dunque, prima sacerdotale; poi sacerdotale e
laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro,
come apparenza o credulità popolare. — Questo resistere al male, e poi
cedergli, si vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La
filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto,
anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da
un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori,
prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco; e se n'ha prove
non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di. slinto Pitagora dal
Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo
le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di Xenofane antecedė
Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola
cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca dell'incivilimento
italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o con qual altro nome
si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma zione di essi negli
Elleni; delle colonie. L'età de' Pelasghi o degli antichi abitatori di Grecia e
d'Italia si perde nella notte de' secoli, ignoto il principio e la durata. È
certo bensì, che quegli abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha prova in
tutte le memorie e ne’linguaggi e nelle reliquie dell'arti; e che i Pelasghi,
quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, furono
la più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religio ni
elleniche. (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del
Creuzer, Rel. de l'antiquité.) Sem braron barbari, perchè reliquie di popoli
più segregati allora da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di
là, ove i Pelasghi abitarono, fan derivare i Greci la civiltà loro, dall'
Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e in Grecia e in Italia un cozzo
di popoli: qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli eruditi; ma questo
si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con trasformazione lunga e
tempestosa i Pelasghi si convertirono in Elleni. Viene poi l'età delle colonie;
un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un in vadere, un esulare, e
indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e nell'Isole, poi nella
Calcide, nell'Eu bea, in Sicilia e sulle coste d'Italia, e infine (propag gini
di colonie da colonie) in Asia, in Tracia, sul Da nubio e nel Mar Nero. Questa
terza età è propriamente storica; dell'altre due il più va ingombro di favole;
e la terza cominciò, secondo l'Hofler assai temperato nelle · cronologie, sul
secolo undecimo avanti l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e
operosa, e ch’ebbe così lun ghe e ricche preparazioni, si formò la civiltà e
filosofia degl'Italogreci; la quale, svolgendosi nelle colonie d’Ita lia e
dell'Asia minore, cedè poi nel secolo quarto avanti Cristo al primato d' Atene;
onde cominciò un'altra età di filosofia. Nell'epoca di che si parla ora, in
ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente mantene vano unite
la civiltà orientale e l'italogreca; colonie, commerci, viaggi, lingue,
tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed
altri, ma le prime venute dalla terra degli Arii e de' Persiani, e l'ultime
ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare in
Omero, non cessarono mai tra Grecia e Italia e le coste dell'Asia; i viaggi per
l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de filosofi d'allo ra, come il
Ritter non nega quelli di Pitagora, il Ritter ne gatore sì voglioso; le lingue,
che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni
d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le
opinioni: da Erodoto fino al Creu zer le mitologie italogreche, la greca
segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana; ma poi
Ottofredo Müller, il Voss e altri riferirono tutto ad ori gine greca; il
Guignaut (Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media.
E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia
com'anco radici e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti,
dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im
pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle
religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia
minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vi cini
orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta
già in Esiodo ed in Omero. (N. 1 al Lib. V, Sez. 1. ) Talchè (ponete mente, o
si gnori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore av venne dall’undecimo
all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'Italia e di Sicilia
dall'ottavo al sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare
delle tradizioni orientali fra gli Elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia
nuova degl'Italogreci. Non istarò dunque a disputare com’essa derivi più o meno
da’sistemi orien tali, bastandomi ch'ella dipenda per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel 248 PARTE PRIMA. riaccostarsi
loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' po poli d'Italia e di Grecia, nazioni
antichissimamente ci vili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi
affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione spe culativa,
giudicatene voi, o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare
le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà italogreca?
nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia; non già in Gre cia propriamente detta.
Perchè mai, o signori? La ri sposta non par malagevole; prima che in Grecia,
fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia
media, sorgente de' popoli e della civil. tà; e prima pure che in Grecia fiorì
nella Magna Gre cia, cioè in Italia, perchè ivi più forse ch ' altrove ra dicò
la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e ionio
Xenofane, venuti tra noi, dan se gno come frequenti e vive fossero le
comunicazioni tra le coste italiane e l ' Asia minore. Dico poi, ad ogni modo,
che le colonie greche trovarono in Italia grandi semenze di civiltà, nè però
ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di
fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto importanti: prima, che le ta
vole d'Eraclea, lette dal Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero
dagl'Italioti misure e confina zioni agrarie: seconda, che i Lucani, i Bruzj, i
Sanni ti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a'
monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler ), talchè più non restò in
Italia dialetti greci (in Puglia ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai
Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non
serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita
logreca (italogreca per più brevità); greca, perchè filo sofia di colonie
greche; italiana, perchè sorse più splen dida in Italia e con tradizioni
italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la
scuola pitagorica e d'Elea); orientale, perchè con ori gini e comunicazioni
asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo quel ch '
essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la mira bile
potenza di far proprio l'imparato e di dargli bel lezza e compimento; essi il
ricevuto per dieci lo ridus sero a mille e quel mille lo insegnarono al mondo;
ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'Ita lia nostra, o signori,
principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa filosofia nuova
che tanto potè su Platone e sopr’ Aristotile; l'Italia ricevè dal 1 ° Oriente e
da’Greci, l ' Italia poi restituì alla Grecia e alla civiltà de' secoli
avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse Plinio: Omnium terrarum alumna
et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in toto orbe patria.
Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati: avvaloriamoci, o signori,
d'emulazione e di virtù, e non di lode. E quest'epoca, di fatto (come dissi altrove),
è un'età di passaggio; ritiene ancora le qualità orientali, ma che mostrano già
di convertirsi nell'altre dell'età socratica. Così tra gl' Italogreci, come tra
gli Asiatici, abbiamo un sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne'
Mi steri, e si separa perciò interamente dalle credenze po polari che
prevalgono. Tra gli uni e tra gli altri la filo sofia dipende dal sistema
religioso; ma ora si svolge in un modo più laicale e più da sè stesso, perchè
così ri chiede la mobilità di quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso
si rimpiatta, e nè ha sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e
commentarj vedici; par come un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E
siccome la filosofia di quest'epoca pigliò i germi da'Mi steri (Ritter ), che
aveano del panteismo orientale, così ell'ebbe del panteistico a mo'
degl'Indiani, ma con ten denze più manifeste alla dialettica che va per
distinzioni anzichè per confusioni. Poi, qui come là s' unì la poe sia con la
speculazione, ma più altresi se ne distinse; perchè i poemi omerici non furon
mai ravviluppati con una enciclopedia d'episodj; ed i poemi scientifici d'Elea
e d'Agrigento s'accostano alla prosa. E qui come là v'è ncertezze storiche,
meno per altro; giacchè il più delle incertezze cadono su' Misteri e sulle
origini pitagoriche, non già sulle scuole posteriori. Premesso ciò, si veda, o
signori, qual fosse in atti nenza con la filosofia la religione e la civiltà
degl' Ita logreci. Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò più
breve che non feci per l'India, giacchè (com ' ho detto) quel sistema era sul
morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale
italogreca si può ricercare in tre modi: per le notizie assai oscure dei
Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle
orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici.
Essi e l'origine de' Misteri apparten gono, credo, all'età di combattimento e
di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive (II, 51, 52, 53) che da
loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e che i
Pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'ora colo di
Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine che le nascite e le
forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero; tutte cose
già ignote. Vuol notarsi com ' Erodoto accenni pure che un simbolo osceno gli
Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne' Misteri; e
sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si mostrava i
simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto, uomo schietto,
n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano appreso le
sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero e d'
Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo luogo
così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute
lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli
orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli
oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione
si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti
d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste
tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti,
non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que'
poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi
specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo
attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,
divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri
maschi e tre femmine. (Creuzer, V, 2. ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto,
non solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5),
ma (com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.
Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.
S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,
Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.
Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono
dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'
interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e
Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a
Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come
non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon
derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.
Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio
mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint
Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a
quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si
distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva
la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne
nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,
lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non
ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?
E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo
Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a
Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato
rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollo doro
(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum ). Pure, da'cenni
dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho
detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col
ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il
panteismo naturale viene indicato da Cicerone (De Nat. Deor. I, 42), che diceva:
come le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce
meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire?
Egli accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia
confondevano, in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale.
Prova, dunque, tale ac cusa, e viene confermato da molt' indizj, che la
religione d' Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse
d'una fisica soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore
alla natura esterna ce lo vieta lo stesso Cicerone. Egli scrive nel II de
Legibus, che i Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo
beneficio d'Atene, perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella
speranza di vita migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone)
che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè
un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)
che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla
fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati
s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio (cap. 7 e
17) dimostra che quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità,
e poi si credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così
Aristofane (Rane, v. 467-462) mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole:
« Il sole e una luce aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e
osserviamo le regole della pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però
que' Misteri si chiamavan teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la
perfezione della vita. Va notato che la me tempsicosi s' univa col domma
dell'immortalità in que sto modo: credevano gli antichi che il principio
animale, principio di vita e di senso, distinguasi sostanzialmente dal
principio intellettivo; e che l'uno, cioè l'animale, passi di corpo in corpo,
ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in premio del vivere
onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si di stingueva in
Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da Pe, e tra
gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov) o anche logo (200795) da
psi che, e tra'Romani animus da anima. Quindi l'anima sensitiva s'immaginò non
altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal corpo, ne teneva le
appa renze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle notti e intorno a'
sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè Ulisse approdando
a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss. II, c. 217 ): « D'Ercole mi s'offerse
alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi Giocondasi alla mensa, e
cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe, di Giove figlia e di
Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie orfiche, non vanno
soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche costrutto;
purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici. S'è giunti
a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma, quantunque
la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al solito)
rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e
d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc. VI, 18, 92) che fiorì presso al 550
prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith. IV, 315 ),
anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr.
); lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie
ateniesi. Da molti luoghi di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11)
apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e
d’Orfeo; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l '
espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che
va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici.
Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione,
che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi (Ott. Müller): e ciò
conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi
dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia, benchè sotto più
forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Il Creuzer ne
dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale
son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte
ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti (VII, 3). E qui voi
scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo
(come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj, l'attivo ed il
passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha
l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o
manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene rammentata
negli Uccelli d'Ari stofane. Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me
secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu sine), in virtù di
Dionisio corrispondente a Siva. (Creu zer, op. cit., VII, 3. ) Mi pare che il
Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera
i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma
d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a
cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe
involuto si svolge nelle sue parti (Op. cit. Nota 12 al L. VII): queste le idee
più principali che risultano dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi
che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone
negarono già che i versi propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte
nessero; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi secoli dell' èra
volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne invento. Ma dice il
Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot. Parisiis, 1860): Plerique ver sus
puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè, considerata la purità e il
fare antico di molti versi, e il riscontro di varie testimonianze. ond' essi ci
sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni vetuste, possiamo affermare
che quelli senz'essere forse d’un poeta che si chiamava Orfeo, sien per altro
reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno insigne alla Natura, tradotto
dal Cantù nella Storia universale (tomo I) e riferito negli Schiarimenti (Ed.
Tauchnitz, 1832): « Natura, diva madre universale, in tante guise madre,
celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto domi
indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata in
eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata, antichissima,...
comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per
maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto; feconda
operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte
vero padre e ma 256 PARTE PRIMA. dre e nodrice e sostegno. » Le quali ultime
parole già udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina
s’asconde, o signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura
universale è padre e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina,
perchè non è la materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e
materia prima in unità; è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè
generata da sè stessa con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è
padre di sè stessa; infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto,
sostiene tutto, distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san
Giustino (Co hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in
Porfirio e in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che
rendono lo stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico.
insegna qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi
documenti degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e
che Dio tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev. III, 12.)
Riferirò un altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog.
Phis. 1, 2, 23, e Bibliot. del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è
Giove che splende col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le
cose. Giove è nato maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra
e l'aria stellata de 'cieli; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della
loro origine. Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest'
unico le chiude tutte nel suo corpo re gale, il fuoco, l'onda, la terra,
l'etere, e la notte e il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del
l'amore: contiene tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e
il volto maestoso irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la
chioma pendente e aurea d'astri; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di
toro, un doppio corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e
l'occidente, giri noti a' supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che
corre di contro al sole. In lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto
a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè
prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o
fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo
il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio. A lui
son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native
penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune,
ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la
zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il
nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e
negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose
egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma
luce con opera divina. » Tra le figure poetiche non si può non vedere in
quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare
l'attinenza fra Dio e l'universo, confondendola, per abuso d'induzione, con
l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità
de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero
gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni
pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla
reli gione fra gl’Italogreci. Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le
divinità sono le forze della naturu; non le forze per altro simboleggiate, come
interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an tica
scuola de' Teologi), bensì le forze naturali confuse con gli attributi divini.
In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati:
differiscono poco gli uni dagli altri; escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer,
V, 4). Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio
creatore, e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria;
Storia della F lofint. 17 258 PARTE PRIMA. ill 1 ma, veramente, non può
chiamarsi un teismo, bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le tracce del
l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione ch'io vi
diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome, dice Erodoto; e a dar
loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come
narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così
cabiri le dissero i Pelasghi, ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei
complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si
ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare) all'adorazione
degli astri, dove più che in altro ci apparisce la po tenza di Dio: e che sia
così l'attestano Platone (Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met. IV, VI, IX ).
Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si mantenne questo nel detto volgare:
Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il panteismo naturale de' sacerdoti
più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per ispiegare con modo determinato
la dipendenza di tutto dalla causa prima; e indi le teogonie e cosmogonie
orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine, allora, ebbero nome partico
lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne; come narrai che la triade
pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla fecondazione; e si sa del Giove
con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere piramidale di Pafo, e co' due
sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi), dell' Apollo a quattro mani,
del Sileno a due te ste, di una dea a quattro teste nel Ceramico d' Atene, del
Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso e della Cibele come informe
pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco divennero nomi e attributi
pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti, le cui vestigia restano
fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone, s'individuò per modo
che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si moltiplicarono
all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo LEZIONE
DECIMATERZA. 259 a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo
eccitava; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che
lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune
qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme
tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia,
quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. );
e tal simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi
perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola
d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro
efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente
adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè
più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la
tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono
le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa
cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.
Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e
sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco
nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al
contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa
Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,
lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando
sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò
solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,
dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che
la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa
intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute
le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'
età che 260 PARTE PRIMA. > il sacerdozio si separa e s’asconde, dalle
semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi come i pi tagorici,
che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa filosofia, perciò,
combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che
derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il concetto di Dio
sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli
Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o
come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti
della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in popola reschi,
molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e
segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare
che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla li cenza, fu
perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono l'arte della
parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo.
Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte; ma
successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Ma gna Grecia e l'Ionia caddero
in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come dimostra
l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane
canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite:
quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori, invasore della
patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere.
Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ate neo (L. IX) rimprovera Platone,
perch'e' disse nel Sofi sta come Parmenide amava Zenone d'Elea; quasichè tal
parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la filosofia,
resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra
bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana; chè questa è
non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità
sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è un'ombra di moralità,
qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà
degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro
sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti,
v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e bisogna ri correre il
più a Diogene Laerzio, autorità poco accet tata. Le congetture dunque son
lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi
remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno
e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando la certezza de' fatti, li
trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso; al
contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli; effetto del
panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima dell'undecimo secolo
avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò
l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà italogreca. Quali
preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le
dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti
per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che
tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi
di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi
ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che
date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita
civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non
selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni
filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a
tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno
già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo,
tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più
ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco
probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale;
ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette
sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso.
Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non
si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore
a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va'
discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè
nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla
sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non
disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu
giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo
spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in
essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi sembra
di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori
prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho prove
storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non
si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia
soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore
altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto,
che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall'
Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano
almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed
cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i
posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete,
vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune;
si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica
o italica, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo
materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal
Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di
filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere
prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo
nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l'
opinioni. 1 ° Quanto a Pitagora, il Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra
nostra; lo crede nato il Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non
salde, e per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato
il 640, anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St.
della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio
ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la
contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di
Talete (717-679 ). - 2º Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in Italia Zeleuco e
Caronda, legislatori l'uno di Locri e l'altro di Cata nia; e ne' frammenti di
quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa Caronda del 668; il
Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, il Centofanti, del 730. —3. Quando Pitagora
venne in Italia, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di
potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente non
può accadere. La scuola dunque precedeva. — 4º Il perso naggio di Pitagora,
l'istitutore insomma del Pitagore simo, diventò un simbolo in gran parte; il
che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. — 5° Nella scuola
pitagorica è mescolanza di culto e di specula zione; e ciò indica il passaggio
dall' età teologiche alle filosofiche o laicali, che in modo distinto vengono
più tardi. — 6. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola
italica, il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione,
corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un
uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. – 7. La storia di Pitagora,
simbolico in gran parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende
avvicinare tempi lontani; indi le confusioni dette di sopra. -8° Nella scuola
pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di queste
palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono in
progresso, e ap pena si scorgono negl' lonj. – 9. I Pitagorici han forma di
consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,
o signori, gli usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette
popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e l'autorità.
Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre solo differenze
accidentali. - 10. Le tavole d' Eraclea, lette dal Mazzocchi (come accennai
già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione
alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'Italia recherò qui
cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice Ta
ziano (Or. contra Greci, § 1 ) prendessero da’ Toscani la plastica. — 41., Il
Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di
Sesto che Xe nofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima
di Pitagora stando agli anni del Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne
del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? 12°
Se bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica e
d'Elea vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui,
pren dendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che ne luoghi
de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe
assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'ap
parisse il focolare; seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser favore in
Italia, sé qui non preparato il ter reno. Ma tutto si concilia, quando il
silenzio delle me te, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più
rino mato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.
Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'
Magnogreci, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle scuole
itali che, tacendo le lontane e recondite preparazioni. – 13° E ch'elle ci
fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone d'Elea: queste
opinioni sull'uno co minciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (S0
fista.) Il Brandis ed il Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina
germe innato negl' intelletti. Al che ripugna il Cousin e con ragione. Prima,
qui si parla storicamente e non teoreticamente; poi, se volesse allu (lere a
germi naturali e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di
cominciamento anteriore? (te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov) - 14. De primi
Pitagorici non v'è scritti; scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò
per l'uso degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel
segreto delle dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde
agli usi orientali. Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè
Talete, scrivesse versi, probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de
Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys. ); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di
stabilire la novità. 15. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita
gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il
pitagoresimo: più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. 16 °
Recherò infine (lue singolari testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la
fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della
greca filosofia. Ermia, dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili
enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'im mortalità,
sulla divinità e sui principj del mondo; e poichè ha.rammentato varj filosofi,
viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così: egli d'antica nazione (S 8).
Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è nota bile assai.
Eusebio, poi, più espressamente nelle Prepa razioni evangeliche (lib. X, cap.
4) dice: che Pitagora nacque a Samo o in Toscana o altrove, ma non greco, e ch'
egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia italica succedette la
ionica e l'eleatica. Anzi anche Giu seppe Flavio (Lib. VII) rammenta tre
filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e Talete.
Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità del Niebuhr,
del Cousin, del Gioberti (nel Buono), del Poli (Appendice al Manuale del
Tennemann, trad.) e del Centofanti (Pitagora ), e che non hanno in contrario
argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi
fanno sicuro che il pita goresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda
l'altre scuole; poi venga l'eleatica, e come più affine alla pri ma, e come
precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda
loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua conti
nuazione che s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che
non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione.
vole ne 2SCUOLE ITALOGRECHE. Causa interiore del Vilagoresimo è la necessità
d'una riforma morale: da ciò l'esame di coscienza posto per principio di
filosofia e di vita buona. Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e
morale da cui la civile, per mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle
memorie degl'istituti pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi.
Quali documenti abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.-
Le notizie che ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma
nemmeno rigettate con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo
fine e metodo. — Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu
applicazione d'idee matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in
un ideolismo matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero
rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i
significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;
suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò
le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a
Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj
delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.
– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio
non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni
tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti
che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il
vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i
contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade
che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed
è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il
numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione
prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio
è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla
scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e
armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno
all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo
naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle
col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;
sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né
in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla
divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –
l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e
condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più
indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato
ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più
appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -
Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia
eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra '
dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in
quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello
spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide
l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.
— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di
scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo
d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due
schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione
storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la
causa interna del Pitago resimo? La necessità d'una riforma morale; necessità
pro fondamente sentita da uomini ornati, quanto la Gentilità comportava, di
grandi virtù. Il conosci te stesso fu esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fonda mento altresì di speculazione; chè, nella coscienza e'tro
varono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente
della religione, de costumi e della li bertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci
d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma
religiosa e morale, da cui venisse la civile; e cri. terio a tutto ciò désse la
Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini
mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e
la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si
tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,
superbia ed ava rizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella
ginnastica; la civile, domando la licenza con abiti disci plinati ossia con
l'autorità (curos pz) e con la vita co mune. Il discepolato morale preparava
così alle specu lazioni, e, preparato, s'elevava l'alunno a gradi più alti e
più liberi. (Centofanti, Pitagora; Ill. del Giardino Puccini.) Circa Pitagora o
di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia, poco v'ha di sicuro e con
mescolanza di simboli; pare tuttavia che un fondamento storico v’ab bia e
ch'egli fosse uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in che
vennero le colonie di Magna Gre cia e tutte le antichità italiche dopo le
conquiste di Roma, e per la guerra feroce contro i Pitagorici, non ne sappiamo
quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo in molta riverenza. Si rammentano
con più certezza Liside, Clinia e Archita cittadini di Taranto in Magna Grecia,
Eurite e Filolao o di Taranto o di Crotone. Archita, il più celebre di tutti,
capitanò più volte gli eserciti, e non ebbe mai la peggio; buon padrefamiglia e
cittadino, domatore di sè stesso, famoso per invenzioni e scoperte in musica ed
in matematica e per libri d'agricoltura. Sul finire del quinto secolo avanti G.
Cristo, la scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli
scampati, o si rifuggirono in Grecia o si sbandarono in Italia. Sembra che
l'odio movesse da opinioni politiche, parteggiando essi per gli ottimati; ma
chi badi alla se gretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che
un capopopolo attizzò le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze,
s'accorgerà che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo
vol gare geloso e persecutore. Gli scritti col nome di Timeo, d'Archita e
d'Ocello Lucano sono apocrifi, e i frammenti di Brontino e d'Euri famo; ma non
quelli di Filolao (vedili nel libro d'Aug. Boecckh su Filolao, e nel Ritter); i
quali col Carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola
italica, ne dánno contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno
d'accordo. Quanto al Carme aureo, e's'attribuì a Filolao, a Epicarmo, a Liside,
a Empedocle; da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per Liside; e: mostra,
comunque, che ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno,
secondo l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di
tre" sole parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il
Mullachio. (Fragm. Phil. Græc. Didot, 1860. ). Le relazioni che ci danno del
pensar pitagorico gli Ales sandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione;
chè in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli
antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli
Alessandrini si descrive, non 270 PARTE PRIMA. i 2 7 > I meriti fede per le
grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone
Fliasio (3° secolo av. G. C. ) che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E
tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti
con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il
Timeo. » (Fragm. Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la
filosofia an tica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj
dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è
ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò
quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli
antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario
dagl'Indiani, che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile.
Metodo di filosofare fu il matematico; cioè l'applicazione d'idee matematiche
alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai
tal metodo? quali cagioni gli dettero im pulso? Già negli antichi v'ha
inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza,
anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè mancavano gli
stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella
fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in tempo,
che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti. Inoltre l'arimmetica e la
geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche, perchè non bisognose
d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità tra popoli
commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli, e scavano
canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico fece
spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come anche
si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio ci danno la quantità,
e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e massime il
cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de' Persiani, il Crono de
Greci, LEZIONE DECIMAQUARTA. 271 il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni
orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di
filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci
e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol
credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti
massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il
Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo
spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'nu meri
(μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet. I, 6). Ini tazione, dunque; a leggi di
numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in questo
è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe'
Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?
Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di
Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività
prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di
fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la
continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti
riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).
Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e
causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di Filolao; Siriano, Com. Met. d '
Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita, vol. 2.
) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria
rappresentavano l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa
all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale;
da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola
italica eran due i significati del numero; significato simbolico e reale. È
significato reale quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici;
e così dicevano essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la
totalità d'ogni perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a
significare gli oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse
Dio e le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come
l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò
toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?
Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o
d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,
dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non
hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come
Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto
crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come
dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse
procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere
la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu
dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali
a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella
caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello
vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la
scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale
di Polo ci ragguaglia Aristo tile (Met. I); le dottrine musicali d'allora fan
supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più
reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo
astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il
fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo
in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone
sommando i LEZIONE DECIMAQUARTA. 273 suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i
pianeti. Cin que i corpi regolari nella geometria? dunque altrettanti gli
elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la
piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e
dunque, altresì cinque i sensi. Se i quattro numeri primi, sommati tra loro,
fanno il dieci; e se i quattro numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri
dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o
quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose; e quattro, per esempio, sono i gradi
della vita: minerale, pianta, animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità,
la linea è qualità, la super ficie è triade, il solido è quadernario, si
compone, cioè. di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose
dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò
il concetto per l'astrazione dell' indefinito; pure, accompagnato come fu da
tradizioni buone, da molte virtù morali, da preziose osservazioni interne ed
anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e
profonde verità. Quel metodo era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali
della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con
queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice
Filolao che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima
cagione dell'essere, che è ella mai? Sic come i Pitagorici voller trovare i
principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito: che
son mai tali principj? Risponde Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle
matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » (Met. I, 5) cioè
tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi
tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è la prima cagione? È il primo principio,
per Filolao; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita: « quam Are
chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium esse
affirmabat. » (Siriano, alla Met. Storia della Filosofi. - 1. 18 l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle
cose son numeri, il primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel
commento al Carme aureo (Fragm. Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è
numero. » Che nu mero? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per
eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre
il principio; così abbiamo solido, superficie, linea, punto; questo è il
principio della linea, della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo
il primo principio, è il numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza.
(Aless. Afrod. Comm. alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno
per eccellenza. L'unità, idealmente, si può considerare e qual parte che
compone la pluralità, e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa.
Diciamo: il venti è compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com
pongono un tutto. Diciamo ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un
milione; ecco l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come
unità. Nel primo caso, l'unità è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la
forma mentale che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità
sparpagliate. E in tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza,
giacchè abbraccia ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio
l'idea d'unità ne' detti significati? No; Dio non è il compo nente della
moltiplicità; nè Dio è un che generico e comune alle moltiplicità particolari.
L'unità di Dio è, a dir così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela
zioni personali della Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si
dice uno per negare il moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali
concetti col significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente
la filosofia e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò
que' concetti nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che
Dio per lui è imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile,
simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che
solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe'
Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la tutte le cose, e
superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo
principia unam et singulam causam, et ab omni abstractam præponebat.
Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso buono? Il
Bertini (Op.cit., vol. II) va interpretando più benignamente che si può certe
opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia conclude: « Il
sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto al disopra del
mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola
sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole dir mai fato della logica?
Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati certi principj. Or via,
quali son dunque i principj che menavano al panteismo, non ostante l'alte
verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il concepire Dio quasi unità
generica, o numero per eccel lenza; e questo in grazia della non buona
induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari, e l'unità, cioè il
numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la scuola pitagorica
chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di tutte le cose (Arist.
Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la Filolao; che inoltre
affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia, e tale
armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è legame
all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame produce sè
stesso. (V.framm. i Filolao nel Ritter. St. della Fil. ant.) Finalmente. Dio
pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist.
Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità generica, in cui
s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e
maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si distinguono
attualmente quando il poten 276 PARTE PRIMA. ziale viene all'atto, e
l'illimitato si limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da
sè stessa) si determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che
s'intendesse da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma
d'accennare che Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a
dire che ciò e ' tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il
panteismo. Di fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che
Dio è pari ed impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni
mondane, e però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea
più chiara. Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi
l'universo infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi,
l'infinito lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito
sembrò a loro il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo
specchio delle contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e
infinito, uno e più, quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da
qualche Pitagorico; e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si
risolvano in Dio. (Arist. Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la
decade, cioè la pienezza d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome
d'ogni numero, unità, diade, triade, quadernario (o solido), set tenario,
decade. Dimodochè pe Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite,
o signori ), il quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1
illimitato; ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo
consistesse nel determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè
Filolao pone tre principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το
πέρας, το αίτιον ). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti
ionj e indiani, dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta
fuori di Dio, ed è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la
im plicitezza de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma LEZIONE DECIMAQUARTA.
277 esempio), legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità
d'ogni essenza, vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto
creatore e conser vatore fa l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è
l'armonia dell'armonie. Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema
di tutti i contrarj. Che cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da
Dio all'armonia. Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua
in unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo
se non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o
signori, a formare il numero? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra.
Ma la distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e
indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e
pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi
particolari, poi la loro distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi
positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere
d'elementi si fa tempo e spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un
momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione
d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con
l'ispirazione del vuoto; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro
com'aria ne’polmoni. I due elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra
loro, fanno la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come
aggiunta al numero pari (per esempio il tre ), fa il dispari. Ed ecco, o
signori, l' unità nell'altro senso ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non
generico ma particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso
generico è Dio; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì
perchè si diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato, illimitato perchè il
vuoto e l'intervallo (o la negazione) è in astratto un che potenziale, può
ricevere distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per
contrapposto che il dispari è limitato, giac 278 PARTE PRIMA. chè chiude
l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi, riduce in
atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo e
fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli si
vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá
eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è
ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero (-o iniyocav), ossia il
pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero essi che se il pensiero
nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è irrazionale.
Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta nel corpo come in u
sepolcro, diceva Filolao. L'anima è numero e armonia (Plut. De plac. phil. IV,
2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo e n'è principio di
vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la sentenza che l ' ani ma
è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima com'un risultamento
dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a mo' de '
Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani ma è
sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’
Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come
Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.
Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle
emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som
må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è
l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa
la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno
all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie
degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col
simile; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due
parti (Cic. Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè
in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre,
e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del
conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la
ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è
numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'
intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al Timeo.) Però,
avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia
vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che
conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò
dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si
credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come
le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità
razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e
le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces
sità un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non
essere il corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non
essere la libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni
da un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e
non altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità
sono numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed
armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è
misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è
ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per
eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per
armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è
numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo,
57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. 280
PARTE PRIMA. - am - (Fragm.di Luc. Ocello. ) Allora l'anima si va conformando a
Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi
con la metempsicosi od è punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna
nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le,
incorrotto, non sottoposto a morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ
έτι θνητος). Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì
alte dot trine? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il sistema
pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale; perchè l'unità per
eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte
l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla
contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni? Dicendo che non
conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi tal conoscenza per
escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad. dizione,
escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e così creò un
panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto,
venne assai tardi ad Elea città di Magna Grecia. L'idealismo suo nasceva prima
di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni; pri
ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale; poi,
perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj
non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo
voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e
in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com
prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane, vissuto a
lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo italico,
ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi, e ne resta
frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le sue
opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni Lidie,
viaggiò in Sicilia, si fermò in Elea o Velia; e visse più che centenne. (Censorino.)
LEZIONE DECIMAQUARTA. 281 Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non
simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o
signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è
uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;
però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo
per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che
per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è
forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è
sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo
per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per
l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva
com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di
segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;
che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?
In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o
indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali
Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta
perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna
il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo
ste all'italiche più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le
contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,
ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito
(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra
verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?
No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso
nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;
il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, Melisso et Gorgia, attribuito
ad Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adun 282 PARTE
PRIMA. que: Dio non può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non
ente non può dal nulla divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non
può non essere; ma il non ente nel significato di Platone e pitagorico è il
contingente; che può non essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria,
bensì dall'ente. Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non
ente in significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla;
ma ciò che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che
ne conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà
pure causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda,
inaccessibile. (ch'è dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione?
Fenomeno, apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con
l'apparenze è illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste
cose (del mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla
opinione. (Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì
Timone Fliasio ne' Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava
un quinto concetto: che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che
vuol egli dire? Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo,
pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa
forse il tutto? No, chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi
ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si
dà; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il
mondo com'un tutto e confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con
l'universo. Così accadde agli Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane:
« Contemplando egli il tutto del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi
l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si
concludeva mai da questo? Poichè al tutto non manca nulla, e l'ente è il tutto,
nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò
che viene dall'efficienza creatrice aggiungasi all'infinità. E però vedete, che
dove gli Eleati pareva negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al
medesimo vizio; perchè si piglia Dio com'un tutto generico, che viene
simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o
Dio. È ragione assoluta, intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha
dunque più di pitagorico negli Eleati? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto
e restò la spirituale, divina ed immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il
qual sistema si continuò in Parmenide, in Zenone ed in Melisso. Parmenide
d’Elea nacque probabilmente nella 65a Olimpiade, e fiorì nella 69 ", ossia
504 avanti Gesù Cristo. Dice Plutarco (Adv. Colot.) ch'egli détte alla patria
leggi avute in grande amore. Zenone d'Elea, scolare di Parmenide e nato verso
l'Olimpiade 719, amo di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a
morire, sostenne da uomo il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a
Olimpiade, seguì Parmenide, fu uomo di Stato, e capitano gl'Italioti contro
Pericle. Questi gli Eleati più famosi. L'opinioni di Parmenide vi son date
assai chiare ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si
trova in quelli fin da princi pio? I due aspetti, già separati da Xenofane:
l'ente, che unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori,
in modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scriveva
Parmenide, di filo sofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70
ury; vedi anche il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma
l'ente e si nega il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente
non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive
così la via degli Eleati da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si
fermavano a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli
Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di
Xenofane: l'ente è conosci 284 PARTE PRIMA. 1 bile con la sola ragione,
ingenito, non mobile, tutto (cudow ) unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè
ora è tutto insieme; non può esser nato, perch'è assurdo che l'ente non sia;
non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa; la
dura necessità (dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario;
necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na );
egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna di nulla, ed è lo stesso il
pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente v. 66-94.) In che Parmenide
differì da Xenofane? Quegli ha forma più scientifica di speculare, perchè comincia
dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non essere. (Ritter,
Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella
severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il
maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale e provvidenza,
lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò al concetto
dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina: sicchè
Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza
po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E
questa idealità condusse Parmenide (sem bra un paradosso ), come anco Xenofane
alla confusione lel senso e dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un
verso di lui in Sesto Empirico; e quanto a Parme nide, lo notò espresso
Aristotile (ppovaly usy tér vistn512). Mentrechè il sensista dice: la
sensazione è idea e tutto: l'idealista dice: l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge
contraddizione nuova: se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il
senso darci l'illusione? Ep pure, Zenone d'Elea non pare ch'altro volesse
co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare: com’abbandonandoci all'apparenze del
moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa
di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate, o signori) muove dal l'ente
indeterminato come Parmenide, ma lo significa in modo più indeterminato ancora,
chiamandolo un qual LEZIONE DECIMAQUARTA. 283 cosa. (V. Fragm. Phil. Græc.
Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat.
Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito,
negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm.
2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di
Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero
dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di
quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di
Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.)
Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici agli Eleati.
Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari,
e Aristotile fa inventore di quella Zenone, che si sa da Diogene Laerzio aver
composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più
filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità, gli Eleati ne presero la
parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men
filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della Ionia, e in quelle
città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi
domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati? Rispondo,
che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia
minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla; o sappiamo d'
Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete stesso, bench’ Erodoto
ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete) dice ch' ei s'astenne
da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci
meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm. Philos. Græc. Didot,
1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è
l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna, divina, dotata di
pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò
di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani
materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj diversificarono tra loro
nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete e Anassimene, Diogene
d'Apol lonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi, come Anassimandro e
Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario: cercaron tutti la prima
cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di
forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici la produzione non ha
se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali.
La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la cau salità modale trae
sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ); benchè quest'atto poi
non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli
animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal
dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e gl’lonj, negando che
dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un
soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi
assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a specificare la causa
prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve
trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi
elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in
una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio (apua), Anassimene
nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria. Ma, badate, o si
gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne
vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili
secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità, come l'acqua
che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e
distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio.
Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice che tutto
è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo Cicerone (Quest.
Tusc. I), professò l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma
confuso ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica
più antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed
agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla
natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin
cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non
termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);
però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'
pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,
che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere
dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè
materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo
volle rimediare Anas sagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,
però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese
al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri
Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in
ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose
erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert. II, 6.) E
così distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle
simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o
che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in
parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi
ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta
bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione
degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte
l'opinioni de' Pitagorici e d'Elea, ben chè non anco terminate (come va sempre),
e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le
sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora
(di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non
si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un
suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che
Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie
legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero
moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli
Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla
r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come
l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già
dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla
è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze
contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima
è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta
nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi
pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa?
Quasi contemporaneo, ma un po'dopo LEZIONE DECIMAQUARTA. 289 è Democrito
d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito
con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il
primo caso, non verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo
lunghi viaggi. Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati,
perchè muove dal concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio
con gli atomi nel seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche
conseguenti nascono le qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα
όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un
atomo a cui vengono le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che
male s'attribui ad Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle
plebi, egli finse dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero
ateismo. (Fragm. Phil. Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con
Eraclito il 500; ma poichè il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora
il successo, in tal maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se
Protagora s'accostò allo scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse:
affermò che tutto si muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro
ch'e' ne gasse l'entità delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed
apparenza; chi giunse a tal punto, risoluta mente, espressamente, ſu Gorgia di
Leonzio (V. Dial. di Platone col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse
un libro sul non ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è
non può conoscersi o se si conosce non può significarsi. Con Protagora e Gorgia
v ' ha una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo
e simiglianti. Chi erano costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In
che ci viltà vennero? In età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli
antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù;
benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco
fiorire verso que' tempi (V. Tavole del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug)
un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi? Empedocle. Con che? col
misticismo a cui s'ac compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare
d'ecclettico. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe
ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema
d'Empedocle non è già fisico solamente; Dio per lui è mente santa incor porea:
e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o
fisiche: e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente divina e gli
atomi: che cos'è dunque? Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade
agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide,
altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo,
con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti
del poema, Empe docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e
veste da sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la
mente, umana in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice
il Ritter) dà un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella
natura. Tal è l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero
in grande stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian
poco. Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei
sofisti; onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò
quest'epoca, ed ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui
morale era il piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e
Diagora; Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici
la maggior parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la
mitologia: gli dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi
degl'Ionj, più tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze
uniche della natura EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI.
CICERONE. 011 SCU pre SOMMARIO. Moltitudine di scuole tra la seconda metà del
penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa,
sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la
distinzione del. l'epoche, e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con
tal crite rio, le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe
si sud distingue; 1º negli eruditi; 2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi
grecoasiatici: tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza
de ' sistemi anteriori. La seconda classe, o de' sistemi grecolatini, fa
un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È un'epoca nuova, per la tentata riforma,
e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del
sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i
Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri. Allora
può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero
de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e
politica degl' Italiani merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di
Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica.
I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia.
Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia
greca, declinando, avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in
servitù. Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia
grecolatina. Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le
parti vere e certe ile' sistemi greci, di comporle in ordine chiaro,
d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi
difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non
pare da distinguere i suoi libri (com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali.
Libri logici, fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come
fondamento della filo sofia: la coscienza con tutte le due relazioni. Indi
l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari, tenendo sempre in mente
l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de
' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli
Accademici: rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da
ecclettico, ma per un ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da
studiarsi entro di noi; e da tale studio inferi tre verità, che gli furono
regolatrici: 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione
dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi
ci fa palese Dio. Talche delini la filosofia: scienza delle cose divine e umane
e delle cagioni di queste (off.): l'altra definizione de' Tuscolani è come
racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei, naturali,
universali della ragione: ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de
' sistemi, ei potè co gliere poche verità; queste affermò, nel resto sospende
il giudizio. Esem pio, il finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne
' libri morali, o sulla legge e sulla libertà; le opinioni verosimili
ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre;
ossia, egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo
verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per
la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima; legge naturale,
eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi non ammette Dio, non può ammettere la
legge. — Il dovere. Gradi degli officj. Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile
apparente, e utile vero; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi
positive nascono dalla naturale; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni
eifetti della filosofia di Cicerone. Non anche terminata l' epoca terza
cominciò la quarta, de' sistemi grecolatini. Dalla seconda metà del penultimo
secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo
una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli
storici. Taluno le piglia tutte insieme (e vi com prende gli Alessandrini del terzo
e quarto secolo) come una sequela de sistemigreci anteriori; e così non pone ad
esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro
che discepoli, o raccoglitori eruditi, mancherebbe la ragione del porle da sè,
o del farne più classi. La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è
solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una
scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e
quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca,
quando v’ha un principio di moto nuovo e potente: la continuazione di moto, è
continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età
sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti; una sta
nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa; la
seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta,
benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le
sopravvivano: tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà.
La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi,
gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione;
le quali non iscopersero nulla, nè rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i
Platonici eruditi, com ' Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di
Tiro; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristo tile, come Alessandro
d'Afrodisio; i Medici, eruditi an 365 PARTE PRIMA. ch'essi, platonici e
peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo
e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di
Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola
per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo;
quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un
terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro
e poi per la vastità dell'impero di Roma, vediamo un congiungimento tra la
sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degli
Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo
asiatico, già comin ciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e
in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè
distinti dalla scuola d'Alessan dria (e fa male chi li confonde), in sostanza
cominciaron l ' avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gli
Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No, perchè
i metodi sono affatto del: l'età socratica, e i principj gli stessi; lo
scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.
L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma
scientificamente non è; proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,
non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già
dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gli Ales sandrini facciano un'età da
sè; ma più attenta consi derazione m'ha condotto ad altro parere. La seconda
parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o Latina. Introdotte le scuole
di Grecia in Roma circa il mezzo del secondo secolo avanti l ' èra nostra,
cominciò ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni
italiche e per la civiltà di Roma; talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de
sistemi grecolatini; nuova per le riforme tentate da Cicerone e per la novità
dei iureconsulti, ch'ebbero efficacia sì viva e univer sale nella civiltà
europea; e anco perchè Cicerone servi più che i Greci alla filosofia cristiana
de' Padri latini e dei Dottori, i quali per via di lui, piucchè in modo im
mediato, seppero l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia
si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla; degli scettici
dissi già nella passata Lezione; de'sistemi grecorientali poi si dee trattare
nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la sapienza de
Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi
grecolatini, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in Roma
nascesse tardi la letteratura e la filosofia. Nascono l'una e l'altra, quando
la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per
elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto; la
letteratura rende concreto l'ideale con la fantasia e con gli affetti. Ma
quando un popolo, come il romano, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri
che lo attirano o a guerre este riori od a contese interne; allora ti daranno
bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie (come gli ac cennò Tito
Livio ), ma non ti possono dare nè letteratura nè filosofia; in que' tempi
guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura interiore dell'uomo
qualità generali delle operazioni, come fanno il poeta ed il filosofo. Indi la
rozzezza de’Romani; talchè narra Tito Livio, che lo storico più antico fu Fabio
Pittore a' tempi d'Annibale. Ma quando Roma ebb’esteso la dominazione a tutta
Italia e oltre, allora il Romano non vide più solo innanzi a sè le contese de'
vicini, e le contese del Foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande
nazione e il genere umano. Così l'idea di Roma si appresentò in relazione con
tutta l'Italia e l ' Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' Romani si
dila tava; si allargò fuori del cerchio de' fatti particolari; il Quirita si
sentì più chiaramente e figlio di Roma, e italiano, e uomo; tanto più che a
poco a poco la cit tadinanza romana si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia
della Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 Cicerone non rimaneva quasi più
possedimento in Italia non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual
fatto, unito all'altro che già notai) de'primitivi abita tori ricaccianti le
colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno
italici puri (chè i pochi Greci di Puglia non sono gli antichi), non già
ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie
romane, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formarono così
l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione; nazio, nalità
naturale determinata da'naturali confini del no stro paese, e che si manifesta
nell'unità formale de dia letti, o già contemporanei al romano, o nati da esso.
Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre;
ma lasciando a’municipj un'im magine di Roma, consoli, senato e popolo com'a
Firenze (R. Malespini e G. Villani), e concedendo a que mu nicipj
amministrazione lor propria; indi vennero i no stri Comuni del medio evo. Roma
e l'Italia, considerate in relazione col mondo, formarono nelle menti romane
com'un archetipo di per fezione. Il vecchio Plinio (giova ripeterlo qui) scrive
dell' Italia: « Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa; una
cunctarum gentium in toto orbe patria. » E Virgilio, lodando magnificamente
l'Italia nel secondo delle Georgiche (135-136), non si ristringe a Roma, e dice:
« Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem,
Volcosque verutos Extulite.......... » M 22 14 e finisce con quell'alte parole:
Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum..... » Giunto un popolo a
questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria
per l'arte del bello e per la filosofia; non lo stringono più le necessità
de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura
dell'uomo e delle cose. Questo svol gimento di coscienza per la riflessione
venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'Italia. Qui, più
ch'altrove nell'antichità, fu sacro il connubio; e gli affetti di famiglia v’
ebbero consistenza per molti secoli: la stessa mitologia nostra, come dice
Polibio, rigettava le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di
famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della
legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se Virgilio, benchè imiti
Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che gover nano il
poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione
di provvidenza rispetto a ' Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in
quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di
tutte le genti italiane, non solo con sanguinee (schiatta italica), ma
dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da Roma (nazionalità
politica ): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla
fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale
il poeta mantovano preparò la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in
alcuni libri ch'a Virgilio mancò un'idealità propria, prego da Dio la fine di
certe pas sioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi
il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro,
s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse
e in qualunque modo si ra gunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le
necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe
accanto la Magna Grecia e l'Etruria, e le tante città de' Sabini e del Lazio.
Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi?
Numa vien detto alunno di Pitagora; ' e l'ante riorità di quello è spiegata
dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice Cicerone: «
Romuli 372 PARTE PRIMA. autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis
fuisse cernimus » (De rep.): e sant'Agostino scrive nella Città di Dio che
Romolo era venuto non « redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et
expolitis. » Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma; i Romani
predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue; Bolsena in Fenicio significa città
degli Artisti. (Cantù, St. Univ. III, 24. ) Se a ciò aggiungo la tradizione,
che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le
leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera pro babilmente quant'al modo
d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius
positivo ebbe dal gius onorario, mi capacito che nel seno di Roma cresceva un
germe di civiltà e però di lettere e di filosofia, da venire a compimento,
quando se ne offe risse la occasione. E questa occasione (testimonio la storia
) è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Ro mani venne da Greci
conquistati; ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e
Diogene babilo nese al sesto secolo di Roma, 155 anni avanti Gesù Cri sto.
Catone si sforzò di cacciare le sette greche; invano, il terreno era preparato,
e la pianta fiorì. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non durò
a lungo, ma proseguì a fecondare il diritto: la qual brevità ebbe due cagioni
principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la forma logicale
della filosofia, quant'alla materia poi l'aveano lasciata in dubbiezze
infinite, come vedemmo; talchè si richie deva uno sforzo più che umano a
rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi,
o rimaneva solo a far opera d'eruditi e d'accoz zatori, come gli ecclettici
d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non dava soggetto a co
piose speculazioni. In secondo luogo, allorchè Roma venn'a maturità di
pensiero, cadde in servitù che iste rili la letteratura e la scienza. Quindi i
sistemi greco latini si riducono il più alla filosofia di Cicerone, e alle
LEZIONE DECIMOTTAVA. 373 scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a
Cicerone seguirono i Greci pressochè interamente; Lucrezio, per esempio, ripetè
quasi le dottrine d'Epicuro; ma nondi meno egli mostrò la coscienza di romano,
allorchè, facendo materiale l'anima, pur contò fra gli elementi co stitutivi di
essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima: nobilis illa Vis, initum
motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus. »
(De Nat. III, 273.) e quando stabilì negli elementi un moto spontaneo per
ispiegare la libertà; e quando celebrò la divinità della natura con versi
stupendi e la santità del matrimonio. Seneca non si partì dagli Stoici, benchè
faccia profes sione di non ispregiare nessuna scuola; Marco Aurelio, com '
Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordi namento di scienza.
Cicerone, al contrario, istituì spe culazioni proprie, che certo ebbero forza
nell'universa lità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlerò
di Cicerone oggi; de' Giureconsulti in altra Le zione. Fin d'ora io dico, che
Cicerone si proponeva di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e
certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro,
d'applicarle alla vita privata e pub blica, e ch'elle conferissero
all'eloquenza. Questa filosofia di Cicerone suol chiamarsi ecclettica; e chi la
intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi; ma direbbe male
chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e
ordinatore. Nessuno po trà negare, che ciò distingua le speculazioni di Tullio
dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ra gunavano nella
memoria, ma non componevano nel pen siero; e lè distingue pure da’migliori
sistemi dell'epoca antecedente, perchè Cicerone li giudica con libertà e li
trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di lui su'secoli avvenire.
I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e sant'Agostino, da uomo grande che
riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nel libro terzo delle
Confessioni (cap. 4): « Hic liber (cioè la lettura dell'Or tensio ) mutuvit
affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac
desideria mea fecit alia. » Pare che Cicerone traesse la schiatta da quel Tullo
Azio, che regnò gloriosamente su'Volsci (Plut. in Cic.); e quegli se lo teneva
per certo, sicchè dice ne' libri Tu scolani, che Ferecide era antico, fuit cnim
meo regnante gentili (1, 12): indi la smania di comparire tra gli otti mati.
Lasciate le scuole de' giovinetti, udì Filone acca demico; ma insieme praticava
Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori,
impa rando da lui scienza di leggi; e militò con Silla tra ' Marsi. (Plut.)
Sentì anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene seguitò Antioco
accademico, e non trascurò Ze none l'epicureo. Andò poi in Asia, e si fermò a
Rodi, per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Giovine, favellava con tal
passione e con voce si concitata, che gli recava danno alla salute. In Sicilia
fu pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, Catone
stesso chiamò Cicerone Padre della Patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma
per le mene di Clodio, vi rien trò poi come in trionfo; gli furon trionfo tutte
le vie d'Italia, per le quali egli passò. Stette fedele alla re pubblica contro
la signoria di Cesare e la tirannia d’An tonio. Questi lo mandò a trucidare, e
Cicerone porse il collo alla spada. (Plut.) Amò la famiglia con tenerezza.
Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Com'egl'
intendesse la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto
fra tello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità, e che
formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e
buono. Vicino a morire, scrisse a Peto: « Sii persuaso, che giorno e notte non
altro cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi.
Non lascio opportunità d'am monire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso
qui, che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimerò di
aver finito preclaramente. » (Ad fam. IX, 24.) Non peccò d'orgoglio, ma di
vanità; si lodava spes so, e questo aizzava gl'invidiosi, e a lui diminuiva ri
spetto. Faceto, mordeva non di rado altrui, e, senza vo lere, s'accattava
nemici; ma in lodare i meriti veri abbondava con allegrezza e con liberalità
d'uomo sin cero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo
addolorato nelle sventure. Prese due mogli, ripu diando la prima. Volle
dedicare un tempio alla figliuola morta; lodò e invidiò gli uccisori di Cesare;
lodò prima Cesare troppo, ma non l'opere mai. Dice il Capponi (Archivio
Storico, tomo IX, parte 2): « Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi
com'egli animosamente cominciasse la sua vita d'oratore e la compiesse glorio
samente. Giovane, assalse nella difesa di Roscio d'Ame lia un Crisogono liberto
di Silla ch'era affrontare Silla medesimo; vecchio e principe nella città e
guida e anima del Senato, combattè Antonio e incontrò la morte. » Oratore,
accusò sempre gli scellerati, difese qualche volta i non innocenti. Filosofo,
stette per lo più dalla parte del vero; bensì approvò il suicidio, l'assassinio
de' ti ranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità ne' gio vani, e la
schiavitù. Scrittore e uomo di stato, cercò troppo la lode, ma insieme la
grandezza e il bene della patria. Scrisse d'eloquenza, e fu oratore sommo:
scrisse di filosofia morale, e fu uomo dabbene; scrisse di cose civili, e fu
gran cittadino. Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano la
filosofia di Cicerone. È impossibile non vedere in lui tre forti amori, di
gloria, di patria e di famiglia; e' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la
quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso vivo
d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio. ) Udì tutte le scuole,
e però raccoglieva il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo
libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, se guì,
più che non facessero le scuole greche, il precetto so cratico di badare nella
scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle
dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come faceva
Cicerone. Badando al bene, odiò la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori,
e ne prese il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, con gli
Epicurei non volle mai pace. Un po' vano, pompeggiò assai nelle parole; il che
gli scema vigore qua e là; ma nelle lettere e negli scritti filosofici va
semplice e spe dito. Uomo universale, senatore e console di Roma, cercò
l'universalità negli scritti; e questi dettero a 'Romani l'idea di tutto il
sapere greco. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía
di favori po polari, combatte nel libro della Divinazione le falsità pa gane,
le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio degli Stoici, non se l'attenta
per sè, timido, dicon taluni, ri morso da coscienza non confessata, dirò io, e
lo credo. Taluno da quelle parole di Cicerone ad Attico: ATÓMp492 sunt; minore
labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo (Ad Att., XII, 52); ha dedotto
ch'esso i libri filosofici traducesse dal greco, non li facesse di suo. Ma
quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci erano
familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di
greco, quali At tico e Bruto, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice
(De fin. 1, 3): « Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le
dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e
un ordine no stro di scrivere; e che dice altrove (De off. I, 2): « Ora
seguiremo e in tal soggetto gli Stoici principal mente, non come interpreti
(non ut interpretes ); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per
giudi zio e arbitrio nostro ci parrà: » allora, io affermo, che Cicerone non
poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco: «
Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco » an 10 1:.
bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ); e così
un greco antico, più che i moderni non greci, distingueva bene i libri tradotti
come il Ti meo) da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue il Ritter in
filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la
distinzione de’dialoghi spe culativi, come i libri accademici, dagli scritti
che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili.
Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale? E s'egli rispetta gli
dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usava da tutti i filosofi, quando
essi non ispeculavano direttamente sulla divinità. Mi pare, poi, manifesta la
distinzione, e più princi pale: tra i libri fisici (De natura Deorum, De divina
tione ), i logici Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. ), i
morali (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De
legibus, De republica, De fato); quantunque in ciascuna classe si trovino
mescolate più o meno le dottrine, non già di vise assolutamente. L' Ortensio
poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando
Socrate, tornò a'prin cipj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si
trovò in mezzo a una confusione di sistemi, e, come So crate, chiamò i suoi al
conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle
superbie d'ipo tesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che
Cicerone imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo
uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose
rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore
novello e cominciatore d'un'epo ca propria. E se Cicerone non riuscì a tanto
come So crate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La
scienza e la civiltà del Paganesimo ca devano, e sempre più Cicerone le trovò
quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che Cicerone, come
Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Amò con grand' amore la
filosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.
>> TH e ne scriveva lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio
fu composto da lui per esortazione a filoso fare; e nondimeno quand' ei
volgevasi attorno, e sentiva le strane opinioni di tante sette, esclamava: «
Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche
filosofo. » (De div. II, 38. ) Ammoniva per ciò a rientrare nella propria
coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia
meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arro gans: De div. II,
1 ). Ripeteva il precetto che stava sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e
diceva: « Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell ' uomo inte riore
da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre loro e educatrice è la
sapienza. (De off. I, 23, 24.) Egli invitava a fermar l'occhio in questa
evidenza in teriore, dove tante verità si veggono chiare (quæ inesse in homine
perspiciuntur.) In questa coscienza di noi stessi, Cicerone come So crate, più
di Socrate forse perchè romano, sentiva l'uni versalità del vero, distinta
dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro
sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però egli in culcava
sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta
ragione (De off. I e II, passim ); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti
più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e
chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne'
libri Tuscolani (I, 12) adopera l'autorità del senso comune a dimostrare
l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro
gli Stoici: « Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di
dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. >>
(Proem.) E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di
mezzo alle opinioni varie, le tra dizioni universali de filosofi e le divine: «
Inoltre, d'ot time autorità intorno a tal sentenza (cioè l'immortalità
dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 stioni e
dee e suole valere moltissimo (in omnibus cau sis et debet et solet valere
plurimum ): e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ); la quale, quanto
più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ), tanto più
forse discerneva la verità. » (Tusc. I, 12. ) E tra filosofi, ch'egli cita,
preferisce appunto Ferecide, co me antico, antiquus sane; e indi ne conferma
l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali, egli
dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16). E
dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia fu un dono, ma quanto a sè, una
invenzione degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,
nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che
s'accenna il prin cipio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da
questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansò gli eccessi d'ogni maniera.
Gli Stoici, per esempio, la cui morale severità egli approva e segue, dicevano,
che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne facevano
un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però gli Stoici,
se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù
e disperarne come Bruto morente. Cicerone al contrario riconosceva una più
umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere
comune. (De amic., 5. ) Lo Stoico credeva, indiando la natura, di poter trarre
le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tentò Varrone per
testimonianza di sant'Agostino, Città di Dio ); ma Cicerone le derideva. (De
nat. Deor. III, 15. ) Menava buono a Platone, a' Pe ripatetici e agli Stoici,
che la più alta felicità dell'in tellettuale natura sia la contemplazione (Hort.
in S. Agost. De Trinit. XIV, 9); ma in questa vita, ei dice, la con templazione
senza la pratica delle virtù private e pub bliche è nulla (De off. I, 43); e
quindi censura Platone che scrisse: Il savio non essere obbligato a civili
negozi. (De off. I, 9. ) Gli Stoici, per alterezza di ragione, spre giavano il
corpo e i beni corporei; ma Cicerone diceva: 380 PARTE PRIMA. 11 he COL iti be
111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura e noi siam anima e corpo, non
possiamo spregiarlo, nè si dee imitare que'fi losofi, che accorti d'un che
superiore a'sensi ne spre giano la testimonianza. Con che l'accoccava pure agli
Accademici. (De fin. IV, 15.) Gli Stoici, negavano l'ef ficacia del dolore
sull'uomo sapiente, e svilivano ogni piacere; Tullio invece mostra che il
dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son
utili e buone. (De sen. 14, De fin. V, 26. ) Gli Stoici, concependo la virtù
con altezzosa rigidità, stimavano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i
peccati, perchè tutti contrarj al bene; Cicerone confuta in più luoghi tale
uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è man care a posta, altro è
nell'impeto di passione. (De off. I, 8 e altrove.) Se nella morale ei tenne
dagli Stoici, rigettate le loro esagerazioni, in logica stette per gli
Accademici, giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare pa gano
cominciò sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza;
perchè, dove gli Accade mici (a quello che ne sappiamo) negavano ogni verità e
certezza nel percepire le cose e ammettevano solo una verosimiglianza, uguale
per tutte le opinioni; M. Tullio invece ne' fondamentali principj e nelle
verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li sti mava
probabili, non ugualmente, sì con varietà di gradi; e al probabile opponeva
quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: « Vorrei che fosse ben
chiaro il no stro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si
crede aggirato sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai
questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del dispu
tare, ma del vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe
alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili
alcune e alcune improbabili. (De off. II, 2. ) Qui si scorge, che il dub bio di
Cicerone non cadeva punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere
proprio, ma sul dommatismo EL LE 11. ki LEZIONE DECIMOTTAVA. 381 fisico e
morale degli Stoici. E nel libro delle Leggi dice (1, 13): « Preghiamo poi, che
questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si
cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sem brano ordinate e
composte con assai aggiustatezza, re cherà troppo rovina. Io bensì desidero
placarla, ma cacciarla non oso. » La qual conclusione mostra, ch'ei non
rigettava in tutto i dubbj accademici, ma dov'essi erano cattivi. E più si
discosta dagli Accademici allor chè dice: « Quasi in tutte le cose, ma nelle
fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è, che quel che è. » (De
nat. Deor. I, 21.) Nel vivere nostro, e mas sime a quei tempi fra tanto diluvio
d'opinioni e senza il lume del Cristianesimo, non monta già poco il sapere quel
ch’una cosa non è; significa sapere che Dio non è come noi, che Dio e l'animo
nostro non sono corpi, che il fine dell'uomo non è la voluttà; negazioni pregne
d'af fermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare quanto merita il
ritegno di Cicerone, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj
particolari (non mai nella legge suprema), pensi l'assurdità del panteismo e
del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica, l'incertezza della
morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se Socrate meritò
lode dicendo, contro Parroganza de' sofisti: io so di non sapere, merita pur
lode il nostro Cicerone d'averlo imitato in tanta corru zione di filosofia e di
costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro gli Epicurei. Dice a loro: che la
voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la voluttà va
messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin. II,
4, e passim.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri
del senso; il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin. V, 11 ): il
dovere ha da cercarsi per sè stesso (ivi, II, 22); e la dottrina degli
Epicurei, se consentanea a sè, non lascia luogo al dorere. (De off. I, 2. ) Ma
questo sceverare il vero dal falso, con che 01. Jo (dine interno di principj si
faceva? Già ho detto, che Ci cerone ritornò al conosci te stesso di Socrate,
cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato, che ivi egli trovava l'uomo
non solitario, ma in relazione con Dio, con gli altri uomini e col mondo; però
esclama: « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e cono scimento
della natura, o dèi immortali, oh quanto co noscerà sè stesso l ' uomo; il che
c'impose Apollo Pizio ! » (De off. I, 23.) Per via della coscienza, s'accorse
Cice rone in modo chiarissimo di tre verità: prima, che l'u0 mo sta sopra
l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui;
infine, che questa ragione ci mostra Dio con le sue leggi. Viene da ciò la
definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2):
scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste; definizione più
determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani (V. 3), dov'ei parla
storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringeva la scienza prima,
secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato di Dio e dell'uomo
e de’sommi principj. Egli capiva, come nella scienza si désse un ordinamento
necessario; e diceva: « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne
sappia o il più o il tutto. » (Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una
profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro
viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione
troviamo i giudizj spontanei, na turali, evidenti, universali; questi fa d'uopo
seguire; ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù. « Il tempo,
scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i
giudizj della natura. » (Opi nionum enim commenta delet dies, naturæ judicia
con firmat; De nat. Deor.) Ma questi giudizi erano avvi luppati in una
moltitudine di sistemi; però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta
contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza? Egli non si dà
pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del ch 1 7 quinto
d'Aristotile, nè della materia o della forma; le sue indagini hanno per fine la
esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immorta
lità dell'anima umana. (Ritter.) Quanto alla divinità, egli non ne dubitava
punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge
della giustizia (De leg. II, 7 ); ma intorno alla natura di Dio non af fermò
gran cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura
Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'ac
cademico nega il dio animale degli Stoici, e termina di cendo: « Questo io
diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella
sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l '
epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa
conclude? E' dice: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Velleio (Epicureo)
più vera; a me l'altra di Balbo (Stoico), più verosimile. Ci cerone, adunque,
mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli
Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da
quella ragionando di Dio. Pur tuttavia non sa nulla giu dicare assolutamente
sulla natura di Dio stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine
certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della
divinità (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il
libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Cri sippo, ch'ogni
proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili
si hanno ne' libri fisici, dove apparisce dubbj sulla natura di Dio e dell'ani
ma, e sulle relazioni di Dio con l'universo, e quindi sulla prova fisica della
divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione
e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta, beusì v'ha dubbio sul
criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi.
Anche il Kant pose superio re la certezza dell'argomento morale ad ogni altra
cer 384 PARTE PRIMA. tezza; ma il Kant celebrò quell'argomento dopo aver negata
la validità della ragione; Cicerone, al contrario, non la negò mai, anzi la
magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj
accertati. Dunque Ci cerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva
conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la
certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la
verisimiglian za. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come
avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la ne
cessità della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semipanteismo,
facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più
luoghi; ma più da queste parole: « Le altre parti, onde si compone l'uomo,
fragili e caduche, le prese da generazione mor tale; ma l'animo è generato da
Dio » (De off. I, 8), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo
in testimone Dio, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui
non détte Dio all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la
temperanza dell'af fermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle
principali verità sul finire del Paganesimo ! Quant'alla teorica del
conoscimento, egli distingueva l'intelletto dal senso; lo distingueva tanto,
che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine di Dio nella mente nostra,
la identificava con esso. Anzi nel testimo nio de' sensi non poneva più
autorità ch ' una verisimi glianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il
quale Dio e la mente son divisi dal resto. E per la logica si valse
d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica
dell'operare; perchè ivi recò Cicerone più che altrove le verità universali
raccolte dal testimonio della coscienza; e vi recò quel suo modo di escludere
l'esagerazioni e di comporre le spat se verità con un principio più alto. Qual
principio? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la ve rità, è
retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna LEZIONE DECIMOTTAVA. 385
seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l ' arbitrio delle passioni; ma
la natura nostra è ragionevole; dun que ogni atto nostro dee farsi con ragione
e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà
di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene. « La
legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda
ciò ch'è da fare, proibisce il contrario. (De leg. I, 6. ) Questa legge è nata
da tutti i secoli, primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città
fosse istitui ta. » (1, 6. ) Questa legge viene da Dio, perch' ell ' è di vina;
e chi non ammette Dio, non può ammettere la legge eterna e naturale. (1, 7.) La
legge è la ragione divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta
ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente
consociati con Dio. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo
luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine
celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti
descriptioni, mentique divinæ et præpotenti Deo. I, 7). Avendo questa legge
divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han
qualche notizia di Dio, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual Dio adorare,
pur non sappia che ve n'è uno. (I, 8. ) Noi dunque siam nati alla giu stizia; e
il gius non è costituito per opinione, ma per natura. » Sì, per natura, giacchè
siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la
mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale.
» (I, 10. ) Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso,
come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi
per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off. III, 33. ) Come la ragione
guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio.
Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in
forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia
della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di vita che
possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel
trascurarlo la turpitudine. » (De off. 1, 2.) Nell'adempire gli officj stanno
le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,
se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «
nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò
che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi
alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.
I, 45. ) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge
eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le
giustifica nemmeno l'amore di patria. (De off. I, 45. ) Egli distingueva poi
l'utile apparente dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con
l'onestà; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a
pensare sulla scelta. (De off. II, 4; 111, 7 e passim.) L'utilità è l'effet to,
non il fine della virtù. (De amicitia, 9.) E dalla virtù nasce l'onestà (che in
latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse: « etiam si a
nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off. I, 4.) Giacchè la virtù
reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: « l'uno viene dall' animo onesto,
l'altra dalla sanità del corpo (De off. I, 27); e come il decoro de' poeti è la
convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la
convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te
uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così Cicerone (come romano) muta il
bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod honestum sit, id solum bonum esse:
onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox. I, Osservazione del Ritter. )
Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù. nascono le leggi positive;
talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi (habes legis proemium,
De leg. 11, 4-7 ). « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro gli Epicurei)
che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che?
dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la
società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di
comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o
no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de'
popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità,
trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non
v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è
stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si
conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge
naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il privato;
e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui trattati.
sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio
degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo averne
narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e
dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur « a
ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo
scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi
argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep. ) Che fece adunque la
filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e
splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò
que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e
temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune
giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,
dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione
platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno
storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui
non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più
che dell'insolito, sia desiderosa del vero. GIURECONSULTI ROMANI. La
giurisprudenza è scienza filosofica, perché riguarda gli alti umani o
personali. - La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il
diritto naturale. Si cerca, quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana
e quanto alle forme logiche, e quanto alla materia. - Quattro età del gius
romano. Prima età: consuetudini. È difficile deter minare qual parte avesse la
civiltà, e quindi la scienza, in que'primi germi del diritto; ma vestigi di
sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici
tavole. La materia di esse certo è romana; probabilmente la forma logica loro è
di Ermodoro Efesio. Seconda età: si pubblica il segreto delle azioni. – La
giurisprudenza, perciò, viene alla gioventù dalla puerizia; ma crebbe in modo
segnalato allorché, sul cadere del sesto secolo di Roma, si propagò ivi la
filosofia greca. — Il settimo se colo è quello di Cicerone: si prova con
l'autorità di lui, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo
studio della filosofia. — Allora si concepi l'idea d'un codice; idea che vuol
abito filosofico delle universali tå. Terza età: la signoria de ' Romani,
dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze. - Cittadinanza romana a
tutti gl ' Italiani; gius italico che då il dominio quiritario, e il diritto de
' comizj anche per deputati ec.; co lonie romane per tutta Italia; si determina
bene il concetto del paese ita lico. – Gius equo e buono. Altra cagione della
fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più, non sono causidici. -
Un'altra; l'emulazione in filosofia e in lettere con gli oratori. Cenno
su'principali giureconsul ti; loro virtù. - Com'apparisca dagli autori, ch '
essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne ' poeti, negli oratori e ne '
filosofi. Si paragona que ' giure consulti a'matematici per tre ragioni; vigore
delle conseguenze, cura nel l'evitare contraddizioni, metodo induttivo e
deduttivo. – L'efficacia della filosofia non si ristrinse alla forma logica,
passò alla materia. – Tale influs so non apparisce solo da prove particolari,
ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del
pensiero e (salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della
giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia
morale. – Distinguevano la scienza del diritto dall'arte. – Però s'elevarono al
concetto della filosofia vera, rigettando gli eccessi: la speculazione de '
giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine
pratico. – Distinzione del diritto in jus naturale, gentium et civile: si
mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de ' diritti
naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile; ma
i giureconsulti dissero la servitù non secondo il gius naturale, e riconobbero
un fatto. Come la parola Jus non esclude l'idea d'un diritto eterno; e si
distingue da legge; poi, si ha ne ' giureconsulti l'idea precisa del diritto
eterno e del diritto natura le. - L'efficacia della filosofia si mostrò nella
giurisprudenza per via del diritto onorario. E per via del diritto ricevuto. –
E per l'interpreta zione de ' giureconsulti. — Molte novilà introdotte dal gius
ricevuto. La virtù e la vera filosofia de'giureconsulti si fa sentire per fino
nel loro stile. – Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. —
Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce
che l'epoca quarta cercò la comprensione finale. Parlato di Cicerone, è da
parlare de' Giureconsulti romani. La giurisprudenza, come dissi già nella prima
LEZIONE DECIMANONA. 389 Lezione, è una scienza filosofica: perchè risguarda gli
atti umani o personali. Procede dalla morale, che ab braccia la scienza de'
doveri e quella de' diritti naturali; e la giurisprudenza positiva non altro fa
che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili ge neralità
del diritto eterno. Però, se la filosofia entra in tutte le scienze
com'ordinamento di concetti e di giu dizj, entra poi nella giurisprudenza, non
solo com'or dine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni
supreme. Avrò dunque a cercare lo svol gimento della giurisprudenza romana, per
l'impulso della filosofia, nel doppio aspetto delle forme logiche e della
materia. La storia di quella fu distinta bene dall' Hugo in quattro età (Hist.
du Droit Rom., Intr.); la prima dall'origine di Roma fino alle dodici tavole,
cioè fino al terzo secolo della città; l'altra fino a Cicerone, o alla metà del
settimo secolo; la terza fino ad Alessandro Se vero, oltre i due secoli
dell'èra volgare; la quarta fino a Giustiniano: età di fanciullezza, di
gioventù, di virilità e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna (Fr.
2. D. De Or. Juris) che Roma ne' primi tempi si reggeva senza leggi nè diritti
stabiliti; cioè per consuetudini. La con suetudine formò, dice il Forti (Ist.
Civili, 1, 3, $ 3 ), il diritto privato con l'autorità degli esempi, cioè de'
fatti ripetuti, e formò con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il
potere assoluto de padri, de' mariti e de' padroni è da' giureconsulti
risguardato sempre per consuetudinario, ed anche l'uso delle clientele (ivi, $
4). Quanta parte avesse la civiltà, e con la civiltà la scien za, in que'primi
rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e
perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scrit
ture, perchè le serbò con la lingua loro la stirpe greca; ma de ' Latini
prischi e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote, perchè
ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che
390 PARTE PRIMA. almeno gli Etruschi erano molto civili; e sembra non si possa
dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma; benchè l'Hugo lo
neghi. Ma Lucio Floro. parlando della guerra sociale, dice chiaro: « Quantunque
la chiamiamo guerra sociale a diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero,
quella fu guerra civile; giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gli
Etru schi, i Latini e i Sabini, e traendo da tutti un sangue solo (unum ex
omnibus sanguinem ducat), è di più mem bri un corpo e di tutti è una unità. » (Rer.
Rom. III, 18. ) Il Lerminier (Phil. du Droit, III, 1 ) riscontra con molto
acume in Virgilio la prima origine de' tre po poli, in Virgilio studiosissimo
delle memorie antiche; dov'egli, lodando l'agricoltura, dice: « Questa vita ten
nero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello; così crebbe la forte Etruria.
In tal modo si fece la bellis sima di tutti gl'imperi Roma; e una, si circondò
d'un muro i sette colli. » (Georg. 11, 532.) Fatto è che a taluno par vedere i
tre popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio, i
Rannesi o Latini, i Tarsi o Sabini, i Luceri o Etruschi. (Warnkoenig, Hist. du
Droit Rom.) Il Monsen (St. Romana ), recentemente ha negato tal mescolanza, ma
non ha detto le prove. Pro babile, a ogni modo, che quel nuovo Comune di Roma.
sorto fra ’Comuni vicini, si mescolasse pure di genti vi cine. O si conceda
dunque col Niebuhr la preminenza agli Etruschi, o concedasi a' Latini con
l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi; e ciò spie ga, come
in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio si possedesse un gius
pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io diceva per mo
strare che le prime consuetudini ed istituzioni ebbero qualche ragione di
civiltà, e riuscirono buon fonda mento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin
dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magi strati
(magistratus populi romani) che stabilivano il di ritto, da' giudici (judex,
arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo, 1, § 146); distinzione che a poco a
poco détte occasione al gius onorario, di cui parlerò in breve. È noto che il
reggimento di Roma sott'i re e più ne' principj della repubblica era degli
ottimati, cioè aristocratico. Indi la opposizione civile della plebe co’pa
trizi per avere un gius equo; opposizione che, divenuta incivile o violenta nel
settimo secolo, rovinò la repub blica, come la prima ne formò la grandezza. Il
popolo dimandò leggi scritte per contenere l'arbitrio de' patrizi, e si
promulgò la legge delle dodici tavole. Narra il giu reconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d' esse l'efesio Ermodoro. (Fr. 4,
D. De Orig. Juris.) Certamente Plinio il vecchio (Hist. Nat.) ram mentò come
serbata fino a lui la statua fatta per de creto ad Ermodoro; talchè la
tradizione non pare fa volosa in tutto: ma è certo altresì che nelle dodici
tavole (per quanto ne conosciamo) non si ha traccia del diritto greco:
l'essenziale, giudizj, patria potestà e connu bio, eredità e tutele, dominio e
possesso, diritto pubblico e diritto sacro, son cosa tutta romana, come diceva
già il Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri. (Warn koenig, $ 10, 11.)
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel Greco erudito per meditare le vecchie
consuetudini, e ridurle a concetti determinati ed a’lor capi principali,
ufficio di riflessione addestrata; nè ciò avrebber saputo i Romani, dati
all'armi, anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza,
logicamente specificata e distinta da Ermodoro, traeva in ammirazione Tullio.
Egli scriveva ne' libri De Oratore: « Se ne adirino pur tutti, io dirò quel che
sento: a me, il solo libricciuolo delle dodici tavole, par superi (se tu guardi
a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del
l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto prevalessero in prudenza i nostri
maggiori a ogni altra gente, inten derà facile chi le nostre leggi paragoni a
quelle di Li curgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant'
ogni altro diritto civile, salvo il nostro, sia in colto e quasi ridicolo. » (De
Or. I, 44. ) Le quali parole attestano tre cose; l'antichissima civiltà di
quelle genti che formarono Roma, e che vi recarono le proprie tra dizioni,
benchè si dessero poi a vita guerriera ed agre ste; la falsità che il gius
civile romano procedesse ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione
della giurisprudenza si svolgesse da principj non rozzi ne poco pensati. I
Romani dettero la sostanza, i Greci pro babilmente la forma, cioè ordinamento
di codice. Dalle dodici tavole nacque la necessità d'interpretarle per di
sputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione.
Di qui, come dice Pomponio (loc. cit. 4, 5, 6), vennero il diritto civile non
scritto o l'au torità dei prudenti, e le azioni delle leggi (legis actio nes);
ma tutto ciò era un segreto de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda
età, la libera giu risprudenza passò dallo stato infantile alla gioventù. Ma
quando mai, o signori, accadde tal cosa in modo più segnalato? Voi sapete che
sul cadere del sesto se colo di Roma si propagò là il filosofare greco, e che
il secolo posteriore è appunto il secolo di Cicerone. Or bene, la
giurisprudenza, cresciuta lentamente nel se colo sesto, crebbe nel settimo
rapidamente; e allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della
filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degli atti umani
in sè e nell' esteriori atti nenze. Scriveva Cicerone la Topica, o logica
inventrice degli argomenti a preghiera di Trebazio, come si ha dal proemio di
quel libro, ov'è scritto: « Non potrei, adunque, con te, che me ne pregavi
spesso, benchè timoroso di noiarmi (come scorgevo facile), stare in debito più
a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto.... Sicchè
queste cose, non avendo libri con me, scrissi a memoria nella mia navigazione,
e dopo il viag gio ti ho mandate. » Il qual libro è notevole molto, perchè ogni
precetto è confortato da esempi di giuri sprudenza. E di Servio Sulpicio (primo
in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti
posteriori ), ecco che scrive Cicerone, amico di lui: « Si stima, o Bruto, che
grand'uso del gius civile s'avesse da Scevola e da molt' altri, ma l'arte da
que st' unico (cioè da Sulpizio); al che non sarebbe giunta in lui la scienza
del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie
composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le in
terpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a
distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le
conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque recò tal arte (mas sima di
tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si
faceva confusamente. (De CI. Orat. 41. ) Con le quali parole mostrò Cicerone la
forma di scienza che si prese dal Diritto in virtù della logica. E la forma
scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, levò le menti alle
generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza
del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul
fiorire della filosofia e delle lettere a Roma, Cesare e Pompeo ebber disegno
d'un codice; disegno, che mostra l ' uso e la stima degli universali astratti
da ogni caso particolare, ordinati poi secondo generi e spe cie; giacchè un
codice val quanto in istoria naturale un ordinamento per classi. Pare che
Servio Sulpicio ef fettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Ci cerone,
il quale alla sua volta ne' libri delle leggi (111 ) mostrò un saggio di codice
pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato. Nè qui
entrerò in disputa fra due scuole alemanne, l'una che col Savigny sostiene il
danno de' codici, l'altra che ne difende l'uti lità; dirò a ogni modo (nè si
contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche;
però l'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia
loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne'
primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi del dominio romano a tutta
Italia preparò il campo alle lettere ed alla filosofia; perchè i Romani,
sentendosi non più solo Romani, ma Italiani e uomini, la loro coscienza si
chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo
fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per le leggi Plauzia e
Giulia de civitate sociorum (anno 664 e 65 di Ro ma), fu data, come notò
l'Haubold (Tav. cronol. per servire alla St. del Dir.), a tutte le città
italiche citta dinanza romana, eccetto i Lucani e i Sanniti; e nel l'anno 705
conseguirono la cittadinanza i Galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli
cispadani; la ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia
Cisal pina.) In tal modo, come scrive il Savigny, dopo la guerra italica i
cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano. (St. del Dir. rom: I,
2.) E il gius italico dava dominio quiritario, o dominio solennemente e pie
namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo
municipale delle città italiane (ivi ), diritto d'intervenire a'comizj o di
mandarvi deputati; talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità politica
suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano soci o confederati.
E questo accadde perchè i Romani aveano già fatto l'unità naturale della
nazione col mescolamento de' sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva
il Forti ), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Ita lia. (Ist. Civ. 1, 3,
§ 25. ) L'Italia, dice l’Hugo, non si considerò mai una provincia; chè le
provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite. (Hist.
du Dr. Rom., § 164.) I Romani, allora. si levarono con la mente all'unità
naturale del territo rio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum
significatione è scritto: « Dobbiam credere provincie continue le unite
all'Italia, come la Gallia (cisalpina ); ma e la provincia di Sicilia più si ha
da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto:
Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Ita liæ junctæ sunt, ut puta
Galliam: sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas
oportet, quæ modico freto Italia dividitur » (Ulpiano). E al Fr. 9, D. de
Judiciis et ubi etc., si dice: « Le isole d'Italia son parte d'Italia e di
ciascuna provincia: Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie. » A
questo concetto sì pieno vennero i Romani tra gli ultimi tempi della re
pubblica e i primi dell'impero, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il
perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a
tant'altezza. Si aggiunga poi, che le sevizie de' Cesari cadevano in Roma
su'patrizi più sospetti, ma quel reggimento tem peravano istituti repubblicani
e ordini civili equi; se no, come dice il Romagnosi, non si capirebbe il perchè
in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle
costituzioni de' principi; e come Alessandro Severo avesse un consiglio di XVI
sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, Fabio cioè, Sabino, Ulpiano,
Paolo, Pomponio, Modestino e altri. (Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2,
C. 1, § 1-5. ) E tanto è vero, che la notizia del Gius equo e buono splendesse
viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provin cie (finita la guerra
civile) non era punto legale, anzi contr' alle leggi; perchè, secondo le
costituzioni come dice il Warnkoenig ), le provincie stavano bene, le impo ste
erano lievi, lo Stato pacifico, molto dell'amministra zione in mano di quelle (il
che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e
Senato li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom., $ 16.) Tali cagioni principalmente formarono la
sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,
ma scioglievano questioni di diritto in generale; e ciò indica sempre più e la
natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da inte
ressi particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi,
l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co'
giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incitò questi a gareggiare
in isplendore di lettere e di filosofia, e ad interpretare il diritto co'
placiti del senso comune. Così da una disputa tra l'oratore Crasso
(contemporaneo al padre di Cicerone) e Muzio Scevola giureconsulto
sull'interpre tare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile
volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso, ripresa
dal Forti, ma (e forse meglio ) approvata dal Cuiacio. Infine, l'esercitarsi
tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione
e l'affetto all'antiche leggi e consuetu dini di Roma, indica il perchè tennero
essi per lo più l'austerità della morale stoica, che ci chiarisce alla sua
volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza; e tutto insieme poi
spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie
che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nominerò
dapprima Quin to Muzio Scevola assassinato a’tempi di Mario. Dice Pomponio che
Muzio costituì primo il decreto civile, disponendolo per capi di materie (generatim
) in diciotto libri. Servio Sulpizio ridusse il diritto a stato di scienza; fu
prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fece Muzio
Scevola d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio;
sostenne la repubblica; avversò i Triumviri; la repubblica gli alzò una statua.
Abbiamo di que' tempi Alfeno Varo e Ofelio disce poli di Servio, e Trebazio (a
cui la Logica di Cicerone) e un altro Muzio Scevola e Cascellio. Muzio non
accettava da Ottaviano il consolato; Cascellio non volle mai comporre una
formola secondo le leggi de' Triumviri; e a chi lo consi gliava si temperasse
rispondeva: son vecchio e senza figliuoli. Labeone, il cui padre era morto a
Filippi, ri fiutò il consolato da Ottaviano anch'egli, e serbò spiriti antichi.
Dice Pomponio: « Egli si détte moltissimo agli studj, e divise l'anno in modo
che stava sei mesi a Ro ma co' discepoli (cum studiosis), e sei mesi lontano
per iscrivere libri. Così lasciò quaranta volumi, che i più s'usano ancora.
Ateio Capitone (segue Pomponio) per severava nell'antico; ma Labeone, che molto
aveva me ditato nell'altre parti della sapienza (qui et in cæteris sapientiæ
operam dederat), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina cominciò a
innovare molto. » (Fr. 39-47, D. De Or. Jur. ) I cinque giureconsulti più cele
bri e più recenti (lasciando gli altri) sono Emilio Papi niano, Paolo, Gaio,
Ulpiano e Modestino. Papiniano, fami liare di Settimio Severo e principale nel
governo, stette per Geta contro Caracalla; e volendo costui una difesa legale
del fratricidio, Papiniano la negò e venne ucciso. Scriveva: « i fatti che
ledono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son
contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli. » (Fr.
15, D. De servis exportandis etc.) Gli altri quattro illustravano, come dissi,
il consiglio di Alessandro Severo. I giureconsulti, massime della terza età,
levarono (com' avvertii) a stato di scienza le loro discipline; e ciò nacque
dalla molta erudizione loro, non solo in filoso fia, ma eziandio in lettere; e
se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci; com'a dire Omero,
Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto fu, come notai de'
tempi di Cicerone, che la giurisprudenza prese forma logica tanto sicura e
stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico (dice l' Hugo) la
filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nes suno più di quelli sta
in confronto de’matematici per tre ragioni; cioè per vigore di conseguenze da
prin cipj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni, che Gaio dimandava
inelegantia juris, e pel metodo di stintivo e compositivo, induttivo e
deduttivo ad un tem po; distintivo e induttivo salendo alle specie generali del
diritto; compositivo e deduttivo traendone con bre vità ed evidenza le
illazioni. Il gran Leibnitz, insigne così giureconsulto come filosofo e
matematico, scriveva nell' Epist, 119: « Io ammiro l'opera de Digesti, o me
glio i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa: ne vidi mai nulla che più
s'accosti al pregio de matematici: 0 che tu guardi all'acume degli argomenti, o
a'nervi del dire. » Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi
all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giac chè, com'avvertii,
materia della giurisprudenza son gli atti umani o personali, soggetto
filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale; quindi, coloro
che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o degli Stoici o d'altri
sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale
della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gli eruditi, che i più
de'giureconsulti tolsero dagli Stoici l'argomentare per analogia, l'amore dell'
etimologie, la spartizione delle materie, la sottile dialettica che conviene al
Foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile: ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e (salvo qualch'errore de' tempi)
così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,
come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giure consulti, guardiamo la nozione, ch'e'si facevano della
giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive (pr. e
fr. 1 ): « Dand' opera al gius, oc corre prima sapere onde ne venga il nome.
Gius è chia mato da giustizia; perchè (come Celso lo definì elegan temente) il
gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati con ragione sacerdoti
della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza
del buono e dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose
lecite dalle contrarie; desiderosi di far buoni gli uomini, non solo per timore
delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori (se non
m'inganno) di vera e non simulata filosofia. » Se la definizione della
giurisprudenza si prenda qui a ri gore, ella non regge, perchè si stende a
tutta la filoso fia morale: ma se badiamo al concetto che avevano di questa gli
antichi, e al generarsi la scienza del Diritto dall'altra del Dovere, ci
formeremo idea chiara del co me intimamente fosse filosofica la giurisprudenza
romana. Ho mostrato altrove (Lez. XVII) che, secondo i sistemi greci, sommità
di perfezione umana è lo Stato; talchè la morale s' ordinò alla politica;
concetto vero per l'attinen ze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo
fine. Non faccia dunque meraviglia, o signori, se i giureconsulti romani
definivano il gius civile come la morale; lo de finivano così, perchè, a
sentimento di tutti gli antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con
più ra gione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore,
ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo; dimenticanza ignota agli
antichi, che però svolgevano razionalmente il diritto e non lo maneggia vano
materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza
dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita: « Costante e
perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto: » e se la giurispru
denza è definita; « Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e
dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure), » si vuol fare la stessa
osservazione detta di sopra; e noterò col Cuiacio, che in tal luogo la giu
risprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com ' abito
della volontà, secondo l'antica filo sofia. E la filosofia la pensavano essi,
non senz'alta spe culazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune
e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'e ternità del diritto (come
osserva il Vico, Sc. Nuova, IV) allorchè dissero: Il tempo non muta nè scioglie
i di ritti (tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris ); e quando
discernevano il diritto naturale dal positivo: ma nello stesso tempo
rigettarono gli eccessi dello stoicismo, come l'eguaglianza della imputazione;
finalmente derisero le stranezze, l' ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in
età di scadimento. Così abbiam sen tito Ulpiano, che distingue filosofia
schietta dalla ma scherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in
testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e
nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce
gli onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, van
tando di spregiare le mercedi, n'andavano a caccia. I giureconsulti poi
mostrarono tre specie di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione
che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale
e in jus civile; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non
hanno. La distinzione pratica mette divario tra leggi proprie di Roma (jus ci
vile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel
naturale); l'altra è distinzione più specula tiva e fondamentale. Ulpiano nel
Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da
privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura in segnò a
tutti gli animali, come la procreazione de'fi gliuoli; in diritto delle genti,
del quale tra gli animali hann' uso gli uomini soli, come la religione verso
Dio, l ' obbedire a' genitori e alla patria: in diritto civile ch'è proprio
d'un popolo. Ora, s'è accusato Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con
gl' istinti del l'animalità; ' e sì che il Piccolomini da qualche secolo fa,
come il Warnkoenig oggi, notava che qui, se condo le dottrine vere d'
Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale,
quelli che vengono dalla razionale, e gli altri che pone la comunanza civile.
Non s'intende già che le bestie (dette da' giureconsulti cose, non persone)
abbian di ritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono
all'uomo, generan diritti, come li gene rano le potenze razionali. Talchè in
Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità. È da
confessare invece, che il diritto civile si definisce per quello che toglie o
aggiunge al diritto naturale e delle genti; e s'allude alla servitù ch'è contro
alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tut tavia meritan lode
i giureconsulti, che se non condan · LEZIONE DECIMANONA. 401 narono la servitù,
la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di
Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale viene
istituito dalla divina Provvidenza, come insegnavan gli Stoici (De Jur. Nat.
Gen. et Cir., fr. 2, § ult. ); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur
l'altro delle genti. Poi, essi definiscono il gius civile qual era in fatto
allora. Osserverò di passaggio, che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni
allo Stahl (St. della Filosofia del Diritto, Torino 1855) opina con altri, che
i Romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da jubeo, co
mandare; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese,
hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel
valentuomo non pensò forse al come definisce la parola Jus il Forcellini (Voc.
ad V.): « Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali,
o divine, o delle genti o ci vili (jus est autem universim id, quod legibus
constitutum est etc.). Si nomina con altro nome equità comune, equo universale,
legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. »
Sicchè i Romani chiamavano Jus un che costituito da una legge qua lunque; così
distinguevano la legge da ciò che ne pro cede, e ch ' è l'effetto del suo
comando: e Cicerone (Rep. et De Leg. passim ) adopera legge e gius in tal
significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de Romani già
citato: « il tempo non muta nè scioglie i diritti; conobbero, dunque, i Romani
la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo
fondamento as soluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingueva dal
naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza originò il diritto onorario,
di cui parla il Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti
gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la sentenza di lui, e
n'uscirà la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in
tanta perfezione di gius. Ma prima dirò; che il gius onorario conteneva gli
editti del Storia della Filosofia. – I. 26 4urbano e del peregrino, e quelli
degli edili e proconsoli e propretori delle provincie (edictum provin ciale).
Pare che il gius predetto, almeno in modo se gnalato, principiasse verso la
metà del secolo VII, per chè Cicerone nella seconda Verrina dice: « postea quam
jus prætorium constitutum est. » L'Hugo dimostra, con tro l’Heinneccio, che tal
diritto ebbe forza di legge; poichè (tra gli altri argomenti ) Cicerone non
contrasta nelle Verrine che l' Editto di Verre sia legge da te nere, ma lo
accusa di averlo infranto egli stesso, o con formato non secondo ragione. (Hugo,
Hist. etc., $ 178, 179. ) Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili ne
gozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per la po lizia della città; e
tanto gli uni che gli altri, quando pi gliavano i magistrati, mandavan fuori un
editto, ove stabilivano le forme del giudizio e le massime: ottimo istituto in
repubblica popolare. Non mutavano il gius, ne determinavano l'applicazione.
Eccone gli esempi: In primo luogo, salva la forma legale, si supponga che i
contraenti abbiano pattuito o per inganno, o per er rore, o per timore, o per
forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per
tutti. Quindi i pretori statuiron massime per l'efficacia civile della moralità
negli atti, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i
mezzi legali, perchè queste massime d'equità si recassero ad effetto. I codici
moderni han composto di tali massime le lor leggi universali. Allora, dice il
Forti, gli editti de' magi strati « erano uno de' principali modi, per cui la
filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili. » Sicchè (quant'alla
moralità degli atti) trovarono i magistrati l'eccezioni perpetue contro le
obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza; la restituzione in
intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ri petere ciò
che pel tenore loro fosse stato pagato. In se condo luogo, le leggi, definito
il diritto e ordinatane la sanzione, lasciavano a'magistrati ilmodo
d'effettuarli. Per esempio, le leggi stabilivano i modi d'acquistare la
proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più tornò necessaria, quanto più
divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si
comprendono nella mozione del dominio; onde nacquero nuovi contratti e bisogni
di nuove difese. Quind'i pretori differenziavano a capello il dominio e il
possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo. (Ist. Civ., L.
I. S. 1, €. 3, § 31.) Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare
un'altra maniera di gius, cioè il diritto ricevuto ljus receptum ). Essi,
introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della
buona fede, costrin sero i magistrati a giudicare di que'contratti, non se
condo le nude parole della legge, sì a lume di naturale onestà; come le
clausale, si lodate da Cicerone, uti ne propter te, fidemre tuam captus,
fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione. (De
Off. III, 17. ) I giureconsulti si davano all'interpretazione; e poi chè questa
o considera la legge in sè, o gli atti della volontà umana, così la filosofia
di que'sapienti gli aiuto all’un five con le spiegazioni delle parole e con la
de. finizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:
gli aiutò all ' altro fine co giudizi sulla moralità degli atti, e con le
regole per interpre tare l'altrui volontà. Il Gravina così accenna le novità
del gius ricevuto: * Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e
mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprez za delle leggi, son venute
le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso
dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili,
perchè procedono dall’equa e utile in terpretazione, le stipulazioni aquiliane,
autore Aquilio giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la re gola
catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e
moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da
essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela
dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome
di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto. (De ortu et progr. I, Civ., C.
43. ) Tale acume di riflessione disciplinata recò i giurecon sulti per fino ad
un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agli
alimenti (come si vede Fr. 68 D. Ad Legem Falcidiam ); cosa notabile molto,
perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e
la vera filosofia de' giureconsulti le sen tiamo pur anche nel loro stile, che
in mezzo alle ampol losità di Seneca e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle
Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' com pilatori greci e de' copisti;
ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali
maestri di latinità. Terminerò, o signori, recando un saggio di tal sa pienza
ed elegante brevità, in alcune regole di gius. dall' ultimo titolo de' Digesti:
« I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr. 8). Sempre
nelle cose oscure s' ha da tenere il meno (2). Sta in na tura che le comodità
d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso
non si può col tempo sanare (29). Nulla è più naturale che sciogliersi a quel
modo ch' uno s ' è legato: però l ' ob bligazione di parole sciogliesi con
parole, e quella di nudo consenso con altro consenso (35). Che si fa o si dice
nel caldo dell'ira, non si stima. vi sia consenso d'animo, se non v' ha
perseveranza (48). Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha (54).
Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne (57). L'erede si
stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto (59). È proprio di
quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la
disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente
false (65 ). Quante volte un di scorso rende due sensi, prendasi quello ch'è
più adatto al da fare (69). Non si dà benefizio per forza (69). Nes suno può
mutare il proposito suo in altrui danno (75). In ogni cosa, ma più nel gius, è
da guardare all’equi tà (90 ). Ne’discorsi ambigui è il più da guardare all'in
tendimento di chi li fa (96). Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a
ciò che accade più spesso (114). Il timore vano non è buona scusa (184). Per
l'impossi bile non c'è obbligo che tenga (185). Le cose proibite da natura, non
sono convalidate da legge nessuna (188, § 1 ). Per gius di natura nessuno dee
farsi più ricco a danno altrui (206). Per gius civile i servi si sti mano nulla;
non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali » (32).
Quando l'impero si foggiò all'orientale, la giurispru denza cadde in vano
eccletticismo; come n'è segno « La indigesta mole de' Digesti >> e ciò
accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche
sufficienza esposto la filosofia grecolatina di Cicerone e de' giureconsulti, e
abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia
tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gli
eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune,
un'unità, siam chiari (mi sembra) che veramente dopo la dialettica distintiva
de' greci, tende vano i Romani alla comprensione finale, e che tal è proprio la
qualità prevalente in quest'epoca quarta del tempo pagano e della filosofia. Or
noi passeremo al l'èra cristiana. Cicerone affronta e sviluppa la
problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica:
(i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se- gni
divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi- to,
possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in
tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, l'Orator, il
Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere
so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore perfetto, il suo
ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a
quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che costituisce l'apparato
tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni
e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per
scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di 9.2 CICERONE 209 competenza
che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso
personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi
del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes
oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica
di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni
che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que- ste
opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento
classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel De
inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come
an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar-
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do
necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio
che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza
argomentativa debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria
(necessarie demon- strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni
necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che
non può verificarsi né essere pro- vato diversamente da come viene detto"
(ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo"
(ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De
inv., I, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum
priore necessario posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto
di rinvio non necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso"
(De inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due
caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di
questi era da Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E
infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato
come eik6s: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa
gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il
tipico rapporto di generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il
verosimile (Arist., Rhet., 1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era
molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv.,
9.2 CICERONE 211 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al
semefon aristotelico. 9.2.1.2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare
come una sottopar- tizione dei segni non necessari, accanto al credibile
(credibi- le), all'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se
le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e
scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una
categoria di fenomeni abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade
sotto qualcuno dei no- stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra
deri- vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto,
durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di
una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il
sangue", "il pallore", "la fuga", "la
polvere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni
percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo- lontari. Qui sono
presentati in una forma non proposizio- nale; ma niente vieta che vengano
sviluppati in proposizio- ni, come dimostra il caso dell'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo- sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito giuridico.
Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione
di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era
provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso
dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno
caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin-
seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali'
eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante.
La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da
alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno
proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio,
il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70
b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di
necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la
cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di
fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria
(•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se
ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut
quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio"
signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit,
et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue ,
fuga , "pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono
più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo
autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi
estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche",
titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti alle "prove
tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e
che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi
estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testimonianze umane, anche
quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi
sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente
un residuo di una concezione orda- lica e antichissima dell'amministrazione
della giustizia; tut- tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del
para- digma divinatorio all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i
segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito
giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per
l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che
era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso
dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno
caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin-
seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali'
eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante.
La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da
alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno
proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio,
il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70
b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere
di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste
la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di
fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali vengono dati
questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo,
alterazione del colorito, discor- so contraddittorio, tremore [...]. gli indizi
materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le
risultanze visive, uditive, rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non
definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo che si tratta di "fenomeni
avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai
signa del De inventione (I, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli
argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her., II, 8). I commentatori si sono
chiesti se i vestigia f acti siano più in relazione con i segni necessari
(notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In
realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità
dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa
corrisponda alla cate- goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae
(114), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche
signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non
necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista
episte- mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne
l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40).
Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero- niana nelle
Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte
cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il
fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti
non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe
viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali
e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -------- I -------
vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita
r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit
certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:
·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o
congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di-
vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e
divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div.,
Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera
diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e
la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed
entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi
argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono
legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e
costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degli
uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., l,
125-127). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può
essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a
fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De div., I, 127).
Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo-
do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le
cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa
tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare
memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato
sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente
divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività 9.2.3.2
La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello
definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale,
ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare
attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le
forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le
vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è
legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche
(Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div., II, 100),
secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta
che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la
legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del
codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
emittente divino - 9. RETORICA LATINA 9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni
ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv)
in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).segno interno - evento futuro •➔ ricevente umano 9.2.3.3 Critiche
"semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone
muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su argomenti specificamente
semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla
divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i
fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano veramente tali, ovvero che
non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse-
guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della
divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come
la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino
e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro- fessionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div., II, 14), le prati- che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade- re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) 1 e
il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici tendevano a
distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni
ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv)
in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). LE TEORIE DEL SEGNO
NElL'ANTICilÀ ClASSICA Nel suo libro Semiotica e filosofia de/linguaggio
(1984), Umberto Eco osservava come la semiotica, proprio nel mo mento storico
in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e vedendosi
riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in questo
volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una serie di
dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua crisi.
Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è anche
leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della semiotica
come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi preannunci, progetti,
ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la
riflessione teorica degli ultimi duemila cinquecento anni. La proposta
d i Eco è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi
giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e
le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a
ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:
diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla base
delle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo
angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono
dai sistemi verbali). Il presente lavoro costituisce un tentativo di accogliere
il suggerimento di Eco e si propone di indagare le pratiche se miotiche delle
origini e la riflessione teorica sul segno, che sono state elaborate dal mondo
antico e che ci sono state consegnate dalla tradizione letteraria, filosofica,
medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un
filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini fino almeno al IV se
colo d.C. e che porta alla costituzione di una nozione di se gno abbastanza
diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte,
infatti, delle dottrine del segno che so no state elaborate in questo secolo -
sia in ambito linguisti co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più
gene ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del
tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: l. il modello di
segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del
segno linguistico; 2. il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le
due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q). Da que st'ultima
assunzione dipende il fatto che la nozione di signi ficato più diffusa fino a
qualche anno fa nelle teorie seman tiche fosse quella che lo vedeva come
sinonimia o come de finizione essenziale. A partire, infatti, dallo
strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com
ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine
linguistico - o se si preferisce, la forma del l'espressione di un segno- è
sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche
semantiche, espresse a loro volta metalinguisticamente da altrettante forme lin
guistiche (ad esempio luomol ="essere animato" + "uma no"
+ "maschio" + "adulto"). Una indagine sul modo in cui nasce
e si articola nell'anti chità classica la riflessione sul segno ci permette di
scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha
omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma
che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno
non linguistico) procedono in maniera parallela, senza interconnettersi. Ne è
un esempio chiaro il fatto che Aristotele adoperi il termine symbolon per
indicare il segno linguistico e le espressioni s�mefon o
tekm�rion per indicare quello non linguistico. La saldatura avverrà
molto più tardi, in Agostino, ma, in questo caso, sarà l'espressione
linguistica a essere sussunta sotto la categoria più generale e già costituita
del segno non linguistico. Per quello che riguarda il secondo punto, le
pratiche se gniche che la tradizione ci ha tramandato e le teorie classi che
prevedono un funzionamento del segno non secondo lo schema deli'equivalenza,
bensì secondo quello deli'implica zione (p:Jq); per citare un esempio celebre,
che percorre l'intera tradizione antica da Aristotele a Quintiliano, pas sando
per gli stoici, un caso paradigmatico di segno è: "Se una donna ha latte,
allora ha partorito". A questo punto è già possibile un confronto. Il
modello antico, implicaziona le, appare non solo molto più interessante
rispetto a quello equazionale, ma certamente molto più, per così dire, attua
le: infatti è in corso nella ricerca contemporanea una revi sione di
paradigma, che tenta di superare le semantiche co siddette "a
dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza) per
passare alla proposta di semantiche "istruzionali" (che funzionano
secondo il modello dell'im plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di
ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al
re perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di
un quadro da mettere in confronto con quel lo attuale. C'è un interesse
intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia
associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for
ma a partire da situazioni di usi linguistici originariamente molto più
magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele come il primo che
impone dei confini netti a ter mini e concetti, che sono stati usati sino alla
fine del V seco lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati
cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione
aristotelica, espressioni quali semefon, aitia, prophasis, tekm�rion,
eikos, non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di
termini che ammettevano una parziale sovrapposizione e in tercambiabilità
(Lioyd 1979: tr. it. 199, n. 1 57). Ugualmen te, il riferimento culturale di
certe espressioni era stato, pri-ma di Aristotele, eterogeneo e diverso: s�mafno,
a esempio, come ci mostra il frammento 93 (Diels-Kranz) di Eraclito era il
verbo che indicava la rivelazione oscura del dio di Del fi; tekmairomai, poi,
denotava in generale il procedere at traverso un ragionamento congetturale, ma
nei tragici e nei lirici veniva usato in riferimento alla pratica
dell'interpreta zione divinatoria; s�mefon, infine (o la sua
variante omerica séma), era il termine più complesso di tutti, indicando, fin
dalle origini, una molteplicità di cose, dall'indizio al segno di
riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine generale
per il segno divinatorio (Bloch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it.
477). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste,
all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine
connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la
cosmogonia di Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti,
accompagnata da tre perso naggi divini: da una parte P6ros (''la via") e
Tékmor ("il se gnale", "il punto di riferimento");
dall'altra Sk6tos ("l'o scurità"). Come sottolineano Marcel Detienne
e Jean-Pierre Vernant ( 1974: tr. it . 1 12), Tékmor svolge un ruolo fonda
mentale: "Nell'oscurità [sk6tos] del cielo e delle acque in origine
confuse, egli introduce vie [p6roll differenziate, che rendono visibili sulla
volta celeste e sul mare le varie dire zioni dello spazio, orientando una
distesa prima sprovvista di ogni tracciato, di ogni punto di riferimento,
aporon kai atékmarton". I naviganti devono congetturare (tekmafre sthal),
sulla distesa indifferenziata del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la
fanno loro intravedere, fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento.
In questo modo i naviganti gettano un ponte tra il visibile e l'invisibile. Con
Aristotele, i termini del vocabolario semiotico, che avevano mantenuto fino ad
allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continueranno a essere usati
in tal senso fuori dagli ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie
gati a un uso esclusivamente profano (Lanza 1979: 107). Tuttavia, se si perde
il carattere sacro delle origini, qual che traccia rimane ed è leggibile in
trasparenza, se è vero che Aristotele, nella sua delimitazione dei campi
concettua li, riserva l'espressione s�meion al segno che non
dà certez za e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres sione
tekm�rion al segno sicuro): qui, quello che era stato il segno ambiguo
della rivelazione divina, diviene il segno am biguo del modello conoscitivo
razionalistico. Se il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra
tiche "non scientifiche" della divinazione e della medicina magica
(la "iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei
secoli, queste origini da tutto ciò che in esse c'era di irrazionale e di non
controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della filosofia,
rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimo strano,
a esempio, le opere di Artemidoro di Daldis o di Elio Aristide sui segni
onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare
che la forma proposizionale e implicazionale che gli stoici danno al segno
("Se c'è cicatrice, c'è stata piaga") si ritrova identica nelle
tavolette divinatorie mesopotamiche a partire dal III millennio a.C. Anche gli
antichi babilonesi esprimevano il segno attra verso un periodo ipotetico,
formato da una protasi, intro dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla
ei greca, che introduce il condizionale stoico), e da una apodosi: es se,
rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua
interpretazione ("Se il polmone è rossastro a destra e sinistra - vi sarà
un incendio,) (Bottero 1974). In ambiente greco, una saldatura tra segno
divinatorio e forma logica deli'implicazione la si trova testimoniata in uno
dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que st'opera, alcuni
prestigiosi personaggi discutono sul signifi cato di un oggetto, avente la
forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone
propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin gua antica
questa lettera riceveva, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla
congiunzione ipotetica ei (''se") e mo stra che tale congiunzione svolge
nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto
logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo "Se è
giorno, c'è luce" (esempio, questo, che era tra i più classi ci della
logica semiotica stoica). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi,
Apollo, è un dio "molto amante della dialettica", tanto è vero che i vaticini
presuppongono la for ma del condizionale, p--: q, che è la forma stessa che
assu mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo ria stoica
della "simpatia universale"). Certo, quello che risulta dal testo di
Plutarco (scritto pro babilmente all'inizio del II secolo d.C.) è al massimo
che la teoria stoica del fato e della divinazione si fondava su base logica (il
destino consisteva in una serie interconnessa di condizionali). Ma se l'ipotesi
da porre fosse quella esatta mente contraria? Se, cioè, lo strumento così
asettico e ra zionale della logica traesse in realtà le sue origini dall'ambi
to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con i segni e la
divinazione presso gli stoici (Goldschmidt 1953: 80; Verbeke 1978: 402). Un
enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla
logica stoica: la forma proposizio nale rimane la stessa, ma nel caso degli
stoici è stata depura ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni
ele mento contenutistico . È lì solo per il calcolo proposiziona le. Nel caso
degli antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permetteva di
inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o meno complicati processi di
analogia e giochi tropici (il "rossore" del polmone permetteva di
infe rire "incendio" per un tratto semantico comune). Infine una
disamina sulla riflessione semiotica antica per mette di scoprire come il
dibattito sui segni, sulla loro natu ra e sulla loro classificazione si sia
attestato a livelli sor prendentemente alti, come è il caso della discussione
sui condizionali in seno alla stessa scuola stoica (tra Diodoro, Filone e
Crisippo) o della disputa tra stoici ed epicurei sul rapporto tra antecedente e
conseguente nei segni (di cui puntualmente ci informa il De signis di
Filodemo). La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi sce
sempre a (o si identifica decisamente con) il quadro più generale o più
fondamentale del problema della cono scenza. Sarà poi nel mondo romano che
queste problematiche di ordine conoscitivo generale verranno piegate alle
esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria: il problema dei segni si
identificherà con quello delle metodiche per as segnare un maggiore o minor
valore di prova agli indizi pre sentati in un procedimento processuale. La
semiotica verrà messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando
uno degli aspetti più singolari deIl'interesse contemporaneo nei confronti dei
paradigmi indiziari (Eco e Sebeok 1983). Sarà, infine, con Agostino (nel IV
secolo d.C.) che la teo ria del segno fornirà un paradigma anche per la teoria
del linguaggio, permettendo di unificare in un'unica categoria anche i segni
verbali. Ringraziamenti Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di
scusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi
suggerimenti critici vorrei ricordare Mario Bernardini , Silvana Borutti ,
Giuliana Crevatin, Pao lo Fabbri, Paola Manuli, Costantino Marmo, Andrea Ta
barroni, Mario Vegetti, Patrizia Violi. Per molte delle idee e per
l'impostazione generale del libro sono debitore a Um berto Eco, che ha seguito
e incoraggiato il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a
Amedeo G. Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano scritto, e
dal quale ho ricevuto una infinità di preziosi con sigli. Quanto agli errori e
alle imprecisioni, ne assumo inve ce totale responsabilità. Dedico il libro ai
miei studenti. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA 1.0 La divinazione e la cultura
mesopotamica C'è un campo specifico in relazione al quale tutte le cul ture
antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei popoli mesopotamici:
quello della divinazione. Non ci si può nascondere tuttavia, a questo
proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura moderna nei confronti
delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente svalutativo: esse,
infatti, rappresentano un pa radigma che si pone esattamente agli antipodi di
quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico. Ma ci sono
almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione mesopotamica
come a qualcosa che merita più di un interesse puramente occasionale o erudito.
In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come sug gerisce Carlo
Ginzburg (1979), ai rapporti tra paradigma "divinatorio" e paradigma
"scientifico" come a qualcosa di molto più complesso di quello che si
assume di solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine.
Infatti, per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito an che, a seconda
dei contesti in cui si manifesta, come "indi ziario",
"semeiotico", "venatorio"), costituisce un modello di
sapere specifico, caratterizzato dali'aspetto qualitativo: e cioè basato sulla
conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli
permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte quelle aree del sapere
che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente,
an-che la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detec tion, la
connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que sto deve pagare il prezzo
di una ineliminabile dose di aleato rietà. Si tratta, in realtà, di un sapere
del tipo che Peirce (1980; 1984) avrebbe definito "abduttivo", in contrapposi
zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della de duzione come
metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che in Mesopotamia
la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla fondamentale e
primaria tendenza a inferire le cause dagli effetti (procedimento tipico
dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti generalizzanti
e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e propria scientifici
tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che risulta di maggiore
interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica di una disciplina
semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone proprio il segno in
una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti, costituisce anzitutto uno
schema di ragionamento inferenziale, che permette di trarre alcune conclusioni
a partire da certi dati. È interessante notare come il segno divenga centrale
nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto, partendo dal campo della
divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre pratiche culturali e
discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e arriverà ad articolare,
unificandola sot to il suo modello, la totalità del sapere. Si raggiungerà dun
que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a livello molecolare,
funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, del segno divinatorio,
anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno utilizzati per
dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo su in seguito con
maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura mesopotamica
dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui una certa
conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato di
cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è
"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,
allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella
fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo
schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,
una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le
differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli
elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas saggio dalla
protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze
sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo,
nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si
pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di
quella mesopo tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre
senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella
greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la
filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e
scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della
scrittura costituisce senz'altro uno dei presup posti per capire il tipo di
divinazione sviluppatosi in Meso potamia e le ragioni della sua ampia
diffusione: è la scrittu ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e
il mo dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte
quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura
dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta
ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto
neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla
grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il
modello ri sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché
Leclercq 1 879-82 : vol . l, 1 11 e 274), quello cioè basato sulla interpretazione
di segni che si realizzano esternamente al l'uomo e che richiedono
l'intervento esplicativo degli spe cialisti. Per comprendere il ruolo che la
coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente
mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que st'ultima,
come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in
un periodo relativamente re cente e non costituisce un fenomeno autonomo
rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca ratteri
fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura, in
Grecia risulta egemone proprio il modello della divina zione ispirata, in cui
il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce,
secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E
non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece
in Mesopotamia, la nascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale
preposta ali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia
di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la
scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un
dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato.
Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine
del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è
pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che
raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac ciata
nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in dicava in prima istanza
"il bue"; ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno,
esso indicava anche "la vac ca" e "il bestiame grosso".
Ugualmente il disegno schemati co di un piede aveva anche il significato di
"stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di
"camminare", di "parti re", fino ad arrivare addirittura a
quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e
significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un
lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di
ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che
si complicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla
giustapposizione di segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello
della bocca dà il pro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua
accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo
ac canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an
cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la
donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne
delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato
oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque
complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può
osservare anche che, nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una
scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di
passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della
realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto
è vero che i segni possono essere compresi da per sone che parlano lingue
diverse e, del resto, sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste
lingue come av viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I
Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit tura di
cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven nero fatti notevoli passi
avanti verso il fonetismo con l'in venzione della scrittura sillabica. In
effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura
pittografica avevano cominciato a subi re un processo di scollegamento dalle
"cose" che designava no, per essere collegati più direttamente alle
"parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti.
Il ca rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi,
avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è
anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in-
dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me
diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti,
pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare
il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l �::rafico
HH H'V� A questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto
sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per
lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente
reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni
presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro
precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che
derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione.
Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha
la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di
rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e
legami inso spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che
porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in nescanti un analogo
processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno
della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma
anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so gno,
porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di
questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è
connessa con il carattere spe cialistico delle conoscenze richieste per
l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili
a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al lora una
sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della
scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in terpretazione dei segni
mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, i quali hanno come emblema
della loro corpo razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura
degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso potamia
"parlare di una scrittura degli dei non è una meta fora". Infatti
quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione
che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il
suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima
rete amministrativa che trasmette i suoi or dini scritti indirizzati ai
sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini
i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica
tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama� e
Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver so come il sovrano che
notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro
sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla
tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa
concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto
materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie ne
testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5: "Tu
scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni
cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli
astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli
astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagio
consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe del
fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante
litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il
sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura degli
dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È
possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di
vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi
elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da
un'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente alla
congiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa
costi tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere
interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce
!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazione
del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche
divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno
della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un
tratto)- vi sarà siccità-e-�arestia nel paese.
Fisiognomonia Se un uomo ha il pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame
ranno. Oniromanzia Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi
glio. Lecanomanzia Se, dal centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano
due "ponti", uno maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met
terà aJ mondo un figlio maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il
polmone è rosso-vivo a destra e a sinistra - vi sarà un in cend io. 1.4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la
sostanza aromatica) sulla brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra,
e non verso sinistra - avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona
(solamente) verso sinistra e non verso destra - il tuo avversario avrà la
meglio su di te. Questi esempi permettono già di fare due osservazioni a
proposito del meccanismo semiotico in essi instaurato. In primo luogo la
struttura del segno è espressa in termini di rapporti tra proposizioni e non
tra singole unità lessicali o tra un significante e un significato in senso
saussuriano. Questo fa sì che i segni non verbali e gli eventi acquisiscano
subito un'importanza predominante, in quanto trovano ap punto nella
proposizione il modo migliore di essere espressi. In secondo luogo il rapporto
che c'è, all'interno di cia scun segno, tra la protasi e l'apodosi è di tipo
implicativo, intendendo però questo termine come designante un'infe renza
ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter no della scuola stoica,
invece, l'interesse si accentuerà pro prio sul tentativo di definire il nesso
implicativo che caratte rizza il segno e a questo proposito si accenderanno
diver genze che alimenteranno una lunga e complessa discus sione . 1.4 n
passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di fronte ali'enorme massa delle
proposizioni divi natorie documentate dai trattati mesopotamici può sembra re
che regni la più completa casualità nel movimento che re gola il passaggio
delle protasi-presagio alle relative apodo si-oracolo. A ben guardare, però, è
possibile rintracciare al cune linee generali che consentono di mettere un po'
d'ordi ne in un coacervo altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di
regolazione. Sono rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non
casuale dalla prima alla seconda proposizione: 18 l. LA DMNAZIONE
MESOPOTAM1CA l. Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co
siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi strano eventi che si
sono verificati effettivamente secon do una concomitanza temporale. Questo
genere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici",
caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro;
essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2.
3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di
un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi:
naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi
canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra
le due proposizioni è con nesso alla presenza di codici che prevedono una
serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase
più recente della storia della divina zione mesopotamica, i trattati subiscono
un'evoluzione nel la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il sistema
astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il sopravvento anche
sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia classificatoria dei
Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casi astrattamente
possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica. Avviene così
che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda dallo schema
astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli storici"
e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati, nell'insieme delle
decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci hanno con
servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non grande, ma
significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi interna,
all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più recenti.
1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti
quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al
passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti
storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti,
risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati
sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca.
2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat
"(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al
tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è
doppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono
scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli
abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)
fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)
presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa
riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può
ipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanti
cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi,
il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle
coincidenze "significative", a po steriori, tra un particolare stato
di cose considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenze
avrebbero as sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa
ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio
(Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto
che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco
delle coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltato
contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così
disposto. 20 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce
la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina:
esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un
evento storico di importanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re
del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo
divinatorio" si spinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa
della scoperta della di vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze
tra la se rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere
avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere
cronologicamente situati nel periodo delle origini del la divinazione
mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe
vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui
qualsiasi evento che fuoriesce in qual che maniera dal corso
"normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta
eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile.
Il colle gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe
irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau sato dal primo,
risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato
è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica
dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci
appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del
metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa
ben definita disposizio ne del fegato) che si presume essere il caso di una
certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto
tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione.
Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes sun interesse della
divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo
fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è
che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta ta
inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a
disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive. 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra
protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro tasi
e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti
nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in
maniera evidente il modello della scrit tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto
che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta
mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura
cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la
rappresentazione ideografi ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa
"ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'',
"il sapere", "l'intelli genza". Ugualmente possono entrare
in corto circuito se mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per
pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l .
quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui
significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un
gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato"
tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni
esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di
sole - il re morirà, duramente punito da Sama�;
mortalità gene rale. Se un parto-anormale è doppio, con due teste, l'una
saldata al l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese
sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte stine . Se un
cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del l'incremento del
bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può essere conside
rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora
deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà
in una lunga tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare
pure una metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico
animale (''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi
("due teste", "otto zampe"); viene al lora istituito un
parallelo con l'organismo statale (''il pae se"), unico, ma dilaniato e
reso doppio dalle "dispute inte stine". Il terzo esempio presenta un
caso di accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla
infe condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del
bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione
segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera
classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il
rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto
spesso la relazione tra il ci frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il
linguaggio figu rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in
molti casi operino associazioni che per la distanza spazio temporale tra le
culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo
ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che
differiscono per pochi tratti del signifi cante da elementi correlati
nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della
città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta
biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta
biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U). 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) -
aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto,
indica to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro
fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il
terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato
alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare
nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca
delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap porto tra
protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il culmine di tale
processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale
ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del
l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva,
che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice l'inferenza del
singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la
documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la
presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche
e spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La sistemazione in
trattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II millennio, ha come
tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi
segni ora colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino so. Quest'ultimo
veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni, ciascuna delle
quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si registra, in effetti,
una mi nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta
esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti identificati, viene
costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di
estispicina, una sin gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del
Palazzo", viene esaminata: 24 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMJCA Se,
sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . .
Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per
il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova
una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una
fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz , si
trova una fessura - ... Come si può vedere, tutte queste protasi
risultano co struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra
Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde stral e
jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque
proprio il sistema, inteso in un senso strutturali stico ante litteram, a
prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati
effettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in
relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto
diviene particolarmente evidente quando in contriamo in un trattato delle
protasi che prendono in con siderazione fino a sette Vescichette biliari per
uno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego
la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla
verisimiglianza. Una cosa analo�a avviene quando, all'ini zio
del trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato
perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse,
che il neonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a
un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno
di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la
divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la
ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975;
1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti- 1.5 ESPLICITAZIONE
DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice
vero e pro prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen so,
anche se non formulate, varranno regole generali del ti po: "ogni volta
che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y
all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi no incontra in un
evento-protasi il numero sette, che il siste ma abbina costantemente, poniamo,
alle caratteristiche del la "perfezione" e della
"totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono
del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio
quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole,
mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella
per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge bra, alla
predizione in base al contesto: a esempio, un pre sagio di per sé sfavorevole,
se messo in rapporto con la sini stra, diventa favorevole, o viceversa. In
questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata si, in quanto basta
osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per
inferirla: è il trattato che for nisce in realtà la regola (anche senza
esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il
risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica
Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica
a favore di una ristrutturazione della di vinazione su base sistematica e
deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti,
rimango no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore
evolu zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re gole
stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del
I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va lori essenziali
di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più
su due, ma su tre colonne. La 26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima
riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa
nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o
da un aggettivo ("gros so") o da un sostantivo astratto
("lunghezza") oppure, an cora, da un verbo all'infinito
("essere piegato verso il bas so"). Nella seconda colonna veniva
registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio
"gloria", "poten za", "vittoria". La terza
colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale
che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e
neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:
Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino alla
Strada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidente
qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamo
infatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento dei
segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle
tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che
vi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiarato
fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non
si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla
dico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e
particolarizzazione degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estrema
semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2.
LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche
divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella
Grecia anti ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per
la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo
qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un
testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti
particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola ri manifestazioni
di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s
che indica etimologicamen te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che
si riferi sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome ni
atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge nere; téras, che
costituisce l'equivalente deli 'espressione la tina prodigium e sta a indicare
qualsiasi fenomeno o avve nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso,
che pos sa essere preso come base per una interpretazione divinato ria (Bioch
1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa
sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di
inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef fettiva
abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio
ha dato origine a una tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel
punto di origine mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONE
GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace di
interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, e
il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con
un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al
contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mente
superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anche
l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui
viene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo
(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo
l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose che
sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori di
uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs �id� ta t
'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le navi
degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli aveva
concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere
generale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una
conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine
filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel
passo indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato
nella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,
come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza
filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento
attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del
l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di
mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.
Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il
luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. 2.0
DIVINAZIONE E CONOSCENZA 29 Ma il dio parla un linguaggio che non è quello
dell'uomo. La parola del responso oracolare, a esempio, è umana solo come
suono, ma non produce alcun significato se le viene applicato il codice del
linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque una difformità nell'espressione dei
contenuti della conoscenza che separa l'uomo dal dio; ma c'è anche una più
radicale differenza nelle modalità stesse della conoscen za. Il dio
padroneggia il tempo attraverso la "vista" simul tanea e del
passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienza deriva appunto dal
fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo, secondo l'espressione
usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede "l'occhiata che conosce ogni
cosa". L'uomo, al contrario, può vedere solo il suo presente, mentre gli
sono irrimediabilmente sottratte le altre dimen sioni del tempo. Solo il dio
può permettergliene l'accesso; ma la visione deve essere tradotta in parole, in
quanto l'uo mo accede alla conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a
esempio, la memoria del passato è garantita dal racconto che traduce la visione
panoptica delle Muse (Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è
colui che rivela all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio
ne" che il dio gli comunica; ma proprio in questa traduzio ne il
messaggio perde di perspicuità (Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1).
Per questi motivi il segno divinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più
incomprensibile. Per decifrarlo c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia
diverso dal soggetto nel quale si è compiuto il processo di comunicazione e di
tra sformazione della conoscenza. Platone individua due distinte figure,
rispettivamente "l'uomo mantico" (colui che riceve la visione) e il
"profeta" (colui che interpreta le parole pronunciate dal primo duran
te l'estasi). Il celebre passo del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé
costituisce un piccolo trattato teorico della divinazione quale se la
rappresentavano i Greci, e presenta con grande perspicuità la tradizione del
segno divinatorio come segno non direttamente decodificabile: 2. LA
DIVINAZIONE GRECA Vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione
alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri
raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica. Occorre piuttosto che la
forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonno o dalla malattia, oppure
che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da un dio. Ma appartiene all'uomo
assennato il ricordare le cose dette (tà rh�thénta) nel sogno o
nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di
esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà phasmata) al lora
contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi cato e a chi
indichino (s�malnel) un male o un bene futuro o passato o presente. A chi
invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le
apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima:
soltanto a chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e
conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a
interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li
chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle
parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla
divinatori. La cosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò
che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si
pone il verbo s�mafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si
presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testo
divinatorio. Il soggetto grammaticale di s�mal no è costituito dai
due termini che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose
dette" e "le visioni contem plate", ma il responsabile della
produzione di questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica",
cioè il dio stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come
indica anche l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è
che un canale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi
fino al destinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di
interpretazione. Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato
a un certo numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un
processo di comunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il
passo platonico secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue
parti): 30 soggeno •te cose dette'" "le visioni
contemplate'" il dio l'uomo invasato significato - destinatario "'un
male o un bene futuro o passato o presente'" trice ed entusia- stica· 2.0
DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1 ��---�-------------�- - - -
- - - - - - - - , '"la natura divina- l l'uomo processo di
interpretazione del segno , effe"uato da personaggi con un sapere
specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'" Il
verbo s�mafno, dunque, non ha il banale senso di "si
gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano
dell'espressione e un piano del contenuto all'inter no di un segno. Esso
sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio
attiva nei confronti del l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il
verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso
segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto
. A confermare l'uso del verbo s�mafno con questo senso nei
contesti divinatori si trova una lunga tradizione che risa le almeno a
Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È
stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa analisi del frammento, ha
messo in evi denza questo significato del verbo s�mafno,
arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) s�mafnei
(oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale -- l! 2. I.A DIVINAZIONE
GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il
,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(s�malner)4
rourro una lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con
"significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere
contraddittorio o incomprensibile l'inte ro frammento. Si viene qui a
profilare un'opposizione tra due tipi di lin guaggio, che hanno
caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano,
caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo
fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram
bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na
scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen siero, usando
il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole).
Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito
direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo
platoni co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi che
opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica bilità. Il dio non
concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli nega totalmente la
conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segno oracolare, una base
di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu
sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il
ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e
filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co me oscuro e
ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti ca di
Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come
"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto
(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e
contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa
in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità
speci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltre
che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE E
CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in
quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino è concepibile
come una successione lineare di avveni menti (rappresentato metaforicamente
dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loro apparentemente senza
che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa successione
acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine, quando cioè il
destino "si compie". È solo a questo punto che esso diventa
intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori sviluppi, anche
gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare un senso. Fino a quel
momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen tale ignoranza: anzi, è
proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenza umana. A livello degli
dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo è presente e intelligibile in
ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti è stabilito in maniera
irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della nascita di ogni uomo. La
divi nazione trova il suo spazio proprio in questo scarto di cono scenza che
si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in ulti ma analisi anche ogni
altro tipo di segno divinatorio) si sup pone che riveli all'uomo, quando è
ancora in vita, proprio il significato segreto del suo destino, mentre questo
sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo dopo la morte. Tuttavia, se
la divinazione compisse la sua funzione pro fetica sino in fondo, se cioè
abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste tra l'uomo e la
divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che distingue
l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di quanto lo
nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo lo lascia
intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare attraverso
un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più intelli gibile
di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti all'oracolo.
Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità del segno
venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa il
destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se non
di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di
divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo,
come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione
che vie ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno
della categoria generale della mantik� atechnos, della
divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa
in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione
naturale" (Cic. , De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo
di divinazione è quel lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi
di ma nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge
direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si
comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo
verbale). Per usare l'e spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo
di divi nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava
il più noto e presti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in
cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da
un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei
termini del linguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante
la sem plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello
denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di
responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice
senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo
retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di
divinazione è la mantik� technik�, defi nita, a seconda dei commentatori, come
"congetturale", "induttiva", "deduttiva" o
"artificiale". Era basata suli'a nalisi dei segni (visibili,
acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che
potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co
me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione
mette in gioco una lo gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano
rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal
fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine
generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo
proposito vengono isolate delle porzioni di spa zio - che possono essere, a esempio,
le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del fegato della
vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di valore
simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale.
Negli spazi così delimitati è possibile leg gere la configurazione futura
degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono
invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge
al la divinazione. Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut
turali interne al testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni
rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza,
che permette di passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo
un esempio molto semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci
dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano
gli Argivi l a portare stra ge e morte ai Troiani l tuonando da destra,
mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta
celeste viene costituita come spa zio significativo, come microcosmo in cui
sia possibile leg gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in
una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a
ciascuna di esse viene abbinato un valore seman tico (ldestral--+"buon
auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi cio"). Una più articolata
configurazione del significato de- 36 2. LA DIVINAZIONE GRECA riva dalla
circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela zione con la domanda
esplicita (o implicita, come in questo caso) che l'interrogante pone alla
divinità·. Nel passo omeri co la circostanza di enunciazione è la partenza
della spedi zione per Troia, e la domanda implicita concerne la riuscita
dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione de stra del cielo
viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei Greci contro
Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del signifi cato
ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un equilibrio più o
meno stabile tra le strutture formali del codice che permettono di cifrare in
maniera completa l'av venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle
si tuazioni concrete a cui tale avvenimento-segno può riman dare nei contesti
specifici. Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato
patrimonio comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per
decifrare il segno. Di so lito non è così per la divinazione artificiale, il
cui carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per
l'interpretazio ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe
cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di
decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com plesso,
riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la
spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante
la quale si verifi cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter
pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato
splendente fino ad allora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che
trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere
sotto l'attac co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima
determina il signi ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello
deri vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol tre
l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso
anche alle trasformazioni retoriche: la rela zione tra il macrocosmo della
luna che viene oscurata dal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e
il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata
dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità
della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano
poi codici notevolmente elaborati già al sem plice livello degli abbinamenti,
come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate
le vi scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os
servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8
Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui
venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi
significanti e quel li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in
uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha
segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli
direttamente di estispicina, si descri ve un fenomeno che con essa ha molti
punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando
l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come
in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo
permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via
diversificantisi) le impressioni la sciate dali'anima razionale. La
specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no in realtà dei
processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della
"comunicazione biochi mica" . In definitiva il fegato viene a
costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti
intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co
stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto
particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'anima razionale. Si può
presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in un modo analogo a
quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica"
illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più
reci se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con fronti della
divinazione artificiale. Tale condanna si trova 38 2. LA DIVINAZIONE
GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo
di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti
Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando
questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare
niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più
sottoposto all'influsso luminoso del l'anima razionale. Più generale e
radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo
Platone fa l'elogio della fol lia, di cui considera la divinazione una specie,
e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in
vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso
ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione
mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della
discriminazione è chiara: nella divina zione tecnica la ragione umana pretende
di sostituirsi ali'i spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si
raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa
addirittura una connessione etimologi ca tra "oionistica" e ol�sis
(''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli
uccelli [. . .] fu chiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne
con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi
rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e
questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra s�mafnein
e tekmal resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il
dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se condo indica la
congettura puramente umana. Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone:
Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma
agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b
l) su cui avremo occasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI
DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto
l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta
di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con fronti della divinazione
ispirata. Infatti, per quanto in Gre cia venissero praticate anche forme di
divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria,
mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione
oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo
fenomeno deve essere messo in rela zione con il fatto che la civiltà greca è
essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno
recen te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri produrre
foneticamente. In altre civiltà, come quella meso potamica o quella cinese, la
scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla
lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che
la lingua presenta in altra maniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei
confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli
della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra
l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il
modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti.
J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età
classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza
marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per
ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di
alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e
per domandargli se la via sia libera o pre clusa.9 Si instaura a questo
proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay
1974): quest'ultimo ri sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in
for- 40 2. LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se
farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una
seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con dizione rituale di
successo: in sostanza, esso domanda al l'oracolo quali ostacoli debbono essere
rimossi perché l'im presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que
sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco lo nell'emanare il
consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere
le decisioni dell'assem blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion
kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro prio come
nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla
"preferenza" tra le opinioni, piut tosto che sull'intimatività della
decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della
discussione as sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa
come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo
modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o
oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model lo, quello
"teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura
scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi losofi. Esso costituisce la
rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione.
Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un
consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che
l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro
degli eventi, sia, nel contempo, il passa to, in cui si situano le remote
origini delle sorti attuali e fu ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante.
La logica a cui questo modello risponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui
impegnarsi a ridurre a una sola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili.
Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che
caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei
racconti oracolari dei testi let terari, la profezia sembra sempre inadeguata
rispetto al cor so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il
"compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-
2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi,
la polisemia del testo pro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti
oraco lari Naturalmente, per capire come la nozione di s�mefon
si sia sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo
semantico con cui il termine indicante il segno è sta to consegnato alla
tradizione filosofica, il riferimento ali'u so di s�mefon
nei testi letterari è altrettanto importante quanto il suo significato nelle
pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei
tragediografi è pos sibile vedere come costantemente venga tematizzato il pro
blema interpretativo che il segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in
principio legata alla difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di
risolvere tale problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato
dal la hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia
in vari modi: la dimentica, non ne segue le diretti ve, sbaglia la modalità di
consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di
scegliere sempre il ter mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo.
Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore
di conoscenza, e ha un carattere squi sitamente semiotico. Ancora una volta
compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio
divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio
codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata
in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in
tutti i racconti sul tema della divi nazione oracolare, l'uomo interpreta
invariabilmente il te sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere
una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig matico.10 Infatti,
l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug geriscono è che esista sempre
nella profezia un senso secon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è
nascosto e che costituisce il vero e unico significa to del segno: è la
scoperta di questo secondo senso, scartan do il primo, che qui chiamiamo
interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto
nell'interpreta zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina,
compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non
letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta zione. (i)
La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di
adeguarlo a circostanze reali no te: non si trovano oggetti a cui le parole
della profezia pos sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo.
(ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti
reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che
l'errore sia dovuto a una omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è
ulteriormente suddi visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il
seguente schema: Interpretazione � secondo il modo
enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per omonlmia
per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza 2.3
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti
oracolari in cui sono esem plificate queste modalità di errore. L'incapacità
di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali
vengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È
naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral
mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me no che non si
immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano
diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che
prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad
assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa
succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli
abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di
ricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul tare
l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con servare a lungo la loro
prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco
e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor
to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist.
, III, 57). La storia continua narrando del l'arrivo di una nave dei Sami,
della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi
fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai
Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com
prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le
espressioni "agguato di legno" e "araldo ros so", sono
prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di
interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan
zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è
rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza
un agguato), complican do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per
nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di
mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso
"romanzo oracolare" 2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc
l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal l ' oracolo di Delfi se la
sua monarchia sarebbe durata a lun �o . La Pizia risponde:
"Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi
lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere vile" (Herod.,
Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che viene data alla
profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con seguenza,
impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi alla
descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la conclusione
che egli trae da questa impossi bilità è che sia altrettanto impossibile che
il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare al re il suo
gioco metafo rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e Creso sarà
caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in ef fetti,
Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue misto", che è
condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue
misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa che l'ele mento
comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre
nobile e di padre di oscuro lignag gio" e "di madre meda e di padre
persiano", come il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la
pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi gurato è un'operazione
realmente più difficile di quello che si potrebbe immaginare, fatto che
giustifica in qualche ma niera gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a
cono scenze enciclopediche locali, oltre che ai meccanismi retori ci che su
quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve ro se si considera che è
impossibile anche per il lettore mo derno fornire l'interpretazione del testo
profetico quando il testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di
en- ICirol lmulol 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI
ORACOLARI 45 ciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto oracolare di
Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra
"anfore" e "uomini", tra "torri" e "forni"
che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio ne, compare l'espressione
"il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi
incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile
secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin tracciabile un
corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla
profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo
sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain
tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di
una storia in cui i vari segni si collega no tra di loro in una catena di
rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di
Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno
questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse
che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo
perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò
in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per siani, a uccidere
Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia
continua narran do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon
tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si
chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene
a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia
non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura,
Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago;
ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo dero della spada,
che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui
aveva trafitto il dio egizio Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ �iudicando
mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città dove si
trovavano e gli risposero che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempo
addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che
sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec
chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracolo
aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbe
saputo il nome della città, sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago e
della ferita, rinsavì e, com prendendo finalmente il divino responso, esclamò:
"Qui è desti no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist.,
III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni,
in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere,
finalmente senza più ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei
giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo
fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media
ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a
cau sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia
natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è
senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto
Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua
paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli
predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph.,
Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza:
Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma
crede che sia no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di
stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per
andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il
destino che gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo
sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a
consul tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao 46
2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare
guerra ai Persiani. I due oraco li, concordemente, predicono che "se
avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero"
(Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife rimento
alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito,
sarà proprio il suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giusta
interpretazione in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di
Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la
sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande impero
da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere
in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica
deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, da
parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problema
interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui
l'ora colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea
con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimento
alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai
conquistatori e, di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà
esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto
serviranno agli Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare
le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il
responso è klbd� los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo",
"fal so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa
riferimento alla carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne
risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com mistione di due
metalli, uno buono e uno non, che fa lucci care come oro ciò che oro non è.
Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri portati da Diodoro Siculo
(Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che
pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi
cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del
prigioniero. 48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida:
divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela
dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il segno
divinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e,
mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È
stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione,
l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2
Apollo, infatti, non è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'arte
mantica e la me dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste
in dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre che
la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi
di espressione della me desima potenza del dio e che possono avere anche lo
stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp.,
II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto
interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie una
sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che
abbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire
a vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno
oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi
sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò
viene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"
enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione
con i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo
e dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal
contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della
quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia
deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad
approdare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due
opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso
a 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio
come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più
salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio
di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito
della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti di
Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non
riesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il
solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima
evoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggio
divino e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che però
conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due
divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra
Calcante e Mopso. Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale è
il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino.
Mop so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila di
numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non
rientra nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante viene
colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla
sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto
dell'enigma passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto
che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti stica
che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai
rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando
l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as setto
formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché
non designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designa
altresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri
guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i
suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo
è patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà
morto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse
ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla
riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato
nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:
"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo
portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano
preso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li
portava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,
morì per lo scoramento. (Arist., Dep�t., fr. 8) Nel frammento
compaiono ancora gli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la
sfida circa un oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che
non si di mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma
elaborata di una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere.
Più precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie
"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -
portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50 ·abbiamo
preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo preso'"
SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO, DIALETTICA, RETORICA
51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad dittori
("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in relazione di
congiunzione con un singolo termine della se conda coppia ("abbiamo
lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso da quello che ci si
attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso, lo portiamo"
e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato"). Invece nell'enigma
ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi zione contraria:
"quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e "quanto non
abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come sappiamo,
assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di sciogliere
questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma mette in
evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta bilizza
sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile. L'ulteriore e
ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di Colli (1975),
alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo , dialettica, retorica La
dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno stesso
dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su un
qualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una gara
desti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione
segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una
domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.
L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo
punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi
confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento può
richiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande e
risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla
dimostrazione. 52 2. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il
linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo
elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con
l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime
democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e
si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita
mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si
trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte
spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non
c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due
contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione
stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha
contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re torica, invece,
l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a
giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione
intrin seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un
elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e
interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è
iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al
l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta namento, alla
competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo
punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con
l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della
discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo , a questo proposito , un
passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra
la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi ca del mondo, e
l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone
ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA
53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla
minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per
consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con
l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli
Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorando un responso più
favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non
l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus
concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il
quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le
forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le
spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. O divina Salamina, farai
perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di
Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente
come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga
accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del
primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal
santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia
mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo teo mostra bene
come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri,
una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene
per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si
svolge davanti aiPAs semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro
sca tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso.
Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co me una dicotomia tra due
soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli,
anticamente fortifica ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con
l'e spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il
dio intende riferirsi (s�ma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di
navi. 54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è
fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai
cresmologi) so stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali
compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione
del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a
contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del
dilemma; è co me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta
sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con traddizione
comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo
punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione
con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte
di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai
cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però
nel frattempo verificato uno spostamento del li vello tematico della
discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è
sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa
Temistocle, negando che l'obie zione dei cresmologi comporti una reale
contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e
prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero
ragione gli avversari con il dire che Salami na (metonimia per "battaglia
con la flotta") avrebbe causa to morte agli Ateniesi, e se anche questa
seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli
Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di
"divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è
contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e
la morte degli Ate niesi. Dunque questa seconda parte del responso,
contenen te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai
nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo
dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico.
Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio ne che tende più a
persuadere in positivo della validità del 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la
falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi
zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di scorso retorico, per
sancire la vittoria di uno dei due con tendenti. Il testo dice che gli
Ateniesi "giudicarono preferì bile (hairetbtera)" la spiegazione di
Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria
del l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra duata del
preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di
dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto,
che viene fatta intervenire neli'interpre tazione del responso divinatorio è
esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza
significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano
dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini,
ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come
nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im porre i suoi metodi
alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità
attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon
damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con ferma il segno
stesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da sondare con la
procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà
altra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può arrivare se ci si
impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi
dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt tiva. In questa
prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue
caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione
della verità come ri velazione: la verità come a-l�theia,
intesa come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo
di Erodoto non sono gli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il
senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto
è sempre 56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai
suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la
congettura e l'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il
segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI
E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora
interessati dell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo
visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con
la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra
grande area di manifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che
sorge prima e in maniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso
stretto: la medici na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale
dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie
elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49
ss.). In seguito, la riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla
filosofia e alla retori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli
esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il
segno (esempi spesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella
scelta di un modello di funziona mento logico del segno secondo lo schema
"Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che
vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A
differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo
più indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una ricca
documentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1
un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di
testi (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le
teorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico
autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2
né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti
all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di
versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è
dato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della
medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del
pensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e alla
storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di
interscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen siero
socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed è
stato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata da
Tucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti della
téchn� ip pocratica. � Ciò che la medicina aveva da
offrire tanto alla filosofia quanto alla storiografia era un modello di sapere
specifica mente semiotico, articolato sul doppio livello rappresenta to, da
una parte, da una solida struttura formale (il loghi smos, cioè il
ragionamento inferenziale, nei suoi due mo menti abduttivo e deduttivo) e,
dall'altra, da un orienta mento di base empirico.6 Come vedremo meglio in
seguito, il segno medico costi tuisce proprio il prodotto del ragionamento
inferenziale ap plicato alla ricorrenza dei fenomeni, i quali in tanto acquisi
scono senso, divenendo segni, in quanto sono riconducibili appunto al
loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A differenza del medico moderno, che
legge i segni in funzione della diagnosi, il medico antico elaborava il suo
ragionamento in funzione della prognosi. Un intero trattato 3. l AMBIGmTÀ
DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico, è specificamente dedicato a questo
problema. Eccone il passo iniziale e programmatico: Quanto al medico, mi sembra
che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; infatti, con una
conoscenza e dichiara zione preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi
presenti, pas sati e futuri, e con una puntuale esposizione di quanto gli
infer mi tralasciano di dire, egli conquisterà maggiore fiducia di po ter
conoscere le condizioni dei malati, così che gli uomini si ri solvano ad
affidare se stessi al medico. (cap. 1)7 Dal passo si può osservare che la
prognosi non è concepi ta come previsione di eventi soltanto futuri, ma
coinvolge anche elementi di conoscenza che riguardano sia il presente sia il
passato:8 il medico deve avere la capacità di descrivere anche quei sintomi, o
quei fatti in generale, che gli ammala ti tralasciano di esporre. Dal
procedimento descritto nel Prognostico non sono assenti scopi chiaramente
manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il medico mira ad ac
quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad affidarsi alle sue
cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi con i crismi della
scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto lo scopo del
rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quello della sua
manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so, anche di
"segni efficaci" come �uello della retorica in
cantatoria di Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice
riferimento al passa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso
isola to, ma ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la
medicina, nel Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con
l'analoga formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Br�tescu 1
975: 46) . 1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti
comuni tra la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti
medici del C.H. sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti
di divergenza. A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del
libro Il regime nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche
discordanti dei cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione
divi natoria. L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il
segno divinatorio è ambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte,
e perciò è lontano da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza
medica. Anche l'autore del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando
le loro predizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e
contrappone orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla
congettura: Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou
manteU.somat), ma scriverò i segni (s�meia) attraverso i quali
si deve congetturare (tekmafresthat), tra i malati, quali guariran no e quali
moriranno, quali guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap.
l) L'inferenza divinatoria (manteuein) è direttamente con trapposta alla
congettura (tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la
divinazione e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio
del fatto che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma
epistemologico, una "semiotica profana"; ma è indizio, anche, del
fatto che il rischio di confusione o di fraintendimento era ancora presente.
Sotto certi aspetti la medicina ippocratica appare effetti vamente come la
continuazione di una medicina preceden te, popolare e antichissima, impostata
su basi magiche (Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de
nunciano chiaramente questa situazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della
katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello
iatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei come
Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era
in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene che
regolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICA
MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla
gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia
di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di
autodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico
doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più
interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia
della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,
dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi ché
esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata
dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti
letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e
per la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo
e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197
a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, che
unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.
L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma
passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono
al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle
purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del lo
iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosi
di un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di una
malattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.
In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità 62 3. I SEGNI NELLA
MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un
medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il
mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente
stato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può
indicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione
è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro
Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è
piena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che siano
essi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (s�mefa) e
le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali
da pa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca
tartiche e apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di
tal genere.12 Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se
miologia sacra abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle
malattie che affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte
dell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i
segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali si
rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo
si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a
produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro
paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbali
incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segni
linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il
soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono
agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica
sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LA
CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed
epistemologi co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due
direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel la di
struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrare
l'inconsistenza sul piano logico del ra gionamento sotteso dalle procedure
della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato
sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di
"segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole
contestare è la conce zione di un'origine divina della malattia; e questo vale
tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque
altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa
che si riconduce all'intervento divino. In ef fetti, il termine hier6s, anche
se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non
apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica:
hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una
malattia è sacra in quanto inviata da una for za soprannaturale. Lo stesso
termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"),
originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare
le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962:
20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento
diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello
orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere
fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere,
contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La
no zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella
di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento
di cause ed effetti, rendendo possibile l'im postazione della medicina su basi
scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva
e omoge nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di
pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione
del singolo fenomeno. 64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di
argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior
forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle
modalità di ar gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor so
al tekm�rion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi
viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici na magica e a
confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga
tekm�rion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai
flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina
delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza
distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la
forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè
"Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole
l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più
divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma
questo non si verifica (perché colpisce i flegma tici, ma non i biliosi)
(non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si
deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus
tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come
segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità
dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del le altre
malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il
nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una
definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare
un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema
argomentativo deve essere considerato come un segno. È in teressante,
tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e spressione tekm�rion
(che da Aristotele in poi assumerà ine quivocabilmente il significato di
"segno inconfutabile") con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo
schema inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare
un punto di convergenza e di saldatu ra. Saldatura che con gli stoici sarà
totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una
semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se
conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a
segni che si inquadrino in uno schema logico inferenziale. Come ha mostrato
Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma
divina torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che
la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina
magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in
qual che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio
della divinazione, è nelle parole di Pindaro co lui che possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è
sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui
appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che
contingente mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta
possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di
là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i
primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga
limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica,
du rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a
scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi no, poi, la visione si
tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza.
Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di cotomia
tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo
superamento della dipendenza dalla divi nità per la conoscenza dell'invisibile
si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che
appare" (6psis ad�/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno viene 66 3.
I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La vista tuttavia
rimane cen trale. Caratteristicamente in un trattato medico arcaico. Malattie
delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il medico
"vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u tero. Certamente le
opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma
contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel
processo di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn�
ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento,
del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice esplicitamente che
"delle malattie alcune hanno se de in luoghi non celati alla vista, e non
sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9).
Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da
segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi no gustativi: è attraverso
l'intera gamma della tipologia se gnica che il medico può elaborare la sua
previsione, percor rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un
futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan do i segni non si
presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per
costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile
tentare un riesame dell'oppo sizione visibile/invisibile nel momento in cui
essa passa dal la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del
sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti tesi tra
"beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon do la
penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come
opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si
possono percepire, e i credi ti in genere, "invisibili" (a esempio,
i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro).
Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere
squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà.
In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in
contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara
traccia nei 3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti:
"L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B
54) e "La natura ama nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può
osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava
apertamente la funzio ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista,
una vol ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua.
Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibile
vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla
vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere
semiotico della rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messo
in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei
medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha
mo strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo
semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",
tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in
qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una
filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una
indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch�). La
natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta
all'osservatore, ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente,
molteplice, perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in
quanto cia scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni
altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro,
è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre il
cammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomeno
all'arch�. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come
se qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo
metodo del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I
SEGNI NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente
omoge nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si
impone a partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio
semiotico della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo
gli dci hanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare
(lekmaf resthal). (Diog.La�rt.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre
per i filosofi ionici e per la medicina dei postulati c'era continuità tra i
principi della natura, i suoi fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni,
con �lcmeone nasce una frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il
mondo del l'esperienza non si dà a conoscere spontaneamente, non è più
trasparente. Proprio sulla frattura inaugurata da Alc meone si impernia il
metodo semiotico. Essa conduce alla necessità di sostituire il procedimento
dell'analogia con uno basato sull'indizio: la conoscenza umana assume per
princi pio il tekmafresthai, il procedere per indizi e congetture. Ciò che la
medicina ippocratica svilupperà, e che è ancora assente in Alcmeone, è
l'inquadramento del metodo conget turale in una struttura logica compiuta. 3.7
Metodo analogico e metodo semiotico A questo punto è possibile domandarsi quale
forma assu ma la metodologia della ricerca congetturale nei trattati ip
pocratici. Una prima risposta a questa domanda può essere cercata attraverso
un'analisi della polen1ica che, a questo proposito, ha opposto Regenbogen
(1930) a Diller (1932) nella prima metà di questo secolo. In questa polemica
ritro viamo una contrapposizione tra "metodo semiotico" e "me
todo analogico"; ma in un senso sensibilmente diverso da quello esaminato
finora, in quanto la nozione di "analogia" era assunta in un senso
lato, molto vicino alla nozione se miotica di
"omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 69
In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene assunta in un
senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo tra un fenomeno
da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente possibilità di inferenza
dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo de scritto costituisce,
secondo Regenbogen, il carattere specifi co della metodologia di ricerca
utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla procreazione, Sulla natura
del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testi vengono spesso messi a
confronto processi di tipo non osservabile con processi osservabili e i primi
vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come si verifica a esempio
quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo del feto e quello delle
pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un uccello (Littré 1839,
VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tiene di fatto al principio di
Anassagora secondo cui ciò che appare permette di avere una visione anche di
ciò che è invi sibile, e applica questo principio sistematicamente. Il para
gone con l'oggetto visibile, su cui si basa l'analogia, viene visto come una
prova deli'oggetto di partenza. Il procedimento analogico non è limitato
ali'ambito me dico-biologico, ma se ne possono rintracciare esempi chia
rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto (Hist., II, 33), quando parla del
Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui lunghezza gli sono sconosciuti,
sostiene: "a quanto io ri tengo, congetturando (tekmair6menos) dalle cose
note quelle ignote, (il Nilo) muove da una longitudine eguale a quella da cui
muove il Danubio". Il ragionamento è il se guente: il corso del Danubio è
conosciuto dalle sorgenti alla foce, e, posto sullo stesso meridiano, nella
concezione di Erodoto, scorre nella direzione opposta a quella del Nilo, cioè
da nord a sud verso il mar Nero, così come il Nilo scor re da sud a nord verso
il mar Mediterraneo; il Danubio, in fine, è il fiume maggiore dell'Europa,
come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati questi elementi, si può immaginare il
corso del Nilo in analogia con quello del Danubio. Secondo Diller (1932: 17),
tuttavia, l'analogia non riesce a coprire tutti i casi di inferenza dal
visibile all'invisibile, e porta a questo proposito un certo numero di esempi,
tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA quali l'inferenza sperimentale
contenuta al cap. 8 del tratta to Le arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole
dimo strare che le acque che provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le
qualità di leggerezza, di limpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle
di pesantezza e di torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo
proposito di versa re, durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo
averla misurata, di esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente
va messa di nuovo al caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà
che la sua quantità è molto diminuita. Questa è una prova (tekm�rion)
del fatto che, gelando, l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e
delicata e dimostra, contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua
proveniente dalla neve e dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekm�rion e
si basa sulla istitu zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà.
Ma, giustamente, Diller mette in dubbio che si tratti an che di un
procedimento analogico: in effetti l'unica analo gia che vi si può istituire è
che per una piccola quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse
leggi che valgono per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello
che avviene nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto
: tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte
sul tutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza
che non è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che
abbiamo visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno del
processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia
chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo
Diller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la
parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,
quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekm�rion) è
data dall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i
quali espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da
si condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che
qualcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile
viene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni non
sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi
stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap
porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenza
semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente
al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato
poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per
Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di un
processo o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo
"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie
(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione
dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le
arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi
esplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire
le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Molto
interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3
ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la
teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien te
umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma)
che si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in una
seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa
teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, in
cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze
commestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:
esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato
e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due
movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al
legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi
vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo
ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora
non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimento
contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al
legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a
illustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga e
procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:
"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno
entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene
che i fenomeni descritti devono essere con siderati come "prove
necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel
procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possono
essere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione di
un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma
neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una
inferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,
chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza
causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio
l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causa
ovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze di
questo tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressione
che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è s�mefon.
In terzo luogo, si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale,
che è intesa come valida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare)
dell'analogia. In com plesso si può dire che il valore probante dell'analogia
consi ste nel fatto che essa permette di convalidare una proposi zione di
partenza (relativa a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni
concernenti fatti analoghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi
di una legge va lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra
analogia, principio generale ed enunciazione di partenza con il seguente
diagramma: 3.8 LA SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio
generale esemplifica/ tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra
asserzione di pertenza 3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel
gruppo di opere del C.H. dove vengono maggior mente approfonditi gli aspetti
teorici della medicina (Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi,
Ilprognostico, Il regi me nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e
III e le maggiori opere chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più
chiaro, la formulazione della metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si
riferiva Diller (1932) e che Lonie (1981) individua come procedimento di
"inferenza causa le". In questo paragrafo cercherò di approfondire
in che co sa consiste tale metodologia, indipendentemente dagli altri
procedimenti che possono esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con
l'analogia. Nelle opere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto
aperto il problema del significato dei dati di osserva zione.17 Il singolo
fenomeno (hékaston), non essendo più collegato con (né riconducibile a) una
presunta unità della natura, come nella physiologhla, ha bisogno di essere
inter pretato, cioè riconnesso a un sistema di riferimento. È a questo punto
che inizia il procedimento inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento
essenzialmente abduttivo: 18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo
lo, che si presenta ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche
regola generale. Si prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé
insignificante, possa essere consi derato come un s�meion,
un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA ma, e
dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen dente, di costruzione del
sistema di riferimento, viene segui to da un secondo movimento, discendente,
di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e funzionante, può essere pro
vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno si trasfor ma così in
tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo schema proposto da Eco
(1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrare il processo: codice
eziologico e/o prognostico: r------------, s�on: h,jksston (singolo
fenomeno) : l risultato l -- 1� r - - - - - - - - - - -, l l
regola 1 l �------------_j l l lL - - - - - - - - - - - - - 1
.------------l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli ce
movimento abduttivo-deduttivo della téchn� ippocratica: "Ciò
d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi
'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad
essere segno, s�meion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza,
era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova',
tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla
possibilità di trovare conferma ___________..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA
FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi,
per la téchn� ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo
dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di
'esperienza' scientifica), lo tra sforma in s�mefon,
mediante un'inferenza logico-concet tuale (loghism6s) e poi in prova o tekm�rion,
per conclude re, se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren
sione e di intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo
schema di riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo
particolare: è infatti pro babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto
(1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che
indicano una tendenza o una probabilità quali "la mag gior parte",
"i più", "molti", "soprattutto",
"spesso", "tal volta" ecc. Questo non significa che i
medici della collezio ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di
si stemi di riferimento costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la
logica del hoi pleistoi ("la maggior par te") si sostituiva alla
logica del ptintes ("tutti"). Del resto, proprio il carattere
probabilistico contraddistingue l'infe renza abduttiva o ipotetica rispetto a
quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di
s�meion ("segno", "sintomo") è una delle nozioni
centrali nei testi del C.H. La struttura formale at traverso la quale il segno
è introdotto è relativamente co stante, in quanto prevede l'inquadramento in
uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto
spesso p e q sono rap presentate da proposizioni (o da sequenze di
proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo ipotetico, come
possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno stico : 76 3. I
SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (s�mefa):
se (�n) in fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il male,
oppu re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è
speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav viva, pur
perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte
dell'implicazione è co stituita da una sequenza di due proposizioni
condizionali introdotte da �n ("se"), che si
riferiscono a dati di osserva zione (protasi), mentre la seconda parte
presenta un perio do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se
il riempimento semantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero
elenchi di sintomi, è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche
una enunciazione diagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data
la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può
contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica.
3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che
serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la
ma lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi
moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e
in quelli egiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi
prevede la pre senza di una protasi, introdotta da §umma ("se",
"nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da
un'a podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di
un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con
turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento,
obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto
pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data,
setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di
rose, radere �a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre
giorni.2 3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa
del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se
non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello
semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno
(propriamente, l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione,
un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal volta
rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sono
anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del
trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di
attestazioni spora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati
sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il
trattato Sulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione
della ma lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti
composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie di
proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno
interno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" della
malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione
tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata
la sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie
di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto
spesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette dei
sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,
tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel
petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica
soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):
tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e
febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che
una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse
con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e
subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186,
3-10) 78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo
modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi
("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause),
ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già
preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi.
Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà
invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni
interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure
dopo C: il testo citato continuava con "In que sto modo il malato sarà
molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della
medici na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che
questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese
in quanto hanno anche una se zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di
Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi
strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione
"se", presenta la sintomatologia come il risul tato di un
esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in
rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza
sezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo un
esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu
esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono
appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la mano
sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le tue
mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per
mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un
rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In
questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce il
punto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtà
nascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esterni
disponibili. 3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli,
attraverso i quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,
costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più
spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire la
struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo
compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue
opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,
ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece
avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Si
possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti in
cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di
sfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra
certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no un
carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie
Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.
4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione
divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui
si instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71
a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche
usato il ver bo s�mafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorio non indica
tanto il "significare", quanto l"'inviare un segno", vero
tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un testo verbale,
come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testo visivo, come lo sono
le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse nel fegato che
funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche essere
rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma in questo
caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica zione è
troppo mediata per avere davvero �alore e produce più
opinione che conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della
comunicazione più efficace con il soprannaturale è quello del "segno
demonico" di Socrate, che si manifesta come una "voce" interna
(Fedro, 242 b-e; Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1
.2 Il segno come "impronta nell'anima" In una seconda serie di
contesti il segno appare come im pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un
segno l'impron ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel
Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici,
viene sviluppata la metafora dell'anima co me blocco di cera, su cui vanno a
imprimersi i segni prodot ti dalle sensazioni (tOn aisth�seon s�mefa).
Questi segni, quando sono incisi profondamente, costituiscono la base per le
elaborazioni della memoria e per la formazione della retta opinione. In effetti
si crea falsa opinione in tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano
incapaci di "assegnare ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di
far combaciare il segno impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto
il rapporto che si viene a stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo
stesso che si instaura tra "copie e originali" (apotypOmata kaì
tjpous) (194 b). 82 4. PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema
della memoria, che abbiamo trovato accennato a proposito dei segni impressi
nell'anima nel Teeteto, ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a),
quando l'at tenzione di Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel
mito che Socrate racconta, infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio
egizio Theuth offre al re di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto
l'Egitto perché, secondo il dio, essi sarebbero stati "una medicina per la
sapienza e la memoria" (Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza
riserve il dono di Theuth, convinto che i segni della scrittura abbiano un
effetto contrario rispetto a quello previsto dal dio, indebolendo la memoria:
gli uomini "fidandosi dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non
più dalPin terno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol)
estranei" (Fedro, 275 a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a
una con trapposizione tra "le parole scritte" e "il discorso
scritto nell'anima": quest'ultimo è "vivente e animato", è
scritto con la scienza ed è capace di selezionare i buoni destinatari; le
parole scritte, invece, hanno solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono
capaci di dire una sola cosa e sempre la stessa, al pari delle immagini
pittoriche che, se interrogate, "mantengono un maestoso silenzio";
inoltre si rivolgono in discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del
discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i
due termini: come propone Fedro, le parole scritte possono essere consi derate
"un'immagine (eldolon)" del discorso scritto nell'a nima (276 a);
ciò nonostante esse rimangono segni estrinse ci, capaci solo di "rinfrescare
la memoria di coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare
questi rapporti se miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea
tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa role scritte, di per sé,
non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata dal discorso
interiore, ma produco no solo opinione (275 b). 4.1.4 Il segno come
inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83 immagini { 8 /d lJI
B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di contesti ci
presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in alternanza con tekm�rion)
come indi cante un fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi re un
altro fatto, evento o stato secondo il modello già in contrato nella
divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a
esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono
il calore e il fuo co, i quali a loro volta producono tutte le altre cose, è
un se gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce
l'essere e il divenire, mentre la quiete produ ce il non essere e il perire.
Negli stessi termini si parla di se gno nell'Epistola VII (332 c), dove il
fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più grande segno del
carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si
definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi
ha reso un servigio ri ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il
se gno è espresso da una proposizione legata da un rapporto implicativo con
un'altra proposizione. Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del
st- 84 4. PLATONE mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa
da tutte le altre. In un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno
distintivo del sole, sufficiente (hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto
che esso è il più risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno
alla terra. Natural mente la forma logica sottesa a questa formulazione super
ficiale è quella implicativa ("Se un corpo celeste che gira in torno alla
terra è il più risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo
punto Platone si interroga sul valore episte mologico della conoscenza
attraverso i segni, chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data
cosa (''il segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le
altre", 208 c), significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella
stessa cosa. L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che
esso riapparirà in Aristotele sotto forma di ricer ca dei rapporti tra il
"segno" e la "causa" di un fenomeno. E, come farà
Aristotele, anche Platone qui distingue il se gno dalla ragione di conoscenza
(/6gos epist�m�s), soste nendo che il segno contribuisce al formarsi della retta
opi nione, ma non della conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1
Carattere semiotico della concezione lingui stica di Platone Nella
speculazione successiva a Platone, la teoria del se gno e quella del
linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente separati, che
considereranno diversi gli og getti delle rispettive indagini, chiamandoli con
nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico sarà sjmbo lon, e
non s�mefon). Nella filosofia platonica, invece, que sta divaricazione
non si è ancora affermata, ma, al contra rio, si può notare che la sua teoria
linguistica ha un caratte re spiccatamente semiotico. 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è concepito come un
elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun gere alla conoscenza
di) un elemento che non è manifesto (ad�lon, aphanés ecc.); come
abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della
divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces
sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi
caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghi platonici
(soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d�/Oma
("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un
"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).
Costantemente il verbo s�mafno ("signifi co", "manifesto attraverso
segni") si alterna al verbo d�/60 (''rivelo",
"manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un
contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo
del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a
on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendere
evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona ai
segni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (s�malnein)
le cose con le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo
impossibilitati a manifestarle (d�lot2n) con il linguaggio
verbale. A più riprese nel corso del Crati/o viene affermato il compito
semiotico di "rivelazione" (d�/Oma) che hanno gli
elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione effettuata dai
nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz e Mittelstrass 1967: 8):
questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti (Sofista,
262 d), men tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli oggetti come
sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione che riveste
il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta (262 a) il
nome è definito espressamente "se gno vocale" (s�mefon
tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d�/Oma e
la cui funzione è quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa
nominata: "lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni
fonici (tii phonii [.. .] d�lomaton) che indicano l'essere
di qualche cosa" (So- fista, 261 e). 86 4. PLATONE Particolari
combinazioni di questi "segni vocali" danno luogo agli enunciati
(/6go1), facendo scattare un livello su periore. In effetti, nel Sofista viene
preso in considerazione il problema che, in termini aristotelici, sarà
descrivibile co me opposizione tra "semantico" e "apofantico".
In Plato ne, questa si presenta come opposizione tra il livello ono mazein
("nominare") e il livello légein ("enunciare") (262 d). I
singoli segni vocali, siano essi on6mata ("nomi") o rhimata
("verbi"), manifestano un contenuto nel momento in cui nominano
qualcosa. Le corrette combinazioni di que sti segni vocali si situano a un
diverso livello, perché, oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come
"essere il ca so" o "non essere il caso" di un determinato
evento, stato o processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986:
199-200). 4.2.2 La teoria linguistica del "Cratilo" Il problema
fondamentale che viene affrontato nel Crati lo è quello della
"correttezza dei nomi". Esso è posto fin dali'inizio del dialogo al
centro di una disputa che oppone Cratilo a Ermogene e per la quale Socrate è
scelto come giu dice. Complessivamente, nella discussione, Cratilo sostiene
una tesi che possiamo definire "naturalista", mentre Ermo gene una
tesi "convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più
stratificate e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo
livello di discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del
linguaggio che possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto
di convenzione e nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza
preliminare delle cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non
presup pone alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un
secondo livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno
trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e
focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a
cui esso è 4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In
questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione,
sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nica
differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la
correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il
carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce
come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza
disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce
direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali
dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è
"universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per
Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla
comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono
distribuire questi dati su una matrice: Ermogene
Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre
presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su
leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè �inguistica
particolare universale Come abbiamo visto, entrambi i contendenti
danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co se.
Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do manda su chi
garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4. PLATONE che ne è
responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e
gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli
utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è
garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del
nome, senza che venga presa in alcuna consi derazione la natura dei portatori
del nome stesso (Kretz mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la
dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente
anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So crate attraverso la
confutazione delle posizioni dei due con tendenti. Socrate, come al solito, è
portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe
le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo
della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero
ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza,
risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il
linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica, ma pensa anche che
la verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio stesso, come suona
appunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo
mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale
modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria
"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la
convenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi
(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non
è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogene
sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è
quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con
un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno
giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di focalizzazione
e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento di no mi, non solo
una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una dottrina degli
idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la parlata di un solo
uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un soggettivismo
totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelo con il
relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty position",
come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa perdere al lin
guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la dialettica, in quanto
non permette di distinguere tra enun ciati veri ed enunciati falsi. Tuttavia
anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan to perentoriamente, a una
impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le
caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome rivela la natura
della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è totale o è un
nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an che per una piccola
parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere niente di più che
"il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo percuotendolo" (430
a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra dare luogo in certi
casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei nonsensi, in entrambe le
evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a uno strumento sprovvisto di senso.
Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse con il chiedersi "Che
cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere, nel corso del dibattito,
la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si presenterebbero allora due
possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai rivelasse naturalmente l'oggetto,
che nomina, la ricerca finirebbe prima di cominciare; (ii) se invece essa fosse
analoga al "ru more prodotto da un vaso di bronzo percosso", la
domanda stessa non avrebbe senso. La dialettica, per quanto debba giungere a
giudizi veri, deve avere la possibilità di enunciare giudi.zi falsi, che devono
essere corretti nel corso del dibatti to. Ed è appunto questa possibilità che
viene eliminata dalla teoria di Cratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome
come strumento Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costi tuito
dalla ricerca di un criterio oggettivo che permetta di assegnare un valore di
verità tanto agli enunciati quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente
questo scopo, Socra te sposta temporaneamente il discorso dal piano
linguistico a quello ontologico, affermando che le cose (pragmata) hanno in
loro stesse una stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo (386
e). Una tale caratteristica di oggettività è attribuita da Socra te anche alle
azioni (praxeis), che al pari delle cose (pragma ta) sono delle specie di enti
(onta). Infatti, dal momento che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi
effetti, esse non possono essere compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate,
anche il dire (légein) e il denominare (onomazein, che è una parte del dire),
costituiscono delle forme di azione e, di con seguenza, devono essere compiute
in maniera non arbitra ria. Possiamo illustrare questa serie di divisioni
attraverso il seguente schema: enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni
(prAxtJis) /\ dire (/(lgein) /\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il
dire e il denomi nare costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior
mente sviluppata, ma rimane comunque una importante in dicazione di una
possibilità di sviiuppo in senso pragmatico che avrebbe potuto avere la
linguistica greca. In questo contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio
ha un legame oggettivo con la realtà, commisurato con il fi- denominare
(onomAzein) 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una
comunicazione efficace, è perseguito attraverso il paragone del nome con uno
strumento (orga non): proprio come la spola serve a sceverare la trama del
tessuto, così il nome è "uno strumento didascalico e sceve rativo
dell'essenza" (388 c). In altre parole, in primo luogo, i nomi operano una
tassonomia della realtà, separando gli oggetti del reale, in maniera tale da
rispettare le loro nature (Kretzmann 1971: 128); in secondo luogo i nomi
permetto no di comunicare questa tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e
materia del nome Se lo scopo dei nomi è quello di far acquisire la conoscen za
delle cose e di comunicarla agli altri, è necessario che chi ha denominato la
realtà (il "nomoteta", personificazione di un'autorità linguistica
accettata), categorizzandola in una certa maniera, già ne possedesse una
conoscenza prelimi nare. In effetti, per garantire la correttezza dei nomi, il
nomo teta ha agito come il costruttore di spole. Come quest'ulti mo guarda
ali'eidos ("forma", "idea") della spola, così il nomoteta,
per costruire il nome, guarda al "nome in sé", cioè alla forma ideale
del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo, come non ogni materiale è adatto
alla costruzione di uno strumento, ma è necessario usare la ma teria che
meglio si adatta alla forma (a esempio il ferro per il trapano e il legno per
la spola, e non viceversa), ugual mente sarà necessario che i nomi siano
costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che con altro materiale, se devono com
piere bene la loro funzione. Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica
(direm mo: di superficie) dei nomi sia identica per tutte le lingue, ma
ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il conti nuum sonoro (nello stesso
modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso ferro per lo stesso strumento
atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo Platone spiega la di versità
delle lingue, le quali pure, indistintamente, sono or ganizzate in maniera da
rispettare i medesimi modelli. Ciò 92 4. PLATONE che varia da lingua a
lingua è la materia, da interpretarsi co me la configurazione superficiale di
nomi e di sillabe che as sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma
(eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare
a questa forma è quello proposto dali'interpretazione di Kretzmann (1971:
129-130), che la identifica con la funzio ne e lo scopo essenziali a ciascun
nome, di separare le cose e di separarle in maniera da rispettare le loro
giunture natura li. In questo modo, a esempio, il nome greco l hippos l o
quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti
corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se condo le
"naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre supposto che tali
giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone
qui sta affrontando una questione che potremmo definire "hjelmsleviana",1
e così potremmo parlare, più che di funzione, come fa Kretzmann, di forma e
sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev: la forma espressiva
(la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma, affinché il nome
sia quello giusto, è ne cessario che la forma del contenuto (l'eidos o idéa di
Plato ne) ritagli la materia del contenuto secondo le medesime ar
ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l , l borse l , l Pferd l
saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti nuum materiale del
contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro relativo agli
animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione dei
nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del
continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della
divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico,
personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica, giudicare se il
lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di
Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse
teorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin guaggio
ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà storicamente
data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo (393 d),
infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente importante per il nome è di
significare (s�malnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag matos), la quale
viene chiaramente espressa (d�Joumén�) dal
nome. Una volta che il nome esprime l'essenza della co sa, non ha nessuna
importanza se vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che
viene portato è quello del nome di una let tera dell'alfabeto, il bita: esso
nomina la lettera l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha
(lal); nonostante queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan
to fa comparire il "valore" della lettera che doveva essere nominata.
Un analogo ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano
l'essenza della cosa di cui so no nomi. Il significato è, dunque, identificato
con questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro
concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi
carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico
di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte
né da trasposizioni di let tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte"
= "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene
saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la
stessa cosa (tau tòn s�malne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele
menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto
coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la
cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa
con il se guente triangolo: 4. PLATONE essenza della cosa = In effetti ,
come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la
sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo
stesso oggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza della cosa, il nome
deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto
che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6-
8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il
significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare
ciascuno degli oggetti al con cetto appropriato, o al genere che gli compete.
Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la
correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della
teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta
la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura
linguistica con quella logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi,
ritaglia il reale se condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente
pre senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il
linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello
sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere
predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella
materia fo nica. dynamis nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98
1 : 94 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo,
l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone
un dato di fat to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia
logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se conda e ben
diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti,
l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la
congiunta riflessione sull'ori gine del linguaggio, erano state intraprese per
dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto
logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare.
Ma il risultato a cui esse approdano è esatta mente l'op,posto: il linguaggio
non rispecchia la struttura oggettiva del reale , ma piuttosto è espressione
dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene
a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel
soggetto (Di Ce sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle
opi nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli
oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave va del resto individuato
questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di
due aspetti di stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il
significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra
il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria,
il triangolo che illustra i rap porti tra nome, significato e cosa dovrebbe
avere una parti colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non
rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo
empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del
mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al
reale, classificandolo e categorizzando lo, proprio servendosi dei nomi come
"strumenti sceverati vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe
arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-
96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si
raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse
risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima,
grazie alla qua le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il
linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui
l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre cedenti avevano insistito
sulla dimensione psichica del lin guaggio, in contrapposizione a quanti
prevedevano la possi bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio
in ma niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del
dialogo era stata dedicata alla confu tazione della teoria convenzionalista.
L'ultima parte è inve ce dedicata alla confutazione della teoria del
rispecchiamen to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al
l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una
rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di
Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di
quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria mente
una definizione del nome come "imitazione con voce cosa
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina
con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche
l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti
l'imi tazione "svela" (d�loi) l'essenza della
cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So crate lo indaga
in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel
caso del rispecchiamento "metafisi ca". Esaminiamo il primo caso.
Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto
che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi
presenti nell'origi nale possono risultare trascurati, come pure elementi
assen ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat tere di
iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per
Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a
sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione,
in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so miglianza assoluta,
in mancanza della quale non sono affat to tali. Ecco in schema le due
posizioni: Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto•
iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto A questo
punto Socrate introduce l'argomento del dop pio: se nella mimesi tutti i
caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione,
ma una occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si
sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e
proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il
rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un
carattere segnico pro prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto
all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come
"ri specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema
dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della
struttura del reale. La parola skl�rot�s, che
significa "durezza",�ontrariamente a quanto ci
aspette remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle co se,
contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e
"scivolosità". Dunque la parola imita la "du rezza" solo
in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul teriori esempi, poi, Socrate
mira a negare anche un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella
secondo cui nel linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del la
realtà come eterno flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si
verifica perché, come sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali
presentano la realtà come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la
convenzione Dalle critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce
una proposta positiva. Avendo infatti osservato che il nome skl�rot�s
(''durezza") è inesatto, in quanto con tiene nel suo significante
elementi che non corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate
osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio
ne comunicativa: infatti i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La
responsabilità di questa comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni
dell'uso (éthos) e della convenzio ne (xynth�k�):
questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due utenti del
nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 99
anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al livello
denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia
"rivelazione" (d�/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma viene solo
spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di somiglianza
tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b). Platone,
tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezione convenzionalista a una
in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la situazione ideale rimane
quella in cui i nomi sono immagini che riproducono l'essenza degli og getti
nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale che rendono necessario il
ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il punto in cui i
commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo di Ermogene e
il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve rilevare anche
uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico: c'è una
accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella cognitiva. Il
linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per la conoscenza della
realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere una via più
diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però si configura
come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co municazione
interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola VII" Un'interessante
trattazione degli elementi coinvolti in una teoria del significato la si può
trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a Platone, ma la cui autenticità
è stata più volte messa in dubbio (Edelstein 1966). A molti è sem brato che
essa non contenesse niente di veramente non pla tonico, e a ogni modo presenta
un interesse intrinseco che induce a farne oggetto di un'analisi particolare.
Nella sua parte centrale, la lettera contiene un passo teo rico (342 a - 344
d), in cui vengono indagati gli elementi che permettono di raggiungere e
trasmettere la conoscenza. Si tratta anche, allo stesso tempo, di elementi che
intervengo- 100 4. PLATONE no nel processo di semiosi. Il primo di questi
è il nome (onoma); il secondo la definizione (/ogos); il terzo l'imma gine
(efdo/on); il quarto la conoscenza (epist�m�); il
quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale (al�thos
6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow (1935:
68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte si
possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza: i
nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione diame
trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli strumenti
e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist� mt,
che Morrow interpreta come "apprensione soggettiva", e che è
ulteriormente suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta
opinione (a/�th�s doxa), conoscenza (epist�m�) (ritorna
curiosamente come nome di una specie, quello che è il nome dell'intero genere)
e ragione o intuizio ne (noas), del quale ultimo Platone precisa che è il più
vici no al quinto fattore. Nella lettera si dice che questi tre elementi, che
compon gono complessivamente l'epistémt e che devono essere con siderati come
un unico grado, non risiedono "né nelle voci, né nelle figure corporee, ma
nelle anime (en psychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li
distingue sia dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il
richiamo ali'ani ma, che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato
all'anima nella seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare
questa nozione di epist�m� alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir
confermato se leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so
prattutto aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà
en tii psych�r) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque
elementi sul triangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto
l'interesse del passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli
strumenti di conoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo
inconveniente, Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di
Peirce della semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola
at- 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione
soggettiva ( epist�ml) 3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l
intuizione (noùs) l conoscenza (epist�mlJ} l retta opinione
(allfth�s d6xa) 6. oggetto conoscibile (gn�st6n) e
veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio stesso che fa
da filo conduttore al discor so platonico. Si tratta deli'esempio del
"cerchio", non a caso di carat tere matematico. Non è difficile per
Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l non è un oggetto
del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma è un'entità di
altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso l'intera
serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un processo di continua
sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente fra tutti
questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona
natura, generare a gran fatica la cono scenza" (343 e). Ciascun elemento,
di per sé incompleto (co me lo sono gli interpretanti di Peirce), contribuisce
al rag giungimento della conoscenza se inserito in questo processo
instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di continua
sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne degli strumenti. 102
4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del nome è dovuto al fatto
che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto ricamente dato esso non è
l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato alla convenzione. Questo,
secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in quanto potremmo dell
usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle cose circo lari e l'espressione
l cerchio l per designare la linea retta, senza provocare cambiamenti nelle
cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere allora alla definizione del cerchio
come "quella figura che ha tutti i punti distanti dal centro" (342
b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa, risulta composta di nomi e di
verbi e dunque presenta difetti ana loghi a quelli incontrati a proposito dei
nomi. Tra l'altro, sottolineare che la definizione è "formata di nomi e di
ver bi" significa accentuarne il carattere di significante, piutto sto
che quello di significato. Essa è semplicemente un'altra espressione, che può
essere sostituita, nel processo conosci tivo e/o semiosico, al nome. Del
resto, alla possibilità di una sostituzione tra nomi, Platone aveva già
accennato, presupponendo l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo
l (strongylon), l circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene
aggiunto dal terzo livello, quello rappresentato dagli eldola
("immagini"). Qui il cerchio è conosciuto come "quello che si
disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce" (242 c).
Si tratta della so stituzione di un interpretante iconico ai precedenti
interpre tanti verbali: per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono
necessarie solo le spiegazioni verbali, ma anche le illustra zioni e le
astensioni. Anche a questo livello la conoscenza presenta un carattere incerto,
in quanto incontra oggetti in cui l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla
qualità (tò poi6n 11), cioè da proprietà accidentali e contrarie, talvolta,
alla vera natura del suo referente metafisica: infatti per ogni punto del
cerchio può essere costruita una tangente (343 a), tale che, isolando quel
brevissimo tratto, non si saprebbe se esso fa parte di un cerchio o di una retta
(Taylor 1912: 361). Il passo teorico deli'Epistola VIl si chiude ritornando su
un concetto assai vicino a quello della semiosi illimitata, an che se
ovviamente modulata in chiave platonica: "mentre 4.3 TEORIA
LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun elemento (nomi , definizioni ,
immagini visive e per cezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte
senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l'intuizione e
l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare
un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento", con cui il
passo si av via alla conclusione, è funzionale sia all'idea epistemologica
dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an che all'idea
semiotica che il senso finale non lo si ottiene at traverso l'immediata e
semplicistica sostituzione di un signi ficante con un significato, ma
attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come sono quelle
appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE
5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se gno
alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza. Il primo di
questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che
Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche
professio nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con
getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o
pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo
termini quali s�mefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici,
nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle
esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini
e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza
(1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in
quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e
rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e
della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle
opere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond
(1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico
gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati senza speciali
sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che la
revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e
abbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida
tradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin nella retorica
romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si
limite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma
entreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte dal sapere
congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale
tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico
della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del
futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in
entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle
esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella
classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele
individua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che
osserva (theo ros) e colui che decide (krit�s). Il primo agisce
nella dimen sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di
scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre
due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikast�s) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekkl�siast�s) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato
per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati s�meia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno
propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in
teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del
problema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii path�matOn),
e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo
stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i
suoni sono i me desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (s�mela),
anzi tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma ta), già identici
per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto
di incontrare il ter mine s�meia come apparente sinonimo
di sjmbola non si gnifica affatto che le due espressioni siano
intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in
questo passo Aristotele usa il termine s�mefon in un'accezione
debole, che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle espressioni
del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema
di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa s�meia
per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (no�mat8)
rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( � sn t�i ph�n�tl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni linguistiche"
intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima (verbo), /6gos
(discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis (negazione); le
ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen ti, facenti
parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono definiti
"simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24 b, 2).
Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della
voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e il
carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E
DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote le,
almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra diversa da quella
saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e
le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà. Tali garanzie
sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due ambiti del
linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità del
linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il
nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice
sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti
nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice
superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari stotele
riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5, 1). Le
ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso di
indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di
amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla
congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una
situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra,
senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna
parte pre suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri spondenza,
l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di "ciò che sta
per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della
teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon all'espressione s�mefon
(che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una
possibile 1 10 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio
istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno, i due termini del
rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili:
un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria mente il
secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono
perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al
III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta
redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore.
Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa
dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi �ono
simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un
accordo (synth�k�), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam
biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be lardi 1975: 199).
In quanto sjmbolon, il nome non è più d�loma ("rivela
zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono
della voce significativo per convenzione" (phon� s�
mantik� katà synth�k�n) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una
linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una
linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica.
Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che
"rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la
djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente
una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna
preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il
linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6
permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli
animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii)
interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon�)
presenta alcune interes- 5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1
santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una
"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);
(ii) sia dotato di significato (s� mantik6s) (Il, 420 b,
29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi
(''rumori"), hanno tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che
li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono
convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono
"per na tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Po�t.,
1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di
semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi,
"invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi dotate di
significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non
combinabili (Po�t., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i
caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli
animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione -
elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi
dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura -
elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d�-
loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo d�lofìsi
(''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del
linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le
"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della
significa zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di path� mata
en tii psych�i. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di
"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che non
è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del
linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur
configu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta
piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,
fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologia
sociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov
1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità che
si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti
Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)
degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entità psichiche
c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia, poi,
per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti, l'espressione
no�ma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma, in
questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni, possono
essere veri o falsi. Da ciò con segue che i no�mata
vengono concepiti come forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni
completamente diverse, e il fatto che venissero entrambe messe in rapporto con
le medesime espressioni linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si
nonimico, che risultava aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi
(1975: 109), nessuna delle due nozioni esaurisce da sola il livello della
rappresentazione psichica, ma esse rimandano a due facoltà differenti
dell'anima: i path�tnata rimandano a una facoltà passiva dell'anima, quella di subire
impressioni dagli oggetti del mondo ester no; i no�mata
rimandano a una facoltà attiva, quella di ela borare giudizi. Questa relazione
è del resto confermata dal 5.l TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113
rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel quale non vengono discussi
solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5 Semantico e apofantico Non
si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se, di necessità, breve) a una
distinzione che si affaccia, nel pensiero linguistico di Aristotele, tra la
categoria del "se mantico" e quella dell'"apofantico". Nel
De interpretatione (16 a, 9 e sgg.) viene aperta la problematica circa la diffe
renza tra phasis (il semplice "detto") e kataphasis (!'"affer
mazione"). I nomi (ma così anche i verbi) in sé costituisco no un
"detto", ma non possono da soli costituire un'affer mazione o una
negazione. Correlatamente, vengono distin ti due tipi di rappresentazioni
mentali (noimata): l . quella "che prescinde dal vero e dal falso";
2. quella "cui spetta necessariamente o di essere vera o di essere
falsa". Ciò che in realtà viene a essere contrapposto è la nozione di
significato rispetto a quella di condizioni di verità. Al primo tipo di
rappresentazione, infatti, corrispondo no i nomi (e anche i verbi) presi da
soli, i quali possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità.
Ciò è provato da Aristotele mediante la scelta di un caso particolare: il
termine "ircocervo" (traghélaphos). Esso "si gnifica bensì
qualcosa" (cioè una commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma
non può essere detto vero o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce
qui Aristotele indivi dua appunto la dimensione della semanticità pura,
regolata da leggi diverse da quelle della referenzialità. Al secondo tipo
corrispondono, invece, quelle entità che hanno la dimensione linguistica della
proposizione: è quan do si passa agli enunciati affermativi e negativi che
diviene possibile parlare di verità o di falsità. È solo in questo caso che
diviene possibile parlare di apofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non
contrappositiva) rispetto a quella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico
per passare dalla dimensio- 1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne
semplicemente semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso
consiste nell'uso del verbo come predi cato. Del verbo Aristotele valorizza
essenzialmente la fun zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce
il verbo a !copula + predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli
infatti, "tra dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De
int. , 21 b, 9-10). In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto
in funzione predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il
verbo possa esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a
qualcos'altro (cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne
predicativa non può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16
b, 19-25). L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di
una certa cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il
ricorso all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è
capace di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25):
"Pertanto, quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è
segno dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del
verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il
verbo possa avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri
termini dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere
l è indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale
di un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx
èl , nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1
La definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, in
Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e
retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella
Retorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di
segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse
epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di
conoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscenti
a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:
91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un
meccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generale
del segno (s�meion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo
esistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma
quella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato del
passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure
quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,
queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che
abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità
deIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la
sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori
sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno
in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni del
passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede
l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a
poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,
questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato
operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e
particolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei termini
dell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione
aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa
definizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,
allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da
"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che
conferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduce
all'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole
filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamente
riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi
an che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di
un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio,
l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione
aristotelica venga richiesta la con dizione "Se non-q, non-p"
("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta
che verrà dagli stoici consi derata necessaria per la validità del segno. Al
di là di questo si deve anche notare che nella defini zione (e in genere
nell'intera trattazione) del segno condot ta da Aristotele è riscontrabile
un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto
implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle
proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio ne è tò pragma
"il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere:
"il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha
il latte"; il segno è "l'aver lat te", che appare appunto
essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il
segno è concepito come una proposi zione, in quanto un segno può costituire la
premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere
una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An.
Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che
può costituire una premes sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza
centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui sce al
s�mefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono
premesse a quel particolare tipo di siilogi smo che è I'entimema. 5.2 LA
TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema
coesistono due aspetti com plementari, che la tradizione successiva svilupperà
talvolta separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi derato un
sillogismo tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o
ovvia.9 DalPaltra, l'enti mema viene considerato un sillogismo che tende alla
per suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che
le sue premesse siano vere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò
poly). Aristotele sviluppa esplicita mente il secondo aspetto delle
definizioni parallele dei Pri mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica
(1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel
l'ambito del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di
proposizione, entra nel meccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di
"protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima
distinzione tra la no zione di s�meion e quella di eikos
"verosimile" o "probabi le"), pur imparentate per il fatto
di poter figurare entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che
contraddistingue la nozione di eikos è essenzial mente il suo carattere
probabilistico, che lo lega irrevoca bilmente all'opinione, rimuovendolo in
una zona del sapere piuttosto insicura, lontano dalla possibilità di una dimo
strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza dal conseguente Per quello che
riguarda la nozione di segno, la situazione è diversa e senz'altro molto più
complessa. In effetti il s� meion non costituisce una categoria semplice, bensì una classe
composita che prevede al suo interno tipi con carat teristiche molto differenziate
tra loro. Ma, prima di porre l'accento sulle differenze interne, è forse
possibile osservare che qualcosa unisce i vari tipi di segni rispetto alla
nozione di eikos: invece che sulla probabilità, nel caso del segno 118 5.
LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE l'attenzione è concentrata sul carattere di
"consequenziali tà". Il ragionamento inferenziale, basato sui segni,
procede tipicamente ek ton hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè
a inferire la causa dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia
applicazioni corrette sia applicazioni inganne voli.
ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5) che Aristotele sviluppa
chiaramente la teoria del ragiona mento per conseguenze: quest'ultimo porta a
conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel caso in cui qualcuno, avendo
osservato una volta che la terra è bagnata dopo la pioggia, volesse concludere
in generale che, se la terra è ba gnata, allora è piovuto. Un secondo esempio
di ragiona mento per conseguenze dato da Aristotele concerne le pro prietà,
anziché gli eventi, come avveniva in quello prece dente: se qualcuno, avesse
sperimentato che il miele ha la proprietà di essere giallo e volesse conciudere
che qualcosa è miele partendo dalla proprietà che ha il colore giallo, cor
rerebbe il rischio di scambiare per miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In
tale contesto Aristotele giunge a identificare de cisamente questo tipo di
inferenza con quello specifico del segno: "Nei discorsi retorici, del
pari, le dimostrazioni trat te da segni si fondano sulle conseguenze"
(ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo punto tornare agli Analitici e com
prendere meglio perché Aristotele proceda innanzitutto alla distinzione
fondamentale tra due tipi di segni: il tekm�rion, segno
"necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s�
meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione
(che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi
sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo di
Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo
possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può
utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni
possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere
inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terza
figura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l
Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare
nei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevare
preliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristotele
attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il
tekm�rion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza
figura, cioè i generici s�mefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica
illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene di
credere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,
senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,
l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.
Nel primo caso, invece, cioè con il tekm�rion, si ha un ti po di
inferenza che parte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio
"se una donna ha latte, allora essa è gravida", in quanto
l'"avere latte" costituisce sia una con seguenza dell'essere
gravida, sia un segno di tale fatto; tut tavia, al contrario che nei casi
precedenti, sembra esserci possibilità di conversione tra causa ed effetto; o,
come sug gerivano le osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra
essere previsto da Aristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più
stretta che non l'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele
sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima
fi gura: Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha
latte, si fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo
che A indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte",
che C indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel
comune schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha
latte" c "donna" c "donna" In questo esempio il segno
"avere nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio
dal punto di vista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente
fi gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere
gravida l . A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si
predica di si predica di 3. A sipredicadi "essere gravida"
latte" non solo è medio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO
LOGICO 121 5.3.2 La seconda e la terza figura del sillogismo e i
"semeia" Nella seconda e nella terza figura il termine medio è il le
game che consente Pinferenza, ma non occupa, né nella formula né
estensionalmente, la posizione centrale. Questo fa sì che l'etichetta di
"maggiore" e "minore" sia "arbitra ria nella seconda
o nella terza figura, a qualunque dei due termini si voglia dare il nome di
maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it. 1973, 123). Del resto è indubbio
che il punto di vista adottato da Aristotele nella trattazione che egli fa
delle premesse sia quello estensionale. Legata a questo punto di vista è di cer
to la svalutazione della seconda e della terza figura. Passiamo ora ad
analizzare il tipo di segno che si svilup pa in un sillogismo basato sulla
seconda figura: "Se una donna è pallida, allora essa è gravida".
Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta prova che una donna
risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa attraverso la seconda figura.
In realtà, dato che il pallore è una determinazione conseguente delle donne
gravide, e che tale determinazione appartiene altre si a una certa donna, si
crede allora provato che questa donna sia gravida. Indichiamo con A "la
nozione di pallore", con B "l'essere gravida" e con C "donna".
(An. Pr., Il, 70 a, 20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza
di questo sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A
"essere pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8
"chi è gravida" C "questa donna" C "essere
gravida" "questa donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE In questo caso il segno "essere pallida", che è anche il
medio, ha la posizione di un estremo e si predica contem poraneamente dei due
termini "essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele
condanna questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo
qui di fronte al ca so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze.
Una conferma di questa condanna la si trova anche nel pas so corrispondente
della Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che
ha la febbre". Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo
sulla secon da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha
la posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini
"avere la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo
tipo di segno data nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità
interessanti rispetto a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che
il se gno è confutabile anche se esso risultasse vero (kàn al�thès
i1): viene dunque prevista la possibilità di costruire un'infe renza che
risulti conforme alla verità, anche se questo è so lo un caso, si direbbe,
accidentale; ciò deriva dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma
ci sono casi in cui esso porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente
vere (Plebe 1966); (ii) la seconda particolarità consiste nel l'accennare al
fatto che questo tipo di segno instaura una relazione "dall'universale al
particolare": ciò è probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che
è proprio il ter mine estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di
medio, e che si predica prima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo
ora un segno dal quale si sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura.
Ecco la definizione che ne viene data negli Analitici: D'altro canto la
presunta prova che i sapienti sono eccellenti - poiché Pittaco è eccellente -
si costruisce attraverso l'ultima fi gura. Poniamo che A indichi "la
nozione di eccellente", che B indichi "i sapienti", che C
indichi "Pittaco". Risponde in tal ca so a verità il predicare di C
tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 IL MECCANISMO LOGICO 123 messa BC
non viene enunciata, perché risaputa, mentre Paltra è assunta espressamente.
(An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più precisamente, è la protasi del
condizionale "Se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti " .
Su di es so si sviluppa un sillogismo che può essere rappresentato dalla
formula: l . 2. 3. A si predica di "essere eccellente" c
"Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è sapiente" 8
"essere sapiente" si predica di A si predica di "essere
eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco", che ha la posizione
del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo costruito su questo
tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile (/jsimos). Del resto
Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in seconda figura)
anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione accidentalmente
vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b, 10-11), viene
precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico lare
all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che qui è
il termine estensionalmente minore, a sug gerire questa determinazione ad
Aristotele; in effetti si par te dalla proprietà di un individuo particolare
per conclude re che tale proprietà appartiene a un'intera classe di cui
l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una
distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il
medio in ciascuna 124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure,
Aristotele procede a una ricapitolazione gene rale, dove consolida le
distinzioni terminologiche e ribadi sce la diversità della potenza conoscitiva
in relazione a cia scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro",
"prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi
zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di
vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura);
invece il nome generico s� meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo
hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano delle
inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a
quanto abbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla
nozione di éndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato
sul· tekmi rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia
lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da
premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni
che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti,
dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del
resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi
(Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga
classificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),
corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario �m�
anankaion), corrispondente al generico s� meion, 3 e
ulteriormente suddivisi in "segno che si trova in rapporto dali'universale
al particolare" (da mettersi in rela zione ai segni in seconda figura del
sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto del particolare
ali'universale" (da met tersi in relazione ai segni in terza figura). La
classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo schema della
pagina seguente: premesse da cui derivano gli entimemi / eik6s s�melon
(segno) ("probabile", "verisimile") - è tmdoxon
("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è invidioso
-detesta• m'S snsnkslon ("'non necessario") - è éndoxon
("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario")
tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio
di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha
la febbre -è malata" t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal
particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros (
·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è
medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un
sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono
giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è
pallida -è gravido" 126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un
sistema particolare di segni non linguisti ci: la fisiognomica La particolare
concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre
l'attenzione del sog getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di
por tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo
indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione
dei sistemi di segni non lingui stici . Aristotele, infatti, nei Primi
analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante,
quanto curio sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del la
fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un
tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo no assunte come
segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due
punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine
psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a
stabilire il legame più stretto pos sibile tra due fatti che l'esperienza gli
mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo
sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi tà al suo
esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre assunzioni: 1 4 (i)
che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e
l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè
dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia
un'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può
osservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e di
dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non
c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per
cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dine
dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino
legato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra un
tratto fisico e un 5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché
qualsiasi affezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come
avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo
nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Ma
come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio
deli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotele
propone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in
due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unica
affezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedio
epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che
un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia
più affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella a
cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la
soluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua
le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da
riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le
tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica
una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lire
che per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,
70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si
svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,
però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si colloca
geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata
posta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una
certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;
contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica di a�re
grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del
coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico
che verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi
estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di
si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi
estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir ce
costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perdere
totalmente la caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina"
(1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non
segue in effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare come
valido dal pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga
ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai
aleatorio segno del coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. In
altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi
estremità deve tra mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari
stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo
venga manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In termini
tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene
quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno e
ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è
esattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramente
logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:
solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo
punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si
trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il
"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono costantemente
provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti ficare
l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne così il
segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo (An.
Pr., II, 70 a, 32-38): l . 5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si
predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità"
B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità''
"leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che
Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di
partenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza a
carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della
presentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto a
stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di
qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in
seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere
segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza
che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione
aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame
necessario, la cono scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno,
senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici
(1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato
sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda
sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il
primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la
conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, che
sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così
la constatazione del fat to che una donna ha latte permette di risalire alla
causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo
stato di ma lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non
arriva a forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti
ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at traverso il segno
parte invece dall'effetto e permette soltan to l'affermazione del fatto, cioè
dello h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause,
cioè del di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici
Aristotele insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non
consi ste nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è
scientifica proprio in quanto parte dalla causa; in quel con testo viene
infatti fondata la distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e
"il sapere perché qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti
viene riconosciuto un cer to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono
considerate in feriori in quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co
noscenza del necessario e a malapena quella dell'universale. Ma quali sono
queste scienze dello hoti? Dagli esempi che Aristotele fornisce si direbbe che
si tratta eminentemente di scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un
carattere fortemente ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno
carattere deduttivo. Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia
(astrologhfa), nome condiviso sia da una certa scienza nau tica (nautik�) sia
da una scienza basata su fondamenti ma tematici (math�matik�). Solo
la seconda è scienza delle cau se. Ugualmente Aristotele contrappone la
medicina alla geometria: infatti, nel caso delle ferite circolari, spetta al
medico di sapere che esse guariscono più lentamente, men tre spetta
all'esperto di geometria conoscere il perché di questo fatto. Dunque abbiamo
medicina e scienza della navigazione contro matematica e geometria: il senso
della scelta aristo telica contro il segno non potrebbe essere più chiaro. È
interessante osservare come per Aristotele sia possibile anche sviluppare un
ragionamento dello hoti oppure uno del dioti all'interno di una stessa scienza.
La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEGNICO 131
contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un ragio namento dello
h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su premesse immediate
(che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la causa prima e
prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im mediate, la
deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto, ma dal più
noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole, la
differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla
causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele
fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra
il non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo
stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi di
ragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infatti
possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se
non sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento
dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non
sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio
ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul
segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita
dalla loro vi cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter mine
medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai
realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento
quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha
in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia,
dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto;
for malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine
che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è
un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i termini
del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come
precisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la
causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando
si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co lorito
pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha
partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie
cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)
L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore al
parto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possa
avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà
essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo del
di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto
potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso
di risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo il
con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in
cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile
risalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fatto
che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,
poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., in
Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che
contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente
nel fatto che il primo è tipico del �emplice osservatore dei
feno meni, non specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An.
Post. , I l , 79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e
il segno in generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in
quanto nella sua concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio
alla ricerca e all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione
semiotica del sapere. Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per
Ari stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais
possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche:
il décrivent la science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133
descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des
choses - conception singulièrement con fiante, on le voit, qui pose en
principe la connaissance par faite de la réalité". 5.6 Deduzione e
abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda
esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio
nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare �enza
riserve l'asserzione ari stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo
delle scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele
trovare il perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio
che spieghi quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi,
anche molto ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già
accertata. Esso può essere, cioè, una "ipote si" nel senso
peirceano. È illuminante, a questo riguardo , il ragionamento svilup pato da
Aristotele nel trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali
provvisti di corna, vengono regi strati alcuni "fatti sorprendenti"
bisognosi di spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna
hanno una sola fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b -
664 a); (ii) che tutti gli animali con le corna hanno quat tro stomaci (674
a-b); (iii) che tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi
superiori (674 a) ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso,
è quello di spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani mali con le
corna mancano gli incisivi superiori. Come sot tolinea Eco, Aristotele
"deve porre una Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse
un Caso di questa Re gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente''
(1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando una circostanza
"strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di una certa
regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu zione . 134 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede Aristotele, supponen
do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia du ra è stata deviata
dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di formare le corna. A sua
volta, la mancanza di in cisivi superiori è causa dello sviluppo di un quarto
stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso
nei termini del sillogismo (nella formalizzazione peirceana adottata da Eco) il
primo ragionamento si rico struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti
(cioè che hanno deviato la materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli
in cisivi superiori. Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato.
Risultato = Tutti gli animali con le corna mancano degli in cisivi superiori.
La "deviazione deUa materia dura" costituisce contem poraneamente il
medio del sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette
giustamente in risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un
feno meno è così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non
differisce in niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due
casi c'è un lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono
"sor prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e
prima del li vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un
livello abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre
nel caso che debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il
perché di un fatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di
collegamenti cau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida
ta solo quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione
di successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il
mancato riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta
ad Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel
contempo, la produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è
quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una
riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era
già av venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di
loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta
anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in
corrispondenza della terna "significante", "significato",
"oggetto esterno"); dal l'altra, una teoria del "segno"
proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della
filosofia stoica trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro
comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella
metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la
speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere
"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).
Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in
considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. 136 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI
Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo
concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate
semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una
"esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos sibile
equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ci
attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano
"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate come
materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuiscono
stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza
di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto
disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo
punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di
"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggetto
materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficiente
della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un
oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su
questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria
semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della
verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei
"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,
si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)
prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera
se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,
le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli
stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria del
significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come
fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un
"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo
caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando
intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il
suo riferimento. 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio
6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i
lineamenti fon damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in
un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È
importante sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità, cioè la
ricerca delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può essere
elaborata in maniera indipenden te da una concezione della struttura del mondo
e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni
hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò s�mainomenon),
altri nella voce (phon�), altri infine nel mo vimento del pensiero. Della prima opinione
sono stati i porta bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro
congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò s�mainomenon),
quella signi ficante (tò s�mafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis d�loumenon), che noi percepiamo
come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i
barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli
stoici il fe nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to
nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i
termini "significante" e "significato" (come è dato trovare
anche nella teoria mo derna di Saussure), ma non quello di "segno":
come anche 138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon
(significato) lekt6n ( detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in
Aristotele, la nozione di s�meion appartiene a un altro
ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti co. Si può notare
anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si
tratta di un nome pro prio. In secondo luogo, se da una parte, come per
Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com
prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la
coincidenza tra i due modelli è solo parziale: soltanto il primo e il terzo
termine, cioè la voce si gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei
due triangoli. 6. 1 .2 Il "lekt6n" come "asserzione" Un
caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice
superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n.
Soprattutto nella sua se conda denominazione costituisce un termine peculiare
della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e
di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare
in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) 6.1 LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della
significazione Ari stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano
consi derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci
dice Sesto nel passo riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto
i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come
rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste
innanzitutto nel fatto che, mentre l'en tità presa in considerazione da
Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata
dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov
interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo.
Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e sempio dato è un nome
proprio, che ha una capacità di de signazione come gli altri nomi, ma è molto
controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter
rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne
l e vedono l l Dione l l , ma sono incapaci di connettere il suono con il suo
oggetto di riferimento. Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso
dei Greci, consiste pro prio nel percepire la connessione tra la parola che
viene pro nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77)
identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura
come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in
questo caso, la tra duzione più propria di lekt6n è "ciò che è
detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di "giudizio"
che quella di "stato di cose significato da una parola o da una serie di
parole".3 L'idea che i lekta si potessero configurare come "affer
mazioni intorno agli oggetti" emerge da una testimonianza di Seneca
(Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea to uno schema triadico
della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione ( l
Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l Diane l ). Seneca
invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato ne, che è un
oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso 140 6. LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un "incorporale".
Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre
diverse traduzioni latine: enuntiatum ("enunciazione"), effatum
("affermazione"), dictum ("asserzione"). Dato che l'esempio
proposto da Seneca è una proposizio ne, risulta più agevole, rispetto
ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato
"vero" o "falso".4 Infatti solo i lekta che costituiscono
una proposizione com pleta possono essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti
tra il "lekt6n" e il pensiero Nel modello aristotelico della
significazione le espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici
(path�mata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo non
viene operata una chiara distinzione tra la nozione di "si
gnificato" e quella di "pensiero". Tale concezione ricompa re
del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri chards (1936: tr. it.
37), i quali disegnano un triangolo se miotico in cui figura al vertice
superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è
la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde
di Sesto e di Diogene si ricava una nozione di significato nettamente distinto
dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice
infatti Sesto: [Gli stoici] affermano che il /ekton è ciò che sussiste in
confor mità con una rappresentazione razionale (loghik�
phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rap·
presentato (phantasthén) può essere espresso in parole. (Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII,
63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en trambi i passi si può
ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i lekta,
che rappresentano il livello del "significato", e le
"rappresentazioni razionali" (loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti
vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe culiari della
specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo
infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può
ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono
messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto:
"I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the
objective content of acts of thinking (no� sis)" e aggiunge
anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of
significant discourse". Prima di ap profondire il senso di questa seconda
asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il
lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura
come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve
niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un
elemento nuovo rispetto a quanto lo
stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in
relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il s�mainon).
In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in
conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen to
appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto
con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente
contraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli
esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici.
Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo
incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che
faccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la loro
esprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a fare
da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della
mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu zione
(i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la
soluzione (ii). Ugualmente, tra gli 1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da
supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come
dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia filologicamente,
in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per
ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du
plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il
verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at tività intellettuale, in
assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il
risultato dell'attività intel lettuale ha bisogno dei suoni della voce
significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con
seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co me contenuti
delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si gnificati
attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti
l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione
di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il
contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la
stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è
dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in quanto non è possibile,
senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono
scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/�psis) e
l'attività di pensiero (n6�sis): "infatti la rap presentazione viene per prima, poi il
pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik�),
esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della
rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no
zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter no".16
Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla
considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene
detto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143
una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della
comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati
sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria
linguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il
"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora
incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una
nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un
fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (s�mefa)
per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da
proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se
fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura "di diritto" tra la
0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, "per ché ci
siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono
organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile
dalla sintassi lingui stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli
stoici non di cono ancora che le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110
a fare una simile asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra
la coppia s�mafnonls�main6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei
lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il
segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl
maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che
ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,
dicono che è una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon)
in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del
conseguente (ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO DEGLI STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se
stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ]
Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven gono presentate in
questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il
segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap
porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione,
secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele,
l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso
pe_rmette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella
epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di stinto sia da quello
logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una
proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma
so lo quella proposizione che permette di scoprire il conse guente (cioè che permette
l'accesso a una nuova conoscen za). Su questo torneremo tuttavia più avanti.
Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la
stessa di quella di Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo di
inquadramento logico. È nor mallnente accettato che Aristotele pratichi la
logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò
comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so stanza degli eventi
(Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii)
dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto
concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare
un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che,
invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi
da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza,
tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel
vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha
latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa
concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano
antecedente la prima proposizione 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce
alcuni esempi di segno (come quello della Reto rica, I, 1357 b, 16-18:
"Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in
considerazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia aristotelica la
teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel
procedi mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici, se non è un
tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfet to, il s�meion non trova f>osto. Al
contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un
ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno
viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto.
Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del
passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che,
a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si
può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di
Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è
rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti
essenziali di questo passag gio . Per Nausi fane, infatti , il discorso
filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato
sull'enti mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en trambi
i casi è necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la
"premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon l�phthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di
discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per
giun gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è
la akolouthia, "la relazione di consequenziali tà", di implicazione
o implicitazione,19 comune appunto a filosofia e retorica. 20 Ora, come
testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del
le cose oscure (ad�la) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce
proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici (come pure di tutti coloro
che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio 146 6. LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di "dogmatici"). Non solo, ma come
prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene
considerata un segno:21 fatto che testimonia la riduzione della filosofia della
scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a
ridurre o trasfor mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I
tipi di segno: A) "comune" e "proprio" Nella semiotica
stoica si registra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekm�rion e
s�meion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono
tutti denomi nati s�meia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono
del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale
opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra
"segno comune" (koinòn s�meion) e "segno
proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma
appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo
anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente
chiara dei due tipi di se gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo (l
secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella
per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò ad�lon)
esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo
particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno
non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e
molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka stik6n),
non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di ciamo appartenere di
necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente di cui è segno. 22
(Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle scuole
postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido e
nell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di
Filo- 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza
peculiare consiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene
definito co me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto
da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il
segno necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno an- 148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che
serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In
maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); e
poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/�psis),
come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o
"se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato
numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur
avendo una natura manifesta divengono, per certe cir costanze, non evidenti
per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa
distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene
tempora neamente invisibile a causa della distanza.2� (iv)
Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere
percepite, ma sono soltanto pen sabili (no�to1).26 Gli esempi sono
"i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un
problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto
le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in
senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso
i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due
categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono diversi
per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono attraverso i
segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi.
Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i
dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomn�stika),
altri indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che,
osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si
presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che
è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera
evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come
dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera
evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è
segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext.
Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza,
frutto di un'asso ciazione costante tra cose comunemente osservate in con
nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per
illustrare questo tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel
"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che
abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di
tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso"
o "connessione". Il suo significato lo gico ci viene chiarito da
Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2 LA TEORIA DEL
SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in cui a una prima
proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è
luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no zione di
condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto, dove se
ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla
moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora q"; infatti
la validità o in validità dell'asserto condizionale "Se p, allora q"
dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente di esso. 33
Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che non comincia
dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei valori di verità
del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve de per
l'implicazione materiale: p q ·se p, allora q• valido vero vero falso
falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo
tra i logici stoici a pro posito del criterio per giudicare un condizionale
valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale ( 1 962: tr.
it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei condizionali", che
animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da
rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni valido
152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come antecedente
(prokathegoumenon) in un condizio nale valido. In effetti, come fa rilevare lo
stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale valido sono tre nella tavola dei
valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F F; F V); il
problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da
ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi
particolari. Ora, in effet ti, un segno non può non essere espresso da una
proposizio ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es so
rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto
hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilità è relativa al primo
tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36
Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il
segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) del conseguente. In
effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento
in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è
formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si
realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto
entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine
del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la
vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen te logico a uno più
generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una
corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella
implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat tere
di dispositivo che permette di accrescere la cono scenza.38 Come già in
Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico,
ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi di carattere medico
denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il
passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha
sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza di molto più difficile
accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la
teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei
filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di
vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette.
6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso
fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per
stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra
l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali"
(Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici
sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando
il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul
come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII,
12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite ri che erano stati
proposti per stabilire la validità di un as serto condizionale: (i) quello di
Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnart�sis
attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può
tuttavia fare un'osservazione genera le preliminare. Il punto di partenza,
infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già
conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece
costituisce lo scopo è una definizione di questa rela zione di
consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero
dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati
sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà
auto nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione
se non nella misura in cui poteva essere pro vato che esso coincideva con il
definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso
sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la
relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi
tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio
questo modo di pro cedere un paragone con i metodi della logica contempora-
153 154 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici
contemporanei, infatti, sono in genere interes sati unicamente al definiens,
cioè alla relazione che essi pos sono stabilire in simboli, senza riguardo
alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono
sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione
di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e
Russell erano interes sati alle proprietà della implicazione materiale
indipenden temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua
le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era
interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im
plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa
differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore
differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica
definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im plicazione
materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2
L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero
funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui,
un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co mincia con il vero
e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà
del criterio di consequen zialità (ako/outhfas krit�rion)
corrisponde al quadro del l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in
cui il con dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i)
"Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra
ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV).
Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi le che Filone avesse
in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e
che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto
condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter
pretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale
requisito. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3 L'implicazione diodorea
Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per
secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a
confutare Filone, que st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo
(Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia
na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua
infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito
filoniano in un tempo tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro
tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando"
sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio ni , in un tempo
t � , per cui fosse giorno e io stessi conversan do. Diodoro invece
dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che
permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso
potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io
rimanessi silenzioso. In questo caso es so avrebbe la forma invalida VF. Per
ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale
un condizionale è valido quan do "non ammise, né ammette di cominciare
con il vero e fi nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se
non esisto no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele menti
atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante cedente sempre falso
e il conseguente sempre vero: ciò ba sterà a escludere l'evenienza di un
antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale
sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva"
("synartesis") di Cri sippo La terza concezione di condizionale
valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni
(Mates 1 56 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a; Bochenski
1951 e 1956), corrisponde alla implica zione rigida di Lewis o comunque a una
forma di implica zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con
corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con c e z i o n e v i e
n e r i p o rt a t a d a D i o g e n e ( Vi t a e , V I I , 7 3 ) : " È v
e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del
conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden te, come a esempio 'se
è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci
è sta to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap
partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La nozione di
"incompatibilità", messa in scena da que sta definizione, è molto
interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha
Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di
incompatibilità e anche, più in generale, quella di
"consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in termini
estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le
proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori della
relazione: al con trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che
sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare
questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il
quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar t�sis
"sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication
di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione
sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De
signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe-
cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo
inferenziale della "contrapposizione" (ana skeu�), che
appare analogo a quello della synart�sis. Infatti,
l'inferenza per "contrapposizione" è quella in cui la negazione del
conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa si configura in
maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, allora il
secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se
non il se condo, non il primo".42 6.3 CONCLUSIONI 157 Preti
sottolinea le affinità tra la synart�sis (secondo cui la
negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden te) e il metodo di
contrapposizione (anaskeu�) (in cui la ne gazione del conseguente comporta la negazione
dell'antece dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione
rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo
sembrano indicare un rapporto più forte, che ten de a risolvere l'inferenza o
in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni
Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come
abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le
proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni
nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac centuazione
del carattere, già presente in Aristotele, di con sequenzialità necessaria che
la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a
quello non noto deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di
questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi
della natura della ra gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla
configurazio ne della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo
punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si
differenzia dagli animali per la sua capacità di "discorso interno "
(16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di
passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di
consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di
segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così
l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero
umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il
reale fosse costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro
da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie
in quanto di- 158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti
daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la
consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella
stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4� Ora,
per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di
quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza
dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum
omnium"),46 men tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere
dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa [..
. ] causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il
futuro. Ma, a differenza di quanto av verrebbe per gli dei, i condizionali
degli uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza
umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve
basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica
irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in
un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe
essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti
e quindi l'in ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è
certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità
necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di
scoprire una nuova co noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve
inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma
deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica,
nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener
presen- 6.3 CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che
va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra
delinearsi nella semiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come
è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli..
cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza
(la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una
dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la
testimonianza di Sesto, un segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. -
Il primo. - Dunque , il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto
percepibile rappre sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi
stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura:
infatti essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (no�to1),
ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato
inventato. Sesto aggiun ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel
ragio namento precedente, un'ulteriore argomentazione:49 - compatto e non
poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. - Pertanto non è possibile che
il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa
argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)
applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi zionale:
p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori
intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del
corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo 160 6.
LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo il test di contrapposizione,
otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li
quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della
premessa del secondo ra gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un
ragio namento corrispondente al modus tollens, che convalida la conclusione
del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare,
con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la
richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del
condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la
contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua
li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu ra sia legato a
quello evidente in modo tale che ciò che è evi dente non potrebbe esistere se
il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione Contemporaneo allo sviluppo della
riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica antica scritto dalla
scuola epicurea. Uno dei cardini dell'epistemologia epicurea, in fatti, è il
principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per
natura non percepibili con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della
metafisica epicurea (cioè l'esistenza degli atomi e del vuoto, le
configurazioni e le ragioni dei fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso
inferenze semiotiche che partono dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia)
dei fenomeni celesti ce li forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di
noi, e che si vede dove e come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che
possono avvenire in molte maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro
rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo
vuoto e privo di utili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica
che si sviluppa a partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli
epicurei divennero i portabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile
come "induzione semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si
posero in polemica con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato
del I secolo a.C. , il Perì s�melon kaì s�meioseon
(Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO renze),
redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica to, del resto, al dibattito
intercorso fra stoici ed epicurei sul tema dell'inferenza semiotica.1 Epicuro,
così, e la scuola epicurea nel suo insieme, pro pugnano la possibilità di
elaborare giudizi che siano oggetti vamente validi su fenomeni non
direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sulla base di inferenze
elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene, allora, quello di
stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti tali giudizi pos
sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè ve ri o falsi) e
di fornire le basi per poter dire se certe asserzio ni corrispondano
effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa strada quindi la nozione
di "criterio di verità", che costituisce la cornice di sfondo
all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenza semiotica
quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è non uni
co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso comprende
le sensazioni (aisth�seis), le affe zioni (path�), le preconcezioni
(prol�pseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo,
l'evidenza immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi ("antici
pazione", "preconcezione") in particolare, giocano un ruo lo
fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del l'inferenza3 sia nella
teoria del linguaggio;4 in questo modo essi costituiscono un elemento di
connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a
permettere un'articolazione comune tra segno inferenziale e segno lin
guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di due in dagini separate. Si
ricorderà che anche per gli stoici la teoria del segno lin guistico, chiamato
s�mafnon, nasceva ali'interno di una di scussione sul criterio di
verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno inferenziale,
chiamato s�mefon, non aveva al cun punto di contatto con il precedente se
non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava il carico di
essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della semiotica
epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva, che
si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED
EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti
per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti
esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine
percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se
miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al tra. Gli
sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di
Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel prossimo
capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione
generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un
tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano
vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen zialmente
costituiscono una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per
la filosofia due metodi di ri cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che
proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle
cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi nare rispetto al
secondo, e spesso la conoscenza che si ottie ne attraverso gli strumenti del
linguaggio, come quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e
inganne vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità,
i quali sono in grado di procurare all'uomo niente meno che
l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della filosofia
generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera perduta,
intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica rispetto
all'intero si stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini
moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non
comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale,
l'aggettivo al�thés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità
di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale.
In Epicuro, in 164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare,
l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape volezza di qualcosa.
Si giustifica così la sua applicazione al le sensazioni e alle affezioni, in
quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a
dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden docene
consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di
verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun zionale a una
teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità
basilari riguardanti le cose per cepibili, che servono a loro volta come punto
di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag
giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque,
considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o
prolessi), le affezioni (o sen timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad
Erodoto veni va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o
"chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa
una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del
criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in
primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata;
infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va lore di verità
puramente soggettivo, se prese da sole, e devo no essere coordinate
all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio
oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez za di
qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa
consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le
relazioni tra le forme del criterio di verità se condo il seguente
schema: 7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè �
consapevolezza consapevolezza soggettiva oggettiva ll affezioni sensazioni
evidenza 7.3 Teoria dei simulacri prolessi Finora abbiamo
considerato il processo conoscitivo dalla parte del soggetto che prova una
sensazione o ha una affe zione in relazione agli stimoli esterni. Se
consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta, cioè partendo
dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaborato una vera e
propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per una
semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto Epicuro
inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zione degli
oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degli efflussi di
atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e per tutto
identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste configurazioni prendono
il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una velocità estremamente alta
e possono penetrare nei no stri organi di senso o nella nostra mente, e lì
produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta del corpo da cui i
simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche matizzato così:
oggetti - - - - - - - - � simuh1cri - - - - - - - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia)
(sfd"lJfs) (phsntssfst) 166 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO
Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa le" (Long 1
97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto gli ogget ti sono responsabili
dell'esistenza dei simulacri e questi ulti mi causano direttamente il formarsi
delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta
conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli
oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del
processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli
oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi , sebbene di solito risultino
delle co pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi
cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio
attraverso l'aria e possono anche ridursi in di mensione nel momento in cui
entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione
con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto
del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di mensioni,
mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in
contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni
caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la
phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del
simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie
ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della
"torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per
il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di
stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut tosto che la
vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le
appare piccola e di una certa forma, è real mente piccola e di quella determinata
forma, per il fatto che i li miti appartenenti ai simulacri (eldola) vengono
cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII,
208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i
sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca dall'oggetto e che
costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale flusso, passando
attraverso l'a ria, si altera nella sua configurazione, producendo la diver
sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto. Cosi ogni immagine
mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa non all'oggetto, ma
a ciascuno dei simula cri dell'oggetto, che sono diversi in relazione alla
distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce. L'importante è
non identificare il simulacro che si produ ce nelle vicinanze dell'oggetto con
quello che si ha in una vi sione a distanza. 7.4 Teoria dell'errore e
dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più cen trale
nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno sicuro della
sensazione per esplorare quello insi dioso delle opinioni, in cui si può
verificare l'evenienza del l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto
alle loro sen sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali
(phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e
l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo
mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo
movimento" (al l� klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo
movimen to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione.
Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il primo mo vimento
(cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza di questo,
"ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo
movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di
questo gene re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula cri; il
secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun ta di un giudizio che noi
facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si
può così sche matizzare il processo: 168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN
EPICURO processo conoscitivo /� apprensione di immagmi
lphsntsstik� epiboli'J sempre vera opinione (d6xs) conferma e non
attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa
In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico,
traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una
torre rotonda" , io parlo in maniera veri tiera; ma se dico: "Quella
è una torre rotonda", il mio giu dizio è disconfermato nel caso che,
avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le immagi
ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false. 14 Quello
che comunque risulta è il carattere congettu rale dell'opinione. 7.5 La
congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio
privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la
congettura consiste proprio in un'ipotesi co noscitiva su una dimensione che
va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la
concepisce Epi curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi
stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa
che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo
conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro- 7.5 LA
CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto
l'og getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole
chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjr�sis
"attesta zione" e antimartjr�sis "attestazione
contraria" o "conte stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro
per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben
si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at
testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è
"contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a
creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis)
non contestazione (ouk sntimsrtyr�sis) ( sntimsrtyrlJsis)
non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis) in cui, per Epicuro, due termini
(o quelli della deissi positi va, o quelli della deissi negativa)
congiuntamente sono ne cessari per decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia
ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la validità di un'opinione.
Infatti nella teoria semiotica ri portata nel De signis da Filodemo, il
criterio per decidere sulla validità di un'inferenza induttiva sarà
rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non conflitto del
l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato di Epicuro sorge
il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa consista il
termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile nella
enargheia ("l'eviden za", "la chiara visione"), come ci
dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione
(epimartjr�is) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di'
enarghefas), del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello che
precedentemente veniva opinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano
incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si
tratti di Pla tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si
trat ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si
è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In
effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli
errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione
e, probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura
e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la
congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.
Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le
immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le
congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in
considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica si
esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i
sensi (ad�lon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo
è relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi
processi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, del
vedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare che
si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la
congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente. Tuttavia,
questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la conferma del
dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo questo tipo in
ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose assolutamente
escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel senso fliù
classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta di risalire
dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171 un elemento
percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un elemento non
percepibile, ad�lon). È la ti pica relazione logica di implicazione (chiamata da
Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un conseguente. Chiame remo questo
secondo tipo di processo inferenza al non per cepibile. 7.6 L'inferenza da
segni L'inferenza al non percepibile è una tipica inferenza da segni. Infatti
in molti casi, come quello che abbiamo visto, "Se c'è moto-+c'è
vuoto", non è possibile conoscere diret tamente l'oggetto sul quale viene
fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo si deve attingere attraverso
un segno ("il mo to"). In effetti, anche per Epicuro, l'inferenza da
segni è connessa con la possibilità di ampliare i limiti della cono scenza
oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio grazie a una teoria
dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a superare i limiti del
proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla conoscenza di fenomeni
non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De signis di Filode mo
(fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen ze ottenute tramite
inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Un programma conoscitivo di
questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli oggetti in quattro
categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto avveniva nella
semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi): "quegli
oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una
rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).
Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una
certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei ad�la):
"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti
nel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità di
conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere
sono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no
stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza
umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei ad�la):
"quegli oggetti che sono oscuri per la propria natura, ma che si stima
vengano conosciuti per mezzo di segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 319). Gli esempi so no gli atomi e il vuoto infinito.
L'esistenza degli atomi e del vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su
basi puramente razionali, ma Epicuro insisterà, in con formità con il suo
empirismo, che possono essere cono sciuti attraverso l'inferenza analogica.
(4) Oggetti che attendono conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti
immediatamente oltre la nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità
è limitata da fattori, quali la distanza nello spazio o il loro essere situati
nel futuro. Come si può vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti
attraverso l'inferenza sono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta
classe. Essi sono da porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui
abbiamo già parlato. L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli
oggetti appartenenti alla quarta classe, quelli "che attendono con
ferma". L'inferenza al non percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti
appartenenti alla terza classe, cioè è rivolta alla co noscenza di quegli
oggetti che sono "oscuri di per sé" e che non arrivano mai a essere
esperiti dai sensi . In questo caso il metodo di verifica assume una forma
indiretta: la "non at testazione contraria" (ouk antimartjresis). Il
vuoto, come abbiamo visto, non è verificabile per esperienza diretta, ma gli
epicurei sostengono che la sua esistenza non è in contra sto con nessun fatto
conosciuto, 1 9 mentre la sua negazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in
conflitto con l'esperienza empirica del movimento, che richiede il vuoto per
attuarsi. Il cuore del ragionamento basato sulla non attestazione contraria
consiste nel fatto che, quando si hanno due proposizioni contraddittorie in
torno a qualcosa che non è percepibile, e una di esse risulta falsa in base a
una prova empirica (nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in
quanto entra in conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere
conside rata vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o
"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondo
dei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa ha
un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per
esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o un
bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una
volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In
effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,
cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta
vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto
pre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mente
percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente
un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.
effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale sensazione.
Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti che si sono
formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggetti esterni. Esse
hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legate alla memoria
di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come concetti, le
prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggetti esterni, ma
costituiscono piutto- 174 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto il
tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc correnze. Ciò, del
resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di
verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può
decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di
esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una
condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della
decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di
pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore
un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a
quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre senza di
un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina mento con un
significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una preconcezione di ciò
che intende esprimere, altri menti non gli sarebbe possibile dire niente: in
questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per
mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea
la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti.
Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle
sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per
combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del
ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug gerisce di
identificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè quelli che
sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono
alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno
linguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli
epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar co.21 Questi
ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di Epicuro solo due
fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn�) e la
cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e
Sesto 7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella
teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono
nella teoria epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea
mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non
impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei lekta
stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose.
Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così
rico struita: prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse
attribuita una teoria lingui stica secondo cui le parole si riferiscono
direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con
traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli
uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed
esprimono verbal mente questa credenza, se non esistesse il livello
concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla
proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo mini". La
presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può
rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non
esistono. Ciò che gli uo mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una
falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget to, cioè dagli
dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu rea è
dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi ficata anche con quel
particolare significato che è il "signifi- 176 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton enno�ma), di
cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri
significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine
del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del
l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen te nella Lettera
ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini
han no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at traverso due
stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la
realtà che potrebbe essere defi nita naturale, mentre nel secondo una relazione
che potreb be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella
polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare,
rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per
altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale
alle co se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro cesso di
nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase
l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali
quali tossire, starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni,
simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe zioni
(path�) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro.
Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la
tesi di Epicuro sem bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo
quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti
ha sempre costituito un problema, per i sosteni tori della tesi del naturale
accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui
Epicuro non evita que sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua
teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver sità degli
ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO E
TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le
lingue va riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli
uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re lazione alle
affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi
suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo
stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli
ele menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice
spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio,
rendendo le espressioni ambi gue, createsi naturalmente "più chiare"
e "più concise"; dal l'altra c'è l'operato degli "uomini
colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno
oltre la perce zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at
traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo
deliberato di introdurre processi di semplifi cazione nell'evoluzione del
linguaggio corrisponde al desi derio di rendere conto dei processi astratti,
come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste
nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le gati all'intera
problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini
generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione
"physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine
del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali
relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni
della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con
Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria
linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960:
476), o almeno una stretta somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De
interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi
ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose 178 7.
INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come
le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto
tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le
divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le
stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni
linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito
dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le
affezioni mentali (path� e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici path�mata)
sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma
ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il
primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun
nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un
simbolo se non in seguito a conven zione. Per Epicuro, invece, i nomi di
oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an
che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche
un semplice rumore, può essere usata co me un simbolo, per quanto in assenza
di elementi conven zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica
zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione
platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre sente alcuna posizione simile a
quella della prima teoria se mantica di Platone,25 adottata in seguito anche
dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro prietà
dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive
come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto
il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione
naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun
linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare
l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del la
sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci sono forti
elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto
in entrambe i nomi 7.l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno
alla loro origine un valore cognitivo, che viene par zialmente obliterato
attraverso i cambiamenti del linguag gio nel corso del tempo.26 Per Platone il
recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia,
stra da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie ne, invece,
che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia
stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore
epistemologico origi nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima
immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da
identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima
percezione dell'oggetto e che è stato as sociato al nome. In conclusione,
rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri ma teoria semantica di Platone,
si può dire che Epicuro as sume una posizione intermedia. Per Aristotele i
nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle
icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per
Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og getti, ma sono
naturali, come per Platone, nella loro origi ne, coincidente con il primo dei
due stadi evolutivi del lin guaggio . Gli elementi di convenzionalità si
sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia
di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo gia, come invece
avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut tavia, si chieda di tenere
presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca
tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla
origine natu rale . 8. IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione
Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup po negli scritti dei
suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1 ilPerìs�met'Onkaìs�mei8seon(Suisegniesulleinfe
renze)2 di Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di
complessità che la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola
epicurea. Si tratta di un'opera composta probabilmente a uso della scuola
epicurea di Er colano, della quale Filodemo fu uno dei più importanti
esponenti. Il De signis non costituisce un vero e proprio trattato
metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea del segno, ma
riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da
segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in
quattro sezioni, nelle quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri
epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme trio di Laconia,3 a favore della
teoria epicurea del segno e contro le critiche a essa mosse dagli esponenti
della scuola stoica. Il trattato è di grandissima importanza semiotica, perché
tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza
da segni. Nel confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De
signis dibatte una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della
discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que
st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles Sanders 8.l
RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato
l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci
rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione
segnica è "a priori" o "a poste riori"? Al centro del
trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole
circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della
relazione se gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale
relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece,
sostengono che tale relazione è a poste riori e interamente fondata su basi
empiriche. Il punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire
una relazio ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os
servato più volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione (sia essa
spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito
ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il
me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo gia (ho katà t�n
homoi6t�ta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empirico e basato
sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe
congiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità
e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).
In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici ed
epicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validità
logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica
basata sulla contrapposizione (anaskeu�), secondo cui la
negazione del conseguente comporta la contemporanea negazione del
l'antecedente. A esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto",
gli stoici sostenevano che la negazione della cosa si gnificata ("c'è
vuoto") implicherebbe anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si
tratta di un metodo di verifica as solutamente a priori e astratto, al quale
gli epicurei con- 182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un
metodo completamente empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo
a priori è possibile fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base
empi rica: l'esistenza del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi ta a
partire dalla osservazione empirica che non si verifica il moto senza
l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse guente generalizzazione.5 Ciò
significa che il principio astratto degli stoici può esse re formulato
soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base empirica e con il
ricorso a un ragionamento analogi co. Così gli epicurei sostengono che il
metodo della con trapposizione poggia, inconsapevolmente, sul fondamento
ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne cessarie, che gli
stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà stabilite attraverso
l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista secondo cui la logica
dedutti va è susseguente a una logica induttiva in ordine di svilup po: la
prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978: 221). Se questa idea è
chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si deve tuttavia
aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la logica formale e
deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico dall'altra. Anzi,
a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota gonisti della
discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna avrebbe
piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte, il metodo per la
costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica
della sua validità (Martinelli 1 986) . Così , il metodo di costruzione
deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più
precisamente quello della inconcepibilità (adiano�sfa).
Tuttavia la distinzione non è così forte, in quanto sia il me todo sia il
criterio sono su base empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici
tenderanno ad attaccare il metodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2
Contrapposizione vs inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali,
l'opposizione 8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si
stabilisce tra il criterio stoico della contrapposizione e quello epicureo
della inconcepibililà. Data l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica
secondo la contrapposizione stoica è esprimibile come il che equivale a dire
che, negando per ipotesi il conseguen te, anche l'antecedente risulta negato.
La prova dell'infe renza, dunque, avviene su base formale e non empirica. Il
criterio della inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni
formali ed è basato sull'analogia empiri ca. Esso viene così illustrato nelle
parole di Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo
mo do ( = per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire
che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non
abbia tale proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche
Socrate è un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che
"Se Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché,
attraver so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma
perché non è possibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e
questa inferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap.
17) Dal punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile
come impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva
mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un
contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di
un operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula
del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente
modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la
concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati
come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in
casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif
ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare una
risposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che viene
riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo
dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"
Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.
Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la
proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che
potrem mo esprimere come: u {P) � u {S) in cui
"u" è la proprietà di "essere un uomo", "P" è
"Plato ne" e "S" è "Socrate". Questo aiuta a
capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e con
"inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In effetti,
mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.�nto in
comune tra i due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene
essenziale per gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di
vista logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà
condivisa dai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci
permette di dire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella
usata dagli stoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle
proposizioni, gli epi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un
certo punto di vista più simile a quella aristotelica. 8.2
CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A distinguere il metodo della
contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di
applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà nel secondo. Lo
scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un carattere di
necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la relazione
stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo adottato è
aprioristi co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici sot
tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo, per gli
epicurei le relazioni segniche vengo no scoperte empiricamente e, se la
ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno
rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un
metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi bile solo nei termini
della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono
basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto
che non ab bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col.
XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza
sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno
deli'esperienza. Se non è possibile verificare di rettamente la presenza di
quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta
della non incompati bilità (ouk antimartjr�sis) con i dati
empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli
uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca pitati muoiono, senza
che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta
decapitati muoiono e non ricre scono nuove teste. Il primo membro del
condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un
elemento co mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe rienza
ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta
alla non ricrescita della testa dal l'altra, porta alla generalizzazione di
questa associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in
casi 186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o
non osservabili in asso luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare
l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la ritengono veri ficata
basando si sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi nio deli'esperienza.
La condizione è tuttavia quella di sce gliere i casi giusti, che sono quelli
che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita
delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle
unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La
disputa sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi
possibili di segno. Tanto gli stoici quan to gli epicurei distinguevano tra
segno comune (koinòn s� mefon) e segno proprio (fdion s�mefon).
Definivano il segno comune come quella entità che può esistere anche in assen
za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe renza "Se
quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere
anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come
quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui
essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il
moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo
con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di
inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse
anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili to per
contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile
stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello
dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un
uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno
proprio costruito per ana- 8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia,
cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare
che Metrodoro non abbia esatta mente negli stessi termini. In altre parole si
può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni
propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par tire dal
conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu rei lo costituivano a
partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti,
che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente
osservate) e diviene segno di un altro ogget to non percepibile a cui vengono
attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere
almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di
queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda
proprietà che può non essere perce pibile direttamente nel secondo oggetto. A
esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un
uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta
tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt
perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della
validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le
due proprietà nel pri mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale
associa zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in
seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es
senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno
proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno
iconico, in quanto, in termini peir ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di
una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980:
140; Eco 1973: 51). 1 188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica
stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza
basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa
contrappongono inferenze segniche basate sostanzial mente su due tipi di
criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo
dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una
tipica in ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di
noi sono mortali, allora tutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici
l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve
essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato.
Vedia mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo no che,
per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere
necessaria la relazione tra i due mem bri, entrambe le proprietà prima
considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono
così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini
tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli
tra di noi sotto tutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono
eventualmente mor tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere
tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali
sostengono espressamente che "la con clusione appresa attraverso questo
segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza (s�meioume
tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le serie di entità
(cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in
luoghi sconosciuti) hanno non so lo la proprietà comune di essere
"uomini", ma anche con temporaneamente quella di essere
"mortali". 8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189
L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che
dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua
non della necessità dell'infe renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se
totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro
l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon do
caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi curea di partenza in
maniera tale che il carattere di "morta lità" da inferire sia contenuto
nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la
parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una
defi nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in
quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata
secondo questo principio assume la forma se guente: Dal momento che gli uomini
tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono
mortali, anche in qual siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la
semplice espressione l uomo l è data come implici tante la proprietà
"mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della
proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se avviene in qualsiasi
altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana
l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della
replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a
priori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una base induttiva. In realtà,
secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita
sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere
mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi
arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16
Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene
stabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla quale fanno ricorso
gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini,
espressa at traverso il test della contrapposizione, può essere verificata
solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun zione tra di essi.
Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul
livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno
alla connessione di termini da ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi.
La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri
spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren dere tali fatti,
come pure dalla loro interna coerenza o com patibilità dell'uno con
l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche
stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta
specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla
L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico, sollevano una
questione interessante: la de finizione di uomo in quanto mortale è non il
punto di par tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri
petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di
uomo in quanto tale, come comprendente an che la proprietà di essere
"mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni
che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii)
le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no stri
contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a)
"Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali " (che è la formula
suggerita dagli stoici, e che indica dedutti visticamente il fatto che nella
nozione di "uomo" vi è com presa la proprietà "mortale"),
e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali)
sono uomini"18 8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la
formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la
definizione. In sostanza, gli epicurei sem brano sostenere che la definizione
di "uomo" viene costrui ta mediante un'accumulazione di proprietà
che sono rileva te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno
minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e
proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa
tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e
proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il
primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora
oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli
epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca
il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a
proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so
stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz zata la
concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà
"mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza
osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri schio è che,
così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti
del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmente considerati
longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a
elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a
certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioè rintracciabili in ogni
individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che parte dalle proprietà
costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va
riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi ca, la
rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe riscono moltissimo
rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita e altri
longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della
variazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di
ecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono
appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad
andare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di
inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La
provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisica
epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e
"indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere
"corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro prietà
opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so no
le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare,
applicando correttamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti
i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi,
anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi
nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli
atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto
interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la
necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si
applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce
selettivamente sulle proprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la
replica epicurea è interessante per ché modula la precedente distinzione in
termini teoricamen te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che
possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei
parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto
corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra
tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque
una proprietà essen ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono
strettamen te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon da
delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i 8.6 PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI 193 corpi hanno "in quanto partecipano di una
natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di
struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare
nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà
at traverso una tabella: proprietè entitè corpi A B proprietè
accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè•
·colore• (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè
essenziali Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze
induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie tà della colonna
B; ma niente impedirà di fare inferenze ge neralizzanti, con il metodo
dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo
schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto
alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà
variabili peculiari ai vari tipi: 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà
essenziali proprietà accidentali (koin6t�tes) (idi6t�tes)
·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso
modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a
seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una
specie di topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in fatti, ai
fini della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni,
koin6t�tes) e quelle accidentali (o pecu liari, idiOt�tes)
devono essere analizzate nei vari campi o ca tegorie che sono di pertinenza di
un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle
disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare
essere quello di giustifi care inferenze universalizzanti ali'interno di
categorie omo genee: infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di
esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera il fie no rispetto alla
categoria dei "poteri", si troverà che esso ha due proprietà
costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e "di non essere
digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che
questo og getto potrà presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso
grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu rezza l'inferenza che da
nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini
e di essere da lo ro digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei
quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini to
proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare
chiaramente che esse sono , per loro , le ------------------- 194 propnettt r
entità ! fuochi 8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195
proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor rono alla sua
definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene
co struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà
implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la
proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto.
La defi nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà
comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o
essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della
definizione, non c'è diffe renza. Lo dimostra anche l'uso della particella h�i
("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti)
nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro blema se sia possibile
costruire empiricamente una defini zione annotando le proprietà comuni a una
classe di ogget ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme
no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio ni che rimandano
alla lingua come struttura globale interde finita e/o storicamente
stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la
definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro prietà
"mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es senziale o definitoria
di l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte della definizione di l
uomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo meno ad Aristotele.
Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di
ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi nivano come
"animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La
tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di
sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile,
dunque, che definizioni di questo genere co stituissero un'implicita guida
nella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni a una serie di
oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non
perce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di
inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo
si parla di proprietà co muni o essenziali, queste vengono congiunte al
soggetto me diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si
gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in
cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al
non percepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della natura degli atomi
come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella
misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate
quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro
modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione,
le proprietà possono es sere viste come conseguenze necessarie (ex anank�s
synépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere
uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla
malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un
tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat
tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda
accezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla definizione o
alla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si
verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi,
hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un
animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo:
l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel
caso del l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale viene data in
termini di genere ("animale"), più differenza specifica
("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono
vi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:
"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34 8.8 CONCLUSIONI
197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie
contemporanee sono state definite semantiche, anali tiche o proprietà secondo
il modo E : "uomo,, infatti, è in cluso nella classe più vasta di
"mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica
a comporre il seme ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione
della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita
dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è
folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è
affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sono
indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso
il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà
che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la
conget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi
farebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso come
significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da
un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tà
ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia
secondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni
Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,
gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di
specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed
effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di
proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi
temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui
i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come
condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di
proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DE
SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquand
conseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o
proprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietà
equivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche o
analitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei
fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque
superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non
si potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto
resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che
passino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraverso
l'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metodo
deli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un og�etto
che non abbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis
vengono anche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da
classe a classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti
questi problemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica
epicu- 8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità
di un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a
concludere che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal l'osservazione che
gli uomini greci lo sono, o che, al contra rio, porta a concludere che tutti
gli uomini sono neri, par tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In
effetti, simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una
accurata supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto
di vista logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare
ali'intera classe o genere (quello de gli "uomini") una proprietà
che di volta in volta è caratteri stica di una sottoclasse o specie (quella
dei "Greci" o, ri spettivamente, quella degli "Etiopi").
In effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla
base del loro metodo per costruire inferen ze una teoria della progressiva
inclusione semantica tra in dividui, specie e generi, cioè una teoria delle
classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in dividui
particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più
possibile vicini e simili. Naturalmente que sto non significa che l'inferenza
debba essere fatta esclusi vamente tra membri che si situano esattamente allo
stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma
nella maggior parte dei casi viene previsto un mo vimento ascendente di
generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione
epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo sta a una critica
stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo
deli'analogia ricorrendo ali'argomen to deli'esistenza in natura di casi
unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in
mezzo al la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra
esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti rare il ferro;
ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare la paglia; infine, non
c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi
dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici,
invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano. 200
8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al
metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico no,
se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen za per analogia
sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie ne, è possibile inferire le
proprietà degli altri magneti a par tire dal magnete che cade sotto la nostra
percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in
considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di dettagliare
la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la semiotica epi
curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che era condiviso,
tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma comprende tre tappe
fondamentali: (i) os servazione; (ii) storia; (iii) inferenza da simile a
simile. I pri mi due momenti del programma permettono di individuare le
"proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo mento, che è
quello della ricostruzione del processo semioti co vero e proprio. Nei primi
due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da
osservare per ottenere le pro prietà costanti: essi devono essere
"molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e,
contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento,
infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della
logi ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In
questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri menti in vista della
produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale
deve essere individua ta l'originalità della proposta epicurea. 9.
RETORICA LATINA 9.0 Introduzione L'interesse per la problematica semiotica nel
mondo ro mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac
quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma,
nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano, il paradigma semiotico
abbandona il campo della fi losofia in senso stretto, per installarsi, in
maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza
attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il
modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva
trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più
astratte della filosofia, in quanto sotto partizione della stessa logica.
Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione
pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se miotico,
ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito
politico e giudiziario, dibattito de stinato a essere condotto con gli
strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più
chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a confronto
l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori
ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo
importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei
segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi
analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella
dei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso:
la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono
rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel
caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni
referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica
retorica roma na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori
ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al
contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui
scopo è quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è
l'elo quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del
De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone
circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene
detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma
non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il
"corona mento" della filosofia, dalla quale non può essere
dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica
capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come
mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone
agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si
parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente
bene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,
indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra
che essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di
di scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea
(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo
riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono
essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri
cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti
in forma or nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione
del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca
nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove
che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato.
Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e
si inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo
dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf steis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si cercano dei segni che ne mostrino
la col pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui
i segni devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma
l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo
e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica
giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco,
dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si
gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo
l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico
del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la
verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione
nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può
scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La
retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una
fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo
e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti
pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti,
sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità),
conlatio (confronto), signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno),
consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità
Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può
essere considerata la trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di s�mefon,
per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine
so- 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle
corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui
si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai
astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione
nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di
probabile è connessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in
questione (''Se [l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli
è sem pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare
il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può
cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la
nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il
procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come
"ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole
ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la
nozione greca di s�meion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei
procedimenti indizia ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di
rico struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in
tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo,
sull'occasione, sulla speranza di por tare a esecuzione il fatto, sulla
speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore
interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo
quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con
segni [argumentis] più precisi e con un so spetto più sicuro", II, 8),
gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno
come singolo fe nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non
conoscibile 206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua struttura è
quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo
del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è
stato uc ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue
sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit to, significa
che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene
suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con
temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del
segno; classificazione, questa, che risale al la retorica prearistotelica (si
trova a esempio nella Rhetori ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge
almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili
Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232)
mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio,
dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli
innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a
interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia
caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che
sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle
reazioni fisi che non controllabili, dei segni involontari che possono ve
nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati
d'animo (come il senso di colpa). Questi se gni, per quanto non siano
facilmente dissimulabili, sono pe rò manipolabili a livello di
interpretazione: infatti l'avvoca to difensore può intervenire sulla loro
presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del
pe ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac cusatore
può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato
aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza,
ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno
cenza" (ibidem). probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum -
neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l
argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD
HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può
vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito
retorico-giuridico gioca su vari li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni
della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra
il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva
più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum;
(ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati
dagli ar gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato;
(iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi
sperimentalmente, che si traggono dal comportamen to dell'imputato osservato
in un momento diverso e succes sivo rispetto a quello dell'evento criminoso.
Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia
congetturale effettuata da Cornificio con il se guente schema (Curcio 1900):
- locus - tempus - spatium - consequens Se messa a paragone con
quella della Retorica aristoteli ca, la classificazione di Cornificio appare
filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con
temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae -
signe confidentiae - signa innocentiae 208 9. RETORICA LATINA
cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter na nel suo
seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente
il crimine e culmina nel pro cesso . Cornificio discute anche della forza
argomentativa dei se gni, quando propone di organizzare in una struttura
logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so no dei
segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver
partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal
momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare,
si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi
non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma
anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che
Cornificio non li rifiu ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel
caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an che tutti
gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre scere il sospetto",
ibidem). 9.2 Cicerone Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in
due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento
retorico; (ii) le opere che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in
considerazione il primo di questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse
per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte,
ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che
affrontano una problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la
figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua
posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere
tut to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e
con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non
tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto
campo di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e
affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima
persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi,
il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse
tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e
di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato
tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso non
trova un'adegu�ta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De
inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con densa
l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi
naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera
210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in .
un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se
non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra
una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza
necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non
necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo
necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato diversamente da come
viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con
un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è
luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi
di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione
inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l.
86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini to: "Probabile
è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune
opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero
o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in
evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il
primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos
(verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele
avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio",
"Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In
essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per Aristotele
definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio,
"Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al s�meion aristotelico. 9.2.
1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione
dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no
stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra
il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu rità di Cicerone, nella quale la
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si
sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa mente
latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati 212 9. RETORICA
LATINA argumentatio �� necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi
nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere"
vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma
assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari
pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod
sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum
est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio� � � �--- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva:
"Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete
udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai
segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il
verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli
argomenti intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di
cau sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri
sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e
generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman da alla nozione di fdion s�meion (segno proprio).
Per Ari stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo
genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno
del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno
proprio aveva carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non
può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l,
12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di
fatto), dei quali 214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi:
"un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del
colorito, discor so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della
premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze
visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO
tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i
sensi" (ibidem), caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione
(l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio
(Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano
più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i
verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una
categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le
caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate
goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekm�ria
quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove
ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono
definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente,
caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma
mentre Aristotele condannava i s�mefa da un punto di vista
episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico noscerne
l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40).
Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero niana nelle
Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte
cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il
fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti
non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe
viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali
e altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•)
es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine · 9.2
CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse
proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.:
'"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra
prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche corrisponde la
distinzione tra di vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla
con gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole micamente
rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati
in maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di
verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine
giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di
vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali della sua
epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a fondamento
razionalistico, e contempora neamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato st��so; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén�), non
è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217
Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere
paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti
nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche
gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli
eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono
però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et
notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale"
Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto
indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una
diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno
esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan ti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente
no minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame
naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o
sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente
della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non
addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e
ricevente, secondo lo schema: 218 9. RETORICA LATINA
emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3
Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che
Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione si basano su argomenti
specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega
valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e
cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano veramente tali,
ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei
conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della
divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come
la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino
e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro fessionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div.
, II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte,
tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative,
quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De div., II, 18).
Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta
di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la
stessa con cui i medici ip pocratici tendevano a distinguere la propria
scienza profes sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica
medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della
teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello
ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile
(De div., II, 28). 9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri
gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le
interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.
, Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione
dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato
come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62);
(iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di
rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi
l'interpretazione è motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è
priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di
Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero
aveva fatto si che la re torica divenisse inutilizzabile come mezzo di
agitazione po litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale
l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era divenuta so prattutto materia
teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte
retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e
contemporanea mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo quenza
stava subendo. Nella sua Institutio oratoria (ca. 93-95 d.C.) tratta un
programma completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui la
competenza semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi
che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza
semio tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente
dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica.
Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli
altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è
saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle 220 9. RETORICA LA... INA prove che l'abilità
(ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato.
D'altro canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che
derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al
suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n a rt i
f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta ,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e
s formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un
orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a
inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è
stato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo
campo) (Kennedy 1969). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa,
argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche
vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora
q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto)
argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico
9.3 QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con
uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse re una cosa che
un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non è notte"); (ii)
il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende
sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere
qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno");
(iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q)
("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or. , V,
8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi
come degli antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione, questa, che
Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta
direttamen te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo
stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem pi, tra cui l'ormai
celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più
o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a
cui fa costante riferimento, Quintilia no è orientato verso un'ottica
epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è
soprattutto la possi bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno.
Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte ressato ad
argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità
che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni
necessari e se gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali
dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle
reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo una
gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura
risulti 'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,
Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune
con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le
grida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma gli
vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se e�si
rimandano a un significato inequi- 222 9. RETORICA LATINA vocabile,
scompare la possibilità di argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non
sono delle prove ma necessita no essi stessi di prove (lnst. or., V, 9, l).
Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut to in necessari e
non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono quelli che,
come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or. , V,
9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti,
e vengono messi in corrispondenza con i tekm�ria della tradizione
greca. Si tratta di segni insolubili (alyta s�mefa),
ovvero legati inscindibilmente ai conseguen ti. L'informazione che se ne
ricava è sicura e incontroverti bile . La furia classificatoria, tipica del
mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di
segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo
passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel
presente (''Se soffia un forte vento sul ma re, si formano su di esso le
onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà")
(lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti
po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono
relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la
relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se
respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la
reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove",
"Se ha partori to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al
cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato",
"Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9,
7). Quintilia no sembra sollevare qui il problema della
"conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b,
32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico
segno di un'unica cosa". 9. 3 QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari
223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri spondenza con gli
eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente
accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto
convincen ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce
neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano
ne distingue tre tipi fondamentali, in base al l'intensità del legame che si
stabilisce fra antecedente e con seguente: firmissimum (sicurissimo),
corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i
propri fi gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene
in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re pugnans
(non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se
c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in
casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza
accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos sono essere molto
efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran numero avvalorandosi
a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a
quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei
signa non necessaria (lnst. or., V, 9, 8) Quintiliano parla del signum senza
altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia
con il greco s�meion). Non si capisce bene se esso venga considerato una
categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni necessari e verisimiglianze),
come del resto av veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri
analoghi eik6ta e s�meia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e
proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che
consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue
che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un paral- 224 9.
RETORICA LATINA lelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice
roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della
abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.)
(lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce
come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res
inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di
significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella
precedente categoria (quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati
fatti o proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non
convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è
scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa
sono classificati fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di
sangue su una veste può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una
epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio).
La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria
relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna
ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa non nec�ssaria
verisimiglianze non conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene
in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali
ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o
sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non
necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi
che egli riprende da Ermagora e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica:
"Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er magora ritiene questo,
che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst.
or., V, 9, 12). Quinti liano ha una certa riluttanza a considerare questo e
altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro banti in un
processo: "Ma se accoglieremo questo come se gno, temo che si ritengano
come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia,
egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni"
(ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica
giuridi ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba toria
degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di
segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al
cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen ze che si
traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo pedia registra a
proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di
questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e
contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può
essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta
in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984:
39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori ca antica, già
da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una
distinzione netta tra "cer tezza scientifica" e "certezza
legata ai codici socio-cultura li", ma, dall'altra, utilizzavano
entrambe, caso mai racco mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di
più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle
teorie del segno e del lin guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e
in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella
del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica
bisogna aspettare il Corso di lin guistica generale di Saussure, scritto
quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha
in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica,
come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in
esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra
cui il princi pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra
verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione
agostinia na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco
gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so prattutto medica e
mantica, consideravano propriamente segni (s�meia) solo i segni non
verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una
precedente feri ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella
categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne
militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio
parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò che significa qualche
cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9). 10.
1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano
individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il significante
(semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun que non
coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella singola
espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui
significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un segno di
qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che le parole
[verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere segno ciò
che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io
mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro le", De
Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del
linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non
coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino,
invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1
n triangolo semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con
l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De
dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di
distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice
distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di
significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox
articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio
quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la
res, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o
con l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È
così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. 10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è
traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli
stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare
Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte
dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà
strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra.
Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come
portatrice di un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe
che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta
un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e
nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che
quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo
all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce
decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La
parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere
compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come
"ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d�/Oma, svelamento di qualcosa che
non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel
Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto ��- configura subito come una rela zione di significazione: il nomt
"significa" una cosa (nozio- 230 10. AGOSTINO ne equivalente a
quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino
propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune
modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In
effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto
tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come
una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere
epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente sul
linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c __________________ m_E:! c dove E indica
"espressione", C "contenuto", ::J "implica" e ==
"è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive
avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di
equivalenza. Caso mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è
costituita dali'u nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un
dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello
ii). 10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze
dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza dell'unificazione
agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro
varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti costituisce un
sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei
segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si
ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma na.
Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere
l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua,
come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere
peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di
essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun
que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il
problema della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 :
266 e sgg.). Fintanto ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era
conce pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente
responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce
un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole
sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di
cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione sernio- 232 10. AGOSTINO
tica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso,
senza ulteriori mediazioni, alla conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il
problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione
rispetto alla questione se il linguag gio fornisca o meno , di per se stesso ,
informazioni sulle co se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione Agostino
affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De
Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio
Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) in·
segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo rare), sia propria
sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative e
comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella
informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le
parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza
che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del
dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua
prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme
di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo caso è
quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno 10.5
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di
un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino
conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo
che è necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter
dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa
sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza
chiaramente platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di
marca ugual mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata
maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra,
è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25).
Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci
spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione del
verbo inte riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per
uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove
problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema
dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella
profondità dell'ani mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli
uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10.
AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che
si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte
Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non
appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un
segno quan do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio ne dei
destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una
parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso;
dall'altra esso è determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli
oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a
Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si
trovano qui gli embrioni del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà
nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia
rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia na, che è
individuabile anche nello schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42):
oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore -
esteriore - esteriore pensato proferito sa pere � 10.6
Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n.
2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet to
"teologico", connesso al problema del verbo divino, tut tavia
possiede anche un ben individuato e autonomo aspet to laico, che prende in
considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di
quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si
dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C., l . 2. 3.
4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso:
segni naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni
naturali/segni conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico:
proprio/tra slato secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE
CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie
altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di
classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno : Todorov
lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto
articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra di loro
irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La
classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune categorie
elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei
sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie quando
definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è tra
cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella più
ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus,
Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES"
10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa"
La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che
non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i� legno,
la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente
dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma
non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la
loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la
sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di
suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il segno è una cosa (res) che, al di
là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr.
Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono
quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali, come il
flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla
tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito,
in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti,
hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei
pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare" (Dedoctr.
Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine
vengono presi in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come
l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il
sacramento dell'euca ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la
veste di Cri sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e
"signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente
integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione
che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza
intenzione, né desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre
a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I,
2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni
facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli
definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece
maggiormente interessato ai signa data, in quan to a questa categoria
appartengono anche i segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come
"quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per
mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che
essi sentono e pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono
soprattutto i segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino,
curiosamente, include in questa classe an che i segni emessi dagli animali,
come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato
il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele,
che include i gridi degli animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma
Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i
signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75)
aveva suggerito (e come del resto era sta to proposto dalla traduzione
francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni
intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono
a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr.
Christ. , Il , III, 4). È del resto il carattere intenzionale che permette ad
Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se
egli non si pronuncia sulla natura di que sta intenzionalità animale (Eco
1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea
di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino,
orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati
espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden
za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante
con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose,
corrispondono invece ai s�meia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a
modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia
agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi
lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat tutto nel De
Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che si avvicina
al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha rilevato
anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere
stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi;
attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite
astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende
possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale
del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno.
La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco
(1984: 34 e sgg.), verso un modello "istruzionale" della descrizione
semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce
insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet
urbe relinqui" (De Mag. , II, 3). Esso viene definito come composto di
otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato. l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA
241 L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri me un
significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si
è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso
concetto. Si passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene individuato
come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. � Si
potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano
arrivare a un numero di circa venti tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1
Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay
(1974: tr. it. 220) risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della
rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto
orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi s�mafno e
pros�mafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag
gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio ne
prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con
civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della
vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti
gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3
Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso
del l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4
Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the
oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica tes
it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad
Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio
è totale e simul tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole.
Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo la frammentazione della
parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza
divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone
ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244
a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro
che la sapienza vista dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la
presenza di possibili procedi menti anche di cleromanzia (divinazione
attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi
fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca sualità ed essere
sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av veniva nel caso
dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del
vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il
tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un
gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per
una disamina generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi
basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8
"Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici
designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano
come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium,
l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione
oracolare ci sono note attraverso un cer to numero di iscrizioni epigrafiche,
provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell ( 1 956) e
Fontenrose ( 1 978) . 10 Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla
nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come
vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del
dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine,
l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine
"modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un
unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto
eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo
scambio di prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo"
enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico
elaborata da Eco ( 1 984). Pur troppo non è qui possibile usare direttamente
quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che
qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici
(rapporto stretto tra si gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli
tendenzialmente coesi stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato,
perché ci sarebbe sem brato appropriato definire "simbolico" il modo
di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il
meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio
(Aen. , VI): la sa cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su
delle foglie, se guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia
quelle fo glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un
altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e
difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due
attributi antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia
benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche);
l'arco, quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo
nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente",
ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove
le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli 1 975 :
1 8) . 1 1 Per una nozione complessa e articolata della nozione di
"verità" nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare,
sulla concezione di a/�theia come "sintesi del passato, del presente e del
futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti
filosofico-religiosi, Detienne (1967, tr. it. 99). CAPITOLO 3. 1 D'ora in
avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a
una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato
molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso
che stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati
in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici della
medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente
"pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri sulta
(indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e
probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370
a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V
secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr.
Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6
Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca non
arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci
atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi delle
modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una
distin zione fornaie tra anamn�sis, relativa ai fenomeni
collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente,
e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di
Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it.
499 ss.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso
pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente
", anziché con un si gnificato di "anticipazione". a.C . a
lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo
a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie
acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche
(Leferite nella testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967:
tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la
previsione medica ri calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle
Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare"
(katamante-Usasthal) certi pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne
(1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia
panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi
del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K,
58 B la. Va notato, di sfug gita, che il carattere molto arcaico della
concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto
nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una
comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr.
Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel
cap. 21 del = NOTE 247 trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si
confuta, usando i1 modus tol /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che
colpisce certuni degli Sciti sia do vuta a causa divina, in quanto colpisce i
ricchi (che vanno a cavallo, essen do questa, per l'autore, la causa della
malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore,
colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito
all'indebolimento dei sensi durante il son no di cui parla Platone nel Timeo
(7 1 e) e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il
sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinatione per somnum) . •s Per la
nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975: 295): per "omoma
tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura
espres sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente". 16
Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48);
Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano Thagard (1978); Proni (1981);
Eco (1983); Bonfantini-Proni (1983); Bonfantini (1985); Peirce (1984); Eco
(1984). 19 Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente,
i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi
cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be
nedetto-Lami (1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per
questa nozione, cfr. Conte ( 1 986) . CAPITOLO 4. 1 Cfr. Hjelmslev (1943).
CAPITOLO 5. 1 Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., 1, 1357 a-b. 2 Cfr.
Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist.,Deint.,16a;An.Pr.,11,70a-b.
"' Su questa nozione cfr. Di Cesare (1981 : 161). s Cfr. Eco (1984: 6-7;
1987: 75). 6 Cfr. Heinimann (1945). 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni
(1984); Eco (1987). 8 Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della
doppia articola zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca
contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà
esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22)
c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come sillogismo accorciato.
Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE (Il, 70 a, 24-25),
Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi smo in base al
numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1�ella
Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces
sario" (anankaion), mentre il s�mefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet., I, 1357 b, 4). 1 1 Lo stesso punto di
vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica
(l, 1357 b, 16-18). 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di
segno, Aristote le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra
parte il sillogi smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà
sempre confu tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si
comporta no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se
infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è
pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia
gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 "(Dei segni) quello
necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a
questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi.
Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene
che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di
apportare una prova, che si ritie ne dimostrata e compiuta; nella lingua
antica infatti tékmar ('prova') e pé ras Ccompimento') significavano la stessa
cosa" (Rhet. , l , 1357 b, 4-10). Si deve tuttavia segnalare il fatto che,
se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione tra tekm�rion e
semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei
trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali
tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine,
martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond (1939, ried.
1973, 241, n.). 14 Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An.
Post., II, 98 b, 25-30. CAPITOLO 6. 1 È del resto sulla base delle immagini
prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di
immagini, chegli stoici chiamano ka tal�ptikaì phantasfai, che
viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci
atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose
determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono
il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci
(1965 e 1966); Sandbach (1971 a, e 1971 b); il capitolo "The crite rion
of truth" di Rist (1969). 2 Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. , VII I ,
69-70. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6 Cfr. Diog. La�rt., Vitae, VII, 51; Long
(1971 a: 83). 7 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. La�rt., Vitae, Vll , NOTE
249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae,
VII, 57), gli stoici distinguevano tra il "proferire"
(prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il
"dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare
(s�ma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp., Adv.
Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo propo sito Mates (1953: 11-26). 63. 1° Cfr.
Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle
parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a �uella
di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier (1909:
114-125). 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di
verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo
nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate
sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità,
cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17
Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda,
a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1� Cfr.
Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso
interno" (endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse
materialment� (prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di
distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII,
275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da gli animali
irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in
quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti colati"; cfr.
anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore
dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il,
95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel
che pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22
Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De
Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA
Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155.
28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na:
vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156.
Al di là del carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante
perché, citando "medici" e "fi losofi", fissa i due punti
estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione
di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi
esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio
sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII,
71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 .
34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250;
Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi derazione solo i
primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla
scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv.
Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del
condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione.
Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale
(1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione
cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl,
32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono
messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione
inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276;
287. � Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402);
Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke
(1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo
"est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une
sorte de prophète, un de vin, un exégète, un interprète des signes qu'il
observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp.
Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:
"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,
giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il
testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora
disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33;
Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971
b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è
presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38. � Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, X, 34. 6 Cfr. Epic., Ep. Pyth., 86-87. 7 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 82. 8
Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 9 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 9. 1°
Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 32. 11 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 12 Cfr.
Epic., Ep. Hdt., 46. 13 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo s�meiolJ
(Ep. Hdt. , 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il
sostantivo da esso derivato, s�meilJsis, non direttamente
attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo.
18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. , VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo
capitolo, il criterio della "non incompa tibilità" con i fatti
conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è es�osta
nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si deve
segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in
Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e
recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che
non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe- 252 NOTE
cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley
(1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti
(1960: 66-67). 24 Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo
quanto da Socrate. 2� Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat.,
Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley (1973: 20). CAPITOLO 8. 1 La data di
composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.;
cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco, essendo il testo in parte
corrotto, è frutto della conget tura di T. Gompers; altre congetture sono
state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De
signis; cfr. De Lacy ( 1978: 1 1-I4). 3 Nella prima sezione vengono riportate
le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene
esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione di Zenone
degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene riportata
l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli antagonisti
del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli
errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da
attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand 1883; Deledalle 1984. �
Cfr.Phil.,Designis,coll.VIII,32-IX,3=cap.13).Ilriferimentobi bliografico al
trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il
numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo
corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy (1978). 6 Come è
a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di
Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7
Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1°
Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a
proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità
che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra
riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella stoica ed
epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un
segno che si riferisce all'Og getto che essa denota semplicemente in virtù di
caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che
un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno
che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". =
cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche
il cap. VI del presente lavoro. 13 Cfr. col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col.
III, 4-8=cap. 5. 1� Cfr. col. III, 30-34 = cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI,
7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone,
alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle
coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una
discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini
zione come combinazione di attributi, a esempio "animale",
"mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche
in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr.
col. XVII, 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap.
25. 2A Cfr. coli. XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2� Cfr.
col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr.
col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col. XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione
continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de finizioni vengono
talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè
provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto
Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli genza e
razionalità" (Adv. Math., VII, 269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34
Cfr. 1� Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli.
XIV, 28 - XV, 13=cap. 20. 40 Cfr.coli.XX,32-XXI,3=cap.35. coli. XXXIII, 35 -
XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col
. col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36.
XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito
Cicerone parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia)
contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8). 253
254 NOTE CAPITOLO 10. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo
l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare
che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e
specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno
generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me
"segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: �Quel
che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due
unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è
prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La dictio,
inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
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Entwick- -68 lung, Fues's Verlag, Leipzig (voli. I-III)Augusto Conti.
Keywords: filosofia romana, la semiotica di Cicerone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688364997/in/photolist-2mKwo7R-2mJTejc-2mJPC2N-2mJLMNt-2mJpFSS-2mJq2uE-2mJd7nN-2mJe9QJ-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mHGgw3-2mGT6p1-2mGnP2f-2mEuJp2-G9arP4-F7umuM-FKTBHc-EWwuBz-FPukH3-2mEd2LM-2c1JZ8H-EYAmFu-DsyMMT-XBz4hS-GXpTrQ-G7oMm2-G55xdb-FJVKRC-G3tvCn-FcebeC-FbXzmb-FVhkL3-FrCxMd-FRG5RT-FrCZu5-FrzFUS-FrztMA-EWhoRW-EWfq4E-EWi5VJ-FHy2uy-FKUfQi-FHzDvu-EWsxCx-FPp1Mh-EWhxeC-EWwAY2-FHzevW-EWrRgF-EWtXSn
Grice e Contri – il Napoleone di Hegel –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna).
Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at Rossall! Of
course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di
Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also
interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he
goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino,
too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una
minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze
gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della
realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un
mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina
“storiosofia”. Studia a Verona. Si laureò a Padova. Discepolo fervente di
Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In
alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro
Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a
Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di
allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al
Magistero della Dottrina Cattolica Romana. Contrì definì la posizione della
Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione
“archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente
tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Desiré
Mercier e da Morice De Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le
dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna.
Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze
naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora
presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di
Contri. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista
quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il
confronto con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi
con relazioni a numerosi congressi di cui Contri diede resoconto sulla
rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i
primi Saggi del Contri sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera
definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa
attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il
Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La
Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per
promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di
Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi
hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della
gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del
Contri Dallo storicismo alla storiosofia.
Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Fu
discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la
situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non
teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che
cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il
divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono
molteplici fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger poi
tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di un
che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni. In
questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere: la
realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo Contri, scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di
pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso
acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia
zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una
realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura
del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può
pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e
comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito
dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion
sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il
ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza
via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza
del sufficiente ad esistere, che è Dio." Secondo Peretti la
fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.
L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia
zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente,
come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di
ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva
dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di
Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in altre
università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia i
neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione)
come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta
Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e
sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha
messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che
sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno
svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma
diviene eternamente in sé e per sé. Contri resa evidente questa impostazione,
anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto
metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo
dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre
non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro,
in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed
ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo
gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito,
che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che
l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale
trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la
trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca
relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono
in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo,
superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di
grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano
la sintesi equilibratrice. La storiosofia rappresenta uno sviluppo del
metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché
esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico,
non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia
europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Opere:
“Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia”
(Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il
pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop.
tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La
filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini);
“L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier,
Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane:
riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e
archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il
segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso
del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il
segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel,
Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista
rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico
nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario
dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione
speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità
di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le
concezioni moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e
religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo
tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il
sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”;
noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica
hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri
tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista...». CONDOTTA
POLITICO-MILITARE ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE
NOTI, I QUALI CELEBRANO COTANTO LA SINGOLARITÀ* DI
NAPOLEONE BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù
celebrati dalla Storia dei Secoli. ]N"on è del mio
proposito il qui premet- tere alle azioni di NAPOLEONE le cau- se
che rivoluzionarono la Francia, e i fatti che a danno proprio, o di
altrui operarono i Francesi, poiché questi sono noti a tutti, o se
qualcuno' vi è, che non li sappia, da quelli stessi, che io dirò,
operati da Lui, meglio si rileverà la gran- dezza degli altri
distinguendosi troppo bene riunite in un solo quelle grandi
ia qualità, con le quali si va a riordinare, e regolare
in pace il cittadino, come in guerra a vincere e superare
l'inimico. Nè vi voleva di meno: conobbe BONA- PARTE opportunamente,
che non si ha la pace, se non si fa la guerra, che non può tornare
all'ordine il Francese, se non è vittorioso, subito che la gloria di
aver vinto altrui richiama, per goder dei frut- to, al dovere di
vincere se stesso se non si dipende? Col dipendere dagl'ordini di
BONAPARTE nel campo di battaglia, si volò dal Francese alla vittoria: che
me- raviglia, se all'un fatto autorevole per- ciò riesci agevole
inculcare con altri i doveri di giustizia, nell'osservanza de'
quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò ad unire a quelli di conquista
i frutti preziosi della pace. Troppo è singolare
NAPOLEONE BONAPARTE nella storia dei secoli. Quegli uomini che
arrichirono di beni, che fornirono di gloria la Patria, ed i re-
gni, di cui erano signori, di cui erano Digitized
i5 cittadini, con le loro imprese in guerra, con
i loro consigli in pace, daranno a me tutto quel meglio che ciascuno di
essi possedeva parzialmente, per provarlo riunito in BONAPARTE a
riordinare la Francia, a pacificare V Europa. Non si vuol qui
osservare l'ordine dei fatti, nei quali BONAPARTE si mostrò da
prima grande Capitano, ma presa sib- bene l'epoca del Consolato tanto
glorioso per Lui, e dove Egli si mostrò grande politico, si faranno
servire i fatti nell 9 uno, e nell'altro stato operati all'espres-
sione di quella condotta, la quale prati- cata da Lui solo, celebra
veracemente la sua Singolarità. Dirò pertanto, con tutto che
io non ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo in Roma, il quale più
d'ogni altr'uomo del- le storie antiche può dare a me una qualche
simigliala di NAPOLEONE in Francia, pure i fatti che me lo
descrivo- no per grande, non sono quegli stessi che ora mi
dimostrano grandissimo BONA- PARTE. "4
11 ritorno di Giulio Cesare dal Gover- no della Spagna non è simile
a quello di BONAPARTE dopo V occupazione dell' Egitto; Cesare trovò
la Repubblica Ro- mana divisa in due fazioni, una di Gneo Pompeo, e
l'altra di Marco Crasso. BO- NAPARTE trova la Repubblica Francese
non divisa in fazioni, ma in tanto disor- dine e confusione, che più non
è divisi- bile, poiché l'eccesso dell'anarchia pro- duce la serie
indefinita delle divisioni sempre rinascenti e rovinose; pure non
altri vi fu, se non che Egli, tanto poten- te, che la divise per trarla
dalla sua con- fusione. Giulio Cesare vien pregato da
ognu- no dei due rivali a farsi del suo partito, e Cesare si fa
mediatore di pace. BONAPARTE non pregato va da se a
rimproverare d'ingiustizia, e di oppres- sione i Governanti, e a nome del
Popolo Francese ingiustamente oppresso intima la loro
destituzione. Digitized by Google
iS Giulio Cesare si fa pacificatore di chi voleva la
pace. BONAPARTE assicura la pace a fron- te di coloro che
volevan la guerra. Giulio Cesare dee vincere con la per-
suasione due nemici, che erano nel se- no della Patria a promovere con la
di- visione l'interna discordia. BONAPARTE dee vincere con la
for- za i nemici esterni della Francia, e dee persuadere la Francia
in disordine della necessità di un nuovo ordine di cose per
felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico di mediatore
non per servire, ma per regna- re; perchè coll'esser così fra Crasso
e Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti da Lui; regna chi non
dipende, non di- pende chi giudica, e quello che giudica si fa
arbitro dei due nemici: non voleva Cesare con la sua dipendenza
rendere più forte uno dei rivali, ma voleva col pretesto della sua
mediazione indeboli- re ambidue. Trattò la pace non per unir-
i6 li fra di loro, ma per unirli a se, non per-
chè fossero amici, ma perchè fossero di- sarmati. BONAPARTE
instruito dei disordi- ni della Francia e delle sue perdite, con
eroica risoluzione veste il carattere di guerriero, di 'pacificatore; si
mostrò così al Consiglio dei Cinquecento, dove era maggiore
l'autorità, e dove erano tanti che volevano governare; non si
ritiene da dirli indegni di quest'ufficio, quando per due anni
avevano così male governa- ta la Francia. Il rimprovero di un
simile delitto, la fermezza di chi rimprovera, ed il coraggio,
avvilì e disperse i delin- . quenti, (molto più di Trasibulo che
cac- ciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi* se allora
BONAPARTE al voto del Popò* lo Francese, che lo acclamò Liberatore;
ed assicurato di lealtà, annunziò il Con- solato, e la sua
Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso per opera di
Cesare, tutti due concorse- ro a farlo Console, e in tutto il tempo
Digitized by Google n Consolato il
di Lui Collega non compar- ve mai a palazzo. Si vide
BONAPARTE Primo Conso- le, e gli altri due furono sempre con Lui
nel Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con
usurpazione. Se ha BONAPARTE nel comando la primazia, glie la
concede la costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi
di buon governo fossero attribuiti ad al- cun altro che a Lui: per tal
modo andava avvezzando Roma al governo di un solo, e disponeva gli
animi ad approvare nel Consolato la Monarchia. BONAPARTE
sebbene il primo nel Consolato, ed il maggiore nella autorità; è
però sempre insieme con gli altri a go- vernare; non sprezza l'opera
altrui, non sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tut- ti abbiano
parte al merito della sua bon- tà, della sua aggiustatezza; non vuol cam-
biar governo nei momenti che tanto si opera per stabilirlo; tutto quello
che si i8 fa, si fa per conoscere, 3e il
Francese può essere buon repubblicano: il grido della libertà
democratica non è un voto vale- vole per la esclusione della
monarchia; quantunque siansi veduti i Francesi ele- trizzati andare
incontro alla morte per vendicare la libertà; si deve dar ciò alla
forza di quel barbaro terrore difuso per avvilimento universale con la
op- pressione dell'innocente; sostenuto con la franchigia ed
esaltazione del malva- gio per accrescere il numero dei terrori-
sti; non già ad un maturo consiglio, ad una risoluzione giudiziosa,
unanime, uni- versale, che però il procedere di BONA- PARTE fu
assai prudente per richiamare all'ordine i Francesi in rivoluzione,
e metterli veracemente in libertà, col co- stituire la forma di un
buon governo. Cesare ha finito il Consolato. BONAPARTE
viene dichiarato a Vita Primo Console. Cesare dopo il
Consolato si elesse il Governo delle Gallie dove andò con E-
Digitized '9 sercito, e fece guerra a
molte nazioni. Vide pesare che le fazioni lo potevano fare il primo
della Repubblica, ma non bastavano a farlo padrone, per cui era
necessario un esercito: come armarsi però senza scoprire il suo disegno?
Ecco l'arte di Cesare; si armò per servizio della Re- pubblica, la
servì valorosamente per po- terla signoreggiare, la esaltò per
poterla opprimere: nel regnare l'arte del segreto non è tacere, ma
consiste in rivelare una intenzione verisimile che nasconda la vera,
ma che non sia la principale: la più fina simulazione del mondo consiste
nel sapersi ben servire della verità. BONAPARTE fu fatto
Primo Console non dalle fazioni, ma dal voto libero di una gran
nazione: i meriti della guerra, e quelli maggiori della pace
precedettero la sua perpetuità nel Consolato; non ser- vì alla
Francia per signoreggiarla, non la esaltò per opprimerla, quando con
averla levata da suoi disordini, e fatta amica di tutte le nazioni
5 non cercò di escludere i 20 tanti dall'onore
di questa grand'opera, i quali ora sono con Lui nel governo vi-
gilantissimi per conservarla. Per dare però una maggior
rilevanza al paragone di BONAPARTE con Giulio Cesare, mi farò a
tracciar questi nè suoi principj per condurmi così a provar me-
glio la singolarità dell'altro; e giusta la diversità di tante sue
virtuose azioni, mi farò pure a dir di quelli, i quali nei bei
secoli della Grecia, e di Roma onorarono la loro patria, perchè i più
valorosi nell' arte della guerra, i più sapienti nel go- verno dei
popoli tra coloro tutti, che il precedettero, scorrendo la vita de'
me- desimi, dimostrerò, senza osservare l'or- dine dei tempi,
giacché non è ciò del mio soggetto, riunite in BONAPARTE le grandi
virtù di tutti quelli celebratis- simi nella storia delle nazioni.
CeSare nella sua più fresca età passò la prima volta a militare
sotto Marco Minucio GermOj allora Pretore in Asia., e mandato in
Bitinia all'assedio di Miti- Digitized by Google
21 iene, la sola città che ricusava sottomet-
tersi ai Romani, si distinse tanto nella sua presa, che meritò diverse
corone ci- viche, le quali davansi a chi aveva sal- vata la vita ad
alcun cittadino romano. BONAPARTE che nel principio della
Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi tutto intento a coltivare i
grandi suoi ta- lenti nella scuola militare, e nella vera
filosofia, fu mandato all'assedio di Tolo- ne Ufficiale in una compagnia
d'artiglie- ri,, allora di soli ventitre anni, ed ivi le prove del
suo valore furono tanto lumi- nose e così sollecite, che i
Rappresen- tanti del popolo ivi presenti, non tarda- rono a
promoverlo Generale di Brigata, nel qual posto più d'ogn'altro suo pari
si mostrò esperto nell'arte difficilissima di condur i soldati alla
vittoria; e singo- larmente intrepido si rendette in quei terribili
momenti di assalto, sotto l'im- peto del quale ebbe a tornar Tolone
in potere dei Repubblicani. 22 Giulio
Cesare fu accusato da L. Vezio cavalier romano complice nella
cospira- zione di Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto
ar- restare a Nizza dal Convenzionale Befroi come terrorista. Il
terrore allora era di- retto a dominare sugli uomini per disor-
dinarli, per perderli. La Congiura di Catilina si volgeva a
fare un dominatore di Roma per felici- tarla. Il Valore
mostrato nell'armi da BO- NAPARTE mosse l'invidia di tanti ad
accreditarne l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di
troppa parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego, Statilio capi dei
congiurati. Questi per salvar la vita ebbe bisogno di un Cicero-
ne; fuggì gli occhi di tutti; si rinserrò nella propria casa timoroso
d'incontrare nuovamente il risentimento dei Padri. BONAPARTE
va da se a Parigi per fa- re delle rimostranze al Comitato di salute
pubblica contro una simigliante ingiusti- Digitized
a3 zia, ha cuore di orare la propria causa in
faccia a quel Tribunale istesso eret- to per distruggere gli innocenti; e
non avendo più dove ricorrere per denegata giustizia, chiede il
permesso di ritirarsi a Costantinopoli, perchè soverchiamen- te
delicato, non vuol vivere a fronte di un'accusa troppo ingiusta.
Il patrocinio delle Vestali, l'amor del Popolo tant'altre volte
come in questa capriccioso, perchè mosso dall'ingenita avversione
al volere dei grandi, richiama Giulio Cesare al suo uffizio.
Affidato BONAPARTE al patrocinio più sicuro della sua giustizia,
attende da filosofo il momento propizio alla sua gloria, poiché il
i3. Vendemiatore vide BONAPARTE col comando di un corpo numeroso di
linea tanto ben disposto, e regolato, trarre dall'estremo periglio
la Convenzione, e salvar Parigi dal furore di un nuovo disordine,
che urtando libe- ramente, poteva nelle sue rovine aprire la tomba
a tutti i Cittadini : un'operazio- *4 ne tanto
salutare, li procurò dei potenti amici, li meritò la pubblica
ammirazio- ne, la riconoscenza nazionale; in questo giorno egli
trionfò di tutti i cuori: gli amici lo amavano teneramente, lo
teme- vano grandemente gl'inimici : il suo trion- fo fu molto
dissimile a quello di Mario, di Siila, di Cesare, e di Pompeo;
questi volevano, trionfando, signoreggiare, ed avvilire tutti i
Romani: BONAPARTE riponeva nella grandezza dei Francesi, e nella
maggiore loro felicità il suo trion- fo, la sua gloria era di vincere.,
lasciando alla nazione di trionfare. La prima azione di
questo Giovine Guerriero fu quella di sostenere nella Patria i
diritti delle supreme podestà contro un forte partito dei suoi, il
qual voleva nella morte dei Governanti assi- curare al disordine la
sua dominazione, che è quanto dire, a Lui viene affidata la grande
impresa di frenare, di avvilire gl'inimici interni della Patria, che
sono i più potenti, i più terribili, perchè i più
Digitized by Google a5 % sicuri di unire alla
forza aperta i funesti progressi di una domestica prodizione. Per
tutto questo era mal sicuro dell'istes^ ssl sua vita, perchè Comandante
di tanti altri armati troppo facili a cedere alla se- duzione di
alcuni di quelli, coi quali ol- tre ad aver comune la patria, erano
del medesimo sangue, divisi soltanto di sen- timento per la
formazione di questo, o dell'altro Governo* pure BONAPARTE
superiore ad ogni pericolo, va, come si disse, condotto dal suo genio a
farsi il terrore dei sediziosi, il salvatore dei Go- vernanti:
molto più grande questa im- presa di quella di Petrejo contro
Catili- na, poiché questi comandava all'aperto a piè dell'Alpi i
suoi Armati, dove la co- gnizione del luogo, e la sua ampiezza dava
al Capitano in caso di perdita il piano per una gloriosa ritirata.
Quando per BONAPARTE il campo di battaglia era Parigi; aveva
pertanto comune con gl'inimici gFistessi ostacoli, i medesimi
pericoli, che anzi si facevano maggiori *6 per
Lui; perchè doveva esser sempre nel sospetto, che quella immensa
popo- lazione rivoluzionata, inquieta per l'in- certezza di un
felice destino, potesse fornire ad ogni momento di un maggior
numero di soldati le legioni dei ribelli: con tutto questo le sue disposizioni
fu- rono così giudiziose, il suo coraggio tan- to sorprendente, che
con poco sangue sparso vinse interamente la fazion nemi- ca, e levò
ad essa ogni speranza di risor- gere, per tornare contro di Lui a nuova
pugna. Egli adunque, come Filopemene mandato a guerreggiare contro
gFistessi Greci suoi, non si disse per Lui ventura il trionfar di
loro, ma una soda virtù, mentre quelli, che eguali han tutte le co-
se, non possono che per virtù primeggia- re sugli altri, e distinguersi
più di loro. Se fu capace BON APARTE di trionfa- re
sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non per se, ma per il solo bene dei
vinti, ra- gion voleva, che i Governanti ad una prova tanto
singolare d'amore, sceglies- Digitized a
7 scio Lui Comandante in Capo dell'Ar- mata d'Italia, siccome
gl'interpreti sicuri del voto universale dei Francesi, per aprire
cosi un nuovo campo di gloria ai suo valore, ed assicurare a loro il
bene della vittoria sugl'esterni nemici della Francia.
NAPOLEONE va senza ritardo al luogo, ^ove lo attende la grandezza
de' suoi destini; quivi essendo si mostra a tutti i suoi, come
Marc'Autonio mirabi- lissimo nella idea delle sue imprese, le
concepisce quali dovevano essere nel- la mente di un regnante; e più di
Marc" Antonio l'eseguisce con facilità, mentre questi mancava
di una pronta attività per una felice esecuzione. È dunque BO-
NAPARTE, dove nasce l'Appennino e mancan l'Alpi, fra strette gole ed
inacces- sibili dirupi, in quei luoghi istessi prati- cati altra
volta con bravura da un Fla- minio, da un Postumio celebratissimi
Capitani di Roma; quivi egli è a fronte di un inimico, che si avanza
vittorioso a8 da Voltri per battere Monteligino,
ulti- mo trinceramento repubblicano, di dove poi andar più oltre
con maggior spedi- tezza, perchè minori gli ostacoli del luo- go,
ed arrivare una volta a por piede sul terreno Francese, per risvegliare
così, ed animare il partito nemico delia liber- tà. Con tutto
questo che pareva tanto prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nel- le
concepite disposizioni guerresche, ve- de sicura l'occupazione
dell'Italia; e più oltre andando, non vede tanto incerto
l'approssimarsi alla Capitale dell'Alema- gna: le grandi distanze,
gl'infiniti perico- li, che si frappongono, non lo distraggo- no un
momento dal porsi sulle mosse per dar principio all'opera, e
giungere ad occupare la grandezza del suo fine: i modi sono presti
per vincere; in caso di mancanza, sono pronti gli altri per trarre
dalla sua difesa gli utili di una grande vittoria. Sagace nella
previdenza di tutte le cose, passa con risolutezza dallo stato di
difesa, a quello di offesa; e mentre si Digitized by
Google a 9 occupava rinimico a vincere le
resisten- ze del Capo di Brigata Rampon, BONA- PARTE, seguitato dai
prodi Generali Berthier, e Massena, dirige le truppe dei suo
centro, e della sua sinistra sul fian- co, e alle spalle degli Alemanni.
Questa manovra tanto difficile nel luogo., ed ese- guita sugl'occhi
di un inimico vigilantis- simo, preparò la memorabile vittoria di
Montenotte, e la decise; poiché simile ad Alessandro, e a Pirro nella
prestezza delle disposizioni, nell'impeto, e violen- za del
conflitto, divise il corpo di Beau- lieu dagli Austro-Sardi; e mentre
batteva un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi piombando su di
questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguen-
za di ciò fu l'essersi reso padrone del Cairo, di Dego, e della posizione
impor- tantissima di santa Margherita, per cui trovossi al di là
delle cime dell'Alpi, su i declivi, che guardano la bella Italia.
La impresa non fu strepitosa soltanto per essere stata eseguita nel breve
corso 3o di quattro giorni, ma perchè opera di
un Capitano di soli ventisette anni, come Pompeo nell'Affrica
contro Domizio della Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo
aleato, per cui questi ebbe da Siila, al- lora Dittatore in Roma, il
titolo di Gran- de. BONAPARTE però più grande di Pompeo per aver
superatigli ostacoli del- la natura in un con quelli opposti
dall'ar- te militare la più studiata, la più per- fetta.
A che ricordarsi più con meraviglia del passaggio dell'Alpi fatto
da Anniba- le? sebben'egli partito dal Rodano con la sua armata di
Numidi, e di Spagnuoli per passar le Gole transalpine, e le Alpi*
per nove giorni di cammino fino alle sue vet- te combatter dovesse
ad ogni passo i Gal- li che in imboscata e con prodizione at-
traversavano, estremamente molesti, la sua gita; e negli altri sei giorni
impiegati nella discesa, niuno essendovi più, che il molestasse,
pure le nevi altissime, i ghiacci, e le bufere rendessero tanto più
Digitized by LjOOQIc 3i malagevole,
e pericoloso il suo tragitto: ciò non pertanto più maraviglioso fu
il salire, e il discendere di BONAPARTE, quando in questo si deve
aggiugnere il dover vincere passo passo un inimico, che in un
momento era pronto alla di- fesa, e nell'altro prontissimo
all'Offesa; per cui gli avvenne di essere una qualche volta
respinto; lo che sembrava, e ciò a tutti, una volontaria ritirata,
tant'era presto a riprendere il combattimento con più veemenza, e
risoluzione; come chi, per accrescere il colpo contro le mura
nemiche, par si discosti per levar più alto l'ariete, e la mazza ferrata
a far maggiore la gravità del colpo, e più sol- lecita la sua
distruzione: ed è per questo che il General Augereau forza le Gole
di Millesimo; Menard, e Joubert discac- cian l'inimico da tutte le
posizioni di quei contorni; ma l'inimico è sulle altu- re a
riprenderne delle nuove, e più for- midabili per cui i Francesi in ogni
ora sono chiamati a nuovi disastrosissimi 3* '
conflitti essi vi vanno non un movimen- to pronto, ben regolato e
risoluto, in ogni luogo perciò sormontano il potere dell'inimico.
Dopo fatiche così ecceden- ti,, e sì luminosi vantaggi più non si
teme della vittoria; in fatti quando sugl'albo- ri del sesto dì
della battaglia Beaulieu gli attacca, supera il villaggio del Dego,
respinge il general Massena per tre vol- te assalitore, Victor, e Lannes
per ordine di BONAPARTE piombano sulla sini- stra dell'inimico; ma
l'inimico è più for- te; le truppe repubblicane vacillano per un
istante; indi ritornano all'assalto; raddoppiano il coraggio, e Dego è
nuova- mente in lor potere. Il piano delle ope- razioni dei diversi
corpi d'armata è trop- po concorde perchè il risultato non la- sci
mai d'essere utilissimo al loro avan- zamento: i suoi capi sono sempre
insie- me a combinare su d'un piano troppo attivo e giudizioso,
mosso e regolato dal capo supremo, che lo ideò, che lo com-
pose. Digitized by Google 33
La valle pertanto di Borimela, e quella del Tanaro sono aperte ai
repubblicani; le trincee di Montezimo, e di Ceva sono superate;
passano questi il Tanaro, e ri- nimico è in piena ritirata per la
strada del Mondovì: sul far del giorno i due e- serciti sono a
fronte l'uno dell'altro; co- mincia nel villaggio di Vico la zuffa,
Fio- rella, e Dammartin attaccano con impe- to il ridotto, che
cuopre il centro del ne- mico, questi abbandona il campo, passa la
Stura, e si pone fra Cuneo, e Chera- sco entro un recinto bastionato;
Masse- na si muove contro, e rovescia le gran guardie nemiche. Dopo
questa operazio- ne i Francesi si trovano vicino a Turi- no: il
General Colli propone una sospen- sion d'armi; BONAPARTE vi
acconsen- te con la condizione, che vengano a lui rimesse Cuneo, e
Tortona; il Re non sa non approvarlo, e BONAPARTE con ciò dà alla
sua armata in Italia una situazio- ne sicura ed imponente, e vede
aperta senz'altri ostacoli la sua libera comu- 3
34 nicazione con la Francia. Ogni giorno
pertanto crescono gli armati,, BONAPAR- TE gl'impiega al passo del Pò
nella gran- de battaglia di Lodi; con marce, e con- tromarce cuopre
air inimico i veri suoi movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il
Ticino per dirigere la sua marcia sopra Milano, mentre Beaulieu
ingannato, si affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e la Sesia.
Il resultato di queste felici ope- razioni non aveva in se tutto, che si
vo- leva, per andare senz'altro intoppo dritto dritto alla capitale
della Lombardia. Fu- rono eccellenti le disposizioni del Gene- rale
inimico per apporne dei nuovi; que- sti ritardarono la marcia, non
l'impe- dirono', Beaulieu col suo corpo d'armata dall'opposta parte
dell'Adda guarda con numerosa artiglieria l'estremità del pon- te
di Lodi, che lo cavalca per l'estensio- ne di cento tese; non volle
tagliare il ponte, lusingandosi cosi di meglio diri- gere il fuoco
alla distruzione di tanti ne- mici insieme strettamente riuniti al
suo Digitized by 35
passaggio. Il soldato francese, sotto un tanto Duce, conosce il
grande pericolo, ma troppo è animato a superarlo; vede che il passo
del ponte è angusto e mici- diale, ma ad impadronirsene ve li spro-
na l'onore, e gl'interessi della patria: la morte di alcuni aprirà il
varco a molti, si muoja, dicevan essi, purché si vinca. Quanti mai
sono che vogliono essere i primi, contenti di assicurare ai
supersti- ti col loro sangue gli utili d'una gran- de vittoria: il
secondo hattaglione de'ca- rahinieri precede l'armata francese ser-
rata in colonna: i prodi si presentano sul ponte, il fuoco dell'inimico è
tanto ter- ribile e continuato, che la testa della co- lonna stette
in forse per alcuni momen- ti a fronte di un sì alto pericolo, e se
un solo istante di più s'indugiava, tutto era perduto:Berthier,
Massena, Cervoni, Du- prat si precipitarono alla testa delle trup-
pe, e fissarono la fortuna ancor vacillan- te: l'inimico nell'istante è
rovesciato, l'Adda è aperta alla cavalleria, la vitto- ria è
definitivamente decisa. 36 Più di Cesare
glorioso BONAPARTE poiché quello sostenne il ponte sul Aisne contro
Galba, che con le sue forze nu- merosissime tentava superarlo;
quando l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro gli Alemanni,
che lo guardavano tanto for- ti: Noyon atterrita apre le porte a
Cesa- re. Milano festeggiante incontra BONA- PARTE; in quello Noyon
teme il suo ti- ranno; in questo Milano ama il suo bene- fattore:
Cesare vinceva per far schiavi i vinti: BONAPARTE trionfa per farli
li- beri. Dalle divisate azioni guerresche chi non vede
riunito in BONAPARTE il co- va ^gio, l'operativa prontezza di
Marcel- la; ìa circospezione, ed il provedimento Fabio Massimo?
Conobbe troppo be- > bON APARTE la importanza delle <e
imprese; e potè dire molto avanti to quello, che solo aveva pensato
di . Si valse opportunamente dei suoi .ta^i con non lasciarsi alle
spalle al- trui inimico: vinto uno dalle sue armi,
• uigiiizeo uy Google
3? gli altri maravigliati, ed atterriti dalle sue
vittorie fecero delle proposizioni di pace, che furono accordate con i
vantag- gi dovuti al vincitore; i quali però non portavano il vinto
ad un odioso avvili- mento. Riunì BONAPARTE in queste
opera- zioni la esecuzione dei pensieri di Mar- cello in Siracusa;
di Fabio Massimo nel- la capitale de' Tarentini, popolazioni da
loro debellate. Marcello per trattato leva molti bel- 1
issimi simulacri, perchè servissero di ornamento alla sua patria; la
quale siuo allora non aveva, ne avuti, nè veduti ab- bigliamenti
cosi gentili ed isquisiti. Fa- bio Massimo trasse fuori denari e
ric- chezze, lasciando ai Tarentini i loro nu- mi sdegnati che eran
di marmo. Marcello fu applaudito dal popolo e condannato dagli
uomini di probità. Fabio Massimo fu celebrato da questi, e non curato
dagli altri. Siro Contri, «Il regime fascista» Siro Contri. Contri.
Keywords: il Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica
vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere
e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici,
paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di
Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla
storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di
Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come
metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma
di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51771134010/in/dateposted-public/
Grice e Corbellini – darwinismo
politizzato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cadeo, Cardeo).
Filosofo. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus
what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il
paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano
la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna
Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di
studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia
evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi
anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia,
delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e
l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una
sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e
delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle
spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso
l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non
confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo
morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una
guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche
un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella
costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del
metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato
e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come
catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e
morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico. Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza.
Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie?
Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del
cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,;
Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano,
Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché
gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità
negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino,
Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari,
Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute
e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia
e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero
immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; 1. Dall’etica medica alla bioetica; 2. Il
senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e
consenso informato; 4. Scelte di fine vita; 5. Scelte di inizio vita; 6.
Medicina genetica; 7. Sperimentazione animale; 8. Medicina dei trapianti e
definizione di morte; 9. Etica della ricerca responsabile; 10. Medicina
rigenerativa e staminali; 11. Neuroetica; 12. Etica ambientale e OGM; 13. Etica
della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»;
Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota Gilberto
Corbellini nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo
di applicare l’approccio evoluzionistico alla (filosofia) politica spesso
rischia di venire frainteso. Il frain- tendimento più comune e pericoloso deriva
dalla mancata distinzione tra il “darwinismo politicizzato” e la “politica
darwiniana”: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del
socialdarwinismo di fine Ottocento, dall’«interpretazio- ne strumentale e priva
di coerenza logica o di basi scientifi- che delle idee darwiniane per difendere
qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso
delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le
origini delle preferenze politiche in- dividuali, la loro distribuzione sociale
e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale».58 Ridley
si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana
in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impe- disce di avanzare alcuni
suggerimenti di politica economica 54. Cfr. Skyrms, The Evolution of Social
Contract, pp. 108-109 e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali
e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto,
consenso, pp. 8-9). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli
ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e,
talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura
umana. Per esempio, Ridley (p. 322) osserva che «Karl Marx vagheggiava un
sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è
fallito perché siamo invece degli animali». 55. Peter Singer, Una sinistra
dawiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Torino, Edizioni di Comunità,
2000 (1999). 56. Larry Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint
Academic, 2005. 57. Rubin, La politica secondo Darwin. 58. Gilberto Corbellini,
“Politica darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La
politica secondo Darwin, p. 9. 31 Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini
della virtù – si vedano soprattutto gli ultimi tre capitoli del libro – che gli
sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappro- priato chiamare “anarco-liberalismo”.59 Tale
prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negli istinti coopera-
tivi e altruistici degli esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine
politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico
è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che
immaginava un mondo di liberi individui. [...] Non sono così ingenuo da pensare
che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo
non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato
che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una
gigantesca pulce alla schiena della nazione.60 D’altra parte, Ridley si rende
conto che, mentre le solu- zioni politico-economiche da lui favorite si
accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con al- tre.
Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella
società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le
tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto
dell’accumulazione di ricchezza.61 L’analisi dei conflitti tra le moderne
istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli
argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di
Pani e Corbellini Di Valeria Covato | 06/06/2016 - Mailing Le “Imperfezioni
umane” di Pani e Corbellini Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico,
di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e
suggerire qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze
evolutive, la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo
del libro dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive:
malattie e salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e
Gilberto Corbellini, che sarà presentato domani, martedì 7 giugno, alle ore
16.30 a Roma presso il Centro studi americani (Via Caetani, 32). CHI CI
SARÀ Dopo i saluti di Paolo Messa, direttore Centro studi americani,
interverranno alla presentazione moderata da Micaela Palmieri (Tg1) monsignor
Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Alberto Mingardi, direttore generale
Istituto Bruno Leoni, Benedetto Ippolito, professore di storia della Filosofia
presso l’università Roma tre. IL VOLUME “Negli ultimi vent’anni una
nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico sanitario, definita
nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza evoluzionistica) –
raccontano gli autori -. Questa teoria assume, in pratica, che l’ambiente nel
quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi sia
drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o
tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per
selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze?
“Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”. “Il
libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con
un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei
meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva –
in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono
di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque
comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di
risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si
manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al
comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza
evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gli ultimi due capitoli affrontano una
serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono
da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto
dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati
dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. QUALI DISSONANZE Nel dettaglio gli autori
descrivono le dissonanze create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda
cicli del sonno, accesso al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento
sociale, oppure di comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o
l’altruismo; ma anche le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi
capitoli del volume emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive
e innovazioni che hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili
cambiamenti comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica
che sussista nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale,
la capacità di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative
disponibili, senza essere condizionati da fattori fisici o biologici di
qualunque genere. Si assume, in altri termini, che le persone maturino una
cosiddetta “agenticità”, cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di
consapevolezza degli effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla
base dei processi neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi
fisiche che li governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti
modi e da diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica,
etc. Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato
strutture cerebrali che ci fanno appunto “credere” di essere liberi e poter
decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il
nostro straordinario successo di animali sociali Negli ultimi decenni le
neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio,
con una quantità crescente di prove, la visione classica di “libero arbitrio”,
aprendo un dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il “libero
arbitrio”, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della
specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto “credere” di
essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione
abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il
libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.
L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di
autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel
tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno,
cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne
derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base
di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da
specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa
illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto
progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri
ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi
neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento
consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di ritenersi liberi è
una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per
inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?
Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del
cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che
controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che
alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con
le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione
di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio
in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone;
ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o
diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza
ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche
livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla
base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono
far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe
spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi
decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash.com Parliamo
del legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto
dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili
determinanti genetiche del comportamento aggressivo?
L’aggressività, come la cooperazione, è stata un fattore chiave per la
sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie. Come tutti i tratti,
l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono persone geneticamente più
predispostedi altre all’aggressività. È verosimile che la selezione
sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni della cooperazione in
alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo socio-culturale che
nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul pianeta, e
soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato lo stato di
diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta contro la
criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai stata così
poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale,
rispetto a oggi. Steven Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto libro, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente aggressive
anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza maschile
sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle differenze
individuali nel controllo degli impulsi… Non ci sono moltissimi
dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello
quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata,
ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del
ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è
stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta
uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel
ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la
scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene
una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta
uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi.
Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo post-scelta.
Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi lasci citare ancora
Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in
virtù della necessità della sua natura». La vera libertà, è autonomia e
indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è tanto più liberi
e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del nostro cervello,
altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono autonomo e meno
soggetto o costrizioni esterne. Credits to Unsplash.com Quali sono
le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e dei fattori ambientali
sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione penale)? Può
condividere con noi qualche caso di studio? Casi di studio ce ne sono
diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli effetti delle
varianti alleliche del gene della monoaminossidasi A (MAOA), detto anche “gene
del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi osservazionali
mirate. In sostanza le persone con la variante che produce meno MAOA rispondono
in modi più aggressivi e violenti, rispetto a chi esprime livelli più
alti. Il fatto interessante è che se queste persone predisposte
all’aggressività sono state allevate in ambienti accoglienti, esprimono un’aggressività
minore rispetto a omologhi genetici cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati
sperimentali in ambito psicologico e di economia comportamentale dimostrano che
le aggressioni hanno luogo con maggiore intensità e frequenza, quando provocate
in un contesto sperimentale, soprattutto in soggetti con una bassa attività di
MAOA (MAOA-L). Gli studi sperimentali mostrano anche che il MAOA è meno
associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa
provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in
una situazione molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura
sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali
dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non
provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si
conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano
la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in
quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali.
La memoria del testimone: in particolare, come si accerta
l’attendibilità della testimonianza e quali sono i principali metodi di
verifica? Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto,
testimonianze, ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la
memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer.
Siamo suscettibili a false memorie. Gli stati emotivi influenzano la
qualità della memoria. La nostra storia personale influenza il modo in cui
ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti studiano soprattutto il problema della
testimonianza oculare, perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si
rivelano sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti
a ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false
memorie. Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi.
Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a
tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla
mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se
ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector,
macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un
problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare
impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non
tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un
testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che
quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine
e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e
tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito
consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici
e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente
funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere,
un fondamento biologico? La morale ha un fondamento biologico. La morale
serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse
sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo
incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori
morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e
trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili
intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto
potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità
e di applicazione della pena? Su questo punto la penso come chi ha detto
che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, “cambia tutto e non cambia
niente”[1]. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello
intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale)
sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali.
Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della
concezione della pena, più vicino al diritto positivo. Il concetto
di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico
del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi
teorico-fattuali In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le
evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale?
L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso di prove
neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste 2009 e
Como 2011, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel
comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di
pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi
contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie
acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con
buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che
entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.
Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso
delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora
chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle
prove nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire
cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto
le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e
dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi
anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre
al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. [1] Il
riferimento è al noto scritto di J. Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience
changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci, 359,
2004, pp. 1775 ss. Wikipedia Ricerca Storia del pensiero evoluzionista
aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua Segui Modifica Evoluzione
CollapsedtreeLabels-simplified.svg Meccanismi e processi Adattamento Deriva
genetica Equilibri punteggiati Flusso genico Mutazione Radiazione adattativa
Selezione artificiale Selezione ecologica Selezione naturale Selezione sessuale
Speciazione Storia dell'evoluzionismo Storia del pensiero evoluzionista
Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle specie Neodarwinismo Saltazionismo
Antievoluzionismo Campi della Biologia evolutiva Biologia evolutiva dello
sviluppo Cladistica Evoluzione della vita Evoluzione molecolare Evoluzione
degli insetti Evoluzione dei vertebrati Evoluzione dei dinosauri Evoluzione
degli uccelli Evoluzione dei mammiferi Evoluzione dei cetacei Evoluzione
dei primati Evoluzione umana Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica
ecologica Medicina evoluzionistica Genomica della conservazione Portale
Biologia · V · D · M La prima traccia dell'idea di un'evoluzione
biologicadegli esseri viventi è la teoria sull'origine della
vitaattribuita[1][2] ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero origine
nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti sulla
terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale fu
anche l'origine dell'uomo.[3] Con l'avvento del Cristianesimo, e fino
almeno all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto
filosofico essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità
stessa della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre,
l'evoluzione non si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un
sistema di riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in
quanto create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche
concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento
a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si
trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa.
Nel XVIII secolo la storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad
investigare e catalogare le meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte
effettuate dimostrarono l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria
del catastrofismo di Georges Cuvier, secondo cui gli animali e le piante
venivano periodicamente annientati a causa di catastrofi naturali per poi
essere rimpiazzate da nuove specie create dal nulla. In contrapposizione ad
essa, la teoria dell'Uniformitarismo di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale
sviluppo della Terra, il cui aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a
un lento processo perpetuatosi attraverso gli eoni. Dal 1796, Erasmus
Darwin, nonno di Charles, avanzò delle ipotesi sulla discendenza comune
affermando che gli organismi acquisivano "nuove parti" in risposta a
degli stimoli e che questi cambiamenti venivano trasmessi alla loro
discendenza; nel 1802 suggerì la selezione naturale. Nel 1809, Jean-Baptiste
Lamarcksviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei caratteri acquisiti"),
la quale ipotizzava che tratti "necessari" venissero ereditati col
passaggio da una generazione alla successiva. Queste teorie di trasmutazione
furono sostenute in Gran Bretagna dai Radicali come Robert Edmond Grant. In
questo periodo l'opera di Thomas Malthus, Saggio sul principio della
popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando come l'incremento della
popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle risorse
disponibili. Varie teorie furono proposte per riconciliare la Creazione biologica
con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di Charles
Lyellsecondo cui ogni specie aveva un suo "centro di creazione" ed
era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento portava
inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio avesse
creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione delle
specie e Richard Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente
avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft) che,
dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli individui e
delle specie. Antichità Modifica
GreciModifica Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano,
potesse discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi
greci Presocratici. Anassimandro di Mileto (610 - 546 a.C.) suppose che i primi
animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e
che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua,
e aver passato solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che
il primo umano della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un
altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di
accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle (490 - 430 a.C.); intuì che
quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il
mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù
delle cose mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante
erano simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna
delle quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi
di nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le
creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo
corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui
Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano
che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un
progetto divino. Epicuro (341-270 a.C.) ha anticipato l'idea della
selezione naturale. Il filosofo romano e atomistaLucrezio (99 -55 a.C.) espone
queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel
sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state generate
spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali siano
sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver
anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra
che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie,
piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione
delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.
CinesiModifica Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou (369 -286 a.C.), un
filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come le specie biologiche si
siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la
fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie
abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad ambienti differenti.[4] Il
Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di
"trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura
in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.[5]
RomaniModifica Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore
spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive
lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana
attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al
coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le
speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo
il Rinascimento.[6] Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni
di filosofi romani della scuola stoica come Cicerone, Seneca (4 a.C. - 65
d.C.), e Plinio il Vecchio (23 -79 d.C.) che avevano una visione fortemente
teleologica del mondo naturale che ha influenzato la teologia cristiana.[7]
Cicerone riporta che la visione peripatetica e stoica delle natura riguarda
fondamentalmente il produrre vita "capace di sopravvivere nel migliore dei
modi", cosa data per scontata tra l'élite ellenistica.[8] Agostino
d'IpponaModifica Sant'Agostino d'Ippona in un dipinto di Filippino Lippi
In linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo,
Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della
Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad
litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato
che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita.[9] Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità".[10]
L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate
"lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe
Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa
Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di
evoluzione.[11][12] Henry Fairfield Osborn scrisse in From the Greeks to
Darwin (1894): "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una
dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima
di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX
secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta…
Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava
essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di
causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da
Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci
pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del
nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione."[13] In
Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità (A History
of the Warfare of Science with Theology in Christendom, 1896), dove Andrew
Dickson White scrisse sui tentativi di Agostino di preservare l'antico
approccio evolutivo alla creazione: "Per secoli una dottrina
largamente accettata era che l'acqua, la sporcizia, e le carogne avevano
ricevuto il potere dal Creatore per generare vermi, insetti, e una moltitudine
di piccoli animali; e questa dottrina era stata accolta con particolare favore
da Sant'Agostino e molti dei padri fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente
dal creare, Adamo dal nominare, e Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli
specie disprezzate."[14] In De Genesi contra Manichæos, Agostino
dice: "Supporre che Dio creò l'uomo dalla polvere con le mani è molto
infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani né soffiò su di lui con la gola e
le labbra…" Agostino suggerisce in altri lavori la sua teoria dello
sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione della vecchia teoria
dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto piccoli non possono
essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono essere stati originati
in seguito dalla putrefazione della materia." Per quanto riguarda
l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), Andrew White ha scritto
che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la creazione di
esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio è l'autore
ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene che alcune
sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di piante e
animali."[14] MedioevoModifica Una pagina del Kitāb al-Hayawān
(libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per
l'esistenzaModifica Anche se le idee evolutive di greci e romani si estinsero
in Europa dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate
dai filosofi e scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, dall'VIII al
XIII secolo, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della storia naturale,
quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal minerale al
vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale all'uomo."[15] Nel
mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli
animali nel IX secolo, dove descrive la catena alimentare.[16] Nel 1377,
Ibn Khaldun scrisse il Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono
sviluppati dal "mondo delle scimmie", in un processo attraverso il
quale "le specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri,
secondo alcuni commentatori, anticipano la teoria biologica
dell'evoluzione.[17] Nel primo capitolo si legge: "Il mondo con tutte le
cose in esso create ha un certo ordine e la sua solida costruzione mostra nessi
tra cause ed effetti, combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre,
trasformazioni di alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo
senza fine. "[18] Filosofia cristiana e la grande catena
dell'essereModifica Tommaso d'Aquino in un dipinto di Carlo Crivelli
Durante il Medioevo, la cultura classica greca decadde in Occidente. Tuttavia,
il contatto con il mondo islamico, dove i manoscritti greci erano stati conservati
e ampliati, ben presto portò a un'ondata massiccia di traduzioni latine nel XII
secolo, che re-introdussero in Europa le opere greche, nonché quelle del
pensiero islamico. La maggior parte dei teologi cristiani credeva che il
mondo fosse progettato secondo una gerarchia immutabile, la grande catena
dell'essere o scala naturae, che influenzò il pensiero della civiltà
occidentale per secoli.[19] Altri teologi erano più aperti alla
possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali.
Tommaso d'Aquino si spinse oltre il pensiero di Agostino d'Ippona nel sostenere
che i testi sacri come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo
letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali
avevano imparato sul funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo
scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della
natura fosse un segno della bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra
il concetto di un universo divinamente creato, e l'idea che l'universo si
potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi naturali.[20] Tuttavia,
Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che sostenevano che l'universo
avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo di fondo.[21] Rinascimento
e IlluminismoModifica Comparazione di uno scheletro umano con uno
scheletro di uccello ad opera di Pierre Belon Nella prima metà del XVII secolo,
la filosofia meccanica di René Descartes incoraggiò l'uso della metafora
dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la
rivoluzione scientifica. Tra il 1650 e il 1800, alcuni naturalisti, come Benoît
de Maillet, produssero teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la
vita, si erano sviluppati meccanicamente, senza una guida divina. Nel 1751,
Pierre Louis Maupertuis virò verso un'idea più materialista, scrivendo che le
modifiche naturali si verificano durante la riproduzione e si accumulano nel
corso di molte generazioni, producendo razze e specie nuove; una descrizione che
ha anticipato il concetto di selezione naturale.[22] La parola evoluzione
(dal latino evolutio, "srotolare, svolgere") è stata inizialmente
utilizzata in riferimento allo sviluppo embrionale; il suo primo impiego in
relazione allo sviluppo della specie è venuto nel 1762, quando Charles Bonnet
la ha utilizzata per il suo concetto di "pre-formazione", in cui le
donne portavano una forma in miniatura di tutte le generazioni future. Il
termine ha poi guadagnato gradualmente il significato più generale di crescita
o sviluppo progressivo.[23] Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo
francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno dei più importanti
naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in realtà solo delle
varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a fattori ambientali,
di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri, leopardi e
gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha inoltre
ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel periodo
potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee evolutive
del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle forme originali
fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse stata modellata da "muffe
interne" che limitavano la quantità di cambiamenti possibili. Le opere di
Buffon, Histoire Naturelle (1749-1789) e Époques de la nature (1778),
contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra; la sua
messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente
influente.[24] Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le
cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie
sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove
forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al
caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria
della selezione naturale.[22] Tra il 1767 e il 1792, James Burnett, Lord di
Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era disceso
dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature avevano
trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi intervalli di
tempo.[25] Il nonno di Charles Darwin, Erasmus Darwin, pubblicò Zoonomia
(1794-1796), dove suggerì che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti
da un filamento vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura (1803),
Erasmus ha descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi
nel fango fino a giungere alla biodiversità moderna.[27] La nascita della
teoria di DarwinModifica All'Università di Edimburgo, durante gli studi,
Charles Darwin fu coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria
evoluzionistica di Robert Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e
Lamarck. In seguito, all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo
convinsero ad accettare le considerazioni di William Paley sul
"disegno" di un Creatore, mentre il suo interesse nella storia
naturale aumentò grazie al botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam
Sedgwick, entrambi fermamente credenti in una creazione divina e nell'antico
uniformismo della terra. Durante il viaggio del Beagle, Darwin si convinse
della fondatezza dell'attualismo di Lyell e cercò di conciliare le varie teorie
creazionistiche con le prove che riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard
Owen dimostrò che i fossili che Darwin aveva trovato, appartenevano a specie
estinte mostranti relazioni con delle specie viventi in alcune località. John
Gould rivelò con sorpresa che gli uccelli completamente diversi ritrovati nelle
Isole Galápagos erano, in realtà, 13 specie diverse di fringuelli (conosciuti
ora, volgarmente in tutto il mondo, come i Fringuelli di Darwin).
Schizzo di un albero filogeneticodisegnato da Darwin negli appunti preparatori
del suo First Notebook on Transmutation of Species(1837) Dagli inizi del 1837
Darwin meditò sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si occupò
inoltre della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando William
Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sir John Sebright, il quale
commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso
l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori
effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la
prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo
impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso"
e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare
che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto
della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Nel tardo settembre del 1838 Darwin cominciò a leggere la sesta
edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale
ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana,
riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza.
In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie
animali. Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di
Natura, considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal
dicembre 1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione
artificiale e la Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento,
le varianti da eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture
acquisite fosse pienamente pratica e perfetta. L'origine delle
specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
L'origine delle specie. La sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neodarwinismo. NoteModifica ^
"Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate
sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in questi
concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà.
Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che
potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) ^ "[Anassimandro]
dice pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie."
(Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, pag. 31 ^
Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement
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Johnson, 1794–1796. ^ Erasmus Darwin, Tempio della Natura , ossia L'origine
della Società: Un poema con note filosofiche, Londra, Joseph Johnson, 1803.
Voci correlateModifica Evoluzione Creazionismo Dibattito fra creazionismo ed
evoluzionismo Altri progettiModifica Collegamenti esterniModifica ( EN )
Storia del pensiero evoluzionista, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
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divulgazione scentifica di Charles Darwin Darwinismo teoria
dell'evoluzione proposta da Charles Darwin Evoluzionismo teista
dottrina Wikipedia Il contenuto In the few years of the
pre- Christian period that remained the teaching of Em- pedocles,
and of Epicurus as the mouthpiece of the y atomic theory, was revived by
Lucretius in his De 24 PIONEERS OF EVOLUTION'.
Rerum Natura. Of that remarkable man but little, is recorded, and
the record is untrustworthy. He was probably born 99 b. c, and died — ^by
his own hand, Jerome says, but of this there is no proof — ^in his
forty-fourth year. It is difficult, taking up his wonderful poem, to
resist the temptation to make copious extracts from it, since, even
through the vehicle of Mr. Munro's exquisite translation, it is
probably little known to the general reader in these evil days of
snippety literature. But the temptation must be resisted, save in
moderate degree. With the dignity which his high mission
inspires, Lucretius appeals to us in the threefold character of
teacher, reformer, and poet. " First, by reason of the greatness of
my argument, and because I set the mind free from the close-drawn bonds
of supersti- tion; and next because, on so dark a theme, I com-
pose such lucid verse, touching every point with the grace of
poesy." As a teacher he expounds the doc- trines of Epicurus concerning
life and nature; as a reformer he attacks superstition; as a poet he
in- forms both the atomic philosophy and its moral ap- plication
with harmonious and beautiful verse swayed • by a fervour that is akin to
religious emotion. Discussing at the outset various theories of
ori- gins, and dismissing these, notably that which asserts that
things came from nothing — " for if so, any kind might be born of
anything, nothing would require seed," Lucretius proceeds to expound
the teaching of Leucippus and other atomists as to the constitu-
FROM THALES TO LUCRETIUS. 25 tion of things by
particles of matter ruled in their movements by unvarying laws. This
theory he works all round, explaining the processes by which the
atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of things, the
variety of which is due to variety of form of the atoms and to
differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the
outward aspect and harmonious plan of Nature." Lucretius
explains that the soul, which he places in the centre of the breast, is
also formed of very minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer
essence, the pro- portions of which determine the character of both
men and animals. It dies with the body, in support of which statement
Lucretius advances seventeen arguments, so determined is^ he to "
deliver those who through fear of death are all their lifetime sub-
ject to bondage." These themes fill the first three books. In
the fourth he grapples with the mental problems of sensation and
conception, and explains the origin of 3 26 PIONEERS
OF JSVOLUTION. belief in immortality as due to ghosts and
appari- tions which appear in dreams. " When sleep has
prostrated the body, for no other reason does the mind's intelligence
wake, except because the very same images provoke our minds which provoke
them when we are awake, and to such a degree that we seem without a
doubt to perceive him whom life has left, and death and earth gotten hold
of. This Na- ture constrains to come to pass because all the senses
of the body are then hampered and at rest through- out the limbs, and
cannot refute the unreal by real things." In the fifth
book Lucretius deals with origins — of the sun, the moon, the earth
(which he held to be flat, denying the existence of the antipodes); of
life and its development; and of civilization. In all this he
excludes design, explaining everything as pro- duced and maintained by
natural agents, "the masses, suddenly brought together, became the rudiments
of earth, sea, and heaven, and the race of living things." He
believed in the successive appearance of plants and animals, but in their
arising separately and di- rectly out of the earth, " under the
influence of rain and the heat of the sun," thus repeating the
old speculations of the emergence of life from slime, "
wherefore the earth with good title has gotten and keeps the name of
mother." He did not adopt Em- pedocles's theory of the " four
roots of all things," and he will have none of the monsters — ^the
hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of
FROM THALES TO LUCRETIUS. 27
the scheme of that philosopher. These, he says, ** have never
existed," thus showing himself far in advance of ages when unicorns,
dragons, and such- like fabled beasts were seriously believed to
exist. In one respect, more discerning than Aristotle, he accepts
the doctrine of the survival of the fittest as taught by the sage of
Agrigentum. For he argues that since upon " the increase of some
Nature set a ban, so that they could not reach the coveted flower
of age, nor find food, nor be united in marriage," ..." many
races of living things have died out, and been unable to beget and continue
their breed." Lucretius speaks of Empedocles in terms scarcely
less exaggerated than those which he applied to Epi- curus. The latter is
" a god " who first found out that plan of life which is now
termed wisdom, and who by tried skill rescued life from such great
bil- lows and such thick darkness and moored it in so perfect a
calm and in so brilliant a light, ... he cleared men's breasts with
truth-telling precepts, and fixed a limit to lust and fear, and explained
what was the chief good which we all strive to reach." As to
Empedocles, " that great country (Sicily) seems to have held within
it nothing more glorious than this man, nothing more holy, marvellous,
and dear. The verses, too, of this godlike genius cry with a loud
voice, and make known his great discoveries, so that he seems scarcely
bom of a mortal stock." Continuing his speculations on the
development of living things, Lucretius strikes out in bolder and
l.^ 28 PIONEERS OF EVOLUTION. original
vein. The past history of man, he says, lies in no heroic or golden age,
but in one of struggle out of savagery. Only when " children, by
their coaxing ways, easily broke down the proud temper of their
fathers," did there arise the family ties out of which the wider
social bond has grown, and soft- ening and civilizing agencies begin
their fair offices. In his battle for food and shelter, " man's
first arms were hands, nails and teeth and stones and boughs broken
off from the forests, and flame and fire, as soon as they had become
known. Afterward the force of iron and copper was discovered, and the
use >^. ' of copper was known before that of iron, as its nature
• is easier to work, and it is found in greater quantity. With copper
they would labour the soil of the earth and stir up the billows of war. .
. . Then by slow steps the sword of iron gained ground and the make
of the copper sickle became a byword, and with iron they began to plough
through the earth's [soil, and the struggles of wavering man were
rendered equal." As to language, " Nature impelled them to
utter the various sounds of the tongue, and use struck out the
names of things." Thus does Lucretius point the road along which
physical and mental evolution have since travelled, and make the whole story
subordi- nate to the high purpose of his poem in deliverance of the
beings whose career he thus traces from super- stition. Man " seeing
the system of heaven and the different seasons of the years could not
find out by what causes this was done, and sought refuge in
FROM THALES TO LUCRETIUS. 29
handing over all things to the gods and supposing all things to be
guided by their nod." Then, in the sixth and last book, the
completion of which would seem to have been arrested by his death,
Lucretius explains the " law of winds and storms," of
earth- quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly
lay to the charge of the gods," who thereby make known their
anger. So, loath to suffer mute, We, peopling the void
air, Make Gods to whom to impute The ills we ought to bear ;
With God and Fate to rail at, suffering easily. And what a motley
crowd of gods they were on whose caprice or indifference he pours his
vials of anger and contempt! The tolerant pantheon of Rome gavie
welcome to any foreign deity with re- spectable credentials; to Cybele,
the Great Mother, imported in the' shape of a rough-hewn stone with
pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to Isis, welcomed from Egypt;
to Herakles, Demeter, As- klepios, and many another god from Greece.
But these were dismissed from a man's thought when the prayer or
sacrifice to them had been offered at the due season. They had less
influence on the Roman's life than the crowd of native godlings who
were thinly disguised fetiches, and who controlled every action of
the day. For the minor gods survive the changes in the pantheon of every
race. Of the Greek peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in
his 30 PIONEERS OF EVOLUTION.
Custom and Lore of Modern Greece, that much as he would sliudder at
the accusation of any taint of paganism, the ruling of the Fates is more
immedi- ately real to him than divine omnipotence. Mr. Tozer
confirms this in his Highlands of Turkey. He says: " It is rather
the minor deities and those as- sociated with man's ordinary life that
have escaped the brunt of the storm, and returned to live in a dim
twilight of popular belief." In India, Sir Alfred Lyall tells us
that, " even the supreme triad of Hindu allegory, which represents
the almighty powers of creation, preservation, and destruction, have
long ceased to preside actively over any such correspond- ing
distribution of functions." Like limited mon- archs, they reign, but
do not govern. They are superseded by the ever-increasing crowd of godlings
whose influence is personal and special, as shown by Mr. Crooke in his
instructive Introduction to the Popular Religion and Folk-lore of
Northern India. The old Roman catalogue of spiritual beings,
abstractions as they were, who gfuarded life in minute detail, is a long
one. From the indigitamenta^ as such lists are called, we learn that no
less than forty- three were concerned with the actions of a child.
When the farmer asked Mother Earth for a good harvest, the prayer would
not avail unless he also invoked " the spirit of breaking up the
land and the spirit of ploughing it crosswise; the spirit of
furrow- ing and the spirit of ploughing in the seed; and the spirit
of harrowing; the spirit of weeding and the FROM THALES TO
LUCRETIUS. 31 spirit of reaping; the spirit of carrying com to
the barn; and the spirit of bringing it out again." The
country, moreover, swarmed with Chaldaean astrolo- gers and casters of
nativities; with Etruscan harus- pices full of " childish lightning-lore,"
who foretold eve'tits from the entrails of sacrificed animals;
while in competition with these there was the State-sup- ported
college of augurs to divine the will of the gods by the cries and
direction of the flight of birds. Well might the satirist of such a time
say that the "place was so densely populated with gods as to
leave hardly room for the men." It will be seen that the
justification for including Lucretius among the Pioneers of Evolution lies
in his two signal and momentous contributions to the science of
man; namely, the primitive savagery of the human race, and the origin of
the belief in a soul and a. future life. Concerning the first, an-
thropological research, in its vast accumulation of materials during the
last sixty years, has done little more than fill in the outline which the
insight of Lucretius enabled him to sketch. As to the second, he
anticipates, well-nigh in detail, the ghost-theory of the origin of
belief in spirits generally which Her- bert Spencer and Dr. Tylor,
following the lines laid down by Hume and Turgot (see p. 255), have
formulated and sustained by an enormous mass of evidence. The credit thus
due to Lucretius for the original ideas in his majestic poem — Greek in con-
ception and Roman in execution — has been ob- (
X 32 PIONEERS OF EVOLUTION.
scured in the general eclipse which that poem suf- fered for
centuries through its anti-theological spirit. Grinding at the same
philosophical mill, Aristotle, because of the theism assumed to be
involved in his " perfecting principle," was cited as " a
pillar of the faith" by the Fathers and Schoolmen; while
Lucre- tius, because of his denial of design, was " anathema
maranatha." Only in these days, when the far-reach- ing effects of
the theory of evolution, supported by observation in every branch of
inquiry, are apparent, are the merits of Lucretius as an original seer,
more than as an expounder of the teachings of Empedocles and
Epicurus, made clear. Standing well-nigh on the threshold of the
Chris- tian era, we may pause to ask what is the sum of the
speculation into the causes and nature of things which, begun in Ionia
(with impulse more or less slight from the East, in the sixth century
before Christ), by Thales, ceased, for many centuries, in the poem
of Lucretius, thus covering an active period of about five hundred years.
The caution not to see in these speculations more than an approximate
ap- proach to modern theories must be kept in mind. 1. There
is a primary substance which abides amidst the general flux of
things. All modern research tends to show that the various
combinations of matter are formed of some prima ma- teria. But its
ultimate nature remains unknown. 2. Out of nothing comes
nothing. FROM THALES TO LUCRETIUS. 33 Modern
science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be
unthinkable. In this it stands in direct opposition to the theological
dogma that God created the universe out of nothing; a dogma still
accepted by the majority of Protestants and binding on Roman Catholics.
For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the
Canons of the Vatican Council, is as follows: " If any one
confesses not that the world and all things which are contained in
it, both spiritual and mental, have been, in their whole substance,
produced by God out of nothing; or shall say that God created, not by His
free will from all necessity, but by a necessity equal to the necessity
whereby He loves Himself, or shall deny that the world was made for the
glory of God: let him be anathemaJ' 3. The primary substance
is indestructible. The modern doctrine of the Conservation of
Energy teaches that both matter and motion can neither be ere- ated
nor destroyed. f^. The universe is made up of indivisible
particles called atoms, whose manifold combinations, ruled by
unalterable affinities, result in the variety of things. With
modifications based on chemical as well as mechanical changes among the
atoms, this theory of Leucippus and Democritus is confirmed. (But
recent experiments and discoveries show that reconstruction of
chemical theories as to the properties of the atom may happen.)
34 PIONEERS OF EVOLUTION. 5.
Change is the law of things, and is brought about by the play of opposing
forces. Modern science explains the changes in phenomena as
due to the antagonism of repelling and attracting modes of motion; when
the latter overcome the former, equilibrium will be reached, and the
present state of things will come to an end. 6. Water is a
necessary condition of life. Therefore life had its beginnings in water;
a theory wholly indorsed by modern biology, 7. Life
arose out of non-living matter. Although modern biology leaves the origin
of life as an insoluble problem, it supports the theory of
fundamental continuity between the inorganic and the organic.
8. Plants came before animals: the higher organ- isms are of
separate sex, and appeared subsequent to the lower. Generally
confirmed by modern biology, but with qualification as to the undefined
borderland between the lowest plants and the lowest animals. And,
of course, it recognises a continuity in the order and succession
of life which was not grasped by the Greeks. Aristotle and others before
him believed that some of the higher forms sprang from slimy matter
direct. 9. Adverse conditions cause the extinction of some
organisms, thus leaving room for those better fitted. Herein
lay the crude germ of the modern doctrine of the " survival of the
fittest!* FROM THALES TO LUCRETIUS,
35 lO. Man was the last to appear, and his
primi- tive state was one of savagery. His first tools and weapons
were of stone; then, after the discovery of metals, of copper; and,
following that, of iron. His body and soul are alike compounded of atoms,
and the soul is extinguished at death. The science of
Prehistoric Archceology confirms the theory of man's slow passage from barbarism
to civili- zation; and the science of Comparative Psychology de-
clares that the evidence of his immortality is neither stronger nor
weaker than the evidence of the immor- tality of the lower animals.
Such, in very broad outline, is the legacy of sug- gestive theories
bequeathed by the Ionian school and its successors, theories which fell
into the rear when Athens became a centre of intellectual life in
which discussion passed from the physical to those ethical problems
which lie outside the range of this survey. Although Aristotle, by his
prolonged and careful observations, forms a conspicuous exception,
the fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek
speculation, the fantastic guesses of parts of which themselves evidence
the survival of the crude and false ideas about earth and sky long
prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much
therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent
long arrest; and the more ap- parent is it that nothing in science or
art, and but little in theological speculations, at least among us
36 PIONEERS OF EVOLUTION.
Westerns, can be understood without reference to Greece.
Table. Approxi-
Namb. Place. mate date B.C.
Speciality. Tbales. Miletus 600
Cosmological (Ionia). Ae Pri^ f
Water. •
Substance Anaximender. (( 570
the Bound- less. Anaximenes. 41
500 Air. Pythagoras. Samos
(near 500 " Numbers : the
Ionian " a Cosmos built
coast). up of geomet- rical figures/' or(Grote,
Pla- to, i, 12) "gen- erated out of number."
Xenophanes. Colophon 500 Founder
of the (Ionia). Eleatic school.
Heraditus. Ephesus (Ionia). 500
Fire. Empedocles. Agrigentum
450 Fire, Air, Earth, (Sicily).
and Water : ruled by Love and Strife.
Anaxagoras. Clazomenae (Ionia). 450
Nous. Leucippus
Democritus. Abdera 460 Formulators of the
Atomic (Thrace). Theory.
Aristotle. Stagira (Macedo- nia).
350 Naturalist. i Epicurus.
Samos. 300 Expounder of the Atomic Theory and
Ethical Philos- ' opher. Lucretius. Rome.
50 Interpreter of Epicurus and Empedocles : the first
An- thropologist.Gilberto
Corbellini. Keywords: darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read
selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia
filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita,
utilitarismo, darwinismo sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione,
progresso ed evoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770795219/in/dateposted-public/
Grice e Cordeschi – la logica della guerra
– filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila). Filosofo. Grice:
“Cordeschi is fine if you are into how we can model a pirot from an automaton –
Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona
subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. CVecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica. Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
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moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
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computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, 5, Milano: Marzorati, Turing. In: Negri, A., a
cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, 5, Milano: Marzorati: Significato e
creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale:
Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Margaret Boden.
L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, 2. Manuscript. La psicologia tra scienze della
natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi N.
(1980), a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici
scientifici e ideologici, Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie.
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crociana delle scienze. Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma:
Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori
Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Editori Riuniti); Bilancio
dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz: esposizione
critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia
e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica
aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia
Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura
robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo
quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente,
quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle
rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior
ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi
sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali
(la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come
le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le
restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli
stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati
interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni.
La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di
spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare
dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul
comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta
ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di
vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale,
classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i
pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione. La
rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un
pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione.
Si parla di una rappresentazione che possono essere di diversa complessità e
accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o
topologica, centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione
simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta
analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune
tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di
Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un
confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra
come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno
tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione
tra simbolo e il concetto piu generale
di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi
che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i
quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco
all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica
dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli)
di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai teorici
dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è
che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è quella
che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare
altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente
esplicita (Gallistel 1999). 12 Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra
l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme
illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad
esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa
ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si
veda (Di Francesco 2002). 13 Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel
seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto
di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione,
cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore
e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli
come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano i volumi 17 e 18 di
Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non
comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema che esterni ad
esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi
tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e,
dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre
sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio,
nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa
(subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da
un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla
codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione
dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che
“il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica
l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso
al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali
esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli
artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene
particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota
uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per
riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi
robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito
per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero
essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come
Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra
ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come
sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto
sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono
tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il
ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al
livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una
catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>).
Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente
sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria
diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un
comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere
considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il
semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli
presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno
luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la
definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e
poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli
ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale
captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di
determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo
comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che
l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e
dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che
non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi
simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che
evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern
che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della
denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen-
tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta
di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione
funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il
solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o
che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche)
hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non
sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una
rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un
sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete,
nel caso di un sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot
un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che
tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota
sterzante del carrello del ro- bot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è
sempre presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale,
che stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e
l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con
il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un
agente “intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali
relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente
mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice,
“La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un
pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto
per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale
dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione
interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base
di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri
casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento
di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa
o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In
molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite,
linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo
tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non
condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse
vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale.
A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo,
non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai
costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si
possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di
rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le
rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz-
zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo
comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni
nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento
di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne
faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica
della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a
feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso
un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione
comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo
dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva.
L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto
a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e
Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o
CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli
è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso
ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito
dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento
sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con
il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte
immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste
provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto,
i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta
con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella
presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di
rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di
Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a
sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli
faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole
di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è
“percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso
l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di
risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare
l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della
guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia,
frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza
dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella
terminologia di Gibson (1986) sono invarianti dell’ambiente che vengo- no
“colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con
l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la
mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i
movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne
la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho
parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in
filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire
sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di
Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per
tali sistemi (sul quale si veda Newell 1980). aspettative pertinenti.17
Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai
Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre-
concetti” (Simon 1973: 199). Di norma, dunque, l’informazione considerata
dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative,
generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente
incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da
parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di
produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un
simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del
sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In
questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione
(la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo
punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo
esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo
particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia
imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora
gira a sinistra”. Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale
più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un
termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato
da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola
indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è
bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con
l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle
opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente
complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli
intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le
curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa complicata
(si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità
dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un
apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi,
dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai
livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non
tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve
con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa
interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con
l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere
modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede-
re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di
elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività
cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di
soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente.
Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci
reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’
tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla
soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e
le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature
insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi
più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, [...] una
rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da
poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva
evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia
Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di
guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale Lingua Segui
Modifica 1leftarrow blue.svgVoce principale: Storia del Regno d'Italia
(1861-1946). Il 1º settembre 1939, a seguito dell'attacco tedesco contro
la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un patto di
alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana. L'entrata
dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti formali
e diplomatici solo dopo nove mesi, il 10 giugno 1940, e fu annunciata da
Mussolini stesso con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia.
Durante i nove mesi di incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle
folgoranti vittorie tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare
italiana, restò a lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti
fra loro, oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a
rinnegarne la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e
strategica, il desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama
di essere ago della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea.
Benito Mussolini, il 10 giugno 1940, annuncia la dichiarazione di guerra
dal balcone di Palazzo Venezia a Roma AntefattiModifica Gli attriti con la
Francia e l'avvicinamento alla GermaniaModifica L'ambasciatore francese
in Italia André François-Poncet Il 28 ottobre 1938 il ministro degli esteri
tedesco Joachim von Ribbentrop incontrò a Roma Benito Mussolini e il ministro
degli esteri italiano Galeazzo Ciano.[1] Durante il colloquio, Ribbentrop parlò
di un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che,
forse nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e
Regno Unitosarebbe stato inevitabile.[2] Alle molte domande di Mussolini, il ministro
degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i
quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di
assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America
non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania
era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro
dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione
fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso
tempestivo».[3] Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma
Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle
intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano,
aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la
Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto
tedesco».[3]L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere
Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali
nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia
a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio
schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva
contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra
Ribbentrop, Mussolini e Ciano, però, si concluse con un momentaneo nulla di
fatto. Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era
riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di
André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di
buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della
particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti
nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un
arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica
ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale
Italiana.[4] Almeno fino alla primavera del 1940, infatti, gli obiettivi del
Duce non comprendevano la conquista di territori europei.[5] Il 23
novembre 1938 il primo ministro inglese Neville Chamberlain e il suo ministro
degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la
collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia
e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un
discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri
Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni
irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!,
Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna
diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André
François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione
simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un
centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni.[6] Nonostante la
parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e
da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di
Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via
negoziale,[7] avevano inscenato le manifestazioni per impressionare
François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi
dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni
e arrivò alla conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra
contro l'Italia sarebbe stata inevitabile.[9] La sera stessa, durante una
seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da
quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone
relazioni con la Francia e che la protesta era stata intrapresa a sua
insaputa.[6] Il 2 dicembre 1938 François-Poncet chiese a Ciano se le
grida dei deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica
estera italiana e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo
franco-italiano del 1935.[10] Ciano, dissimulando la propria paternità su
quanto accaduto, rispose che il Governo non poteva assumersi la responsabilità
delle affermazioni dei singoli, ma che le riteneva un chiaro campanello d'allarme
del sentire comune nazionale, e che era auspicabile, secondo la sua opinione,
una revisione dell'accordo del 1935.[4] Di fronte a risposte così poco
rassicuranti, la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo
stato d'animo dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il
generale Henri Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato,
per le truppe francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre
altri ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un
coltello nel burro».[11] Il primo ministro francese Édouard Daladier,
irrigidendo la propria posizione nei confronti dell'Italia, affermò che non
avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa straniera, facendo così sfumare anche la
speranza di accoglimento delle tre richieste del Duce su Tunisia, Suez e
Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin dal 1931, aveva disposto dei piani per
l'invasione militare dell'Italia, ampliandoli nel 1935, nel 1937 e nel 1938, ma
il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione sarebbe stata
possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una minaccia
tedesca.[11] Mussolini, il 2 gennaio 1939, decise di aderire al patto
italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il proprio impegno.[12] Secondo
Ciano, il Duce si convinse ad accettare la proposta tedesca a causa della
comprovata alleanza militare tra Francia e Regno Unito, dell'orientamento
ostile del governo francese nei confronti dell'Italia e dell'atteggiamento
ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una posizione defilata, ma
che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti Londra e Parigi.[13] Il
successivo 26 gennaio il maresciallo Pietro Badoglio, ribadendo la linea
mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato Maggiore Generale
il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni prima, durante il
quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la
Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono
iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. Mi
ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali
alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe
nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe
dignitoso) o di fare la guerra (e ciò non è nelle sue intenzioni)».[14] Gli
sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il supporto alla
guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese eccezionali per
l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva dell'industria,
alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione dell'esercito, spinsero il
Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo, il 4 febbraio 1939, che il
Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo conflitto prima del
1943.[15] La firma del Patto d'AcciaioModifica La firma del Patto
d'Acciaio fra Italia e Germania il 22 maggio 1939 Il 22 maggio 1939 Italia e
Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e
Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e
firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva
inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più
prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le
due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e
diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i
propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano
militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano,
inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in
caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace
separatamente.[16] Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop
per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la
parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva
rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a
breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano,
dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che
dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni»[17] e che le divergenze con la
Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su
una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto
armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi,
coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere
militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la
firma dell'alleanza.[17] Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di
Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il
successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi
finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima
occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono».[18] Dal 27 al 30
maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler,
successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del
generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite alcune
interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico,
Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni
plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e
povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di
durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria
preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere
successo solo a partire dal 1943.[19] Il successivo 12 agosto Galeazzo Ciano si
recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler.
Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale
confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse
rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle
informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute.
Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con
l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla
firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere
azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi,
secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e
l'aggravarsi della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione
però che non provocherà un conflitto generale».[20] Il 25 agosto Hitler
chiese al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie prime
avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra. Nella
speranza che il Paese ne fosse esonerato, il 26 agosto il Duce rispose con una
lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente
esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro».[21]
L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate
richieste di questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e
numerosi altri materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate
di rifornimenti e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito,
l'Italia non avrebbe potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra.[22]
Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose
dicendo che comprendeva la precaria situazione italiana e che poteva inviare
una piccola parte del materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per
intero le richieste nostrane.[21] Il 30 agosto la Germania inviò alla
Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia
ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante
la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso
Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il
ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era
inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce
propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5
settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia
che turbano la vita europea».[23] Mussolini, precedentemente, aveva già
tentato di instradare la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica.
Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una
coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare
l'espansione germanica»;[24] «Il Duce [...] sottolinea la necessità di una
politica di pace»;[25] «[...] si potrebbe parlare col Führer di lanciare una
proposta di conferenza internazionale»;[26] «Il Duce tiene molto a che io provi
ai tedeschi [...] che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...]
Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza internazionale»;[27] «Il
Duce [...] raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna
evitare il conflitto con la Polonia [...] il Duce ha parlato con calore e senza
riserve della necessità della pace»;[28]«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo
estremo: proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5
settembre»;[29] «[...] facciamo cenno a Berlino della possibilità di una
conferenza».[30] Durante la sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato
che Londra aveva tagliato le comunicazioni con l'Italia.[29] Lo scoppio
della guerra in EuropaModifica La scelta della non belligeranzaModifica
Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra
Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche,
utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla
campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini,
avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte
alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia
dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello
stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino,
Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica.[31] Il Führer rispose immediatamente, in
modo molto cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia,
dicendo che ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo
sul fatto che non aspettava il sostegno militare italiano.[31] Il telegramma,
però, probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non
venne pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla
radio, facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una
crescente ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e
traditori del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito
questa crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di
essere «molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha
dichiarato che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna
contro la Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse
stato pubblicato anche in Germania».[33] Non potendo scegliere la
neutralità per non tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio
dei Ministri delle 15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente
la posizione di non belligeranza.[34]La mancata consultazione dell'Italia da
parte della Germania prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del
patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre Mussolini
ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente, Hitler
rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a intervenire in
una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania, Italia, Francia,
Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi, tuttavia, posero come
condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero immediatamente i
territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano riportò nel suo
diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a Hitler, che lo
respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad Halifax, ai due
Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo avviso contrario
dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima luce di speranza
si è spenta».[30] Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle prime ore
tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese forse più
che su quelle dell'intransigenza tedesca [...], naufragò la navicella della
mediazione italiana».[35] Il 3 settembre Regno Unito e Francia, in virtù di un
trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. Il 10
settembre l'ambasciatore Bernardo Attolico, facendo riferimento all'accordo fra
Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra dell'Italia e al
telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le grandi masse
popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una crescente
ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con frequenza».[36]
Il successivo 24 settembre, a conferma dell'impreparazione italiana, il
Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di
approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori
che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare
sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina
alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944.[37] Inoltre
l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle
esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia nell'autunno
1939,[38] e dall'applicazione del diritto di angheria, il quale prevedeva che
Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio nemico, ma anche
controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre sotto sequestro
merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una nazione nemica o
dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi
fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e
passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940),
rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo,
arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i rapporti fra
Roma e Londra.[39] Durante l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere
disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo stabilito
unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di consegna e a
patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e Francia.[40]
Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato il crollo
delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di Hitler, Galeazzo
Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica mancanza di carbone
e di approvvigionamenti causata dal blocco navale anglo-francese, però, minava
fortemente la stabilità nazionale e rischiava di portare il Paese all'asfissia
economica. La Germania intervenne, rifornendo l'Italia del carbone necessario e
rendendola così ancora più dipendente da Berlino, anche se la fornitura era
molto rallentata perché, per aggirare il blocco marittimo, doveva
obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del Brennero. Per i generi di
prima necessità, invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante l'estensione
delle politiche autarchiche adottate ai tempi della guerra d'Etiopia.[41] Gli
esorbitanti costi di gestione dell'Africa Orientale Italiana, uniti ai suoi
magri guadagni, stavano però rivelando che la conquista dell'impero era stata
più un aggravio che un beneficio per le casse dello Stato.[42] Per quanto
riguarda le risorse umane, le truppe italiane risultavano impreparate sotto
ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette» millantate da
Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era motivata da
alcun odio contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi specifici
come l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza
di munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti.[43] Il Duce, a
conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli
italiani,[32] aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si
era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer avrebbe
riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di
alleata.[44] Il generale Emilio Faldella, infatti, testimoniò che «più si
profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la
vendetta di Hitler».[45] Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto
Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di
lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità
dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica
pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per
annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia
settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il 30 settembre
1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie
per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile
impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che,
almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle
alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei
tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il
successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo
Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra
Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona,
massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla
popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento
ironico alla Linea Sigfrido.[48] Il problema della non
belligeranzaModifica La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana
sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una
serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la
condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il
fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante
tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse
essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente,
secondario o codardo.[49] Il Duce era infatti convinto che, nonostante
l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla
guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N
1][50] infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza
dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di
una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non
consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto,
«perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto
di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile,
compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49]
Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare
il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo
però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia
cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il
Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno
Unito.[49] Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai
flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle
trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della
conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso
fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione
per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti
qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco
della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla
vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della
Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed
esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei
vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo
costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la
faccia.[53] Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di
trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora
sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro,
maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una
lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al
conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non
troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare
ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a
entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo
contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e
Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli
alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi».[56] Il
10 marzo 1940, dopo un incontro con il ministro degli esteri tedesco
Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto di una
sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio
Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale
entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile, senza però
precisare come e quando.[57] I dubbi sul da farsiModifica Mussolini
e Hitler nel 1940 Il 18 marzo Mussolini e Hitler si incontrarono per un colloquio
al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce era
dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre contro
l'Europa occidentale.[58] L'incontro, invece, finì in un lunghissimo monologo
del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire bocca. Fra
marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su Mussolini,
mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata sequenza di
vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto l'efficace
tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca (9 aprile), la Norvegia
(9 aprile-10 giugno), i Paesi Bassi (10-17 maggio), il Lussemburgo (10 maggio),
il Belgio (10-28 maggio) e iniziarono l'attacco alla Francia. I vertici militari
italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la «liquidazione della
Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le folgoranti vittorie
tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e
francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno
consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa e
dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che,
«con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi,
rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma
alla quale cercava di sottrarsi.[60] A chi gli chiedeva un parere
sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini,
riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli
inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti
volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli
interessi».[61] Il 28 aprile papa Pio XII inviò un messaggio al Duce per
convincerlo a restare fuori dal conflitto. Galeazzo Ciano, riferendosi al
messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata
fredda, scettica, sarcastica».[62] Il 6 maggio il re Vittorio Emanuele III,
accennando alla «macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in
guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza
il più a lungo possibile.[63]Contemporaneamente la diplomazia europea si
impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania:
per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo
per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà
anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli
Stati Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio
dai toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in
guerra. Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì
l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno
Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della
battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt
al Duce.[64] Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva
rimanere fedele all'alleanza con la Germania e agli "obblighi
d'onore" che essa comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto
la certezza sul da farsi.[65] Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo
Ciano e con gli altri suoi collaboratori,[66] ed essendo profondamente colpito
dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa
convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non
risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse
avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un intervento a
breve.[67] Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della
fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco
frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati
tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la
foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate
e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta
a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente
così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi,
che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno
Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e
che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati
Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi
direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare
la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente
europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era
contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna
elettorale per le elezioni presidenziali del 1940, non poteva non tenerne
conto.[69] Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di
indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare
i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare
uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che
chiedeva un quadro completo della situazione.[70] Secondo tali relazioni, «i
nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore
frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi
rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai
brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se
pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per
quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della
nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini -
saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in
tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra».[71] Leto,
inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due
parti avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle
tremende incognite che la situazione presentava».[71] In questo clima,
perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in
quanto era opinione comune[72] che il Regno Unito avesse i giorni contati e che
la conclusione della guerra fosse ormai prossima.[73] A nulla servirono le
opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio
Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia.[74] Il
sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel
conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato
foriero di numerose incognite.[75] Dello stesso avviso era anche il principe
ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il
Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di
rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità
effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di
armamento».[76] Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche
erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza
effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile.[77]Accanto
al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura
conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento
nostrano,[61] nacque in Mussolini la convinzione che gli fosse necessario «solo
un pugno di morti»[78] per potersi sedere al tavolo dei vincitori e per avere
diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la necessità di un esercito
preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione
pubblica nella tarda primavera del 1940,[59] sarebbe durata ancora solo poche
settimane e il cui destino era già scritto in favore della
Germania.[75][79] L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi
tentativi di mediazioneModifica Il presidente statunitense Franklin Delano
Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di
Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo III firmava la
resa del proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato il «momento più
favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva virata verso
l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo sollecitava a
intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore
italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Bernardo Attolico, su un
suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di
entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi.[80] Lo stesso giorno, in un estremo
tentativo di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro
inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese
Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt
la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente
trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National
Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno
Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a
Mussolini di moderare le future richieste di Hitler.[81] Nello specifico,
secondo questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire
alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce,
nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura conferenza
di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti.[81] Inoltre,
Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla
fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento,
nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al
controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa
francese).[81]Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non
aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare
Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto
revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe
dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt
si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo.[82]
Il 27 maggio l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, William Phillips, recò a
Galeazzo Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il testo
dell'accordo.[83] Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la
proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese
in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a
trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria».[81] Secondo lo
storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano.
Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più
presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva
presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una
Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa
avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai
prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante».[82] Secondo
gli storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai
accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un
Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante.[81]Galeazzo Ciano, nel suo diario, alla data del 27
maggio riportò infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il
doppio di quanto reclama, rifiuterebbe».[84] La risposta a William Phillips,
infatti, fu negativa.[83] Gli atti formali e l'annuncio
pubblicoModifica La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste
al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna
Il 28 maggio il Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire
contro la Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i
quattro vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore
(Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto
fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione[85] e il 30
maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra
mercoledì 5 giugno.[86] Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato
un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre
1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente
accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai
imminente fine del conflitto.[55] Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di
posticipare di qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito
tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in Francia.[87]Il Duce si
mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli
ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco
a Roma Hans Georg von Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di
posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un
anticipo.[88] Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a
Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze
armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo
Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una
formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio
Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce,
scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie
prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far
fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo
evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata
superstiziosamente considerata di cattivo auspicio,[90]si giunse a lunedì 10
giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi
l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica,
gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re
e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la
Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne
ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la
lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si
considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11
giugno».[91] Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di
Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore
francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo
di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già
da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che
comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli
italiani come nemici.[N 3][92]L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo
Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a
domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata
un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra.[93] Preceduto
dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò
alla folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini,
indossando l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia,
annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali
città italiane, che «l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo
al corrente il popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di
guerra.[94] Di seguito, l'incipit e explicit del discorso: «Combattenti
di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni.
Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora,
segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni
irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli
ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. [...] La parola d'ordine è una
sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori
dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un
lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo
italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore!».[95] Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La prima
pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con
entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del conflitto
come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo
sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata
da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi
possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il
Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non
veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna
palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del
Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese:[96] «Corriere della Sera: Folgorante
annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo
d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce
Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e
Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le
catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La
Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla
Francia. Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di
italiani.» L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali
clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì
sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici
italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un
commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica
dell'Italia».[96] Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della
reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come nell'agosto del
1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso
un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il
rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di
arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non
determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma
semplicemente la misurò».[71] Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio
pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento,
uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se,
privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe
preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni
strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta.[N
4][95] In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle,[97] in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Maxime Weygand, aveva già impartito ai
comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il
maggior numero possibile di unità.[98] Il giudizio di Churchillsull'ingresso
dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al
commento pronunciato a Radio Londra:[99] «Questa è la tragedia della storia
italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e
vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro
un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione
radiofonica:[100]«In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha
affondato nella schiena del suo vicino». Piani di guerra Modifica L'entrata in
guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani dell'11 giugno
1940 I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo Stato Maggiore
dell'esercito nel febbraio 1940 e prevedevano una condotta strettamente
difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare
solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e
Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione
delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al
Duce piena libertà di improvvisazione.[101] I vertici militari riconobbero
l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non
presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in
Mussolini.[102] L'approccio del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia
si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai
vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei teatri più
disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti. Venivano a
mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio respiro,
obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra.[102] Ciò fu
evidente fin da subito, quando, il 7 giugno, lo Stato Maggiore Generale
notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato
Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente:
tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in
aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze
francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a
meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale,[103] e
altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva
intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di
Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia.[104] Come
preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco,[105] dall'11 giugno
le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in
vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono
bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden
e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne
affidato al generale Rodolfo Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali
contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il
comando su un fronte europeo[106] e che non aveva alcuna familiarità con la
frontiera occidentale.[107] I vertici militari italiani, costretti a
centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo
in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia
avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi
ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca
nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la
pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro
Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva
per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata
quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e
godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori».[109]L'atteggiamento
dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove
attaccare,[110] e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non
aveva altri obiettivi»,[110] venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini
con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà».[111]
NoteModifica Note al testo ^ Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione,
stilata da Mussolini il 31 marzo 1940, con destinatari Vittorio Emanuele III,
Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari,
Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il
«promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Il Servizio
Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per
tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece,
la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete
aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in
voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo:
«Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci
ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo
delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena
Archiviato il 15 settembre 2016 in Internet Archive., in Il Tempo, 10 giugno
2009. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Di seguito i testi dei due
telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La
Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. URL consultato il 30
dicembre 2018. Berlino, 10/6/40, telegramma di Hitler al Re
La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi
propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in
combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i
nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno
d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma
convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la
vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno
quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, 10/6/40, telegramma
di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato
mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a
Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in
lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti
britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero
ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione
si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali
dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che
siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni
e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e
per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, 1948, pp. 369-370. ^ Ciano,
1948, pp. 373-378. ^ a b Ciano, 1948, p. 375. ^ a b Ciano, 1948, p. 383. ^
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139. ^ Le Moan, op. cit. ^ Ciano, 1948, pp. 386-387. ^ a b Schiavon, op. cit. ^
Ciano, 1948, p. 392. ^ Ciano, 1948, pp. 393-394. ^ Corpo di Stato Maggiore,
1983, p. 2. ^ Candeloro, pp. 50-52. ^ Paoletti, pp. 56-58. ^ a b Paoletti, pp.
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nota del 19 luglio 1940. ^ Ciano, 1990, nota del 9 agosto 1940. ^ Ciano, 1990,
nota del 10 agosto 1940. ^ a b Ciano, 1990, nota del 31 agosto 1940. ^ a b
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19 dicembre 2018. ^ De Santis, p. 40. ^ Bocca, p. 144. ^ Simonetta Fiori,
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di Francia (1940), su storiaxxisecolo.it. URL consultato il 19 dicembre 2018. ^
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rapporti militari italo-tedeschi 1940-1943. ^ Paoletti, p. 111. ^ a b Rochat,
p. 248. ^ Rochat, p. 255. Bibliografia Modifica
Giacomo Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione, Rocca San Casciano, Cappelli,
1968, ISBN non esistente. Ugoberto Alfassio Grimaldi e Gherardo Bozzetti, Dieci
giugno 1940. Il giorno della follia, Roma-Bari, Laterza, 1974, ISBN non
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Mondadori, 1946, ISBN non esistente. Alessandro Bernasconi e Giovanni Muran, Le
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dramma segreto dell'ultimo re, Milano, Bompiani, 2004, ISBN 88-452-1360-9. Voci
correlateModifica Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno
Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia
(1861-1946) Italia nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica
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Collegamenti esterniModifica Istituto Nazionale Luce. La dichiarazione di
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Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto,
logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato,
communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770728714/in/dateposted-public/
Grice e Corleo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Salemi).
Filosofo. Grice: “Corleo is a genius --
His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted
Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks
like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the
spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much
elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts
of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I
wholly agree!” Studia nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose
a Palermo. Crea un seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla
rivoluzione siciliana. Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione
siciliana”. Durante la spedizione dei
mille, fu nominato da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i
Mille”. Saggio: “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”.
Diviene conte di Salemi. Altre opere:
“Meditazioni filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la
filosofia dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”.
Dizionario biografico degli italiani. La regola
d'identità, dipendente dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque
specie di giudizio, giudizio affermativo (S e P) o giudizio negativo (S non e
P), giudizio condizionale (Si p, q), giudizio tetico (S e P), giudizio ipotetico
(Si p, q), giudizio disgiuntivo (p o q), e via via; poichè,ogni proposizione o
giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto
(S e P) o negare un predicato ad un soggetto (S non e P), e ciò non può farsi
altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato stesso
col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di
giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto
condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso
di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità
nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la connessione
si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si
scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso
con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue
sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di
guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame
necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale (S e P);
onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non
sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo
costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di
un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con
essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può
esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe
vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni
dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni
teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle
varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra
cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di
seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima.
Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di “triangolo”
e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto
complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora
nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna
delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di
nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella
identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni
sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo
soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo
soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo
subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è
identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla
costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se
gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la
connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente*
deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e
non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque
passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità
assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel
conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi
sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti
parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso
solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e
necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li
costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti
subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza
del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra;
essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che
la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della
scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per
compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei
concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti
rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per
mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi
cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello
studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del
raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto
di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert,
che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i
subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono
necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La
prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al
particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La
seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e Boezio, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie
dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che
non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare,
che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o
spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo in
conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gli errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gli errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed
accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne
studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è
d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse,
per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente,
sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare,
connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le
parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in
forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per
potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero
assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le
percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con
segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente
sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono
scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano
le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il
colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè
non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la
conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio
della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si
tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi
e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero
trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente,
e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire
questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e
sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi
spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la
parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da
quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei
giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i
due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i
suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè
sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha
una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B?
A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica
certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della
percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde?
с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali,
с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli
altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è
quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un
primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di
un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha
bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono
a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si
guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento,
non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo
vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo
sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non
si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal
fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento
men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza
mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo
un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per
poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare
communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia
una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico
e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto
del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve
essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del
genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine
necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione
comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada
conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento
communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di
proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che
se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è
divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è
il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio
mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di
un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per
imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto
o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso
genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono
tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo
spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto
che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della
utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente
nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità
tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un
segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne
ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per
distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol
fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver
conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse
insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che
communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la
domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali
communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una
risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo
atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di
analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre,
siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o
stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta
volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la
libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi
ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto
ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o
co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio
duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non
astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è
possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre,
riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa
ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea
generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come
conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e
di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o
quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita
una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno
articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la
capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato,
l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo
possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo numero
di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio duale,
elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un fatto
singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e possedendo in
fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello segno articulato
primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque il segno che
compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure siccome
debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle medesime (S,
e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà fondamentali
dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni percezione, e
ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il segno che si
adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo segnato, pure in
ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o dell’orazione, vi è una
sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che e comuni a ogni segno.
In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un risultamento esteriore
ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo, perciò vi ha un fondo
comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che equivale alla somma di
ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione sostantiva e la aggregazione
di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che è comune a ogni reale ed a
ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare communicativamente debbe
esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante in tutta la loro
immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone, verbum, greco rheo
--, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto quello che si può
rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno del verbo (la
copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si aggira intorno al
segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la mossa si dee
sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un verbo non puo
indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata dal segno
verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non basica, e
composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali intransitive
ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento in un solo
segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la copula e
intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che nasce
ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del
segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di
signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”,
al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula
e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni
segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione
che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale
che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --,
cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del
risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La
sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e
complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione,
sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si
analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un
composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo
nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò
è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica
l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come
essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non
meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e
nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione
che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine
addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita,
relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato,
la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè
sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su
cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque
suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro
che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione
è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi
è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli
avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono
riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del
segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo
sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han
continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione
non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo
la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la
relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione
medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di
questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e
principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono,
indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome
aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la
preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e,
adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che
relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di
azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione
(declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare,
duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una
sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una
continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e
necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè,
il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua
desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo
definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per
indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale
di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei
cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di
cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea
fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un
segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno
della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la
necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare
ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in
sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di
forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione
che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha
un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del
giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative --
in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per
mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e
compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello
periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione
della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”,
cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo
anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione,
indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui
non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione
di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri
cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della
riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della
sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la
volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo
signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso
si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma di
giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni
emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese
d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme
variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico
subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una
forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso
aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè
il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di
una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del
segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o
quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro
del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la
ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione
indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente,
ed in quante maniere sa metterle in relazione
fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza
studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una
percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere
se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo
stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche
dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare
col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma
forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un
segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato
(equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato
solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico
(equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di
usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per
far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare.
Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno
proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o
concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa
svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare).
Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile
novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più
di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un
emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto
più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del
traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo
spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa
qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte meditazioni,
e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre gli uomini,
spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto più quando
sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano, non han
tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile IN-segnato.
Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione delle idee. Si
presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria il suo segno,
ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione segnata che
ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo, si
approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio, ma
un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il traslato
metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel segno a
passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando la
similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come pure
riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente, quando
lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue
uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale
che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice
originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi
il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma
con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle
forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non
è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati
nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli
proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde
esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al
bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza
scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si
confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno
avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta
non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l'
impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero
all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato
segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una
metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By
uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy).
Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e
ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme
poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le
relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre
più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione:
soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a
queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di
figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per
come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta
più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che
ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che
al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di
esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel
calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa
costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità
dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio
alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno
di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla
varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari
confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale.
Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura
stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle
loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser
quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei
traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria.
L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in
un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua
dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca
della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal
caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza»[1], ossia la condizione
in cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον (ergon), (azione)[3]: il πάϑος (pathos), il
"patire", una delle dieci categorie che si possono predicare
dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono
dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando
luogo così all'inizio del processo conoscitivo. L'affezione può
anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere
sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per
l'uomo»[4] In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti
esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche non solo
sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il
desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della
sfera etica[5] Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone[6], che
adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche
Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come
sinonimi di passiones[7]. La funzione delle affezioni Modifica Nella storia
del pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi
modi: con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa
sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono
negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa
stessa linea di giudizio sono Cartesio[8], Spinoza, Leibniz, e soprattutto
Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la
moralità — nell'ambito della false o confuse idee.[9] Nella filosofia
aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito
conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono
sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle
sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal
punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il
problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo
stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo
conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non
devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge
l'apatia, l'indifferenza alle passioni. KantModifica Secondo Kant, per le
nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni.[10] Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili[11] Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili»[12]. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente.[13] Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione
empirica senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica
^ Dizionario Treccani di filosofia (2009) alla voce corrispondente ^
Enciclopedia Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente ^ Aristotele, De
Anima, Γ 2, 426a 2 ^ Aristotele, Metaphisica, Δ 7, 1049a 29,30 (in Sapere.it
alla voce "Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Β 8, 1385b 34 ^ M.T. Cicerone,
Tusculanae IV, 6, 11-14 ^ Agostino, De civitate Dei, IX, 4 ^ La passioni sono
una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come
l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In
Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti Editore, 2003, p.318 ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica
della ragion pura, Estetica trascendentale (B 33) ^ Cfr. I. Kant, id.,
Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica, (§ 81) ^ I. Kant,
Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica
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sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio ordinario, principio
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come universale ontologico, segno, signare communicativamente, segnabile, sensibile
– nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente,
repertorio di segni, repertorio di forme, composizionalita, communicazione
primitive, pre-arbitrio pre-convenzione, pre-consenso mutuo, spontaneita,
naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora, conversazione
adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative – signa
naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii. Romolo e
Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie
agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome
sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il
vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” –
modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello
spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come
SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Corleo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688363832/in/photolist-2mPCmeg-2mLEs8a-2mKwnLL
Grice e Cornelio – Giove, Ganimede, e
Prometeo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo.
Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!”
“My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the ‘generation’ of
‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and this is strange
because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more Catholic your
philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian and Platonic
– so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman myth of the
‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla
scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei
salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane.
Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore
Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi.
Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre
opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum
Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium
Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. INDEX
EORVM, Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex inspectione er
ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest tionibus ætheri permiftis con animalium ex
semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari
de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter
modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite
animalium & ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix
de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni
inutilis apoplecticorum & ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à
fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta
rarefcit, & in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris
per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad
ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque
contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua
triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis
quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea diſtractio nifi
æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris
ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia
omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor
confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis
distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem
inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint
citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia, quæ
interclufo fpiritu fiiffa 46 cantur dexterum cordis ventriculum, Ariſtotelis
principia diffentanea. pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina
de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros
prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores, “ ampliores Calor omnis
animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor
nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat
pulfu fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes
eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu
fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris
naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. 129 Cauernæ in
quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo ſecretio
fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies duobus li
quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum ounem per
lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo prodideruntiuniorcs Auftifichs
ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad Thyſiologiam illis neruos in partes
diffunditur ſirandam perutilis Auftificus fuccus ab Arabibus obfer- chymici
magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus. &tioni attulere cibaria
non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in iecinore fecerni B permanentin
ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim elabitur Bilis nõ eſt
fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue Bilis nutritiumfuccum
diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores diuerſa Bilis
vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus in
ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condenſatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem
attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat
Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à
vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab
utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum
quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum
Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus
diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum
orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque
recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui
tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis
moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere
aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi
inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice
medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani
aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus & Epi
Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus
omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria
iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif
Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia
funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al Galilei Carteſi
aliorumque iuniorum rem & aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo
à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu
Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto
gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est
eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura
non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi
conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte
Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica
magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum
fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil
eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que
Glandulg cur maiores & frequentiores nam fint. in tenellis, &
pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus,
&macilentis, in omni motu fit reciproca corporum dla translatio Glandule fecernunt auctificum
ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci. 4
Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio
nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à
leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur'
ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus
virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando
diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in iudicando Hippocratis
de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens
Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis
abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas & fallaces
præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina
inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum
ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon
eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum
vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis
naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis
diſimilis elektrick: Mund for printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias
iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo
incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor
ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ
fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad
Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum
O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt
imperitorum plaaſum aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus.
Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri.
rum curationes inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper.
Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo
exiſtentis Medici rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum
alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis
familiare eft mutuainter fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare
conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in
viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum
gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $
Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei
mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus
vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut
politici. 36 Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio
defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus
obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione
cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi
ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, & experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore,
nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie
obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica
Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius
randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
& oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum & alui Etrina
caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine
propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
& Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius
opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e
l’aquila, III secolo d.C.(?) Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di
nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani
Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della
mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più
bello di tutti i mortali del suo tempo. «La vicenda mitologica di
Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un
amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la
vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti
artistici al desiderio omoerotico[1].» In una versione del mito viene
rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere
sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume
sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica,
istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina
del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite,[2] indicante un
giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo.
GenealogiaModifica Figlio di Troo[3][4][5] e di Calliroe[3] (o di
Acallaride[6]). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di
Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo
padre fu Erittonio[10] oppure Assarco[11]. Non risulta aver avuto spose o
progenie. Mitologia Modifica
Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, Ganimede che indossa il suo
berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico
fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia
il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus,
così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.
Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato
dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di
Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un
tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era
ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei,
una posizione che era considerata di gran distinzione. Zeus per sottrarre
Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale
aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge
sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò
quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere
d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a
essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con
la coppa in mano. Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il
mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana
di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni
viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante
dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di
Frigia[14]. Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel
giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus
considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto
del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come
costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella
dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacaledell'Acquario. Busto
di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del
Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia
Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio
adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico
(vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame
sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi
amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente
un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi
rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato,
avveniva la sua iniziazione sessuale.[15] Zeus e Ganimede, rappresentando
la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti.
Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a
modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di
resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e
poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande
voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera
il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. [16]
FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito
attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo
monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese
che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria,
accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per
giustificare i loro comportamenti[17]. Nel dialogo platonico poi Socrate
nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli
Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus
avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo[18][19].
Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di
Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo
senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il
Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un
esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774. Damiano
Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati
disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un
motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche
Stazio[23]. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo
contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite
si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un
principiante. Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio
di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden,
scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del
rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben
oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo
caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca
paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon
Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036 Ganymed.
Nelle arti Modifica
Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo
di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo
del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare [ha realizzato]
un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli
gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila
è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei
suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di
Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di
Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei
pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea
molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella
ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei
crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino
durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli
ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i
meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea
figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede
mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il
ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di
origine in parte pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di
Ganimede (circa 1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire
innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo
Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è
anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di
icona gay ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514
circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato
contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti
catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di
Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è
più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter
Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo
Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che
un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e
si fa la pipì addosso per lo spavento. Ratto di Ganimede (1700), di
Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono
stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era
invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila,
mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente
affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata".
Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel
Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita
alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun
interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Jean-Baptiste
Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien,
Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di
Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo. La
scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a
Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo
come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26]. L'artista
danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi,
ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e
l'aquila. Particolare di una scultura della seconda metà del II
secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito
figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale
di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a
indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante
omosessuale. Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio,
tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a
figure rosse, ca. 500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre). Ganimede
e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale
per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522) Illustrazione gli
Emblemata di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente
l'anima che si "rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo
(1505-1566), Giove bacia Ganimede (1550 ca.) (Ashmolean Museum, Oxford)
Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da
Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al giovane
allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano. Il Ganimede
di Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José Álvarez
Cubero Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen
Albero genealogicoModifica AtlantePleione ScamandroIdea
Elettra ZeusTeucro DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe
EuridiceIloAssarcoIeromneneGanimede Laomedonte Strimo (o
"Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino
EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio Silvius Enea Silvio Bruto di
TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio
Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia
di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il
gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore
2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the
English Language", 2000), catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro,
Biblioteca III, 12.2, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN )
Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019.
^ ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com.
URL consultato il 10 giugno 2019. ^ ( EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane I, 62, su penelope.uchicago.edu. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco
Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ (
EN ) Clemente Alessandrino, 22, su theoi.com. URL consultato il 3 giugno 2019.
^ Igino, Fabulae 224 ^ Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122;
Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con
l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli
dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p.
836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^ Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio,
8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^
Publio Virgilio Marone, Eneide, V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^
Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^ Worley, The Image of Ganymede in
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in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola
Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro,
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2-84016-010-2. Giulio Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), 2009,
ISBN 978-88-04-58347-9, SBN IT\ICCU\URB\0846664. Particolare di Zeus accanto
a Ganimede (1878), di Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay
Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella
mitologia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
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(EN) The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN)
Peter R. Griffith, Visual arts: Gaymede. ( DE , IT )
"Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). (EN) Circa 200 immagini di
Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016
in Internet Archive.. Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 3262256 · CERL
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Ptolemaios PAGINE CORRELATE Leda personaggio della mitologia greca, figlia di
Testio e moglie di Tindaro Estia dea greca del focolare, della casa e della
famiglia. Figlia di Crono e Rea Laomedonte re di Troia nella mitologia
greca, figlio di Ilo Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent
Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But
Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords:
Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium,
ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta,
atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica,
l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura
ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila
come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51681116235/in/photolist-2mJNFoT-2mJPYQ1-2mJPYR3-2mJTeke-2mJPYPE-2mJJzjC-2mJNFpz-2mJJzgM-2mJS9aA-2mJTeiW-2mJS9aq-2mJJzhP-2mJTejc-2mJTej2-2mJS9aR-2mJS9bx-2mJTem1-2mJTej7-2mJqjKS-nBUkrk-nWUtwa-nBUyfE-nCw1cC-nURj7V-nUffV5-nCGcVs-nV8RFY-nBTinq-nBU5Mk-nW9NpP-nSkrdq-nUhwDY-nUnQ24-nU4UKV-nVgpvB-nUY39P-nUmNhz-nCM7PB-nUWSKv-nBT68x-nV9nob-nBMGGc-nBMHuK-nD898Q-nD7Rpi-nUfDAD-nBM7tR-nUazns-nU96Ze-nVVvb6
Cornello (Sorrento). Filosofo. La sua opera più importante è la
Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e
musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di
Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo Tasso, letterato e
cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del
principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso
nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di
origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. La
primogenita Cornelia era venuta alla luce nel 1537. Di Sorrento e della
«dolce terra natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo,
rimpiangendo «... le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la
natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e molli.» (Gerusalemme
liberata, I, 390-92) Quando Torquato era ancora bambino, il principe di Salerno
fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si
recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo
seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la
scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale
poi restò in corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione cattolica e da
giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si
trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e
ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i
nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel
frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di
essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase
impresso nella sua memoria. Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a
Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande
dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città partenopea perché i
suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu
Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma
quando nel febbraio 1556 vennero a sapere della morte di Porzia,
probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse. La
situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era
scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul
punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso
e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di
Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.
A Urbino Torquato studiò assieme a Francesco Maria II Della Rovere, figlio di
Guidobaldo, e aMonte, poi illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri
di assoluto livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Antonio
Galli e il matematico Federico Commandino. Torquato passava a Urbino solo
l'estate, dal momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso
entrò in contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi Atanagi, e
scrisse il primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della
corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale
dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo
dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in
laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a
mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del
Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro
consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri
che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento
straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello
Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più
delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore
della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla
produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno
ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza
con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo
rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime
fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche
l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica
aristotelica. È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del
ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella
corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio
a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione
Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla delusione.
Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento del Tassino (come
veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono commissionate
delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte, furono le prime
poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano gli sforzi
prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a Luigi
d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del cugino di
Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il nome di
Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto lo aveva
messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca d'Urbino gli
aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per permettergli
di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso proseguì gli
studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella città
felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo che
attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e professori
dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto a ritornare
a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione Gonzaga, che gli
fornì il necessario per continuare il percorso di formazione. Ritrovò tra
i maestri Francesco Piccolomini e seguì le lezioni di Federico Pendasio. In
casa del principe Gonzaga era appena stata istituita l'Accademia degli Eterei,
ritrovo di seguaci dello Speroni che miravano alla perfezione della forma, non
senza scadere nell'artificiosità. Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e
leggendovi molti componimenti, tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e
per una donna che la critica ha per lungo tempo identificato in
Laura Peperara. Secondo questa versione Torquato conobbe Laura
nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a Mantova Bernardo, nel frattempo
messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga. La delicatezza nei modi della
giovane fece dimenticare presto al Nostro le ancor fresche pene amorose per Lucrezia
Bendidio. Lo spirito del Petrarca rivisse allora nelle liriche del ragazzo
nuovamente innamorato. L'anno dopo, rivedendola, fu però deluso, e pur
continuando a cantarla dovette ben presto rassegnarsi al secondo scacco.
Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la nascita della Peperara nel 1563,
rendendo quindi impossibile che fosse lei la seconda musa del Tasso. I
due canzonieri amorosi andarono in parte a finire tra le Rime degli Accademici
Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme ad alcune che scriverà nel primo
anno ferrarese. Si legò anche all'Accademia degli Infiammati. A
Ferrara Torquato Tasso all'eta di 22 anni ritratto da Jacopo Bassano.
Giunse a Ferrara in occasione del secondo matrimonio (quello con Barbara
d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio del cardinale Luigi d'Este,
fratello del duca, spesato di vitto e alloggio, mentre dal 1572 sarà al
servizio del duca stesso. I primi dieci anni ferraresi furono il periodo
più felice della vita di Tasso, in cui il poeta visse apprezzato dalle dame e
dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per l'eleganza mondana. Il
cardinale lasciò al Nostro la possibilità di attendere solamente all'attività
poetica, e Tasso poté così continuare il poema maggiore. Rapporti particolarmente
intensi intercorsero con le due sorelle del duca, Lucrezia e Leonora. La prima
era uno spirito libero e incarnava ideali di vivacità e vitalità, mentre la
seconda, malata e fragile, fuggiva la vita mondana e conduceva un'esistenza
ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da entrambe e per quanto si sia
avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con Leonora, la critica tassesca ha
concluso che non si andò al di là di forti simpatie. La ricchezza
culturale della corte estense costituì per lui un importante stimolo; ebbe
infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan Battista Pigna e altri
intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il poema sulla prima
crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti erano già sei, e
aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle stampe le
Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione platonica e
stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però affatto
peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello, e a
definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I concetti
vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due anni più
tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in particolare
sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a Venezia,
per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al seguito
del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel lungo e
pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da
Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile
1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in
miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale
di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola,
facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di
entrare al servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad
attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta,
celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche.
Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle «delizie»
estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia d'Este a
Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una tragedia,
Galealto re di Norvegia, ma la abbandona
all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi mano molto più tardi
trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e la revisione L'impegno
principale rimaneva comunque il poema epico, per il quale l'autore non aveva
ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera era quasi completa, visto
che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto», ma si deve aspettare per
avere l'annuncio del completamento del testo, quando in una lettera al
cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque Vostra Signoria
illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora per la Dio grazia
assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di
Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre il periodo della
nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione,
allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso
da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta: «Qui va
pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei
sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo
al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli
concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie
scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni
religiose. I cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e
cardinale Gonzaga, il cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista
Nobili. Cndivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli
avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse
bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore
intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse
soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno
di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente
combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere
al Gonzaga: «Forse a questao condotto finalmente al fine il poema di Goffredo.
Completato quindi il poema maggiore, si aprì per Tasso il periodo della nevrosi
e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione,
allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso
da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va
pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei
sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di
cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti
l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte
estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni
religiose. I cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il
principe e cardinale Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta
Pier Angelio Bargeo e il grecista Flaminio de' Nobili. Torquato condivise
in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche
di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive
quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non
trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo
nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul
da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a
questa particolare istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e
forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi
presenti. E le giuro che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a
questo, ch'io non farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno,
né forse in vita mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno
l'entusiastica ammirazione di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno
«molte ore in secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere
con cui da più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce.
Scrive “Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica
cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava:
gli scrupoli di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie
di persecuzione. Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede
cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara,
ricevendo due sentenze di assoluzione.[29] Barbara Sanseverino
Disagi presso la corte estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel
1575 e protrattesi presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un
intermezzo piacevoleforse l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la
contessa di Sala Barbara Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora
Sanvitale, cantò gioiosamente in alcune rime amorose, che, com'era accaduto per
Lucrezia e Leonora d'Este, obbediscono alle conventions de genre e non rivelano
altro che una sincera amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e
sognava diandare a Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché
volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente
intriganti, e tutti hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri
sommamente di mutar paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se
stesso può essere manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato»,
scrive a Gonzaga. Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza
materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili,
che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università
(carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente
bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una
questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia
L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e
psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la
corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva
rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un
bastone. Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua
assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta
della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso
sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione,
come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame
ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33] A
far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli
religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo
l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando
inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il
poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori
successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar
cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti
all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in particolare contro
Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre
presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che
una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa
Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7
giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e il 17 giugno Tasso,
ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello. Il
Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio,
quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di
Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per
essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37] Il poeta
supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero
da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe,
e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto,
ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò
quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato
dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo
inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i
germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano
impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe
manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché
completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto
pericoloso? Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un
accordo. Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava
che la fuga: nella notte tra il 26 e il 27 luglio si travestì da contadino e
fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora
sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella,
annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la
sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata
della donna.[39] A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere
parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in
data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un
testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior
colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere
nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40]
Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in
fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad
Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che
restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono
partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia
alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà.
Paura, instabilità? Quello che è certo è che nello stesso mese le parole
di Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere credibilità
alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di sano
intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia». Anche
gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere paiono
rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv, adesso
più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È proprio
questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta canzone Al
Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una
rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi
delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato,
concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il
luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti
errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura
l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»
Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da
Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto
dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da
alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette
l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia[45], e
godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare
tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi
pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora
una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni
del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale
estense tra il 21 e il 22 febbraio, proprio mentre fervevano i preparativi per
le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di
Mantova Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui:
«Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di Sant'Anna.[
Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda all'ira si siano
indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è probabile che si
trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla vicenda
dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze autopunitive.
Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna Nell'Ospedale veniva
trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche razioni di cibo
scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto spirituale,
visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto mai o
confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque ininterrottamente
a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di liberarlo e
difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito Gonzaga,
alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che sarebbe
divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni di
reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle
armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di
più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con la
durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui troviamo
un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta: «rodimento
d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli orecchi e ne la
testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli: la qual mi
perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per un
sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si mettano a
parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non l'abbiano reso
«inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu semplicemente un
melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi di mania, da
riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi squilibri
dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la tesi della
pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un periodo così
lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve essere
riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione
veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la
prigionia, vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata
operazionea Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni
del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata
fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza
l'avallo dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le
stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era
ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile,
ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso.
Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che
diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara,
restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie
editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in
modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le
pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la
neonata Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la
verità, né dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel
dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo
Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato
viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e
fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a
causa della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva
dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò
la reazione dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la
Difesa dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso
ed esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto.[61] Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o
strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur
nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si
valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di
esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono
affrontate anche questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in
due parti, la prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini.
Qui, nella descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche
come la clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser
filosofo, e soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si
possono confidare gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa
ancora fu la composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone,
ma paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con dedica
a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco, rivisto
e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del giuoco; La
Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il Tasso fece
della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa d'Este); Il
Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo ferrarese Lorenzo
Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la moltitudine; Il Beltramo,
overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace (in risposta a uno scritto
di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio. Il Forestiero
napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli Idoli, e, infine,
La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo non aveva
dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee piuttosto
lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo Malpiglio espose
intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe apportato negli
anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a ventiquattro canti
(secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle stanze, tagliando
anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà molto minor de
l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da semplice interesse,
lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del Nostro. Prima della
reclusione a Comacchio era stata
rappresentata una commedia tassesca alla presenza della corte. Ora Virginia de'
Medici voleva che il testo fosse perfezionato e completato per essere
interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio con Cesare d'Este.
Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera fu poi pubblicata
e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno degli attori
dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia. L'opera,
ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume dell'epoca, è
sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed episodi ispirati
all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che confluiranno nella
commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando in dialetto e
«profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla mente la futura
maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde nel ritenerla
infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio di
Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le
delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato
a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di
Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un
breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso
Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone
amico. A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano
il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla
seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582
-, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto
aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura
dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando
nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in
azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e
per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di
Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo
dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato
di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza
chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di
Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini,
sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo
di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si
mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo
impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse
nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal
Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse
una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque
un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia
di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione. Il santuario
di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI)
Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel
santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare
il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in
mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e
sofferenza: «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si
volve nell'alta polve, e nel tenace fango.» Torquato fu a Roma.
L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue
richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il
poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri
lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli
uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda
al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici
per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la
speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi
che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del
periodo in un volumetto del 1589, stampato a Venezia. Vista l'inutilità del
soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna
nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato
a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote
paterna e di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e
sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera,
i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità
di un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi
anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo
dell'autore dopo la sua morte. Il clima amichevole in cui fu accolto, la
stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è
quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve
periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto,
rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il
complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta
visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico
delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo
Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito
cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del
mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima
ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione
tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido
Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò
quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v.
Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che
cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come
per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi
Tonelli e di alcuni studiosi più recenti. In ogni caso, anche questo
periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie
condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche
nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a
Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda
un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse
di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e
meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non
usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva
interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto
nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di
quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni
allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state
descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che
appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a
quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume
una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto mettere
alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un
"folle". A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella
speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli
illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione
Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la
routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i
cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei
in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa,
avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più»,
scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più
disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con
Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana
Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che
prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però,
furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero
intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno
la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi
scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche
se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato
a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto
Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo
eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli
rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano
la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate.
Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se
«il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità
della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due
settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga
non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto
del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo
ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli ultimi anni del
Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono
nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non
esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e
il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli,
adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi,
la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro
in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto
ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per
la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria
infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere
accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito
di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati
Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla
tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche
relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi
encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III
di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il
motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento
più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia
coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi,
perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna
incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una
bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la
sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le
illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura
chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano
VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente
affidamento sugli aiuti pontifici. Tasso scese così a Roma, accolto dagli
Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici
giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta
le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi;
m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò,
sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni
giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca
in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona
disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle
fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai
cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto
che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi
giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente
manifestazione di un'anima senza pace.[94] Ritornato quindi sul Mincio
(marzo 1591), accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro
letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a
Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon
punto, e illustra le linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al
fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze
che si leggono nello stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio
accresciuto ed illustrato e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro,
datogli dalla pazzia de gli uomini più tosto che dal mio giudicio».[95] Sono
parole che possono parere sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi
sempre più pressanti. Non si era comunque concentrato solo sul poema:
aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano
Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la
Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva
intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con
dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato
solo nel 1666, tra le Opere non più stampate dell'edizione romana
Dragondelli.[96] Il poemetto è sicuramente trascurabile, fatto di una
versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo
principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori delle
famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno prima, e
dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata la
tradizione orale legata alla battaglia del Taro.[97] La calma, tuttavia,
era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava insopportabile
dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con l'intenzione di
raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu travagliato e appesantito dal fatto
che Tasso si ammalò più volte durante il tragitto, costretto a sostare in varie
località, fra cui Firenze. Giunto nell'Urbe il 5 dicembre 1591, ricevette
l'ospitalità di Maurizio Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio,
diretto a Napoli A questo punto,
inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione.
Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza
ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con
grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative
alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria,
comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più
proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e,
sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera
significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita
lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente
VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente
migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo
dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare
cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La
produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi
esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e
altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di
Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le
lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e
sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la
Gerusalemme conquistata. Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto
che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni
studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È
veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi
tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza
dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con
mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo
in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo
Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso
Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro»,
scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia».
Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta
per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo,
e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la
parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a
capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio,
per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità
materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a
versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui
che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595. A Napoli
rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di
san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla
letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i
benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine
dell'anno ritornò a Roma. Cambiò città per l'ultima volta: la fine era
dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai
impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno,
tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al
monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che
il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte
all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio,
quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la
novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli
de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto
perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi
divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in
Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena,
ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte del Tasso è
stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi
ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali
pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor
malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del
suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.
Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della
quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un
sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta
quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per
riposarsi. Albero genealogico Reinerius de Tassis SconosciutaOmedeo Tasso
(1290)[110] SconosciutaRuggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso
SconosciutaPalazzo de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis.
SconosciutaPietro Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de
RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere Un ritratto a Sorrento.
Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta
il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il genere epico nonché il suo
primo impegno letterario di rilievo. Se ne possiedono soltanto centosedici
stanze del canto I. Oltre a condividere con la Liberata l'argomento (la prima
Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra il proemio di questo esordio
poetico giovanile e quello del capolavoro della maturità. Rinaldo All'età
di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò
il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici canti (circa 8000 versi) la
giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese di armi e
di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare in parte
gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i "moderni"
(Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo le esigenze di
unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera tipicamente giovanile,
ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni temi e toni fondamentali
che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato culturalmente. Rime
Torquato Tasso compose un gran numero di poesie liriche, lungo l'arco di tutta
la sua vita. Le prime furono pubblicate col titolo di Rime degli Accademici
Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al 1593 ad un riordino
complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime encomiastiche. Previde
poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e una quarta di rime per
musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime amorose è ben
riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta produzione
petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente, però, il gusto
per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano l'evoluzione
verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso frequente di forme
metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale, e la raffinata
musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati da grandi
autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa. Più solenni e
classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure e alle famiglie
signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro creazione si
ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra tutte, la più
famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi autobiografici. Le
Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto
che le scrisse negli ultimi anni di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio
di sconfiggere l'ansia esistenziale e il tormentoso senso del peccato
attraverso la fede e l'espiazione. Discorsi dell'arte poetica Attorno
alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte
poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese
e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una
chiara visione della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante
da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e
all'intrattenimento del pubblico. Perché possa essere giudicato di buon
livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito.
Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che
la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e
dello scioglimento della favola. Al verosimile deve essere unito il
meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella
religione cristiana. Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità
d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e
per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la
Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee
dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il
sublime e il mediocre a seconda dei casi. Aminta Magnifying glass icon
mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo
Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi
pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione
drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le
commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una
novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava
nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo,
la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti,
Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano
con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e
capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione …
L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con
le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella
narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è
l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice".
Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di
avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e
delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è
nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di
naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale
a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa
semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.» (De Sanctis)
L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni
canto si conclude a lieto fine. Ha ispirato la composizione della favola
pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle
ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia,
Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo
atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione
dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo,
e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti
le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte
curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura
dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno. L'editio
princeps è quella bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di
Mantova, Ferrara, Venezia e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu
rappresentata per la prima volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza.
Trama Torrismondo è intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il
sovrano (d'una ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa
di un debito passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve
sposarsi con l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida
poiché Germondo stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida.
Germondo dunque non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di
quest'ultima lo odia. Germondo decide allora che Torrismondo per sdebitarsi
avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida e al momento delle nozze avrebbe
dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da Torrismondo la mano di Alvida i due
consumano l'amore. La storia prenderà un'altra china quando Torrismondo
scoprirà che la donna amata non è altri che la sorella, la situazione culminerà
nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è molto importante perché anticipa le
tragedie barocche, nelle quali si riprendono alcune caratteristiche
fondamentali delle tragedie senecane: la meditatio mortis (il Memento mori) e
il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò che compare fortemente e
caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che dilania l'animo dei
personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché impossibilitato
all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già predisposti.
Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in merito all'opera:
Angelo Solerti e Francesco D'Ovidio si sono mostrati ostili verso il
Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo
si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed
esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa
presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie
cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata
Gerusalemme liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La
Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di
un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a
scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia.
L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In
seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la
riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed
epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà
la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad
avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri,
fu la Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra
raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme.
Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi.
Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il
sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo
l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno
lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire
la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero
della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e
alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e
permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La
stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione
del Forno overo de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre
relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo
della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla
peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il
poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si
fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata al 1996 ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva
edizione completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana
sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni
commentate della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è
occupato Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e
Arnaldo Di Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente,
Fonti culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato
Tasso; e Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore
e elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo
e del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei
"Dialoghi" di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di
Prandi/Ossola, ha offerto una puntuale lettura del Forno, premiata con il
premio Tasso (Le virtù del tiranno e le
passioni dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla
virtù eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de
la corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana),
preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento (Il nuovo
«Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di Tasso) e del Costante
(«Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione
de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso). L'edizione critica di
Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi tassiani, con un'appendice
che ci permette di conoscere i manoscritti superstiti e le stampe. Questo il
titolo dei vari dialoghi: Il Forno overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo
de la cortesia; Il Forestiero Napoletano overo de la gelosia; Il N. overo de la
pietà; Il Nifo overo del piacere; Il messaggiero; Il padre di famiglia; De la
dignità; Il Gonzaga secondo overo del giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la
pace; Il Malpiglio overo de la corte; Il Malpiglio secondo overo del fuggir la
moltitudine; La Cavalletta overo de la poesia toscana; Il Gianluca overo de le
maschere; Il Cataneo overo de gli idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La
Molza overo de l'amore; Il Costante overo de la clemenza; Il Cataneo overo de
le conclusioni amorose; Il Manso overo de l'amicizia; Il Ficino overo de
l'arte; Il Minturno overo de la bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte
overo de le imprese. Le sette giornate del mondo creato È un poema in
endecasillabi sciolti, accanto ad altre opere di contenuto religioso di
impronta chiaramente controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo. Si
fonda sul racconto biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti,
corrispondenti come dice il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo,
e presenta una continua esaltazione della grandezza divina della quale la
realtà terrena è un pallido riflesso. Le lacrime di Maria Vergine e Le
lacrime di Gesù Cristo Si tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo
creato, di due scritti facenti parte delle cosiddette "opere devote"
del Tasso. Nello specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la
tradizione della "poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà
del Cinquecento, appena qualche anno prima della morte. Influenze
culturali Statua di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la
sua pazzia, divenne subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il
periodo di prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda
secondo cui il poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal
duca Alfonso che voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella,
imprigionandolo (anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera
ragione della reclusione consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al
tribunale dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese
particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il dramma
Torquato Tasso (1790)[129]. In età romantica il poeta divenne il simbolo
del conflitto individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti
coloro che non sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In
particolare Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15
febbraio del 1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in
una lettera che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico
piacere che ho provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un
fratello spirituale, ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui
quello citato) e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una
delle Operette morali). Molta parte della poesia recanatese è impregnata
di stile tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della
Gerusalemme, mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia
con il «misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due
nomi femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi
dall'Aminta. In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della
Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le
parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti
e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito"
conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in
musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico
Tasso. Lamento e Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca
ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato
Tasso. Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro
Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di
Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per
l'occasione da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia
di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti
cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film
sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata,
di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme
liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe
Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus,
Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma.
Giovan Pietro D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in
«Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di
Torquato Tasso, B. Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 2 to. Angelo Solerti, Vita
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Torino, Paravia, Giulio Natali, Torquato Tasso, Roma, Tariffi, Capitoli di
storie letterarie Ettore Bonora, in Storia della letteratura italiana, dir. E.
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Tasso e sulla fortuna Arnaldo Di Benedetto, «La sua vita stessa è una poesia»:
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Torquato Tasso fra Italia e Francia, in «Il Segretario è come un angelo».
Trattati, raccolte epistolari, vite paradigmatiche, ovvero come essere un buon
segretario nel Rinascimento, Atti del XIV Convegno Internazionale di Studio
organizzato dal Gruppo di Studio sul Cinquecento francese, Verona, Rosanna
Gorris Camos, Fasano, Schena, Umberto Lorenzetti, Cristina Belli Montanari,
L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Tradizione e rinnovamento
all'alba del Terzo Millennio, Fano Sulle Rime Arnaldo Di Benedetto, Fra
petrarchismo e Barocco: le «Rime» di Torquato Tasso, «A me versato il mio dolor
sia tutto», Lo sguardo di Armida (Un'icona della «Gerusalemme liberata»), Per
un anonimo in meno: l'autore del dialogo «Il Tasso», in Tra Rinascimento e
Barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice
Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di veder Diana». Emersioni
seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta»
Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla tragedia della «Liberata», in Studi
sulla letteratura del Rinascimento, cMaria Grazia Accorsi, «Aminta»: ritorno a
Saturno, Soveria Mannelli, Rubbettino, Arnaldo Di Benedetto, Il sorriso
dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura italiana», Arnaldo Di
Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani», Sui Dialoghi A.
Benedetto, Torquato Tasso, «Il padre di famiglia», in L'«incipit» e la
tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo Cinquecento, Pasquale
Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia, Angelo
Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione
de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica»,
Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi
di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana», Raimondi Ezio, Il Problema Filologico e
Letterario dei Dialoghi di T. Tasso, in Rinascimento Inquieto, Einaudi, Torino.
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Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi Tassiani», Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato
TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal Duecento al Cinquecento,
Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, Tasso, Torino); Lettere di Torquato
Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso, Roma, G.
Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano invece che
queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello
bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, cit.20 L. Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, cit.60 E. Durante, A.
Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e
Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W.
Moretti, Torquato Tasso, Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo
alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia, L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato
ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia
popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22
L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli,
cit., 99-100 Lettere, cit., I49 Secondo Maria Luisa Doglio la data non è
casuale e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe
infatti visto per l'unica volta Laura, cfr. M. L. Doglio, Origini e icone del
mito di Torquato Tasso, Roma Lettere, c Lettere, Lettere, cit., I114 Si tratta di un'epistola al Gonzaga del
luglio 1575; Lettere, cit., L. Tonelli
S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano, Principato, L.
Tonelli, Lettere, Si trattava comunque
di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe
garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172 Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano,
Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,
120-121 A. Solerti, L. Tonelli,
cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di
un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA.
Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero,
Letteratura Italiana, 2, SEI, Torino,
1987 Lettere, cit., I298 Lettere, cit., I299 A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi
un suo informatore L. Tonelli, Lettere, cit., II89 L. Tonelli, cit.187 A. Solerti,
Lettere, Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo548 L.
Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e
ss. Opere di Torquato Tasso, Firenze,
Tartini e Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal
Salviati Tra parentesi sono indicate le
date di pubblicazione L. Tonelli, Opere,
cit., II276 Tra parentesi si indicano
due date, quella di composizione e quella di pubblicazione Lettere, cit., II56 La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più
tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188 L.Tonelli,
247-248 A. Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, cG. Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di Torquato Tasso, in Opere minori in versi di
Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, E.
Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, Battistelli,
G. B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di Torquato Tasso, Firenze; Lettere,
Così al Costantini; Lettere,
Lettere, L. Tonelli, cit.275 Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere maggiormente;
perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli oblighi.
Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono di cento
scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del primo; ma la
conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse eterna, e ne
l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno de' presenti o
de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io sia debitore a la
cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la quale supera
tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il Tasso al
marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze nella primavera del 1590. Soltanto
nello stesso 1590, il Tasso dedicherà al marchese due composizioni
encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi
normando. Lettera a Scipione Gonzaga,
Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6 L. Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, cit., 278-279
C. Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in
Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,
I L. Tonelli, G. B. Manso,
L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, cit., II
Lettere, cit., V194 Lettere,
cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a
Ercole Tasso, 29 aprile 1595; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò
Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso10. (DE) de Karl
Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit,
de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge T. Tasso,
Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C.
Guasti), Firenze, Le Monnier, 1875
Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15
A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, U. Renda, Il
Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, E.
Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle
Opere minori in versi di Torquato Tasso, L. Tonelli, cit.253 Torquato Tasso, Risposta di Roma a Plutarco,
Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia | Edizioni di Storia e
Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli, Una «congregazione di
uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana
nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura
italiana»,, 121, n°1, 34-43.. 12 agosto. «Questa concordia è sempre
nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la
clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di
S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di
Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la
tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro Ad Angelo Mai, v. 124 G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria,
Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, S. E. Failla,
Ante Musicam Musica. Torquato Tasso nell'Ottocento musicale italiano,
Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso |
Massimo Colella | Griselda Online, su griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia
goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dalle Operette morali di
Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della famiglia Tasso di
Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano, museo dedicato a
Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale ubicazione a
Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Torquato Tasso, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale
Italiana. Opere di Torquato Tasso, su
Liber Liber. Opere di Torquato Tasso, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto
Gutenberg. LibriVox. Torquato Tasso, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music Score
Library Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database,
IMDb.com. Torquato Tasso Testi completi
e cronologia delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana
digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Torquato Tasso,
testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Due
segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo
di Torquato Tasso, su midesa. 2 luglio 2009 19 maggio ). Opere di Torquato
Tasso colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette
sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa,
presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di
tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I
dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso.
Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, 4 voll.,
Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di Torquato. DELL'ARTE DEL
DIALOGO 2B2S<£©a&S(5> Voi mi
pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io vo- glia
darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno, dello
scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'av- visate
d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e della pace. E se
propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè tanto a me
disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella di sco-
lare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come Giotto,
perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non conve-
niente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e ammaestramento chiamate
l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa debbo tenervi ce- lata, la
qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed allora sti- merò
buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran confermate. E se
-delle regola avviene quel che delie leggi : siccome altre leggi hanno i
Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/ Ragusei, oasi potreb- bero
avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli
voglio dar questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io
l'ho raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori
cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di
corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli
amid ' e da parenti, non v' incresca di leggere. 392
dall'arte del dialogo Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini
o i ragionamenti: e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola,
e pochi discorsi senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno
assai diverse giu- dico quelle da questi : e degli speculativi è proprio
il discorrere, sicco- me degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi
generi dell'imi- tazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati
gli operanti: l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i
ragionanti. E. 1 primo genere si divide in altri, che sono la tragedia e
la commedia, ciascuna delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo
si può divider pari- mente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali
scrissero e non parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che
Platone avea comi- camente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora,
Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli
medesimo chiama le sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma
tra' moderni v*è chi gli divide altramente, facendone tre specie: l'una
delle quali può montare in palco, e si può nominare rappresentativa,
perciocché in essa vi siano persone introdotte a ragionare cioè in
alto, com' è usanza di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e
simil maniera è tenuta da Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne'
suoi; ma un'altra ce n' è, che non può montare in palco, perciocché
conservando- 1' autore la" sua persona, come isterico narra quel che
disse il tale e '1 cotale: e questi due ragionamenti si possono domandare
istorici o narrativi, e tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è
ancora la terza maniera ed è di quelli, che son mescolati della prima e
della seconda maniera, conservando l'autore la sua prima persona, e
narrando come istorio): e poi introducendo a favellar tyafiarix&s
come s'usa <fi far nelle tra- gedie e nelle commedie: e può e non
montare in palco, cioè non può montarvi, in quanto l' autore conserva la
sua persona ed è come 1* isto- rico: e può montarvi in quanto
s'introducono le persone rappresenta- tivamente a favellare: e Cicerone
fece alcuni ragionamenti sì fatti. E quantunque questa- divisione sia
tolta dagli antichi e paia diversa dal- l' altra, nondimeno l'intenzione
forse è l'istessa; perchè la tragedia si divide in quella che si dice tragedia
propriamente, e nell'altra nella qual parla il poeta: e tragedia sì fatta
compose Omero. E questa divi- stone perchè è fatta in due membri, è più
perfetta; nondimeno i àia- Ioghi sono stati detti tragici e comici per
similitudine, perchè le trage- die e le commedie propriamente sono
l'imitazione dell'azione; però tragici si posson chiamar sopra tutti gli
altri il Critone e 1 Fedone: dell'arte del dialogo 303
Dell' un de' quali Socrate condannato alla morte, ricusa di f uggirsene
con gli amici: nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità del-
l'anima bee il veleno. E comico è il convito nel quale Aristofane è
impedito dal rutto nel favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i
convitati. Ma il Menesseno par misto di queste due specie: perciocché
Socrate battuto dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando i
morti ateniesi innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi
medesimi dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè nell'
une e nelT altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per
l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e 8'
altri la rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque in
lui queste differenze sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma le
proprie si terranno dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui
contenuti, cioè dalle cose ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per
eh' i ragionamenti sono o di cose che appartengono alla contempla- zione,
oppur di quelle che son convenevoli all' azione * e negli uni sono i
problemi intenti all' elezione e alla fuga, negli altri quelli che
riguar- dano la scienza, e là verità; laonde alcuni dialoghi debbono
esser detti civili e costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni
e degli altri; o sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa
insegnare; o la finita che debba far Socrate condannato alla morte. E
perciocché gran parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in
tutti la quistione è infinita, non pare che lor si convenga la scena in
modo alcuno, né meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d'
altissime spe- culazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun
dialogo, se non forse per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta
pare istrionica, sic- come disse il Falereo, awengachè nella scena si
rappresenti l'azione o atto dal quale son denominate le favole e le
rappresentazioni dramma-* tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita
il ^ragionamento il qual non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse
recitato qualche dia- logo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui
senza necessità. Perchè se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata
all'istrione, come nell'Eri- demo, può leggersi dallo scrittore medesimo,
ed aiutarsi colla pronuncia. Né egli conviene ancora il verso, come hanno
detto, mala prosa ; perciocché la prosa è parlar conveniente allo
speculativo e all' uomo civile, il qual ra- gioni degli uffici e delle
virtù. E i sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi e gli esempi non
potrebbono esser convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo alcun
dialogo in versi, come è l'amicizia bandita di Ciro 30*
dell'aste del dialogo predentissimo, non stimeremo lodevole per
questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che il dialogo- sia imitazione
di ragionamento scritto in prosa senza rappresentazione per giovamento
degli uomini civili e spe- culativi : e ne porremo due specie, 1' una
contemplativa, e Y altra co- stumata : e 1 soggetto nella prima specie
sarà la quistione infinita o la finita : e quale è la invola nel poema,
tale è nel dialogo la qui- stione : e dico la sua forma, e quasi Y anima.
Però se una è la favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del quale si
propongono i problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre parti,
cioè la sentenza^ e '1 costume ,* e Y elocuzione ; ma trattiamo prima
della prima. Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda
e della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente
al dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1
dia- lettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una cosa di molti
; perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene o la
ne- gazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se
non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne piedi e
mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma del- l' esser
bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice Ari- stotile, non se
ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa, non sarebbe, una
affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazio- ni. Se dunque
l'interrogazione dialettica ò una dimanda della ri- sposta, ovvero della
proposizione, ovvero dell'altra parto della con- tradizione: e la
proposizione è una parte della contradizione , a que- ste cose non sarà
una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo non s' appartiene il
dimandare, a lui non converrà di scriver dialo- go. E par, che Aristotile
assai chiaramente faccia questa differenza nel primo delle prime risoluzioni
fra la proposizkm dimostrativa e la dialettica, dicendo, che la
dimostrativa prende l'altra parte della contradizione; perciocché 'colui,
il qual dimostra, non dimanda, ma piglia ; ma la dialettica è dimanda
della contradlzione. Nondimeno nel primo delle posteriori egli dice, che
s' è il medesimo l' interro- gazione sillogistica e la proposizione : e
le proposizioni si fanno in cia- scuna scienza, ancora si posson fare le
dimando. Laonde io raccolgo, che si posson fare i dialoghi nell'aritmetica,
nella geometria, nella musica e nell' astronomia e nella morale e nella
naturale e netta divina filosofia, e in tutte F arti e in tutte le
scienze si posson fu le richieste e conseguentemente i dialoghi. E se
oggi fossero in looe dell'arte del dialogo 395 i
dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio
alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di proposi- zioni
appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere lMstcsso;
nondimeno siccome il dimandare è 'proprio al dialettico, così a lui si
conviene il dialogo più; che a tutti gli altri. Laonde Aristotele nel-
capitolo seguente . pare, che faccia differenza fra le ma- tematiche e ì
dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar dal falso il vero,
'sarebbe facile il risolvere, perchè, si convertirebbono di necessità ;
ma si convertono più quelle, che son nelle matemati- che, perchè non
ricevono alcuno accidente, e in ciò son differenti da quelle, che son ne'
dialoghi : e dialoghi chiama i parlari dialetti- ci, i quali son composti
della dimanda e della risposta. Al dialet- tico dunque converrà
principalmente di scrivere il dialogo, o a co- lui, che vuol
rassomigliarsi. E '1 dialogo sarà imitazione d' una di- sputa dialettica.
Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale, il
dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si
possono imitare ne' dialoghi : e forse in quelli d' Aristotele erano
tutte quattro; ma in quelli di Platone si troverebbono simil- mente,
perchè Socrate per via d' ammaestramento e d' esortazione parla con
Alcibiade, con Fedro e con Fedone : e come dialettico disputa con Zenone,
e con Parmenide;. e come tale riprova Ippia, Gorgia, Trasimaco e gli altri
sofisti e talora gli tenta ; mq i sofisti son contenutosi, e vaghi di
gloria, come appare nell' Eutiemo, detto altramente il Litigioso.
Nondimeno questi quattro generi non sono così partitamente distinti dagli
interpreti di Platone i quali pongono tre mdftUre di dialoghi ; l' una,
nella quale Socrate esorta i giova- netti * nelP altra riprova i sofisti
; la terza è mescolata dell' una e dell' altra, la qua! senza dubbio è
più soave per la mescolanza. Ma chi volesse scriver dialoghi secondo la
dottrina ó? Aristotele e arric- chir di questo ornamento le scuole
peripatetiche, potrebbe scriverli in tutte quattro le maniere. Ma
principalmente son lodevoli le due prime, la dottrinale e la dialettica,
l'artificio della quale consiste principalmente nella dimanda usata con mollo
artificio di Socrate ne* libri di Platone, come appare nel primo dialogo
nel quale Socrate richiede ad Ipparco quel, che sia la cupidigia del
guadagno ; e in tutti gli altri simiglianlt, non eccettuando quelli, ne'
quali sotto la per- sona di forestiero ateniese dà le nuove leggi d' una
città : e 'n quelli di Senofonte ancora con arte molto simile Socrate
chiede a Critobulo 396 dell'arte del dialogo se
l'economia è nome di scienza, come la medicina e l'architettura. E nel
Tirreno Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la
privata: e dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'in- segnare.
Ma da questo artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle partizioni
oratorie pone la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna, ma di colui,
ch'impara: ed egli medesimo ci dimostra la diversità fra i Greci, e i
Latini in quelle parole di Cicerone: figlinolo, tuo) dunque eh' io ti
dimandi scambievolmente in lingua Latina di quelle cose medesime, delle quali
tu mi suoli addomandare nella Greca or- dinatamente ? Laonde pare, che la
dimanda, fatta dal discepolo, 6ia derivata da Cicerone, e l' artificio
sia proprio de' Romani, il quale s' usò dal Possevino e da altri nella
dottrina peripatetica, perchè forse è più facile ; ma è non così
lodevole, né fu, eh' io mi ricordi, usata dagli antichi. E per questa
ragione M . Tullio nelle Quistioni Tusca- lane più s' avvicina all' arte
de' Greci ; perciocch' egli comandava, che alcun de' suoi famigliari
ponesse quello, che gli pareva, ed egli contraddiceva alla conclusione in
questo modo. Auditore. La morte mi pare esser male. M. A quelli che son
morti o a quelli eh' han da morire P La quale è vecchia e Socratica
ragione di disputar cantra l' altrui opinione. Tuttavolta il por la
conclusione ha dello scolasti- co: e però dice d'aver poste ne' cinque
libri le scuole de' cinque gior- ni. Tanto potè l' amor della filosofia
in un vecchio Senator Romano, Padre della patria, il qual quistionava
secondo il costume de' Greci forse per ingannar se stesso in questo modo
e consolarsi nella servi- tù. Ma non si dimenticò ne' libri dell' oratore
di quel, eh' era con- venevole a' Romani Senatori ; laonde Crasso e
Antonio in altra maniera introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi
Greci, lodevorrssimi sono que' di Platone ; perciocché superano gli altri
d'arte, di sottilità, d'acume, e d'eleganza e di varietà di concetti e
d'ornamento di parole. E pel secando- luogo son quei di Senofonte; e quei
di Luciano nel terso. Ma Cicerone è primo fra' Latini, il quale volle
forse assomigliarsi a Platone: nondi- meno nelle quistioni, e nelle
dispute alcuna volta è più simile agli ora- tori, che a' dialettici; ma
nel secondo luogo non so, che se gli avvi- cini, o chi possa paragonare
a' Greci. E nella nostra lingua coloro, che hanno scritto dialoghi, per
la maggior parte hanno seguita la ma- niera meno artificiosa : nella
quale dimanda quegli, che vuole Impa- rare, non quel, che riprova. E se
alcuno s'è dipartito da questo modo di scrivere, merita lode maggiore: e
tanto basti della prima parie, dell'arte del dialogo
397 che è la quistione. Ma perchè, come abbianv detto, il dialogo è
imi- tazione del ragionamento, e il dialogo dialettico imitazione della
di- sputa , è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano
qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si
manifesta alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due
parti nel dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del
dialogo deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è
quasi mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imitò, e
meglio l'espresse di Platone, che, descrisse nella persona di Socrate il
costu- me d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia
gli ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e
riprova la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità,
amator del giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'in-
giurie, intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ip-
pia, e di Gorgia, e d'Eutidemo, e degli altri sì fatti si descrivono gli
avari, e ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza
d'alcuna cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di Grifone
descrive il buon padre e il buon amico: e in quella d'Al- cibiade, di
Fedro, e di Carmide i costumi de' nobili giovani son de- scritti
maravigliosamente. Oltra queste parti del dialogo ci sono le di- gressioni,
come nel poema gli episodj : e tale è quella d' Eaco, e di Minos, e di
Radamanto nel Gorgia , e quella di Teut demone degli Egizi nel Fedro,
d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma per- chè abbastanza s'è
ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi di
coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che parliamo dell'ultima
parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone, che ricopiò
l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo il dialogo e
l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma Demetrio Falereo
dice, che il dialogo è imitazione "del ragionare all'improvviso; ma
l'epistola si scrive, e si manda in dono in qualche modo ; però dee esser
fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò Platone, ne M. Tullio
pare, che sempre avessero que- sta considerazione; perchè ne' dialoghi
l'elocuzione dell'uno e del- l'altro non è meno ornata, che quella
dell'epistole: e in tutti gli altri ornamenti i dialoghi paiono
superiori. E ciò non par fatto senza molta ragione ; conciossiacosaché i
dialoghi di Platone e di M. Tullio sono imi- tazione de' migliori: e
nell'imitazioni sì fatte, le persone e le cose imi- tate debbono
piuttosto accrescere che diminuire, come ci insegna De- Vol. II. 34
398 dell'arte del dialogo metrio medesimo, il qual
vuole, che la magnificenza sia nelle cose, se il parlare è del cielo o
della terra. Oltre di ciò laddov/egli parla od periodo ne fa tre generi :
il primo isterico, il secondo dialogico» il teno oratorio: e vuole, che
ristorico sia nel meno dell'uno e dell'altro, non molto ritondo, né molto
rimesso: ma la forma dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del
dialogico più semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d'
esser periodo. I quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da'
Greci, che, da M. Tullio, che imitò Pla- tone solamente; perchè egli così
nel periodo, come in tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr
Senofonte e degli altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo
delle Immagini, che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale
cammina in luogo, dove è peri- colo di Bdrucciolare, compiacendo a se
medesimo, e avendo molto ar- dire, siccome è proprio delle nature sublimi
; talché fu detto di lai, ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar
pedestre: e che il suo par- lare non era in tutto, simile al verso, né in
tutto simile alla prosa : e ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i
re facciano la podestà: e insomma niun ornamento di parole, niun color
rettorico, ninn lume d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma
s'in alcuna parte del dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti
di Demetrio, è in quella, nella qual si disputa , perchè in lei si
conviene la purità, e la simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio
ornamento par che impedisca gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire,
l'acume, e la sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con
maggior diligenza : e dovendo lo scrittore del dialogo assomigliare i
poeti nell'espressione, e nel per le cose innanzi agli occhi, Platone
meglio di ciascuno ce le fa quasi vedere, il qual nel Protagora parlando
d' Ippocrate, che s' era arrossito, essendo ancora di notte, soggiunge:
Già appariva la luce, onde il color pareva esser veduto e la chiarezza,
die evidenza è chiamata dai La- tini, nasce dalla cura usata nel parlare,
essersi ricordato, che Ippo- crate era da lui veduto di notte. E nel
medesimo dialogo leggiamo con maraviglioso diletto, che l'eunuco
portinaio, perchè i sofisti gli erano venuti a noia, serra con ambe le
mani la porta a Socrate e al com- pagno : e appena l' apre, udendo, che
non erano di loro. E ci piace il passeggiar di Protagora e degli altri,
che passeggiando con tanto or- dine ascoltavano il ragionare : e ci par
vedere lppia seder nel trono, e Prodico giacere avviluppato. E con piacer
incredibile leggiamo simil- mente che due giovanetti appoggiati sovra il
gomito descrivessero ccr- dell'arte del dialogo 399
3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito,
di- mandasse, di chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone
in- nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli
estremi, che sedevano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro
es- ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di
compassione e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione innanzi al
giorno, e l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla morte: e
poi, che il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata legata, e
grattan- dosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali
son con- giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la
lettiera dia principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel
medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di
Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione
parimente è maravi- glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto
il platano, e quelli del forestiero ateniese all'ombra degli alberi
frondosi, mentre col La- cedemonio e col Gandiano vanno all' antro di
Giove, ci par di vedere, e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le
perfezioni di Platone, veramente maravigliose: le quali, sebben saranno
considerate, non ci rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo
non sia imitatore, o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam
dunque, che il dia- logo sia imitazione di ragionamento , fatto in prosa
per giovamento de- gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione
egli non ha bisogno di scena o di palco : e che due sian le specie, l'
una nel soggetto della quale sono i problemi, che risguardano l'elezione
e la fuga: l'altra speculativa, la qual prende per subietto quistione,
jche appartiene alla verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non
imita splamente la disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con
elocuzioni in al- cune parti piene di ornamento, in altre di purità, come
par, che si con- venga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords:
l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello”
– The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51722871363/in/photolist-2mNzeEc-2mMVgsX-2mMVgGz-2mMTVCg-2mMUd42-2mMVhRZ-2mMYn7i-2mMYo8b-2mLP9qE-2mLQ1Vx-2mKNGew-2mKDwcr-2mGnP2f-2mKySc9-2mKC6W3-mbpshr-mbrMFJ-mbpPpD-mboJD8-mbqBen
Grice e Corrado – la dieta di Crotone e la
semiotica magica– filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria).
Filosofo. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English
do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and
produced a philosophical cookbook for the noblemen!” -- Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande
gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800
nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà
partenopea. Fu il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina
mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale
italiana. Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta
cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca,
e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte. Preparava
elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali Principe
di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava un
piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i
pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con
tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine
di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di
Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne
paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla
Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due
Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena
maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel
convento di Oria. Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore
Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si
specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato,
anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale
divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli
ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni,
insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della
città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo
e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria,
anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua famiglia
e dalla sua città natale. Il Principe di Francavilla gli attribuì la
mansione di "Capo dei Servizi di Bocca" (antica mansione con cui
veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla
preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchetti) di Palazzo
Cellamare, sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e
della famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo
livello e rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la
fama di questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che
era in uso al tempo. Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si
esprimeva: «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la
splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini
d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio
da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina
ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di
dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi,
rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria
specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango):
vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il
bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di
sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per
esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta
questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina
consegnava le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a
seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare
assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari
accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia
sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con
pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli
elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava
gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori
variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di
dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti
scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli
uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano
pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una
cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante,
disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con
ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un
artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace
di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno
spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di
gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era
inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria Corrado
lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto
dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di
una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di
conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti
incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri,
probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato
gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui. Le opere “Il cuoco
galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui
che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe.
Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto
nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon
gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di
gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente
opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e
dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare
l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola. Invece grande
successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì
rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe
eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa
opera e ne preparò una terza edizione. La fama del libro superò i confini
del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da
tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla
corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla
quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore
erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre
opere Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore
a pubblicare nel 1778 un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del
dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrisse e
pubblicò inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del
cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia
ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna
della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia
i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta
ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di
differenze sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente
ricca e potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se
non addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando
alle stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto
trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai
alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” --
l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come
frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla
memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria
e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue,
per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e
proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di
100 persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte Termini culinari "Il Cuoco
Galante", proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione,
spiega alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle
varie pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire
in acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione,
cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa,
che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere
e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna
cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui
fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di
far i brodi, i coli e le buri neceJTarj
pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia
filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare
procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi
una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE:
Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape
Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli
Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi
Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria
Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta
Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano
o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite
chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I
vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il seme,
e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto
pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra
soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini
de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con
distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con
escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il
ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio, ed il burirro per compiacere qualche
particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali. Molte
fonti filosofica suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la
semiotica e la filosofia: entrambe le pratiche, infatti, figurano come doni di
Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel
Simposio (197a): "In verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la
medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista
semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui
segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto
collegamento esse lo trovano nella figura antichissima dello iatromantis, il
filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la
capacità di curare le malattie. L'appellativo del filosofo come iatromantis è
riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di
filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e
della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento
fondamentale che caratterizza la figura dell filosofo iatromantis è la sua
capacità di usare una procedura diagnostica: trattandosi di un veggente, egli
è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il
segnante), causa che è da attribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale.
In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità divina o demonica. Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967);
Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker (1983). Un'ampia
panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi
del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). Per questa ragione, c'è bisogno di un
filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono
accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è imputato
il presente stato di contaminazione; in seguito alla sua diagnosi, il
filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles, black cloud means
rain] può indicare gli strumenti magici atti a purificare il miasma. Questa
concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola
pitagorica a Crotona, Alessandro Poliistore, che cita le "Memorie
pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi
le considerano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uomini
i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini,
ma anche alle greggi e agli altri animali da pascolo. E a questi demoni ed
eroi sono dirette le cerimonie catartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e
i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, VIII, 32
D-K, 58 B la). Va notato, di sfuggita, che il carattere italico molto arcaico
della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame
coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di
una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile
(Cfr. Deticnne (1963: 32). Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di
una semiologia SACRA e magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina
magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma,
contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazione che concerne il
mondo in-visibile o in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni
(compreso quel particolare tipo di segno che sono i sogni) dai quali si rende
riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si
chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i
riti catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tropaiche sono
costituite dalla recita di epoidai, cioè di formule verbali incantatorie,
ritenute idonee a scongiurare il male. Si tratta di segni linguistici che da
una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra
sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice:
“Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e
s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e
sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo
pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770502359/in/dateposted-public/
Grice e Corsini – la filosofia in roma
antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Fellicarolo).
Filosofo. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they
do in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught
philosophy at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans
felt interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the
roots of Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the
Italians put it!” Studia nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in
seguito entra quale novizio e si
trasferì nel Noviziato di Firenze. Le sue capacità lo portarono a
diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso la stessa scuola. Si
trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore Generale e dovette
trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai quali si applica
furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia e la numismatica
ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di idraulica, di
didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre opere: “Illustrazione
relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de Minnisari pubblicate ne gli
Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata
negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento istorico sopra la Valdichiana” (Firenze);
“Index notarum Graecarum quae in aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur”
(Firenze); “De Minnisari aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha
dissertation” (Firenze); A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di Corsini (con lettere di Fananese a
Rondelli). Fanani nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae
AteftinorumFri, III. Non. Octobris anno MDCCII. natus eft Eduardus Corsinius
(Silvestro Corsini) optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe
quae jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit
Sodalitatem hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria
habuerat, ingressus est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum
litterarum [cf. Grice, Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis
Florentiae se exercuit apud suos; & cum omnes condiscipulos gloria
anteiret, ab omnibus tamen in deliciis habebatur. Erat enim bonitate
suavitateque morum prope singulari; & cum plurimuin faceret non solum in
excolendis studiis, sed etiam in officiis omnibus religiosi hominis obeundis,
minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos
quofadam horridos, durosque oratione & moribus, quibuscum versari
cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae magistros de
veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam
artem fecisse subtiliter & laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi
spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero
folutoque judicio, & fine ulla contentio ne & pertinacia non poterat
non magnope re probari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum
libris corum dogmata, quae disputationibus huc & illuc trahuntur, ut ipse
per se perpenderet, inveſtigavit Corsii, sed etiam philosophiae adminicula
& an ſas, qualem Xenocrates geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio
& Archimede quae sivit. Quo in itinere felicem adeo habuit exitum, ut
fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere potuerit libellum de circulo
quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit in eo Grandius eximium &
admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus est, ut pergeret porro in
eo studio, quod ceteris & studiis & artibus antecede ret, & in quo
ipse futurus effet excellens. At Corsini praeſertim trahebatur ad humaniores
litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat, quaſque vel in sublimiorum
disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent, legendo renovaverat. Itaque moleste
tulit demandatam fibi a majoribus fuisse an MDCCXXIII provinciam tradendi
publice Florentiae philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non essent
ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit Hamelium.
Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur non eſſe ex
illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata poteſt, ut etiam
fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe profitentur. Poftremo · ad
ſcholae fuae utilitatem & ornamentum maxime pertinere exiſtimavit, fi e
multis, quae ſunt in philoſophia & gravia & utilia a recentioribus
praefertiin philoſophis tracta ta, quantum quoque modo videretur deli geret, in
quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod ipſos non ſolum
quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium procreatrice Philoſophia
petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti bus omnem vitam tueri
deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi in tantam claritudinem
brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer carus, quibuſdam vero
hominibus nudari ſubfellia ſua, & cor nicum oculos configi dolentibus eſſet
invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli (tantum in vidia, aut inſcitia potuit
) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid er roris in religionem
moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum tradere, in exponendis
praeſertim Gaffendi & Cartefii ſententiis, a recta religione abhorrentia.
Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque obtrectatorum temeritatem.
Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis publi ce convinceret, utque ab
omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in lucem profer re, quae in
ſchola & domi iiſdem expoſue rat. Quod cum praeftitiffet, id evenit, ut
alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di diciſſe gauderent. Inſcripfit
opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum Scholarum Piarum, & illud in
quinque volumina diſtribuit si ma mum continet hiſtoriam philoſophiae & lo
gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin cipiis, & tanquam feminibus
unde corpora funt orta & concreta, horumque proprieta tibus &
qualitatibus; agit tertium de cor poribus inanimatis, quae caelo, aere, ri
& terra continentur; examinat quartum animata corpora, multipliceſque eorum
fpe cies, & elementa metaphyſicae tradit; quia tum denique morum doctrinam
complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res no vas inveſtigavit
Corfinius, fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae, quarum co gnitionem
eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre judicamus, cum
pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione Corſinius, illi,
fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das effe diſciplinas, ut ex
omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim cum doceamur a
ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque philoſopho rum
quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec modo quid fibi
probaretur, fed aliorum etiam fententias, & quid cui propo quid in quamque
ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit, ut: non
vincere maluiſſe, quam vinci oſtende-. rid. Hanc opinionum varietatem ex fuis
fone tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin animos influeret,
non modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate & nitore, Latini
ſermonis illuſtravit. Praeclare enjin, Cicero: mandare quemquam litteris
cogitationes fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re, nec
delectationé. aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter abitentis
otio & like cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum
pleniflimo ore laudant ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque
elegantiam, quibus ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque
tractationem earum rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr.
ſunt Trotus., Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam
ut ſe ipſum, qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur,
convinceret. Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:Corfiniusi, hribuſque
temporibus ſcripferit. Quoniam ve Tom. VIII to plurima ſunt in phyfica, quae
fine 'gea metriae ope tractari non poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri
oportere diſci pulis ſuis putavit. Itaque Philoſophicis Ma thematicas
Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem excipias (initium enim facit a pro
portionibus, quas nemo ignorat difficillimam effe geometriae partem ) cetera
ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus, in quo eo
elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi
mathematicas diſciplinas in Ly ceo Florentino. Acceptum illud cum plauſu fuit
propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam, licet in eo acutiores
peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito teprehenderint.
Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat Corſinius in rebus geometricis, yoluit ad
hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea facultate ſcris
ptis mandaverant poft Galilaeum Torricellius, Michelinius, Guglielminius,
Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non dubitavie fuftinens perſonam
non modo conſiliarii & arbitri de dirigendis avertendiſque aquis, ſed etiam
ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit liber, qui infcriptus eft:
Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e dell' acque della Valdinievole,
quique editus fuit fum ptibus. Marchionis Ferronii, cujus cauffam praeſertim
defendebat. Spe dejectus Eduar dus perveniendi in Lycei Florentini docto rum numerum,
qui praeter modum iis tem-. poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam
convertit, petiitque dari ſibi va cuum eo tempore logicae interpretis locum.
Celeriter quod optabat impetravit, propte rea quod Joannes Gaſto Magnus
Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in omni re philo ſophica cognoverat.. Vir
non tam doctrina praeſtans, quam docendo prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt
docendi ) magno erat emolumento ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata
frequentia fcholam illius celebrabant. Cum vero de fchola in otium folitudinem
que ſe conferret, tempus potiffimum conſu mebat in augendis. perficiendiſque
ſuis Phi lofophicis Institutionibus, abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de
Practica Geometria. Ins ter haec magna fuit amnis Arni inundatio, F 2 84 EDUARD
US ut fi inundationes excipias, quae annis MCCCXXXIII. & MDLVII.
acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per
animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe
Clanis aquas in Arnum deductas, & quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue
rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera
fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, & quis
eſſet ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum & actum ab anno MDXXV. ad
fua uſque tempora, ut peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa
nari poſſeti, utque controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis
aquis ejuſdem regionis tollerentur. Piſis erat Corfinio con tubernium cum
Alexandro Polito, qui hum maniores litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra
explicavimus. Hominis Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum
& vo. ces, ſelectiſſimorumque librorum copia, qua is abundabat, Corſinium
per fe jam flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas ar tes, quibus ab
ineunte aetate deditus fuer GO RS IN I UŚ. 85 rat, celebrandas. Sciebat Graece,
cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco
Maria Baleſtrio, fed non luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte
grammatica primum ſe exer euit, poftea Graeca multa convertit in La tinum,
Graecorumque libros & eos pracſer tim, qui res geſtas & orationes
ſcripſe runt, utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime
legebat. Cum vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi
proponi, qui eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit, acom
mico hac de re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem
antiquitatem, co gnoſcendam hiſtoriam, omnium bonarum artium ſcriptores &
doctores & legendos & pervolu tandos, & exercitationis cauſa
laudan.los, in terpretandos, corrigendos, refellendos; diſputan dumque de omni
re in contrarias partes, & quid quid erit in quaque re, quod probabile
videre poffit, eliciendum atque dicendum. Hujuſmodi exercitationes, quas diu
incluſas habuit, Core finius in veritatis lucem tandem proferre ſe poffe
putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos fuſcepiſſet; magnum ſane opus &
prae clarum, quod omnem fere Athenienfium hi ftoriam complecti debebat, cum qua
philo fophiae, omniumque laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime eſt conjuncta.
Diviſit illud ipſum opus in partes duas, quarum prio rem veluti apparatum Faftorum
effe voluit, quod in illa fuſe lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis
Faftis, ad quos ta men pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque
de Archontum inſtitu tione, numero, varietate, muneribus & re rie, de
Archontico anno, atque ordine men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis
annus non in menſes ſolum, ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum
Athe nienfium fingulae aequali temporis, annique parte Prytaniae munere
fungerentur, de ie pſarum Tribuum ac Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque
Atticae populis, ex quibus illae conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab
his ſeparandam putavit tractatio nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis,
dcque Proedrorum, ac Epiſtatum numero, diſtinctione & officiis. Tranſit
inde ad contexendam Archontum ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam
diſtinctio nem licet nonnulli agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui
Pſeudeponymorum Archontum feriem illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime
neceffariam recenſere tentaverit. Agit de mum de civilibus Graecarum gentium
annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque periodo, cum antea declaraſſet tempus,
verumque di em, quo varia Athenienſium feſta peragi & redire confueverant.
Id facere neceſſe fuit propterea quod eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque
temporis notae, rerum gefta rum memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur.
Haec quidem in priori operis par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma
Olympiade, qua Coroebus palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Cauffa
fuit juſta Corſinio praetereundi antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis
occultata tenebris, & circumfuſa fabulis. Ne tamen primam Athenienfis
imperii formam deſpice. re videretur (nam Athenis initio Reges, inde perpetui
Archontes, mox decennales, tandemque annui imperarunt) qui Reges &
Archontes perpetui, & qua aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft.
Ceterum Fa. ftos fic contexuit Corfinius, ut nullum ad nos pervenerit nomen
Archontum, Olympioni čarum & Pythionicarum, nulla lex, neque pax, neque bellum,
neque caſus neque res illuſtris & memoranda populi Athenien fis, quae in
iis ſuo tempore non fit notata. Interdum etiam attigit Spartanorum, Phoceli
fium, Thebañoruin, aliorumque Graecorum gefta, conſilia, pugnas, diſcrimina,
quod ca maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta. Grae Cos vero philoſophos,
poetas, oratores, cete roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita
commemoravit, ut quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi,
vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt
dicta. Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere,
quae in his Faftis continentur. Nihil poſuit in iis Corſinius fine locuplete
auctori täte & teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura; quodque
difficillimum fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel
lecta, aut mutilata'ſic reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe
videatur plus ne jis reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit. Neque
minori perſpicientia Athe nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca quidem
in rein ſuam hauſit; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo
dirimens controverſiam, quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio,
& Gudio, nummis ne, an inſcriptionibus princeps locus dandus effet in
explicandis ri tibus, feſtis, Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque geſtis
Athenienfium. Inter nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, &
miro prorſus acumine atque eru ditione explicat, & interdum etiam fupplet,
eft Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus
maxime idonea. Sed haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam
collocatio. Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic
illa in pariete diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera
vero omnium poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2
tutiſſime indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium
ſe non adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad
Meurfium Scholiis, & ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt
quare is debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe
multumque ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius,
Scaliger, Petavius, Petitus, Spo nius, & vel ipfi Meurfius, & Dodwellus,
quorum errorés dum faepe corrigit Corfini, us, & dum minime ab iis
animadverſa pro fert, fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti
multa cum laude coro nam. Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat
hominibus fe probaturum, Corfinium in emendanda illuſtrandaque Riccardiana in
fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem & mate riem gloriae ſuae. Porro Lamius
poft edi tas Corſinii emendationes fupponere cogita verat in locum impreſſae
jam paginae in I. Meurſii operum volumine, quae prae fe fe rebat inſcriptionem
corruptam, aliam pagi nam, in qua emendatior inſcriptio legebatur; CORSINIUS: 1
bancque mutationem, omnibus occultari pof ſe putaverat, quod Meurſii liber
nondum efe ſet in vulgus editus. Non latuit certe Core finium, in cujus manus
pervenit etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem a fe prow pulſare poterat
injuriam. Id ut audivit Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii
ſui. Dedit ad Angelum Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie
qui dem ut ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad Ric cardianum marmor explanandum,
aliquando proferret; re autem ipſa ut quae a Corſinio didicerat, perpaucis
additis aut mutatis, le ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis.
Atque id utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft. Quare mirari ſa tis
non poffum hominis frontem, qui furti Corfinium infimulet in eo loco, in quo
ipfo cum re aliena, atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an.
MDCCXLv. ſunt geſta, cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed
tamen res defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum, quo
Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa. Is fuit
an. MDCCLXIII. Tum enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante
annos xxII. Lamius in l. operum volumen intulerat, lecta eft pag. 258.: ad
calcem vero ejus voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem, & quaſi
retra Statio quaedam ante dictorum edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant
indicia Corſinii cauffam mire tuentia, alterum quod nihil hoc in loco
proponatur, ' quod non ille in Faſtorum libro occupaverit; alterum quod
mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis characteribus forma et figura longe
abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos multos quam liber fuerat impreſſus,
diſtractis jam aut obſoletis formis illis prioribus, additam eſſe appendicem,
de qua meminimus. Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio paucis
comparando, niſi regnum in litteris, quod Florentiae perdiu tenuit, malis inter
dum artibus & clarorum virorum vexatione confirmandum putaſſet. Quamvis in
Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam verbis exa pofitam vide in libello
cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile, quo in libcllo Si quis est qui
dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis elaborare Corfinio maxime glorio
fum fuerit, non minorem tamen laudem rea portavit ex Agoniſticis
Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius, intelligens ſane. judex,
dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori comparare. His
Diſſertationibus oftendere voluit Eduardus, quo tempore Graeci celebrare
conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, & Iſthmiacos, quod tempus
eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In hoc autem non mediocrem
utilitatem chronolo giae & hiſtoriae ſe allaturum putavit, quod iiſdem
ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum tempora. Ab
Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore & frequentia ſuperabant,
breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello
deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores
narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade illa quaereret, qua
Coroe bus palmam accepit, & quae prima dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit
exiſtimet Reſponſum, 11011 d.ctum effe, qu'a lacris prior, 6 94 EDUARD V $ quod
ab illa ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat. Hanc celebratam fuiſſe
putat an. periodi Julianae MMMDCCCCXXXVIII. circiter folftitium aeſtivum,
plenilunii tempo re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus, quibus
civiles Graecorum anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus ſolares
anni a Romanis ad Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in quem
incidiffent Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur, inter
quae curſus, quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque XVIII, primas tenebat.
Neque. in Aelide folum, fed & in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi
frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte
reparatae falutis faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum
inftituit Apollo, eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello,
Olympiade. XXXXVIH. Amphictyones revocarunt. Ii-. dem Olympicorum inſtar
pentaéterici erant; neque ſecundis annis, aut quartis, ut Peta vius &
Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque exeuntibus circa Elaphebalionis
menfis finem, tum Delphis, tum in aliis Grae-: ciae urbibus peragi confueverunt,
Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum
origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli
Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę agones CCCCLXXV. annis ante
Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt. At Nemeadem illam, ex qua
veluti cardine ceterae infe quentes numerari coeperunt, in annum IV. Olympiadis
LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat.
Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae, omnes vero trietericae fuerunt;
eaeque alternis annis ita peragebantur, ut hibernae quidem in medios ſecundos,
aeſtivae vero in quartos ineuntes Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis
ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo, ut ferțur, conſtitutis fia militudo.
Funebres erant ambo, ambo trie terici, & qui utrolibet in certamine
viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen
alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur illi primis
Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te fere tertio
Olympico anno. Sic definivit Corſinius tempora quatuor illuſtrium Graea ciae
ludorum, patefaciens obſcura & ignota vel ipſis chronologiae luminibus
Scaligero Petavio, & Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo
Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat.
Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit
feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, &
Dodwelliana longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum
vitores recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in
quo Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin
ctoris nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet, hauriebatur.
Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir modeftiffimus in eo
quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico fcripfit Cicero, fua
cuique Sponfa,fuus quiqua 2007. Quoniam autein tumuin his Agoniſticis Diſſertationibus,
tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt Corſinius ſubſidio marmoreorum
monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa cilis, neque
prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit Graecarum
antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed etiam ex
aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque explicaret
atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum admoviffet,
ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis l.z pidariis,
in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque enodantur.. Cum
Eduardus ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata haec fuit
in IV. vo lumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit
Maffejo laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam
füfceperit,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, & acre: prudenſ
que judicium.. Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille
deſeruit, quia, ut ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura
invenire poteft, nemo om. nia. Et plura certe Corſinius invenit, cum mille fere
notas, aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po tuerit &
explicare illo ſuo acutiffimo inge nio, cui inquirenti & contemplanti omnia
occurrere ſe ſeque oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua alliceret
adoleſcen tes, quibus inſuavis fortaſſe & aſperior via deri poterat
ſiglarum inveſtigatio, poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum
origine, vi, utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad
hiftoriam, geos graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus
aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret Diſſertatio nes ſex,
quas, abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium.
Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae antiquitatis
inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non
comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo & ſubtili
non fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari &
perite non poſſe. Inſcriptit Corfinius hoc ſuum opus: Norse Graecorum five
vocum & numerorum compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum,
tabulis obſer vantur, dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud
ipſum evulgandum dono accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat,
quae vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros
emendos. Praepoſitus an MDCCXXXV. dialecticae ſcholae, nihil aliud annui
ſtipendii obtinuit nifi octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur
nobiliilimae. quidein diſcipli nae, ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat
ac funditur, ut qui illam profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel
ipſi Grae. ci, quamvis ellent aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe
voluerunt inerce dem Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res Corſinii eſſe
coeperunt cum traductus fuit (id accidit an. MDCCXLVI.) ad metaphyſi cam atque
ethicam docendam.. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum & am
plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos quinquaginta
uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent. Satis ſuperque
id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque libi ſuperare
Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a moris
vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod mortuo
Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius locum
fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis invitaretur.
Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I. Cae faris
nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei gratias agendas
cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed & Cae aris voluntate
pollicitus eſt. Id non potuit Corfinio non fumme eſſe jucundum; utque viro de
fe & de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit
illi Plutarchi opus de Placitis Philoſopho. tum a ſe Latinum factum, vitaque
Scripto ris, fcholiis, & diſſertationibus ornatum. Cauſſam ſuſcipiendae
novae interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei,
Xylandri, & Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes;
ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam
attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis
diligentia perſpicuitati officeret, & ne res ipfa omni Latinae orationis
dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex
illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, & feriem
philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua
vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria,
quae aut mutilos & hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos emendant,
aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo phorum
ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi
nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum, ſed
& quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias coarctavit
& peranguſte re ferſit Plutarchus, Exotélv8 cognomen me reatur, hujuſmodi
illuſtrationes ad finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam recenfere
illuſtriores ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum, cum
ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro, quod profecto ad
veterum gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt attractionis leges,
vireſque, ut di cuntur, centripeta & centrifuga, Charteſia ni vortices,
lunae phaſes, maculae, quod que haec fit terra multarum urbium & mone tium,
converfio folis, planetarum, fiderum que certa quadam celeritate ac periodo cir
ca axes ſuos, natura, coſtans motus, rever lioque cometarum, telluris motus,
quodque ex eo cauſſa ' maris aelus repetenda fit jegew’ewe explicatio, aliaque
hujuſmodi mul ta tum ad corporum, tum ad animi na turam pertinentia. Profecto
nihil dulcius erat Corfinio quam per abdita remotioris antiqui• tatis permeare,
& inde nova & inexpecta ta deferre, quae hominibus contemplanda bono in
lumine exhiberet. Nam, ut Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque
opera impenſius delectatur. Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio
amiciſſimo ſuo graphidem eximii cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in
Aedibus Farneſianis, non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo
elaboraret. Exhibet hoc ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa, Hebe,
Satyriſque quieri, voluptati que poſt exantlatos labores indulgentem, in
inferiori vero tripodem Apollini ſacrum, Ar givae Junonis Sacerdotem, atque
alatam Virginem, & Herculem demum ipſum ſe ſe expiantem, ut purus ad Deorum
conci lium afcenderet. Hinc & illinc anaglyphum ornant binae columnae cum
Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum decadibus Her culis geſta commemorat:
in ſupremo tan dein anaglyphi loco octodecim hexametra car mina exculpta ſunt,
quibus Herculis labores & certamina declarantur. Praeclariſſimi hujus
monumenti explicationem Eduardus libello quem ad Scipionem Maffejum inſtituit,
com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe mens afiiduumque ftudium ipfi
copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero tribuiſſe in genium ad conjiciendum
divinandumque fa ctum. Et fane divinationis cujuſdam vide illum potuiſſe laceras
ac depravatas multorum verſuum lacinias feliciſſime corri gere atque ſupplere.
Magnae antiquitatis ar gumentum praebere ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua
exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe affirmare. dubitat opus paullo poſt
Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius priſtinam Graecis libertatem
redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii ſentiunt (1) qui bus nunc
plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore Corſinius ejuſdem Gorii
poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae impreſſae funt ab illo
in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri ma epigraphen ſculptam
in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis Eupa toris, qui crater
in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi inediti Trel. Prelim. p.
LXXIX. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe Corfinium arbitratur
p. 39. (2 ) Sic interpretatur Corfinius mire involutam in. ſcriptionem: Regis
Mithridatis Eupatoris Regni anno 54. Eupatoriftts Gymnaſii (hoc eft civibus
Eupatoriae, qui in Gymnafio certarunt ) ſenectutem conſeival, quod erat ad
laudem vini, quo plenus crater vi &ori con cedebatur. Alii aliter
interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba exiſtimarunt, quorum
fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda patefacit obſcuros igno
ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis, qua occafione aliorum etiam
virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly fiae, Dionis, &
Socratis aetates & tempora perſequitur. Explicat tertia adverſam par tem
numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus ex luto fin gens,
& Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam, inſerens
confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit Corfinius, ut perſuaderet
hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex
miris hujus volucris affectionibus & natura, non ex ipſa animi
immortalitate, circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque
fapientiae fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum
imperitia profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem & ani
nium deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non
putavit hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei,
quacum is commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in 106 EDUARDUS eo
verſatur, ut oftendat mentitam & falfam effe Latinam quamdam inſcriptionem,
quae Piſis vilitur in Scortianis aedibus. Summi labores, quos Corſinius
impendit in conficien dis, quos retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt
gloria, ut unus e multis, qui illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe
dederunt, excellere judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere
doctrina tan ta etiam judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus
teſtimonii auctoritas ma xima reputari debet non folum quod ab hox mine
prudentiſſimo proficifcitur, fed etiam quia figulus invidens figulo, faber
fabro, ut eſt Heſiodi dictum, alterius laudi & gloriae | minime favere
ſoleat. Ex mutua opinione doctrinae, fimilitudineque ftudiorum orta eft inter
cos jucundiffima amicitia, cujus tanta vis fuit, ut Corſinius aeſtate an.
MDCCLI. quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot menſes commoraturus
apud amicum. Quo tempore inter eos fuit familiariſſima focietas, &
communicatio ftudiorum. Dono accepit Corſinius a Maffejo tercentum fere Graecas
inſcriptiones (has Edmundus Chici1 shullius collegerat, & fecundae
Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne, ut eas Latine
redderet atque illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo, cum
anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad Athenas ſpectabant;
eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio poft, ut eſſent
ornamento quarto Faftorum volumini. Nono menſe poftquam in Etruriam rediit
Eduardus, moritur Ale- ' xander Politus, quocum ille ita vixit, uit. quem pauci
ferre poterant propter difficilli mam naturam, hujus fine offenfione ad fum.
mam fenectutem retinuerit benevolentiam. Mortuo autem Polito neque inquirendum
neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana daretur, cum
omnium oculi ftatim in Corſinium conjecti fuiſſent. Ita hic exeuntė anno
MDCCLII. poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet, munus docendi
humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio propoſuit fibi (nam
muneris ratio, & adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis
Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas Graecorum, Romanorumque
vitas, ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi.
Memoriter dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris & ſcholae
dignitatem plurimum tum conferre putabatur; & quae tradebat inſignita e
rant luminibus ingenii, & conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore.
Genus dicen di erat quiétum & lene, purum & elegans, ut maxime teneret
eos qui audiebant, & non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te
delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat,
quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret
Grae carum, Romanarumque antiquitatum. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo
onere non placuit Academiae Moderatoribus illum libe rare niſi anno MDCCLIV.
quo quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his
adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas
de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque
naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis
diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam
hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo
ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi
lubet, Corſinium, quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus,
quae in ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes
profecto uno ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi
metaphyſicae nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum
hoc operum fuit, quae Corfinius Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti
am cum minime videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod
declarant ejus Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum
fententiis, faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus
inftruebat, doctiflimoruin Phi loſophorum familiaritates, quibus ſemper flo
ruit, & ars illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter
ſe conferendi, diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera,
nihilque afferendi fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in
qua arte quantum inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in
vetuftatis monumenta inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit
Diſſertatia illa de Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et.
Arſacidarum epocha, quam idem in lucem extulit an. MDCCLIV. Difficulta tis
maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem praecipue illuſtrandum Corſi
nius ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae & Meſopotamiae. Regem,
de quo Dio Caffius in libro Romanae hiftoriae LXVIII. mentionem fecit, &
Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme niae regum
nummis inſcriptam fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe.
Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii, Spanhemii,
Vaillantii, & Froelichij fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum imperium
incepiſſe, adver ſus quam ſententiam Eduardus ita pugnavit, ut veritas non
minus quam modeſtia eluxe rit. Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res
inter fe ita nexae & jugatae funt, ut, inventa una, aliae, quae prius
latebant, ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis
num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere & ſupplere, verum Darii
genus expo nere, Tiridatem alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges
Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit. Res in hac Differ tatione
contentae, non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis Froelichio &
Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta fuerunt, ſine iracundia Corfinius.
Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo ferebat animo,
ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis quaſi addicti & con.
fecrati etiam ea, quae plane probare non poſſent, conſtantiae, non veritatis
cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus
convictor & fodalis (*) Huic titulus eſt. Lettere critiche di un Pafton r
Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le difficoltà fane
contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom. IX. della Storia
leveraria of lialia &e, in Pisa 1957. in Carolus Antoniolius, qui quidem
non me. diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum valeret in omni genere
ftudiorum quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii opera in
Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo Corfi nius, coactus
capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum, bona Principis cum ve nia,
& fine ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe.
Aprili an. MDCCLIV, ardens. defiderio indicia veteris memoriae, quibus
mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque enim quis ingreditur in aliquam
hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed raro ei poteſtas dabatur huic ſuo.
deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae dolori bus ſaepiſſime vexaretur, &
munus ſuum diligentiſſime exequi vellet. Quanta vero pru dentia ac dexteritate
fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta aequitate in conſtituendis,
temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam legibus, quanta humanitate
erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in con fulendo rebus.
praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non poteft. Cum autem nihil
ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, & facilitate ſumma uteretur in
füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli materiem ſumpſerunt falſae
criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun arbitrium res Familiae
adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Eduardus Sodalitati, to tamque fic
rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt credi bile
quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen vocabatur. Horrebar
enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem. Sed non propterea
fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque manſuetudine, quam
animadverſione & ca ftigatione ad frugem revocare ſtudebat. Cum vero
feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt, adhibere cogebatur,
similis, ut praeclare admonet Cicero, legum erat, quae ad puniendum non
iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris ſui, ne plane
ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem đuarum Graecarum
inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti Senatoris.quam
feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum priſcarum, quibus illae
con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt ii, qui ſunt harum
deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za nettus, ſed
longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe Eduardus cum Anconae effet
ineunte anno MDCCLVI. eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque
agnita corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni & Liberii, quos ſingulari
obfequio ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris
impertiret illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim
tempori, quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum,
& quo Anconae coli coeperunt. Haec Corfinius, edito commentariolo,
accidiffe - ftendit exeunte faeculo XI., & ex ipfis an tiquitatis
monumentis quibus ſententiam ſuam confirmavit, quatuor Anconitanorum
Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç uſque ad id tempus fuerant incognita,
Per pauca in hoc commentariolo attigit de S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam
tenebris & fabulis exiſtimabat, Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet,
& monumentorum ope, & mirabili illa ſua conjiciendi arte pa tefacere
potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S. Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui
circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo litariam vitam acturus in ſuburbano mona
ſterio Portus Novi. Harum rerum inventio multis laudibus. celebrata fuit a
Scriptoribus annalium Camaldulenſium (*): pergrata quo que fuit. Benedicto XIV.
pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad
congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum, quod ejus ſummum in genium,
fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem & nofſet & diligeret,
ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man dare litteris, quae abdita
Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt juftae ca uffae quare.
Corſinius amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit; & quid
quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime
concede-. (* Vid. Tom. III., bat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo in
Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua plura
de Gotarzis eximio nummo, ejuſque, Bar danis, & Artabani Parthiae Regum
hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam,
ut in otio, quod raro da batur, & peroptato illi dabatur, ceffaret a libris
& a ftilo. Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret,
di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed relaxare animum. Et
relaxatione certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo erat, quod multi
appetunt, ceteros regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur.
Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum, inas
ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio, quo ad Sodalitatis gum.
bernaculum ſedit, viginti domus, five cole legia conſtituta ſunt. Interim
advenit tem pus, quo magiſtratu fe abdicare, & extre mos auctoritatis fuae
fructus capere debe bat in provehendo digno viro, qui fibi fuc cederet. Verum
minime illi: contigit, ut funt ancipites variique caſus comitiorum, quem
optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam &
ad il lamºquietam in rerum contemplatione & co gnitione maxime poſitam
degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad
beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in manibus; Graecas in
fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a Scipione Maffejo dono
accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis
explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in Academiam, afferebat
res multum & diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita,
com pta & mitis oratio. Idem efflagitatu & coae tu amicorum inftituta.
hoc tempore opera abrupit, ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens
in Auſtria reperti, in quo erat nomen & imago Sulpiciae Dryan tillae
Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a
Sul picio quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam; nupfiffe demum Carinó
fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla
dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma,
feminaeque ornatu, illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali &
Diocle tiani imperium, proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum, qui
illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit
etiam excutere hiſtoricorum & rei nummariae interpretum mire inter fe dif
ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate, ac
poftremo ſuam ſententiam proferre. Fuit haec, Aurelianum exeunte Julio, vel
ineunte Auguſto anno CCLXX. imperium ſuſcepiſſe, eaque multis & gravibus
confirmatur argumentis. Ad ex vero diluenda, quae contra dici poterant ex
illorum ſententia, qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a Claudio
VII. Kal. Novembris Antiochiano & Orfito Con ſulibus, ut ſerius Aurelianum
inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a ſuffectis.
Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae maxime apta erat non fo lum ad id,
quod requirebat, ſed etiam ad expediendos alios, quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles
in Chronologia exiſtimaverat now dos, concludit eamdem legem editam fuiffe anno
cclxix. vel CCLXVIII. quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules
erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis. Nec minor
difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad vil. Imperii
annum perveniffe dicatur, & explicare locum Euſebii, qui tradit in ejuſdem
tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc Sya nodum
anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit Corſi
nius, cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus poft
mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus
Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit
Corſinius haec ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro,
ejuf demque nomine ab anno ccLXXVI. uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni
ce intentus vixit, Orientis imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae
hoc tem pore cuſa funt Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum
illum nominent. Poftquam vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret,
huic quidem conjun octus in nummis repraefentari voluit, minime vero
paludamento, radiata corona, fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im
peratoris contentus. Praetereo alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione
conten ta, ne, cum nimis longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar
oblitus con ſuetudinis & inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus
Corfinius totus in eo fuit, ut ab Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe
con dita ad annum afque MCCCLIII. five a Chri fto nato DC. Etenim poſteriora
tempora mi nime inquirenda putavit, quibus, penitus fere exſtincto Urbanae
Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi tenue nomen, ac leviſſima
priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat, ut nihil inde lucis facra
& profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra uberrimam fplendidiffimamque
utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie, horumque aetate rite
conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam jucunditate lecto res
invitaret Corſinius, operi varia opportu ne admifcuit, quae marmora & ſcriptores,
quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt & illuſtrant,
interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non ego ſum neſcius
multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento; ex qui bus
omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam
tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt, fi unum excipias
Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum ſeriem ad annum
uſque MDCXXXI. traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem de re
aliquid politius, copiofius, perfectiuſque proferri a Corſinio potuerit. Et
protuliffe certe ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab
intelligentibus viris reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is
in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod
hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet
abundantius & copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque
poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui
nullo in pre tio ob pauca quaedam a Corſinio praetermif ſa hujus opus habendum
inflatis buccis clamitarunt. Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis
vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui
librum Bononiae an. MDCCLXXII. edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis,
verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in
lucem protulit. Sed ad Corſinium revertor, qui dum fine intermiſſione
obſequebatur ftudiis ſuis & adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe
jam fenem factum (quando enim typis mandavit librum de Praefectis Urbanis
ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) & infirma aegraque valetudine
effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio: Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma
del Ch. P. Corfini contro la cenſura farie. le nelle offervazioni ſul Giornale
Piſano, in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e le emenda.
In Bon logna e S. Tommaſo d'Aquino in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs vol. VIII.
p. 179 eidit miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga nem ſpem non folum
litteris, ſed etiam na: turae vivendi praecidit. Erat haec conſuetu. do
Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur, Kalendis
Novembris, quo tempore inftaurari ftudia folebant, Latinam om rationem haberent
ad vehementius inflamman dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo
die Eduardus (vertebat tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de
viris, qui & ſcriptis editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue
runt, eaque erat oratio, ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo
pervenirſet, ut exultaret in immenſo Galilaei laudum campo, repente apoplexis
ipſum perculit, ac ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum
ille Academiae eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte
conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac
praeter ſpem paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare
vires, efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non
poſſe munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere
ante opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum
perduceret. Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia
vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia
do ctor, quae quidem ampla & bella materies effe poterant ad novum
aedificandum opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad
rem accinxit. Et primo qui dem illuftrium Italicorum Gymnafiorum ori ginem
ſubtexuit, diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima Gymnaſii Piſani
in-: ſtitutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi
ſcripſerunt, fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe
exiſtimavit. Ex hoc tempore ad annum uſque MCCCXXXIX., quo anno Fa bruccius
contendit coepiſſe Academiam Piſa nam, hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain
certe fuiſſe oportet. Conſecutae des inceps yices multae, ut ipſa modo langues
ſcere, modo ad interitum properare, vires vitamque modo recuperare, ac faepe
etiam veluti extorris ſedem mutare viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus
capitibus perſecutus eft Eduardus. Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non
solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent,
quibus ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata
legibus consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in
quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta
videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet
alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam
videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac
preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus Corsinii scriptis luxuries quaedam,
quae, ut in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni
oratione, maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura & illu fțris brevitas
expetitur. Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne
plane superioris aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami
cum & collegam fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi
consulatu egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius &
Pagius, computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad
Proculum, in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum CXVIII. an nos enumeravit,
conciliari posse, cum Varroniana epocha, ideoque, novam excogitarunt epocham
XIII. annis Varroniana pofte riorem, qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium
usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut
corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed & Bur
digalenſem geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum
fastos conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit oftendere
eumdem Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis
faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est
ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus
majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu
locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom.
bellium Canonicum Regularem, in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia
Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis,
ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis
comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae
fparfit Corfinius in hac epiſtola, ut jucunda lectoribus, ita iif dem plena
moeroris fore arbitror, quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius
adnotavit. Scribit enim ille: Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus,
monemur, eodem fere tempore, quo Brixiae egregius Maza zuchellius, inclytum
Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum. Eheu litterae aflicłae ! o
amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies, quo
illum apople xis iterum invafit, fuit v. ante Kal. De cemb. anno MDCCLXV. poft
quem caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S.
Euphraſiae totius Acade miae luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit,
doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae
eaeque interiores, divinum ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis
celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi
tae decorabat dignitas & integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in
yultu & moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat
ex ore ! quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino
tantus erat in ipso ordo, conſtantia, & moderatio dictorum omnium atque
factorum, ut probitatem & religio nem prae se ferret, & ad omne
virtutis de cits natus videretur. Quidquid come loquens, & omnia dulcia
dicens mirabiliter ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in
familiari sermo ne a quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat,
quod non tam na turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando
sentiebat, sed hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque
occultabat. Secum ipſe vivens animi triftitiam frequenter patiebatur,
praeſertim si contemplaretur misera, in quae incidimus, tempora, quibus
corrumpere, & corrumpi saeculum vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo
abuterentur philofophia, ac prae ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne
avocarent, tanto illum perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non
nunquam videretur industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum
philoſo phorum dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur;
omnium artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala
Eduardus, accidif ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini
ab omnium rerum modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius
in praecipitem locum ruat necese est. Sed ad Corfinium revertor, de cujus
laudibus non eft tacendum ſummae illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita
tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse. Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc
facile a se extorqueri patiebatur. Virorum litteris illus ftrium amicitias
ftudiofillime coluit, amavitque in primis Trombellium & Paciaudium, quo rum
mentionem fupra fecimus, quorumque conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae
sertim tempore, quo Romae fuit. Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis
accipere solebat, epistolas, quia ſciebam in iis erudita multa contineri: eae
quidem mihi non me diocri subsidio futurae fuiſſent huic explican dae vitae. De
qua fatis erit dictum, fi hoc unum addam, eumdem ineditas reliquiffe bi nas
Dissertationes de S. Petro Igneo, & B. Joanne delle Celle; librum de
civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis, ſex que Latinas orationes
habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus fine nervis cognoſci potest.
Opere: “Instıutiones philosophicae, ac Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum:
Tomus I. Florentiae typis Bernardi Paperini, continens physicam generalem, continens
libros de coelo Es mundo, continens tractarum de anima, E metaphysicam continens ethicam vel moralem continens
institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae institutiones in V. mos diſtributae
Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum hoc titulo Cl. Reg: Scholarum
Piarum, & in Pisana Academia Philosophiae Professoris Institutiones
Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio altera auctior &
emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell acque della
Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi di
Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare le
più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch.
Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini,
e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1
netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt,
emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit
propoíitionem XXXV. Libri XI. Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem
Auctoris liber della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la
Valdichiana, in cui si descrive la antica e presente suo stato” (Firenze nella
Stamperia di Franceſco Moucke in 4); “Faſii Anici in quibus Archonium
Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium Virorum deras arque
praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos disposita describuntur,
novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana
Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex typographia. Jo. Pauli
Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. Tom.II. prodiic. ex eadem
typo graphia. Tom. III. prodiit anno 1751. ex eadem typographia. Tom. IV.
prodiit ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana
Philosophiae Profeſoris Differtationes. IV Agonisticae, quibus Olympiorum,
Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco
redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex
typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries
menfium Macedonicorum, Atticorum, & Romanorum ad de mondirandun veruna
corum ficum ac connexionem; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus, quia
rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a Corfinio
contexta differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius,
Petavius, Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous
Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus
Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion
Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion
Scirrhophorion Julius Augustus September October November December Januarius
Februarius Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno all' opera del Marchese
Scipione Maffei intitolata: Graecorum Siglae lapidariae. Extat in tom. 4. par.
3. del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum, five vocum
Ex numerorum compen dia, quae in aereis atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur.
Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia
Eduardus Corſinus Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina Philoſophiae
Profesor. Accedunt Differtationes ſex, quibus marmora quaedam rum facra cum
profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol.
Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir,
adnotationibus, variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit Eduardus
Corfinius Cl. Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo.
seniige ex Imp. Typographio, Disertationes IV quibus antiqua quaedam insignia
moc sumente illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci
Gorii. Herculis quies & expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa: in
fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae
latina interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole
sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex
typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in
usum ſtudiosae Juvent. sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8.
Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0
Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana. Philoſophiae
Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 Eduardi Corſini Cl. Reg.
Scholarum Piarum in Acco demia Piſana humaniorum litterarum Profeſſoris de
Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis, & Arſacidarum Epocha
Differtario Liburni typis Antonii Santini & Sociorum in 4. Spiegazione di
due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton
Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo
pienza Romana, ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle
Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel in 4. Relazione dello scuoprimento
e ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia
berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di
queſte Sanci. In Roma, nellu Stampe ria di Giovanni Zempel in 4. Eduardi Corfini
Cler. Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum
Profeffuris Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, &
novam Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur.
Romae ex typographio Palla dis in 4. Eduardi Corſini Cler. Regul. Scholarum
Piarum & in Academia Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles
riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae
Regis nummus hactenus ineditos expli Catur, & plura Parthicae hiſtoriae capita
illustrantur. Romae, in Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus & Marcus
Palearini ir 4.Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum
litterarum Profeſoris Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani
ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur. Liburni apud
Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum Urbis ab
Urbe condira ad annum uſque MCCCLIII. sive a Chriſto naro DC. collegit, rem
cenſuit, illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia
Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane
nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno
a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all'
Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are cona nella
Sramperia Bellelli in 4. Cl. Reg.
Scholarum Piarum, in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola
de Burdigalenfi Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius
Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum
Pia rum Ex- generalis, & in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed
Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S.
Salvatoris Ex-generalem & S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola,
Bunoniae, ex typographia Longhi in 4;
Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De
Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars I. Historiae Academiae
Pisenae, Latinae Orationes VI, Ad Academicos Pisanes. A.A. V.V. 1978 Les
Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan tilly, 18-22 Septembre
1976, Vrin, Paris Al, D.J. 1970 The Philosophy ofAristotle, Oxford University
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Corsini. Edoardo Corsini. Silvestro Corsini. Corsini. Keywords: Romolo e Remo,
segni naturali, segni artificiale, i segni, il segno di Romolo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Corsini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690387482/in/photolist-2mJ4GHU-2mKGKkh
Grice e Cortese – il segno naturale -- del
principio del significato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
e alpinista. Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on
‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’
alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a
scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the
‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely
speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of
‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a
principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are
certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for
trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist,
and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational
constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational
cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation
as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the
existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some
sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo
Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a
Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere:
“Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia
e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di
creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola,
Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale
della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova);
“Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia,
Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il
sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” –
“Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il
concetto”; “Liberalismo” -- Wikipedia Ricerca
Meteorologia branca delle scienze dell'atmosfera Lingua Segui Modifica
Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento meteorologia non
cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La meteorologia[1]
(dal greco μετεωρολογία, letteralmente "studio dei fenomeni
celesti"[2]) è il ramo delle scienze dell'atmosfera e della Terra che
studia i fenomeni fisici che avvengono nell'atmosfera terrestre (troposfera) e
responsabili del tempo atmosferico. Cumulonembo calvus, nube
convettiva in atmosfera Storia Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia della meteorologia.
Rappresentazione di venti e meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum
del 1716 Il termine deriva dal greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος
metéōros, "elevato" e λέγω légō, "parlo", quindi
"discorso razionale intorno agli oggetti alti": la parola μετέωρος ha
un'etimologiaincerta, forse derivato dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e
ourea ovvero il termine arcaico greco per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti
[3], o forse da μετά metá "con, dopo" e αἴρω áirō
"alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci si è dovuto attendere
fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo dei calcolatori
elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un tempo ragionevole
le tante operazioni di calcolo che caratterizzano l'elaborazione a mezzo di un
modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal cielo più frequentemente sul
nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire particelle costituite da
acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve, cristalli di ghiaccio,
grandine o neve tonda). Descrizione Modifica
Circolazione generale dell'atmosfera Ciclone extratropicale Fronte
caldo Fronte freddo Fronte occluso In particolare lo studio
dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali
(temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione
solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e
indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti
meteorologici equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico,
facente cioè uso dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica
per la quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica
dell'atmosfera) che intercorrono tra essi. I due approcci confluiscono
nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione
di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve
scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento,
precipitazionitramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato territorio
(previsione del tempo). Tempo meteorologico e clima Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Tempo meteorologico, Clima e Variabilità
meteorologica. Obiettivo della meteorologia è quello di misurare direttamente i
parametri fisici atmosferici istantanei e cercare di fornire previsioni su
determinati eventi atmosferici futuri, studiando dunque i fenomeni di breve
durata che caratterizzano il tempo meteorologico; la raccolta di dati sul lungo
periodo è utile invece a livello climatologico studiando l'andamento medio del
tempo atmosferico di una regione in un certo lasso temporale: mentre il tempo
atmosferico è definito come l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo
istante temporale su un dato territorio, il clima invece è l'insieme delle
condizioni meteorologiche medie di un territorio su di un arco temporale di
almeno 30 anni, come stabilito dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale
(OMM): talune analisi che si riferiscono in primis all'ambito meteorologico non
possono dunque essere estese all'ambito climatologico essendo questo una media
statistica sul lungo periodo, oggetto di studio di quella scienza affine che è
appunto la climatologia; quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime
la comprensione dei fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa
previsione, la climatologia studia invece i processi dinamici che modificano le
condizioni atmosferiche medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti
climatici. Principali fenomeni meteorologici Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è un gigantesco sistema
termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico, la biosfera e la
criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto forma di radiazioni
che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica o turbolenta
dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale dell'atmosfera e
una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che quotidianamente osserviamo.
Gran parte di questi fenomeni possono essere inclusi in tre grandi categorie di
processi: i processi di redistribuzione del calore, sia in verticale
attraverso il trasferimento radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a
piccola, media e larga scala) attraverso i venti e la circolazione generale
dell'atmosfera. i processi atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua,
innescati a loro volta dai processi radiativi, quali evaporazione,
condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni perturbativi ad essi associati
(a piccola, media e larga scala) quali fronti meteorologici, cicloni
extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci, tornado ecc. i processi
legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le prime due categorie di
processi sono intimamente connesse giacché evaporazione, condensazione e
formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto dell'energia nel
sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso tempo da essi
innescati. I vari fenomeni meteorologici sono classificati all'interno
della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle dimensioni del
territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo temporale di
interesse in cui essi insistono. Strumentazioni Modifica Strumentazione di una stazione
meteorologica Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche
costruito nuovi strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti
strumenti sono stati approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale
(OMM), e molti di essi vengono utilizzati in ogni stazione
meteorologicamondiale: radiometri e scatterometri localizzati su
satelliti meteorologici misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal
pianeta verso lo spazio esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato
dell'atmosfera e della presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima),
per la misurazione della temperatura; igrometri, per la misurazione
dell'umidità; psicrometri, per la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per
la registrazione della temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per
la misurazione delle quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione
dell'accumulo di neve al suolo; anemometri, per la misurazione della forza e
della direzione dei venti; trasmissometri, per la misurazione della visibilità;
palloni sonda per radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per
ottenere profili verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per
ora la principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti
e navi meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in
mare aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano
informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa
riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne
l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni
casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a
terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano
attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le
mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita
polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web.
Previsioni meteorologiche Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Previsione meteorologica. Manica a vento,
uno dei simboli della Meteorologia Immagine del NOAA Carta
meteorologica di previsione a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono
solitamente dalla seguente procedura: osservazione e misurazione delle
variabili atmosferiche (es. velocità e direzione del vento, temperatura
dell'aria, umidità, pressione); trascrizione, studio ed elaborazione dei dati
rilevati su carte sinottiche o assimilando i dati attraverso modelli matematici
che girano su calcolatori numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta
la situazione meteorologica di un determinato momento, chiamata analisi;
prognosi futura a partire dalle carte sinottiche oppure facendo evolvere la
condizione iniziale tramite uso dei modelli matematici meteorologici
(previsione). Ambiti di studio Modifica
All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di studio: la meteorologia
sinottica che studia in maniera qualitativa e quantitativa l'evoluzione delle
condizioni atmosferiche di vaste porzioni dell'atmosfera stessa (superiori ai
1000 km) tramite l'uso di carte meteo, nozioni empiriche, metodo delle analogie
ecc. la meteorologia dinamica che, partendo dalle equazioni di base della
fluidodinamica, cerca di spiegare formazione e sviluppo dei fenomeni osservati
(detta anche meteorologia fisica o teorica). la meteorologia numerica, si
occupa di definire e affinare i modelli numerici di previsione meteorologica la
meteorologia satellitare, che si avvale delle analisi di telerilevamento
atmosferico e quindi dei relativi dati trasmessi a terra dai satelliti
meteorologicicome ad esempio i satelliti Meteosat. la radarmeteorologia che si
avvale dei dati raccolti dai radar meteorologici dislocati sul territorio per
affrontare la previsione meteo a brevissima scadenza (nowcasting). la
meteorologia aeronautica, che si occupa principalmente dei fenomeni rilevanti
per la navigazione aerea; la meteorologia spaziale che si occupa del cosiddetto
tempo meteorologico spaziale in alta atmosfera; la meteorologia ambientale che
studia pollini e dinamica degli inquinanti in atmosfera; l'agrometeorologia che
studia le relazioni tra tempo atmosferico e agricoltura[5]; Meteorologi famosi Modifica
Edmondo Bernacca Andrea Baroni Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci
Guido Guidi Paolo Sottocorona Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci
Daniele Izzo Note Modifica
^ Anche se spesso viene usata, la grafia metereologia non è corretta, come
dimostra l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^ meteorologìa
in Vocabolario, su Treccani.it. URL consultato il 24 giugno 2020. ^ Con la
stessa etimologia delle antiche divinità della cosmogonia greca Ouranos (Cieli)
e Ourea (Montagne) ^ Franco Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino,
Loescher, 1995, p. 1276. ^ Luigi Mariani Clima e agricoltura Rivista I tempi
della terra ( PDF ), su itempidellaterra.org. URL consultato il 17 gennaio 2019
(archiviato dall' url originale il 19 gennaio 2019). Bibliografia Modifica Antonio Navarra, Le previsioni del
tempo, Il Saggiatore, 1996, ISBN 9788842802693. Voci correlate Modifica
Agrometeorologia Atmosfera Anticiclone Avvezione Barometro Carta meteorologica
Circolazione atmosferica Formula ipsometrica Fisica dell'atmosfera Igrometro
Isobara (meteorologia) Isoterma (meteorologia) Grandine Ghiaccio Geopotenziale
Legge della persistenza Legge della compensazione Meteorognostica Nube Neve
Pressione atmosferica Precipitazione (meteorologia) Promontorio di alta
pressione Riscaldamento stratosferico Storia della meteorologia Stazione
meteorologica Saccatura Satellite meteorologico Strato limite Teoria del caos
Temperatura Termometro Tempo (meteorologia) Umidità Variabilità meteorologica
Vortice polare Altri progetti Modifica
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Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts
Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet
Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat
Organizzazione europea per i satelliti meteorologici (EN) EMS European
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utterer and recipient? – If so, why do we keep calling communication – signare
seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese. Keywords: del
principio del significato, Kierkegaard, soap, sapone, actress, attrice,
edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770444479/in/dateposted-public/
Grice e Corvaglia – il pessimismo e
l’implicatura di Tantalo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano).
Filosofo. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he called
himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history of
Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on
philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo
professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente,
attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente
malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso
celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da
altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la
perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta
l'animo umano fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente
alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce
obliterate sorgive e percorrendo il
movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento
risale fino al Medio Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia
verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede
politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana,
cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei
Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico
retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la
conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione
della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del
tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si
trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli
studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso,
in assoluta libertà. Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di
"speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano,
è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di
approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto
collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce,
l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di
Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia",
al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua
opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca
specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che
coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando
opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e
la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese
in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia. La casa di Seneca-
Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia Fratelli
Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero innocente Nova,
fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua in vicenda amara
di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Tantalo”
Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa Teresa e Aldonzo (L. Cappelli
Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo Finibusterre, Editrice Dante
Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di Vanini” (Anphitheatrum
Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano); “Introduzione semi-seria
dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi, Tipografia Carra di
Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in "Giornale Critico
della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella sua genesi e nel suo
sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", Quaderni
Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino (Lecce), “Mazzini e il
partito d' azione (critica), Tipografica di Matino (Lecce), “ L'acherontico
retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica di Matino (Lecce), Quaderni
Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano, Tipografica di Matino
(Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il 21 gennaio 1945.
Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel Teatro Apollo,
Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del Sud. Melissano.
Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista e Polemista,
La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo,
Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy Corvaglia. Il pensiero
politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Wikipedia Ricerca
Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al famoso
supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai
cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by
J.Heintz the Elder, 1535.jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di
nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (in greco antico: Τάνταλος,
Tàntalos) è un personaggio della mitologia greca. Re di Lidia (o della
Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel
Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una
persona che desidera qualcosa che non può raggiungere. EtimologiaModifica
Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω
(che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da
talànatos(infelicissimo)[1]. GenealogiaModifica Figlio di Zeus[2][3] o di
Tmolo[4] e della ninfa Pluto[2][3]sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o
Eurinassa[5](figlia di Pattolo) o Euritemiste[6] (figlia di Xanto) o Clizia[6]
(figlia di Anfidamante) e fu padre di Pelope[2][5][6], Brotea[4][7],
Niobe[8][9] e Dascilo[10]. MitologiaModifica Tantalo visse presso il
monte Sipylos in Anatolia, dove fondò la città di Tantalis[11]. Il
banchetto di Tantalo I misfattiModifica Tantalo, che grazie alle sue origini
era ben voluto dagli dei[12], si rese responsabile di diverse offese nei loro
confronti e violò le regole della xenia cercando di rapire Ganimede, rubando
dell'ambrosia che in seguito distribuì ai suoi sudditi ed organizzando il furto
di un cane d'oro creato da Efesto e posto a guardia di un tempio di Zeus a
Creta (di tale furto l'artefice materiale fu Pandareo ma Tantalo giurò il falso
ad Hermes, inviato dagli dei proprio per recuperare l'animale[13][14]; secondo
un'altra versione il cane era in realtà Rea trasformata in quel modo da
Efesto[15]). Il re infine organizzò un banchetto a cui invitò gli dei
stessi e, per mettere alla prova la loro onniscienza, uccise suo figlio Pelope
e lo fece servire come pasto: Demetra, disperata per la perdita della figlia
Persefone, non si accorse di nulla e consumò parte di una spalla del ragazzo,
ma gli altri dei notarono immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di
Pelope in un calderone[13]. Il supplizioModifica Il supplizio di
Tantalo Gli dei punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad
avere per sempre una fame e una sete impossibili da placare[13] schiacciato dal
peso di un masso, legato ad un albero da frutto e immerso fino al collo in un
lago d'acqua dolce: appena prova ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non
appena prova a prendere un frutto i rami si allontanano o un colpo di vento li
fa volare lontano[16]. Il sepolcro di Tantalo sorgeva sul monte
Sipylos[3] ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la cui tradizione locale
sosteneva anche di possedere le sue ossa[3]. Miti successiviModifica I
mitografi successivi cercarono in tutti i modi di discolpare gli dei da un
possibile atto di cannibalismo stravolgendo in tutto la storia di Tantalo:
secondo tale versione, infatti, egli era un sacerdote che rivelò ogni segreto
ai non iniziati, al che colpirono suo figlio con una malattia orrenda. I
chirurghi di allora, con varie operazioni, riuscirono a ricostruire il corpo
originale anche se di lì in poi esso portò innumerevoli cicatrici[17].
FilosofiaModifica Il mito di Tantalo venne successivamente ripreso dal filosofo
Arthur Schopenhauer nella sua opera più nota, Il mondo come volontà e
rappresentazione, come esempio della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui
"contro un desiderio che viene appagato ne rimangono almeno dieci
insoddisfatti; la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito mentre
l'appagamento è breve e misurato con spilorceria". CuriositàModifica
Ulteriori informazioni Questa sezione contiene «curiosità» da riorganizzare. Il
furto dell'ambrosia a vantaggio degli esseri umani lo accomuna a Prometeo[18],
ma in questa veste il suo mito si trasforma da peccatore a benefattore.
Tantalo, alla stregua di Licaone, era uno dei re originali a cui era concesso,
con il favore degli dei, di condividerne la mensa: il suo gesto viene visto
come un atto di separazione fra divinità e umanità, che verrà poi ripreso da
molti altri miti come nel caso di Achille. Il supplizio di Tantalo viene citato
anche da Primo Levi in Se questo è un uomo nella frase: "Si sentono i
dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le
labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare (...). È un sogno spietato,
chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se
il sole muore, cita il mito di Tantalo dal momento che nella missione Apollo
11l'astronauta Michael Collins sarà costretto ad avvicinarsi alla Luna senza
avere la risposta a: "Com'è la Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella?
Più brutta? Che effetto fa camminarci?". La tortura di Tantalo viene
ripresa anche da Thomas Mann in La montagna incantata. Un personaggio
dell'opera, la signora Stohr, riferendosi al prolungarsi indefinito delle
prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis] Dio buono si è sempre allo stesso
punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti e tre indietro... Quando uno
ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene rifila altri sei. Ah, è la
tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e quando si crede d'essere in cima...».
È evidente la confusione che la signora, avvezza alle gaffes, fa tra Tantalo e
Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e dotto umanista Settembrini, risponde
sul punto: «Oh, brava e generosa! Finalmente concede al povero Tantalo un
diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso pietrone! È un atto di vera
bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden John Steinbeck fa dire a Kate:
"Chi era quello che non riusciva a bere da un setaccio? Tantalo?"
(cap. 46). Tantalo appare come sostituto di Chirone nel secondo libro della
Saga di Percy Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio, elemento chimico di
numero atomico 73, prende il nome da Tantalo, e si trova sotto il niobio, il
cui nome deriva proprio da sua figlia Niobe. NoteModifica ^ Platone, Cratilo,
28. ^ a b c d Igino, Fabulae 82 ^ a b c d ( EN ) Pausania il Periegeta,
Periegesi della Grecia, II, 22.2 e 3, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto
2019. ^ a b Scholia ad Euripide, Oreste 5 ^ a b Giovanni Tzetzes a Licofrone,
52 ^ a b c Scholia ad Euripide, Oreste, 11 ^ ( EN ) Pausania il Periegeta,
Periegesi della Grecia, III, 22.4, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto
2019. ^ Igino, Fabulae, 9 ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su
theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Scolio ad Apollonio Rodio, Le
Argonautiche, II, v. 752 ^ Plinio il Vecchio Naturalis historia 2,93; 5,31 ^ a
b ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, IV, 74.1 e 2, su theoi.com. URL
consultato il 13 agosto 2019. ^ a b c ( EN ) Pindaro, Olimpiche, 1.60 ff, su
perseus.tufts.edu. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Euripide, Oreste, 10 ^
Antonio Liberale, Metamorfosi, 11 e 36. ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca,
Epitome II, 1, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Tzetze, a
Licofrone, 152 ^ Pindaro, Olimpiche, 1, 59-63. BibliografiaModifica Fonti
primarie Esiodo, Teogonia 355 Pausania, Libro II, 22,4 Pindaro, Olimpica III,
41 Igino, Fabulae 82,83 e 124 Fonti secondarie Robert Graves, I miti greci,
Milano, Longanesi, 1979, ISBN 88-304-0923-5. Angela Cerinotti, Miti greci e di
roma antica, Prato, Giunti, 2005, ISBN 88-09-04194-1. Anna Ferrari, Dizionario
di mitologia, Litopres, UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X. Anna Maria Carassiti,
Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton, 2005, ISBN 88-8289-539-4. Voci
correlateModifica Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica
Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file
su Tantalo Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo
Gallavotti, TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1937. Modifica su Wikidata ( EN ) Tantalo, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) La storia
di Tantalo, su haidukpress.com. URL consultato il 17 marzo 2008 (archiviato
dall' url originale il 1º ottobre 2009). Controllo di autoritàVIAF ( EN )
72197787 · CERL cnp00548669 ·GND ( DE ) 119155060 · WorldCat Identities( EN )
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Wikipedia che trattano di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola
Gotti PAGINE CORRELATE Enomao re di Pisa nella mitologia greca, figlio di
Ares Clitennestra personaggio della mitologia greca, moglie di Agamennone
e amante di Egisto Minia re e fondatore di Orcomeno in Beozia nella
mitologia greca Wikipedia Il contenutoAlles Wollen entspringt aus
Bedürfniß, also aus Mangel, also aus Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein
Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn
versagt: ferner, das Begehren dauert lange, die Forderungen gehen ins
Unendliche; die Erfüllung ist kurz und kärglich bemessen. Sogar aber ist die
endliche Befriedigung selbst nur scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich
einem neuen Platz : jener ist ein erkannter, dieser ein noch unerkannter
Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende Befriedigung kann kein erlangtes Objekt
des Wollens geben: sondern es gleicht immer nur dem Almosen, das dem Bettler
zugeworfen, sein Leben heute fristet, um seine Quaal auf Morgen zu verlängern.
– Darum nun, solange unser Bewußtseyn von unserm Willen erfüllt ist, solange
wir dem Drange der Wünsche, mit seinem steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben
sind, solange wir Subjekt des Wollens sind, wird uns nimmermehr dauerndes
Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß
streben, ist im Wesentlichen einerlei: die Sorge für den stets fordernden
Willen, gleichviel in welcher Gestalt, erfüllt und bewegt fortdauernd das
Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein wahres Wohlseyn möglich. So liegt
das Subjekt des Wollens beständig auf dem drehenden Rade des Ixion, schöpft
immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig schmachtende Tantalus.Luigi Corvaglia.
Corvaglia. Keywords: Tantalo, Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.:
Vanini, Bordon, poetica, Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza,
“Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51717194455/in/photolist-2mNaHiH-2mN22TL-2mN597t/
Grice e Cosi – cuore, accordo – cuori -- l’accordo
– filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo. Grice: “I love
Cosi; my favourite of his philosophical essays on justice is the one on ‘l’accordo,’
for this is what my principle of conversational helpfulness or co-operation is
all about!” Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze.
Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale:
l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità
e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni"
(Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia”
(FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in
forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la
Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile";
"Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina);
“La obbedienza civile, la disobbedienza
civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la
democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e
identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli,
Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della
mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di
giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto della diada
conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia”
(Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto
filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione
artificiale: l'uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio
sulla disobbedienza civile: storia e critica del dissenso in democrazia,
Giuffrè, Milano; Il giurista perduto: avvocati e identità professionale,
Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica,
Franco Angeli, Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La
responsabilità del giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino;
Società, diritto, culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di
Sociologia del Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e
prevenzione: materiali di etica professionale, dispense di Sociologia del
Diritto, Firenze; Per una politica del diritto del fenomeno droga: problemi e
prospettive", Archivio Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per
una comprensione culturale dell'uso di droghe", Testimonianze;
"Religiosità e Teoria Critica: la teologia negativa di Max
Horkheimer", Rivista di Filosofia
Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le
sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi
Vallauri - G. Dilcher (eds.), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto
moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden); "Sulla
'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il
'nuovo politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e
dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale", Jus;
"Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja",
Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della pace come
ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;
"L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e
morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e
personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società",
Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e
sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della
cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Il diritto del mondo
I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill del 1689 e la sua
eredità", Sociologia del Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di
identità degli avvocati", in Storia del diritto e teoria politica, Annali
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Macerata;
"Verso il paese di Inanna", Anima;"Avvocato o giurista?",
comunicazione al VI Convegno nazionale di studio dell'Unione Giuristi Cattolici
Italiani, Firenze, Iustitia, "Tutela del mondo e normatività
naturale", in L. Lombardi Vallauri (ed.), Il meritevole di tutela,
Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e strumenti giuridici",
Testimonianze; "La professione legale tra etica e deontologia", Etica
degli Affari e delle professione; "Diritto e realizzazione:
un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico", Rivista Internazionale
di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini della coscienza",
Per la filosofia; "Naturalità del diritto e universali
giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F.
D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti,
Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto:
un'interpretazione psicologico-culturale", Per la Filosofia;
"Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI
(ed.), Logos dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza
giudizio. Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A.
AMOROSO (ed.), Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le
forme dell’informale”, comunicazione al XXI Congresso Nazionale della Società
di Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti
del suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti
Scuola, “Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia
e prevenzione”, Dirigenti Scuola. Wikipedia
Ricerca Cuore organo muscolare, centro motore dell'apparato circolatorio Lingua
Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Cuore (disambigua). Il cuore è un organo muscolare, che
costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio e propulsore del sangue
e della linfa in diversi organismi animali, compresi gli esseri umani, nei
quali è formato da un particolare tessuto, il miocardio ed è rivestito da una
membrana, il pericardio. Anatomia del cuore umano
EmbriologiaModifica Può originare da un abbozzo mesodermico ventrale, come
negli anfibi, nella parte rostrale del celoma, oppure da due abbozzi pari, come
nei mammiferi, che poi si uniscono medialmente. In entrambi i casi il primo
abbozzo cardiaco è compreso nel mesentere ventrale che in seguito si dividerà
in mesocardio dorsale e ventrale; successivamente entrambi spariranno per far
spazio al tubo cardiaco che permane nella cavità pericardica, separatasi dalla
cavità addominale per lo sviluppo di un setto trasverso. In questa fase
il cuore, che si trova lungo il decorso del vaso sanguifero mediano nella
regione subfaringea, non ha ancora né valvole né altre suddivisioni: è
rappresentato da un tubo con due pareti, una muscolare più esterna, miocardio,
e una endoteliale più interna, endocardio. Anatomia comparataModifica Nei
vertebrati l'apparato circolatorio presenta una complessità crescente dai pesci
ai mammiferi, le modifiche che ha subito nel corso dell'evoluzione sono in
relazione allo sviluppo di un apparato respiratorio[1]sempre più
efficiente. Nei pesci il cuore è costituito da un solo atrio, che
raccoglie il sangue povero di ossigeno proveniente da tutto il corpo, e un solo
ventricolo, che raccoglie il sangue proveniente dall'atrio: esistono però un
seno venoso nel punto di arrivo delle vene e un bulbo arterioso all'inizio
delle arterie, quindi le camere sono in realtà quattro.[1] Le camere
nel cuore dei pesci La circolazione in questi animali è definita semplice
perché il sangue compie un intero ciclo passando una sola volta per il cuore,
da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato così da arrivare ai
tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle cellule l'ossigeno e
aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di rifiuto, il sangue torna
verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto torna nel ventricolo e da
qui alle branchie: a questo punto il ciclo ricomincia.[2][1] Nei
vertebrati terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una circolazione doppia
(polmonare e sistemica), nella quale il sangue, nel corso di un ciclo completo,
passa due volte per il cuore. Negli anfibi e nella maggior parte dei rettili il
cuore ha due atri, ma un solo ventricolo così che i due tipi di sangue
finiscono nell'unico ventricolo, qui si rimescolano parzialmente e riducono la
quantità di ossigeno destinata ai tessuti; insieme all'aorta, alle arterie e
vene polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che porta il sangue alla pelle,
dove il sangue circolante si ossigena.[1] Cuore dei varani
Anatomia: RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK= circolazione sistemica;
LK= circolazione polmonare; SAK= valvole del setto atrioventricolare; CP= cavità
polmonare. Sistole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue
arterioso Diastole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue
arterioso Solo nei coccodrilli i ventricoli sono separati, mentre l'aorta
e l'arteria polmonare sono collegate dal forame di Panizza. Per
ricapitolare i diversi tipi di circolazione, potremmo così riassumere[2]:
Nei pesci la circolazione è semplice, è unidirezionale e ha un solo ventricolo;
Negli anfibi e nei rettili è doppia e incompleta; Nei mammiferi e uccelli è
doppia e completa, vi sono due ventricoli completamente separati Anatomia
umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Cuore umano. La posizione del cuore all'interno del torace umano Negli
esseri umani è posto al centro della cavità toracica, precisamente nel
mediastino in posizione anteroinferiore fra le due regioni pleuropolmonari,
dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo proteggono come uno scudo,
davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato dall'esofago e dall'aorta, e
appoggiato sul diaframma, che lo separa dai visceri sottostanti.[3].Il cuore ha
la forma di un tronco di conoad asse obliquo rispetto al piano sagittale: la
sua base maggiore guarda in alto, indietro e a destra, mentre l'apice è rivolto
in basso, in avanti e a sinistra;[4] pesa nell'adulto all'incirca 250-300 g,
misurando 12-13 cm in lunghezza, 9-10 cm in larghezza e circa 6 cm di spessore
(si sottolinea che questi dati variano con età, sesso e costituzione
fisica).[3] Battito del cuore di un uomo a 61 bpm FisiologiaModifica Il
cuore si contrae e si rilascia secondo il ciclo cardiaco. Il cuore è
costituito dalle cellule del miocardio, tipicamente striate, che si occupano
della contrazione e dalle cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina
lo stimolo di contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di
auto depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che
spostano il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo
l'apertura dei canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è
prolungato e porta il potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche
millisecondo, generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei
canali del potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi
e consentono ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del
miocardio inizia grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la
fuoriuscita di altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la
contrazione. Il cuore nelle culture umaneModifica Nell'antichità classica
(anche per il filosofo e scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede
della memoria. Il verbo ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e
questo dal sostantivo cŏr (genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col
suffissore- di movimento all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel
cuore (= nella memoria).[5] Ancora oggi l'espressione "a memoria" si
traduce par coeur in francese, by heart in inglese e de cor in portoghese
("coeur", "heart" e "cor" significano
"cuore"). Particolarmente cruento era il sacrificio del cuore
nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore, estratto ancora palpitante
dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli dei. Note Modifica ^
a b c d Apparato respiratorio nei vertebrati, su sapere.it. URL consultato il
22 agosto 2014. ^ a b La circolazione dei vertebrati ( PDF ), su
hischool.weebly.com. URL consultato il 22 agosto 2014. ^ a b Fiocca, pp.
189-277. ^ Testut e Latarjet, pp. 489-491. ^ Dizionario etimologico della
lingua italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed. Zanichelli
BibliografiaModifica Léo Testut e André Latarjet, Miologia-Angiologia, in
Trattato di anatomia umana. Anatomia descrittiva e microscopica – Organogenesi,
vol. 2, 5ª ed., Torino, UTET, 1973, ISBN non esistente. Silvio Fiocca et al.,
Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed., Napoli, Sorbona, 2000, pp.
189-277, ISBN 88-7150-024-5. Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
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Portale Medicina Ultima modifica 18 giorni fa di Lorenzo Longo PAGINE
CORRELATE Arteria vasi sanguigni che trasportano il sangue dalla periferia del
cuore al corpo Cuore umano organo muscolare cavo Apparato
circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di fluidi diversi –
come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che hanno il compito
di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro sostentamento
Wikipedia Il contenutoGrice: “Italians are afraid of the ‘sacro’ because
since the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! – unless otherwise
stated by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have spent more time
analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong
his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford, should have
examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible philosopher’ before
opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does not quite include
that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in the conflict in
the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided to use
‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni
Cosi. Keywords: l’accordo, il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare;
archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus,
il disensus, to obey, conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato –
legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura,
naturalita, non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo,
fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cosi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770000218/in/dateposted-public/
Grice e Cosmacini – consenso e compassione
– sinestesia e simpatia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my
concern: ‘cuore’, as when we say that two conversationalists reach an ‘accord’!
– on ‘empatia’ – a Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is
at the root of my principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini
(Milano), filosofo. Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o
INAM(Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie) e apre un
ambulatorio mutualistico Fare bene il mestiere di “medico della mutua” non
significa gestire un certo numero di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura
di una comunità di persone, ciascuna delle quali con esigenze proprie.
raggiungendo in quel periodo circa trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti
erano circa millecinquecento, decise di realizzare un suo sogno: la libera
docenza. è autore di numerose opere d'argomento filosofico-medico. Altre opere:
la mutua, medico della mutua, mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza
medica e giacobinismo in Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana
La società, Milano, Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo
dell'invisibile", lo scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie,
Milano, Rizzoli); “Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano,
Rizzoli); “Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea
alla guerra mondiale. Gius. Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia
nel Ventesimo secolo. Dalla 'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma-Bari, Laterza);
“La medicina e la sua storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano,
Milano, Rizzoli); “Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi,
Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità
nell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, G. Cosmacini-Cristina Cenedella,
I vecchi e la cura. Storia del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La
qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza);
“Medici nella storia d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della
medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano.
Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e
medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Raffaello Cortina, La Ca' Granda dei
milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di
medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello
Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca'
Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e
mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari,
Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e
i tempi di Giovanni Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute
e bioetica, Torino, Einaudi, G. Cosmacini-Roberto Satolli, Lettera a un medico
sulla cura degli uomini, Roma-Bari, Laterza, La vita nelle mani. Storia della
chirurgia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre
edizioni, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione
Don Gnocchi, Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La
peste bianca. Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte
lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il
romanzo di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo.
Un «tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC
Edizioni, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a
oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età
dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La
medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana
Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e
avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento,
istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina,
Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il
cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze
per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano,
Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa
del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo
De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie.
Vita e avventure di Augustus Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari,
Laterza); “Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e
stetoscopio. Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica",
AlboVersorio,. Medicina e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e
il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un
triennio cruciale. Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea.
Medici socialisti e compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco, Per una scienza medica non neutrale. Tre
maestri della medicina tra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco, Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il
galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica
della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per
una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici,
medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della
medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,.
Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna,
NodoLibri, Salute e medicina a Milano.
Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo”
(Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia
cordis, Ass. Gianmario Beretta,. Curatele Dizionario di storia della salute, G.
Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino,
Einaudi. “mutua gratia” - Practicis
nostris, Muri LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non
liquet, “don mutual” – mutual gift -- Charta ann. 1326. in Chartul. Hygenum de
Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con thesaur. S. Germ.
Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl.
Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii
1. Reg. Sicil. ann. 1129. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras
mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col. 623 Nulla angaria, par I
mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et prædictum defunctum
angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris. dum vivebat, et
constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis, Truncus,
stirps. Pactum inter nio inter ipsos. ann. 1996. apud eumdem tom. 9. col. 834:
Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec
impositum fuit per commune Parma 1343. in Reg: 134. Chartoph. reg. ch. 34:
nomine mutui impositam solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe
recte tendendo ad pedem cujusdam margassii mutuum. rialium per episcopatum, et
quinque millium seu claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo,
in Vita Anti- per civitatem. Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes
arborum. dii Archiep. Bisonticensis cap. 5: Bene- positum duo millium librarum,
etc. Chron. Åwwvíz, in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato,
etc. Mutin. ibid. tom. II. col. 122: Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom.
5. Julii (mutuatio, pro mutatio, in Consuet. tua extorsit.] Historia
Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque quippiam petere volente, MSS. Auscior. art. 3:
Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis,
subito mulus effectus tio consulum annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el
daciis. Infra: *mutual* imposuit et est; qui a plerisque tentatus, an videlicet
Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1: V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet,
et tandem certa ex Ital. Mutola, Muta. Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib.
12. de loquendi impotentia comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de
Aretio n. 9. Reb. gest. Italic. pag. 86: Communes da præterea toin. 2.Sanctorum
Apr. pag. 429.], Idem quod Expeditatus, riæ, exactionesque et Mutua publica el
priMuronagium. Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta
R. Abbatis Monasterii Ka Mullo. latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in
Pictonib. ann. 1308. ex (Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus, glaber. Regesto
Philippi Pulcri Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann. 1390: Quilibet Mu-
Gloss. Lat. Græc. MSS. Sangerman. larii Regii n. 11: Non recipiemus ibi Mu
tofeda solvat xvi. denarios. * Castigat. in utrumque Glossar. forte tuum, nisi
gratis mutuare voluerint habitan Lugdunensibus, Feye. Vide supra Menlulosus,
ead'ns, ex Vulc. tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit.
6o. S 4: Si citania ann. 1298. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo-
autem ibidem infra terminationem aliqua in- Regis ann. 1299. n. 16. Vide
Credentia, neum. Supplem. Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte, vel butinæ,aut
Lat. Græc. Sangerm. Aliud itidem Gloss.: extiterint, ad sacramentum non
admittatur, *mutuum coactum* exactio, quæ a Mutonium, Tepábeuo, Additio. etc.
Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis ac
ne 1., quos Motes nostri vocant: aut forte cessitatibus fiebat super subditos,
vassallos, equilatus, quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros
vocant Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib. 14:
Mutpharachæ admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po-
pollicitatione: a qua quidem exactione præstantes, toto orbe conquisiti, ea
condi- siti. Vide Bonna 2. exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione
militant, ut quos velint Deos, impune KF Errat Cangius, si fides Eccardo,
libertates, leguntur. Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori
ope- in Notis ad Legem citatam, quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes
ram navent. Hæc post Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim
sunt habitatores loci illius sint liberi et immunes in Lex. milit.
machinaliones clandestinæ, vel seditiones ab omnibus questis, talliis, et
toltis, et clam excitatæ, a veteri German.Meulen, tuo coucto, et omni ademptu
coacto. Con capitis tegumentum, quod monachi cap. | clandestine agere, unde Meutmacher,
Fla- suetudines Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall. Christ. tom.
4. bellum seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum
coactum, col uti. Mutrellis 782: Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus
eruditus; quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;.
Vide Mitræ. necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall.
Mouton. in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann.
1307. exArchivis Massil.: naculæ, totas inquistas, ni prest forsat, o
Terrear.villæ de Busseul ex Cod. reg. 6017. Item super co quod petebantdicti
parerii alcuna action destrecha, etc. Libertates fol. 47. vº.: Item unum
Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum, astorium et concessæ oppidis
Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2. pere nolim. 75 594 etc.
lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu, De S. 6: L.
FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ
Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L.
Burdegalensis fol. 55. 140: Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio,
ialari L. OLYMPUSA PECIT. in ibi Muruum,
nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide
Inscript. ccxcix. 3. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales
Rio. Mozzetta. hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia,
miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita
Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium
púxw, Mugio, reboo. Vide Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta, in I Piscis
genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo
quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi
viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere
emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden.
pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum
hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et
intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv.
copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero
penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis
Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol.
(* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus, Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3.
Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum
Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene, hodie Graviter, com super
subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil.
posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342.
Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1: l'episc. tom. 10. Collect. Histor.
Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates,
monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann.
1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus,
quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii
prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30. Cantharus po- cum
buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine
muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et barbæ,
quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani, tur D.
de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat. Turne- ex
Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero Advers.
lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd. | bum
compositum mure et barbo, quod | , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15. non3.
Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps. Prudent.
Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut sit
tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis exigi
equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat Lil. Gyraldus Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine
xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo
*mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag. 78. gunt. pag.
255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia.
Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [** Leg. Violentum ut, supra.)
ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc
Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis
oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ
tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa Aldebrandum
cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa.
rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici genus
arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum, stipendium datum in ante-, ut
placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum. Lit. ann. 1408. tom.
9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1. nomen omne regnum Regis Adefonsi æra
1113. (Chr. reg. Franc. pag. 363, art. 1: Ordinamus adepti. Melius Scaliger, a
forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios,... hoc est,
angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus,
cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati
fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. 1427. 1728. col. 2: Indutus
est (Gratilianus ) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator.
tom. 31. Script. Ital.col.stimentis a. Wikipedia Ricerca Sinestesia
(psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le
informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere
accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il
parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno
sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi
nella percezione.[1] Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza
quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a
delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale
o cognitivo.[2] Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di
una persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a
quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva
è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella
sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che
i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto
distaccata dagli altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di
sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono)
provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista).
Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta
automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è
involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con
maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e
sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni
sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier
Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di
poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo
spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il
pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore
russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli
effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori
contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto
con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per
l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita
ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo.
Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se
vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la
mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della
sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico
il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3] Esperienze di
tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso
di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di
deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che
colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta
pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono
quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono
scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.
L'esperienza sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore
(inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un
sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un
colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un
concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di
lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della
sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è
possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo
fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. [6] Sinestesia: grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro.[7] Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza
magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del
colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro
fusiforme. L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro
fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si
attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla
presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una
attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei
grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche
senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni
tra le due aree, non presente in tutte le persone. Le connessioni che si
hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un
cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo
definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi
di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi,
che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei
sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il
processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza
permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area
del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un
certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme
non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile
essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree
superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta
alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non
sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale
fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici,
alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più
"utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo
spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di
esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente
al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi
tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo.
Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove
connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più
probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente
"disattive". Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica
Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5
composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a
livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la
loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde. Questo esperimento
porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno
sinestesico. Sinestesici projectorModifica Nel caso di grafema-colore, il
colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un
sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il
numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della
sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in
realtà era scritto con il giallo. Sinestesici associatorModifica Sempre
nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il
numero. In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di
vedere un numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è
un'esperienza per nulla disturbante. La percezione del colore "reale"
del numero è un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico
associator. I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai
sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e
collaboratori). Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva,
Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina
Vaneckina. Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel
moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni
ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica
dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare
possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è
stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come alfa 2 delta
3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la
membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni.
Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici. Nei topi carenti
di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore
provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte
con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore
termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi
termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali
superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle
aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si
osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile.[8]
NoteModifica ^ a b Emozioni colorate | Le Scienze, su
lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen (1996).
Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell Publishing.
ISBN 0-631-19764-8. ^ Leonardo Da Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance
Italy, Lascar Publishing, 2015.
http://www.lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in
Internet Archive. ^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^
"Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S.
Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3,
2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer,
su psychomer.it (archiviato dall' url originale il 20 novembre 2010). ^
Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note
BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III
Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de
las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición
Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada 2009. ISBN 978-84-613-0289-5
Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos,
artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada
2012. ISBN 978-84-939054-1-5 Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses,
second edition, MIT Press, Cambridge, 2002. ISBN 978-0-262-03296-4 Cytowic,
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Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, 1978. Riccò D.,
Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia,
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nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2008. ISBN 978-88-430-4698-0 Tornitore
T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986.
Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico
Torinese, Torino, 1988. Voci correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia
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ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo
Wikipedia Il contenutoGrice: “The grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily
complicated. But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t
make sense as an analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or
exchange *information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated:
‘mutual’ -- A and B are friends –
implicated: mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the
subtlety of his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m
surprised from Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini.
Keywords: compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della
medicina, Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica,
giacobinismo, fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina
fascista, la medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical
della vita, bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation
and compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale,
imperative della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale –
imperative of conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of
mutuality – Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and
using it in scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have
been proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it
elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770578255/in/dateposted-public/
Grice e Cosmi – discorsi: corsi e ricorsi
-- metodo dei principi generali del discorso – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Casteltermini).
Filosofo. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase I do,
‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a
rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful
communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer
to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity
(chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a
more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract,
“Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated
on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where
he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and
perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu
un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not
considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei
Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando
l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un
rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo,
il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali
del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Principi generali del discorso, e della ortografia
italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by Giovanni Agostino De
Cosmi(Book ) 1 edition published in 1984 in Italian and held by 2
WorldCat member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e
un aureo libretto dei "Principi Generali del discorso" – i. e. un
principio comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione
direttrice, non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa
farragine di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie,
con cui si sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del
giovanetto. Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato
nell'antico ma verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia
preziosa filosofia è un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare
il "metodo conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in
occasione di filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione
conversazionale al ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè
attuare la mia prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra
chiara, spedita, uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera
del civil conversare -- è cosa necessaria il sapere la semantica e le
implicature conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della
conversazionale e un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di
aggiustatezza (approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo
estetico), e un principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza
cattive equivoci (un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt
multiplicanda praeter necessitatem --, e un principio senza superfluità
(economia dello sforzo conversazionale, fortitudine conversazionale, candore
conversazionale -- e un principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione
e efficenza del volgare linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno
del reale. E vuole che al giovane si da un principio generale e fondamentale --
e un principio generale della conversazione, esposto con metodo ragionabile e
calculable e con chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un
principio di efficenza communicative -- un principio soggetto il meno che si
può all'eccezione o la violazione involuntaria si non a la splotazione retorica
-- e un principio stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il corpo
di ogni parte della filosofia. Ebbe un giorno a
scrivere di Marco Tullio Cicerone, che questo ingegno eminente prende a gradi
la sua maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio
dei grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me
medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma
osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i
primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli somministrarono
la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di preziose nozioni di
metodica prammatica. Il secondo volume
e come il primo, è diviso in due parti. La prima parte ha per
titolo, “Principj generali del Discorso applicati alla lingua volgare”, per la
quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate dei “Principj generalie
del discorso” siesi detto ciò che basta per l'istruzione della prima età; la
sperienza mi ha fatto conoscere, che, volendosi col metodo intrapreso tirare
innanzi il cammino, per la piena intelligenza, 1 G. A. De Cosmi, Elem. di
filol. ecc., tomo I, pag. 231. • LO STESSO, Elem. di filol, ital. e
latina, tomo II, Palermo; pag. III ed imitazione dei classici
principalmente italiani, era necessario ad entrare in qualche più esteso
rischiarimento, *non per multiplicare l’imperativo conversazionale, ma per
agevolarne l'uso, senza di cui inutili sempre la massima conversazionale
universalisable si rimarranno. Dietro di che, in cinque paragrafi, filosofo,
con la solita competenza, “Del Pro-nome in generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”;
“Del pronomi e del verbo che ne dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”,
e “Della Costruzione irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle
prime due parti dei Principj Generali del Discorso già stampati a riprese. Egli
fece riunire in separato volumetto per uso degli scolari 3 Io non mi
stancherei, dirò col Mollica Di Blasi, di riportare varie altre sentenze, che
oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro l'aveva
annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è per tanto
che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e nella
coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:
Invece di sorprendere, cosi il De Cosmi, l'età fanciullesca coll' apparenza
dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò
che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto
avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5. Anzi che
ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo
dell'intendimento; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle
regole predette, e indi tornava a ribadire che: Per mantenere sempre
desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non
sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che
loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare,
che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose
sa pute 6. E poi seguiva cosi: Che se alle volte occorrerà di
dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare
la difficoltà colla curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta
l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è
infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se
ributta 7. Poi chiedeva a se stesso: É necessario il rappresentare
al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con
coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e
senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece 1 G.
A. De Cosmi, Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, 1792, p.
1-6. . Lo stesso, Metodo cit., p. 5. 3 Lo stesso, Op. cit., p.
8. * GAETANO MOLLIGA DE BLABI, Note storiche di G. A. De Cosmi; Palermo,
1883, p. 18. • G. A. De Cosmi, Metodo ecc., p. 8-9. . Lo stesso,
Op. cit., p. 14. . Lo stesso, Op. cit., p. 15. d'essere
l'arte di pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la
nostra rettɔrica, l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30.
Gran servigio, gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza
per la strada regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro
ragione e il loro cuore. Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada
alla coltura delle scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le
cognizioni realmente utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj
regni e nel suo vero prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata
utilità fossero rico 103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle
cognizioni; che la Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella
sua Morale, mi senza il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si
cerchi il gusto, ma senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci
servano di guida nelle cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si
cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per
influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti
dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero
termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi,
senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo '. [ocr errors]
IV. A questa stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima parte
dei Principj Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin. dal 1790;
cui fece seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei verbi,
dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune regole
primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte; e
terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri necessari
allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i libri del
Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il
Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli
antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il
Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5. A sintesi di
tutto il libretto il De Cosmi conchiude così: Ciò che i maestri debbono
inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità
delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni
lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",
Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di
essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una
bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena-agosto 1792
“. 1 G. A. De Cosmi, Op. cit., p. 17-18. . Vedi sopra pag.
166. • G. A. De Cosat, Metodo ecc., p. 56-57." • Lo stesso,
Op. cit., p. 60-61. * Pag. 55 e seg. L'articolo dell' O. G.
R. P. venne riprodotto da Giov. D'Angelo nelle 840 Memorie per servire alla
Storia letteraria di Sicilia; vol. III, Ms. della Biblioteca Comunale Cosmi.
Wikipedia Ricerca Discorso concetto filosofico Lingua Segui Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce sull'argomento linguistica è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i
suggerimenti del progetto di riferimento. Un discorso è una modalità di
comunicazionelinguistica mediante cui si parla o scrive. La definizione del
termine varia a seconda dei campi di applicazione (antropologia, etnografia,
cultura, letteratura, filosofia, ecc.).
In semantica e analisi del discorso è una generalizzazione del concetto
di comunicazione all'interno di tutti i contesti. Nel campo dei codici è la
totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in un determinato settore di
pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso giuridico, discorso
religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha definito il discorso come
"un ensemble de séquences de signes" (un insieme di sequenze di
segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze sociali e delle scienze
umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un pensiero che si può
esprimere mediante il linguaggio. Il
discorso si differenzia dall'enunciato e dalla dichiarazione. Il discorso,
infatti, può rappresentare la manifestazione di un pensiero individuale
relativamente o meno a un determinato argomento; la dichiarazione invece
consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e coinvolto in
documentazioni. Con il termine discorso
si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico relativamente a un
argomento o materia (discorso inaugurale, discorso commemorativo, ecc.). Note Modifica
^ Michel Foucault, L'archéologie du savoir, Parigi, Gallimard, 1969, p. 141.
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discorso, discorso, discursus -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770487810/in/photolist-2mSMhnq-2mS1rKF-2mNaHiH-2mMV7by-2mMLXtT-2mLEwYs-2mKBEmt-2mPhuNk-2mKC3nj-2mKCewV-2mKAuZM-2mJpFSS-2mJe9QJ-2mGnP2f-Bq5PrV-CntuMM
Grice e Cosottini – MELOPEA – filosofia
italiana –Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo. Grice:
“Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in terms of linearity – surely Miss X
can ‘improve’ on the score! Especially if she did visit Payne’s little cottage
by the sea – in Easthampton, and shed a tear!”. Si laurea a Firenze con
“Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la Reserccia dell’Improvisazione
Musicale. GRICE Gruppo por la research dell’Improvisazione conversazione
espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale. Le Fanfole, canzoni composte su
testi del poemetto meta-semantico di Fosco Maraini Gnosi delle Fanfole.
Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma lineare, sintagma
soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’ expression of pain – the
higher the volume, the higher the pine --. Grice on stress, intonation and
implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to tell me). SMITH paid the
bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente per le loro vie, variando
direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con dialoghi liberi e mai
serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di suoni del tutto libera e
interamente legata all'istante, tale da produrre mozzione conversazionale dallo
sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il concetto di ‘improvvisare’
improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation – improvised. Musica e
Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre esecutori, che consiste
di una mappa e ottantuno carte con segni grafici codificati (la mappa e le
carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la grafia genera molteplici
possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi studi si concentrano sulla
filosofia della musica e sull’improvvisazione musicale, scrivendo numerosi
saggi per riviste specializzate come Musica Domani, Perspectives of New Music,
Aisthesis, Musicheria e la rivista online De Musica. Inoltre pubblica un saggio sul silenzio e
sulle sue potenzialità performative. Metodologia dell'Improvvisazione Musicale.
Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di metodologia dell’improvvisazione
musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia tra Linearità e Nonlineairtà
come strumento per l’analisi dell’improvvisazione musicale. Non-linearita
EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia della Musica.
Non-linearità. Metodi non lineari. EDT
Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione
musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e
Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio
in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You
Need A Sign. Wikipedia Ricerca Palazzo Bardi edificio a Firenze Lingua
Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo
busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia
RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate43°46′02.99″N
11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo
Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o
Busini-Bardi-Serzelli si trova in via de' Benci 5 a Firenze. Palazzo
Bardi, il cortile attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu costruito su
preesistenze negli anni Trenta del XV secolo per conto della famiglia di
banchieri Busini, su disegno forse di Filippo Brunelleschi: è quindi evidente
la sua grande importanza nel testimoniare, circa quindici anni prima della
costruzione di palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo, il definirsi
della tipologia del palazzo rinascimentale, con cortile centrale, in un momento
di significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del tempo.
Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di Piero, esiliata
nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel secolo precedente
aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de' Bardi, nipote di Giovanni,
fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo, forse con il concorso di
Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato l'assetto generale. Furono
chiuse le grandi aperture sul fronte che davano accesso a vari locali adibiti a
botteghe (una successione di fornici è ancora apprezzabile su via Malenchini e
due permangono su via de' Vagellai). Da sottolineare come i lavori, databili
tra il 1488 e il 1498, pur giungendo ad esiti formalmente diversi, si
sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi, ugualmente
volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo adeguato
alla nuova concezione rinascimentale. Preesistenze sul lato sud in
via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una lapide sulla
facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati, artisti e
musicisti, conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa Bardi,
istituita dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che più
tardi si occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la prima
volta il canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo Galilei
e si eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la Camerata
divenne Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni in via
Tornabuoni. Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione del ramo
familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli, che
l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto.
Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto
negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Nel 1983 ha
subito il rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire
dal 1990 circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una
società immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato
al recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi
ambienti interni, conclusosi nel 2007. Il palazzo appare nell'elenco
redatto nel 1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale
edificio monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è
sottoposto a vincolo architettonico dal 1913. DescrizioneModifica
Esterno La semplice facciata, sviluppata sui canonici tre piani e graffita con
una finta muratura a conci rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di
Ferdinando Bardi, comunque da considerare sostanzialmente fedele alle
preesistenze), quindi restaurata e integrata nell'ambito del recente intervento,
presenta ai lati due scudi con le armi, oramai consunte ma ancora ben
leggibili, della famiglia Busini (d'azzurro, a tre fasce increspate d'oro, e
alla banda attraversante di rosso, caricata di tre rosed'argento). Da segnalare
sul fronte anche la lapide che ricorda come, in questo palazzo, Giovanni Bardi
conte di Vernio avesse riunito verso il 1580 la Camerata fiorentina di casa
Bardi, in seno alla quale nacque il melodramma. IN QUESTA CASA DEI BARDI
VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI
SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE
COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA
LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE
ALLA SUBLIMITÀ DELLA GRECA MELOPEA DI CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA
CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E
CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA DELL'ARTE MODERNA N. MDXXXII - M.
MDCXII Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi.JPG Stemma Bardi
sul cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da una elegante
cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla rosta l'arme dei
Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso) accostata da due
aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute di fiori, primo
esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici finestre centinate si
allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche un piccolo tabernacolo
con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in gloria adorata da una
monaca. L'elemento più interessante è il bel cortile centrale porticato
sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi, probabilmente il primo
cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili pubblici del Palazzo del
Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata, presenta arcate a tutto
sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono lo spazio. I volumi
sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato spesso successivamente
del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle colonne è doppia rispetto
all'intercolumnio (a differenza per esempio del loggiato dello Spedale degli
Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche, presenta un maggior slancio.
Tipicamente brunelleschiana è anche la disposizione delle porte che si aprono
sul cortile. "Si osservi anche il sonoro androne d'ingresso, con
volte a crociera su capitelli pensili strettamente analoghi a quelli del
palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido episodio dei capitelli delle
colonne del cortile stesso, che presentano un singolare episodio di
protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso rispondono i capitelli
del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via del Corso 13, egualmente
attribuita all'esordio professionale di Filippo: per la qual cosa piacerebbe
datare pure il prezioso testo architettonico protobrunelleschiano di palazzo
Bardi anche a prima del 1420" (Gabriele Morolli). All'interno molte
stanze presentano dei soffitti in legno risalenti all'epoca di Agnolo de'
Bardi, che li fece uniformare. BibliografiaModifica Tabernacolo
Emilio Burci, Guida artistica della città di Firenze, riveduta e annotata da
Pietro Fanfani, Firenze, Tipografia Cenniniana, 1875, p. 108; Ministero della
Pubblica Istruzione (Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti), Elenco
degli Edifizi Monumentali in Italia, Roma, Tipografia ditta Ludovico Cecchini,
1902, p. 252; Janet Ross, Florentine Palace and their stories, with many
illustrations by Adelaide Marchi, London, Dent, 1905, p. 42; Attilio
Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, volume
primo, Firenze, Sansoni, 1908, pp. 29–30, fig. 27; Walther Limburger, Die
Gebäude von Florenz: Architekten, Strassen und Plätze in alphabetischen
Verzeichnissen, Lipsia, F.A. Brockhaus, 1910, n. 74; Luigi Vittorio Bertarelli,
Italia Centrale, II, Firenze, Siena, Perugia, Assisi, Milano, Touring Club
Italiano, 1922, p. 84; Augusto Garneri, Firenze e dintorni: in giro con un artista.
Guida ricordo pratica storica critica, Torino et alt., Paravia & C., s.d.
ma 1924, p. 146, n. XXVI; Luigi Vittorio Bertarelli, Firenze e dintorni,
Milano, Touring Club Italiano, 1937, p. 168; Ettore Allodoli, Arturo Jahn
Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto Poligrafico e Libreria dello Stato,
1950, p. 120; Enrico Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la collina, i
pellegrini stranieri, Firenze, Vallecchi, 1958, p. 132; Gunter Thiem, Christel
Thiem, Toskanische Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko: 14. bis 17.
Jahrhundert, München, Bruckmann, 1964, pp. 58–59, n. 11, tav. 20; Walther
Limburger, Le costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti bibliografici e
storici a cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai Monumenti di Firenze,
1968 (dattiloscritto presso la Biblioteca della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e per il Paesaggio per le province di Firenze Pistoia e Prato,
4/166), n. 74; Mario Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie di Raffaello
Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, 1971-1973 (I, Quartiere di Santa Croce,
1971; II, Quartiere della SS. Annunziata, 1973; III, Quartiere di S. Maria
Novella, 1973; IV, Quartiere di Santo Spirirto, 1973), I, 1971, pp. 113–118;
Leonardo Ginori Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, Firenze,
Giunti & Barbèra, 1972, II, pp. 609–615, p. 670; Giovanni Fanelli, Firenze
architettura e città, 2 voll. (I, Testo; II, Atlante), Firenze, Vallecchi,
1973, I, pp. 141–142, 203, 239, 240; II, p. 52, fig. 280; Touring Club Italiano,
Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore, 1974, p. 178; Gigi Salvagnini, La
guerra degli sporti, in "Granducato", 1976, pp. 3–12. Piero
Bargellini, Ennio Guarnieri, Le strade di Firenze, 4 voll., Firenze, Bonechi,
1977-1978, I, 1977, p. 117; Il Monumento e il suo doppio: Firenze, a cura di
Marco Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari Editrice, 1981, pp. 73–75;
Firenze. Guida di Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di
Architettura dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico
Cardini, progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino,
Umberto Allemandi & C., 1992, Gabriele mOROLLI, p. 72, n. 44; Marcello
Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di Janet Ross e Antonio
Fredianelli, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 39–41; Guido Zucconi, Firenze.
Guida all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale
Editrice, 1995, p. 64, n. 71; Franco Cesati, Le strade di Firenze. Storia,
aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più affascinante del mondo
attraverso 2400 vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton & Compton
editori, 2005, I, p. 68; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano,
Touring Editore, 2005, p. 411; Eleonora Pecchioli, ‘Florentia Picta’. Le facciate
dipinte e graffite dal XV al XX secolo, fotografie di Antonio Quattrone,
Firenze, Centro Di, 2005, pp. 150–153; Claudio Paolini, Case e palazzi nel
quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze, Paideia, 2008, pp. 64–66, n. 74;
Claudio Paolini, Lungo le mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’
Benci, Quaderni del Servizio Educativo della Soprintendenza BAPSAE per le
province di Firenze Pistoia e Prato n. 25, Firenze, Polistampa, 2008, pp.
42–45, n. 4; Claudio Paolini, Architetture fiorentine. Case e palazzi nel
quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia, 2009, pp. 77–79, n. 84. Altri
progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Palazzo Bardi Collegamenti esterniModifica Claudio
Paolini, scheda nel Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo
Spinelli(testi concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo,
su limen.org. Portale Architettura Portale Firenze
Ultima modifica 2 anni fa di Omega Bot PAGINE CORRELATE Palazzo Malenchini
Alberti Palazzo Bardi-Tempi Palazzo de' Benci Edificio a Firenze, Italia
Wikipedia Il contenutoMirio
Cosottini. Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear
segment adds to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not
pay the bill, and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that
he likes her AND that he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev,
Hockett, fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith
kicked the cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay
the bill”. “I knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51769469536/in/photolist-2mSG4EY
Grice e Costa – l’interno-l’esterno –
l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo. Grice: “I
love Costa; if I have to chose three of my favourite essays of his, those would
be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se: l’esternalissazione’ and above all, his
sublime, “l’estetica della communicazione,’ which is what my philosophy is all
about!” -- Mario Costa (Torre del
Greco), filosofo. È conosciuto, in particolare, per aver studiato le
conseguenze, nell’arte e nell’estetica, delle nuove tecnologie, introducendo
nel dibattito filosofico una nuova prospettiva teorica, attraverso concetti
come "estetica della comunicazione", "sublime tecnologico",
"blocco comunicante", "estetica del flusso". È stato Professore di Estetica all'Salerno e,
come professore incaricato di Metodologia e storia della critica letteraria e
di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per
molti anni nelle Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di
Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e diretto, daArtmedia,
Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra tecno-scienza, filosofia ed
estetica, organizzando su queste tematiche decine di iniziative di studio,
mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media ha ottenuto il Premio
Nazionale "Diego Fabbri". Pubblicato una trentina di libri; alcuni di
essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in
America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha
seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica
e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia
della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la
nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e nell'estetico.
Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate, ha fornito un
complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi movimenti
dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare rilievo in
questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su Duchamp e
sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul
"lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di
grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in
Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo
pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno
riguardante le conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica,
riassunte soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli
effetti disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La
disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo,
consistente in un ripensamento del senso che l'"estetico" e
l'"artistico" vanno assumendo nella fase attuale delle nuove
tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura, dell'immagine,
della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha condotto ad
una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo
investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica)
la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad
una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere
rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati
e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che
apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle
discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media",
da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del
cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro
in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della
comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica
risalgono al 1983, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose
Cattedre e indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il
lavoro più noto e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso
che, considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico
dalla nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della
dimensione dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una
nuova forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto
quello che questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime
tecnologico è stata diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale
della teoria estetica ed ha sollecitato un incalcolabile numero di
sperimentazioni da parte di artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed
estetica del flusso traccia le linee di una nuova estetica e della
sperimentazione artistica che da essa può scaturire. Si tratta da una parte di
un violento e argomentato pamphlet contro l'arte contemporanea, ritenuta “una
congerie più o meno sgradevole di nullità mercantili”, e dall'altra della
tematizzazione ed elaborazione del concetto di “flusso estetico tecnologico”,
considerato come ultima e residua possibilità di sperimentazione per gli
artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti dell'ontologia
contemporanea. Dopo la tecnica () ripercorre la storia delle varie epoche della
tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire configurando,
ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di chi da esse è
abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la tecnica, una volta
connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo incondizionatamente
autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad appartenerle e a favorire
il suo sviluppo. Altre opere: “Arte come soprastruttura”, Napoli, CIDED, Teoria
e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle funzioni della critica
d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, M.Ricciardi
Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia
artistica parigina posteriore, Roma, Carucci Editore, Le immagini, la folla e
il resto. Il dominio dell'immagine nella società contemporanea, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei
media. Tecnologie e produzione artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'.
Storia e Senso di un'avanguardia, Napoli, Morra, La televisione e le passioni,
Napoli, A.Guida, 1Lo ‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo
‘schématisme parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione,
Fondazione G.E.Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e
strategie del simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per
una teoria dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Costa & Nolan, Il
sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma,
Castelvecchi, Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica
dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della
comunicazione. Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico
della simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento
alla computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica,
Napoli, Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare
l'arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica,
Milano, Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La
disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove
tecnologie, Milano, Costa & Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una
teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, Costa & Nolan, Arte
contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio Edizioni, Ontologia dei media, Milano, Post media books, Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli,
Liguori Editore. Il lavoro teorico di Costa teso, tra l'altro, a definire la
nuova epoca dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e
digitali, e a fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo,
si è, per ciò stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione
estetico-culturale: agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col
supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per
sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle
tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il
Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla Rivista
di estetica di Torino, necrea, con l'artista francese Fred Forest, il movimento
internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti (Electra di Frank Popper, al Centre Pompidou
a La Revue parlée di Blaise Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de
Philosophie de l'art di Olivier Revault D'Allonnes); nei mesi di marzo-aprile
del 1984 dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della comunicazione
(L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); a partire dal 1985 concepisce
e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei
Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno
Internazionale su estetica e tecnologia; nel febbraio 1989 organizza presso la
stessa Università il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e
tecnologie della comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento
Scuola e Educazione) la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per
i media; fa svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli)
Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; nel
1990 presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di
Samuel Beckett; nel 1995 fonda e dirige, la Rivista Internazionale Multilingue
Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda e dirige, presso le Edizioni
Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di Estetica e Poetiche» aperta
alle questioni estetologiche connesse ai nuovi media (testi di Francesco
Piselli, Anne Cauquelin, Theodor W. Adorno, Costa, Marie-Claude Vettraino-Solulard,
Dorfles); co-organizza a Parigi la VIII
Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2003 co-organizza presso l'Salerno il
Convegno Internazionale Tecnologie e forme nell'arte e nella scienza; organizza
presso il Museo del Sannio di Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott,
Maurizio Bolognini, Fred Forest, Richard Kriesche, Mit Mitropoulos); norganizza
presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza a Parigi la X
Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2009 organizza presso l'Salerno un seminario
conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire".
Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, Ricciardi Editore, 1976; Mario Costa, L'oggetto estetico e la critica,
Edisud, Salerno. Mario Costa, Il 'lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e
Soggetto nell'avanguardia artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il
'lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche
Signe, forme, schéma, ornement, in "Schéma et schématisation", 57,
Parigi 2002, L'estetica dei media.
Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, Mario Costa, Il sublime
tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma,
Arte contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre:
Technology, Artistic Production and the "Aesthetics of
communication", in "Leonardo", Tecnologie e costruzione del
testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla diffusione e la
rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Philippe Bootz, The thesis
of Walter Benjamin and Mario Costa, in Philippe Bootz, Sandy Baldwin, Regards
Croisés, West Virginia University
Press, Alberto Abruzzese, Il compiersi della pubblicità dal manifesto
metropolitano ai linguaggi elettronici del presente: pretesti, testi e
questioni, in (Riccardo Lattuada), Nuove
tendenze ed esperienze nella comunicazione e nell'estetico, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane. Derrick de Kerckhove, L'estetica dei media e la
sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di Mario Costa, in "Mass
Media",Frank Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, Mario
Costa, professore di estetica, in MCmicrocomputer, n. 208, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo. – La nozione di
esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella di internalismo
(internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai dibattiti sulla
filosofia della mente e sull’epistemologia nella seconda metà del 20° sec. ed è
attualmente al centro del dibattito filosofico sulla giustificazione
epistemica, sull’epistemologia sociale, sul ruolo dell’ambiente e dell’esterno
negli stati mentali, nei processi cognitivi e nei processi linguistici e
comunicativi; si parla di e./i. anche in filosofia morale. Nell’e. una
conoscenza si considera giustificata se è causata da processi affidabili
derivati dall’esperienza esterna; diversamente, nella prospettiva internalista,
una credenza viene considerata vera se fondata su esperienze interne al
soggetto (per es. il cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza, anche
sensibile, del mondo esterno all’appercezione di stati di coscienza (H.
Kornblith, ed., Epistemology: internalism and externalism, 2001; L. Bonjour, E.
Sosa, Epistemic justification: internalism vs. externalism, foundations vs
virtues, 2003). Nella filosofia della mente, gli stati mentali vengono
ricondotti, in prospettiva esternalista, a connessioni causali con l’ambiente
esterno; in chiave internalista, a processi e fattori interni alla mente. Nella
teoria della motivazione morale si parla di i. allorché si ritiene che vi sia
una connessione necessaria fra considerazioni morali e motivazione, costitutiva
della considerazione morale stessa; si parla invece di e. quando si ritiene che
tale connessione si fondi su fattori concomitanti contingenti. Con l’argomento
della ‘Terra gemella’ (twin Earth), il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che
una differenza di estensione, ossia dell’insieme degli individui cui si applica
un concetto o un predicato, è anche una differenza di significato; questo per
dimostrare che i significati non sono enti mentali, ossia che la medesima
parola applicata a due enti diversi (anche se non apparentemente tali) cambia
di significato, benché averne o meno cognizione dipenda dalla competenza
semantica dei parlanti in merito all’oggetto designato (The meaning of
‘meaning’, in K. Gunderson, ed.,Language, mind and knowledge, 1975; trad. it.
1987). A partire dalle tesi dell’e. semantico (in filosofia del linguaggio si
privilegia la coppia di termini esternismo/internismo) il dibattito si è esteso
alle filosofie della mente e alle scienze cognitive, indagando se il soggetto
cognitivo sia circoscrivibile al cervello e al sistema nervoso (i.), o se la mente
e il mentale includano anche fattori ambientali, sia fisici sia sociali,
ricalibrando i confini fra mente, corpo, ambiente (e.). Nel dibattito
filosofico ha avuto rilievo anche la tesi della ‘mente estesa’ di A. Clark e D.
Chalmers (Chalmers, The extended mind, in Analysis, 58, 1998; Clark,
Supersizing the mind: embodiment, action, and cognitive extension, 2008), che
riconosce il ruolo dei fattori extracorporei e ambientali nel costituirsi della
mente, ma riguardo agli aspetti cognitivi non fenomenici (non coscienti).
Superando contrapposizioni troppo rigide fra le due posizioni, nelle tesi
esternaliste più recenti si tende a riconoscere non unicamente la dipendenza
causale dall’esterno del mentale, ma a vedere l’origine del mentale
nell’interazione causale ambiente-corpo-cervello, ciascuno influente nei
processi cognitivi e mentali. In ambito sia semantico sia fenomenico si è
differenziato l’e. dall’i. in base alla possibilità di ‘individuare’ uno stato
mentale ritenendo di poter ricorrere, o meno, a fattori esterni (R.A. Wilson,
Boundaries of the mind. The individual in the fragile sciences: cognition,
2004). Più recentemente si è teso invece a privilegiare l’aspetto della
realizzazione fisica. Si parla, in tal senso, di e. del veicolo o anche
procedurali, spostando il punto di messa a fuoco dall’identificazione del
contenuto dello stato mentale (intenzionale o fenomenico) alla natura del
sistema di realizzazione fisica di tale stato (M.C. Amoretti, La mente fuori
dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale, 2011). Entro
l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica sono state
elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla possibilità di
comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati cognitivi
coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford: a
sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: – uomini fuori di sé, blocco
comunicante, communicazione sine contenuto, communicazione fatica, semiotica,
estetica della comunicazione, significante sine significato – segno sine
segnato – autoreferenzialita – asemanticita – sintassi – retorica – codice –
intenzione communicative, medio, messaggio, recursivita, self-reference,
meta-linguaggio – linguaggio come metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770288370/in/dateposted-public/
Grice e Costa – sinestesia
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravenna).
Filosofo. Grice: “My favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” – Grice:
““I love Costa; for one, he improves on Locke; on the composition of ideas and
how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that a little
in my ‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and
extensionalism, and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of
words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s
‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried
male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this
respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’
versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna
e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto a
riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può
rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di
esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben
ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” Costa segna che fa freddo. Il
trattato filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte
poetica, un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario
della lingua italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni. Letterato neo-classico e dunque tipicamente
italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore
del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli
di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni
filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle
scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo
che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos)
(la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non
sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima
non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il
S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una
sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S
e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una
reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative –
il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che
l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il
fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una
idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono
un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico
all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano
origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a
priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non
fuerit in sensu. Ogni idea ha un stesso
origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo
nascere sue proposizioni. Una
proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra
proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è
l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento.
Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in
me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione.
Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo
pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso).
Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di
questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della
mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la
rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico,
ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè
che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra
differenza, se non che nella che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è nella nostra
persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in
me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il
reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori?
Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in
che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che
il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un
sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione,
una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse,
nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni
fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo
che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la
sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in
relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi
vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la
modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella
nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono
che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo
che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe.
Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio
non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano
il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”.
Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo
del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza
accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero
ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la
qualità della sensazione di natura
diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del
colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro,
nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori
di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella
dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre
la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa
cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla
più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può
rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione
condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo,
perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue.
Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi
elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle
nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato
per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista.
Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno
materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo
percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa
esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in
Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle
di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche
si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo
trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha
tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire
corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del
irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia
dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e
dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della
elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e
dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina
commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna
de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento
artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del
giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS (sulla formazione padovana del Costa, e sulla
sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una
delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella
[fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo
si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a
fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono
con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del
bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual
cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore
onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla
dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e
pacifica; per questa sono animati i
guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più
degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si
mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o
giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo
nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica
l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il
venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè,
essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e
si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione
alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale
desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque
volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al
fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed
ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada
conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero
e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE,
sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice:
“imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione
sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che
poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima:
dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione –
cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione,
L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea,
fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè
appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra
appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna
considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da
altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire
distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un
esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a
ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee
delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto
la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf.
Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un
errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere
molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano
i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto
sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa,
che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero,
pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza
d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria,
mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf.
Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè
della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con
esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono
dinanzi agli occhi ci somministrano
esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di
quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che
dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come
l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa,
che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un
ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a
denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi
Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che
dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di
dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione
“moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE
SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid
ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto
maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali
e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero
dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che
dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli,
cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de'
ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella
sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di
un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di
Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che
sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of
conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad
acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono.
Prima, il saper bene dividere le idee
fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia dell’espressione
(etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi famigliari le
opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci pure e di modi
assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto di adoperare
le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una breve sentenza,
e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una medesima
sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee principali, differiscono
in qualche accessoria. Della prima generazione sono i seguenti: fine e
finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili. Aliri ne trov po
nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e rendetli; visto e
veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran numero. La più
parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di qualche idea
accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro, rozza, sono
espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna differisce
dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la
particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a
mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità
dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci
unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua
donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra
è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra
alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono
per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile,
o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di
quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a
cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento
presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si
vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure
trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É
dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci
rappresentano stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali
dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da
avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso
universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci
proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari,
e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto
la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia;
e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo
polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa,
che si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il
trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio
all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione
esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso
formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta
sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole
avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le
quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella
eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però
offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi)
delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di
quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel
ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che
viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le
allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del
Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro
comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu
travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta.
L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa)
principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa
minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in
un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è
che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero
troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro
officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa
le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura
di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione
loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin
guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte
le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi
implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo
o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti.
L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la
patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si
appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si
dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La
proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio,
che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che
non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA
(splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di
nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la
proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè
quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del
solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio
qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e
noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far
conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve”
trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’).
Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o
espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo
intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da'
participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto
parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa
mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a
modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo.
Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel
seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo
nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato
falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo
libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata
chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi,
ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un
uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel
pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in
Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge
resla alcun poco sospesa. Molte traspposizioni, che si bia simano nella lingua
italiana, sono spesso con venevoli nella lingua latina, perchè nella lingua
romana gli aggettivi, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei
casi si accordano coi sustantivi, rade volte lasciano dubbio a cui vogliano
appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque
nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di
Crasso, riportato da Cicerone. Haec tibi est excidenda lingua, qua vel evulsa
spiritu ipso libidinem tuam libertas mea refutabit. Tenendo l'ordine di queste
parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza: sconvolgendolo
si perde tutta l'efficacia. Se diremo. Questa lingua li è d'uopo recidere:
recisa questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà,
apparirà che la sfrenatezza reprima la libertà. Se per lo contrario tradurremo.
La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo alla sentenza molto
della sua forza. Vedremo a suo luogo la ragione, per cui la diversa
collocazione di una espressione semplice rafforza o snerva l'espressione complessa.
Ora ci basti osservare, poichè cade in acconcio, che le varie lingue (parlando
ora della sola facoltà, che hanno di permutare il luogo alle parole), luttochè
sieno alle a qua. Junque specie di componimento, nol sono ad esprimere uno
stesso concetto nella stessa forma; perciò è che quando si trasportano le
scritture da una favella ad un'altra non dovrà l'espositore darsi briga di
ritrarre espressione per espressione, ma, avendo rispetto al genio della sua
lingua, cercherà di produrre per altro conve pevol modo negli animi di nostro
compagno conversazionale gli effetti, che l’espressione in lui operarono. Per
fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] gioverà ancora badare ne'
verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo, la quale è simile alla
terza, dicendosi io amava, colui amava; perciò a distinguerle è sovente bisogno
di pre ineltere all’espressione ‘amava’ il nome o il pronome. Giova spesso alla
chiarezza, e segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere
le persone e le cose, delle quali si parla (il topico); e perciò sta bene
talvolta il *ripetere* il nome per non confondere l’una coll'altra;
imperciocchè i prononi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco
– confusione – cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of
conversational clarity; e questo interviene specialmente, quando nella
proposizione antecedente sono più sustantivi di un medesimo genere e numero,
che si possono accordare coi relativi delle susseguenti; perciò conviene tal
volta o giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un
femminino, o inulare il numero del più in quello del meno, o viceversa. Può ancora
geverarsi perplessità nell'usare il possessivo “suo” e “suoi” invece de relativo
lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per quello,
come nel caso seguente. Mai da sè partir nol potè, infino a lanto che egli
(Cimone) non l'ebbe fino alla casa di lei accompagnata. Se Boccaccio avesse
detto, fino alla casa sua accompagnata, si sarebbe potuto credere essere quella
di Cimone. Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti
sono assai opportune le particelle copulative (“e”(, avversative (“ma”),
illative (“se”) e somiglianti – disgiuntiva (“o”). Molli fra' filosofi
italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere a piccoli
membri senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da biasimare,
iaperciocchè costringono la mente di nostro compagno conversazionale a passare “di
salto” da una proposizione all'altra senza dargli occasione di scorgere subitamente
le attenenze (pertinenza, relevanza – cf. Grice, category of relation – be
relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. Affinchè si vegga manifestamente
quanto la mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso, leverò dal
seguente luogo del Passavanti le particelle che ne conneltono le parti.
Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all affezione sua, a
quella che più ta sprona. Se vede che si, non a. spetti che al sogno suo debba
altro segui. tare. Quel sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto
seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare,
cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione.
Facciamo congiunti questi membri colla particella “e”, la
particella”imperciocchè, la particella “ma” e vedremo il discorso apparire più
chiaro (“She was poor and she was honest”) Qualunque persona sogna, pensi se il
suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. E se vede
che si, non aspetti che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel
sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto
del l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde
proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione. Quesli
pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori,
che desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose, che i
filosofi hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual
volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore)
dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la
virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di
*molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono collocare
nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a parlare dell'
ornamento. La perſezione dell'arte del conversare, secondo Cicerone, consiste
nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico,
che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro,
che dalla invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona in altre
due parti della rettorica. Accade qui di parlare delle suddette tre qualità
solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto
ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che
fanno il discorso – la mozione conversazionale -- accetto a nostro compagno
conversazionale. Prima di tullo si vuole osservare che la proprietà delle voci
e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte
della bellezza del discorso; imperciocchè fanno sì, che esso sia inleso senza
fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma questo non basta;
chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè si fa intendere
dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s ' ei ſa
altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gli uomini e tragga a sua
voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale?
Colui, che nel conversare è distinto, copioso, splendido, armonioso, e che
queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro. Que' che
conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno
conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento
disgiunto dal decoro diviene sconcezza e deformità. Di questo decoro diremo più
particolarmente a suo luogo; ora veniamo a discorrere le parti dell'ornamento.
Molto leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono
hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche
particolare qualità. E espressiona, che ricorda il significato per somiglianza
di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”;
“rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono chiamate termini
figure, a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col
significato, furono delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi
annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat, quelle che o provengono
da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol
esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e
‘communicare’), o ricordano l'origine o gli usi del significato. L’espressione “spirito”
è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè l’immateriale
sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil materia, che
spiri. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione “pecunia”. la
prima delle quali, venen do da “moneo”, significa che il metallo ed il conio
ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda, venendo da
pecus, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed alle pecore,
antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due esempi ancora
perchè si vegga ' quanto giovi alcuna volta l'investigare l’etimologia.
Concorrono co' termini propri e co' termini figure a far bella la mozione
conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno convenevolmente adoperate.
Accade delle parole, dice Pallavicini, che comunemente accade degli uomini nel
civil conversare. Questi acquistano ripulazione o vilipendio dalla qualità
delle persone colle quali usano farnigliarmente; e le parole dalla qualità
delle persone da cui sono sovente proſerite; e ciò interviene perchè tutti
hanno per fermo, che i personaggi illustri e gli uomini letterati sieno esperti
a conversare con legge, e che la plebe allo incontro parli e cianci barbaramente.
Avviene da ciò che alcune voci, che significano cose vili o laide, sono
tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre ve a'ba, che, nobili cose
significando, in grave componimento non sarebbero lodate. Della prima spezie
sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”; “tube”; “piaga”, ed altre, che
nelle più nobili conversazione sogliono essere usate. Dall'altro canto
l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale Pallavicini, la quale
nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta in grave componimento
poetico. In tre schiere vengono separate dal Pallavicini le parole rispetto la
maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano quelle, che dal
conversatiore in nobile conversazione e usata a significare un concetto grande
ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potran no senza affettazione
adoperare in tenue argomento o in famigliare discorso. Che se alcuno
famigliarmente usasse l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in
vece di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che move rebbe
a riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione,
che vanno egualmente per le bocche degli uomini ragguardevoli e del popolo, e
che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di
quelle, che furono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione
“pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in
una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mozione
conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle abbiano
convenevole forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare
sensi piu di la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione; ma si richiede
somma cautela in co lui che a vila le richiama, poichè, siccome ė detto di
sopra, una espressione antiquata, ollrechè spesso portano seco oscurità [cf.
Grice, ‘avoid obscurity of expression, procrastinate obfuscation], più spesso
fanno l'orazione ricercata e deforme. E chi oggi p trebbe, senza indurre a riso
il compagno conversazionale, l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”;
“piota”, “spingare” ed altre simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You
are the cream in my coffee), la quale usata opportunamente è lume e vaghezza
della orazione. Prima è a sapere che gli uomini selvaggi per essere scarsi di
cognizioni mancarono dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna
cosa non ancora significata, fecero uso naturalmente di quella espressione gia
usata, la quale e stata inventate a contras-segnare *altra* cosa somigliante in
qualche parte all'idea novella (“You are LIKE the cream in my coffee”).
Occorrendo loro, per esempio, di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre”
per la somiglianza dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele.
Cosi dissero assetate le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a
fox” – he is a fox), “capo del monte” la cima, e “piè” del monte la falda di
quello. Per gli addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole,
transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad
un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una
similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream –
simplifcata a “You are the cream”); impercioc chè la seguente similitudine
spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe (per
brevita) in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la
metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando
una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da
Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora fu da
principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero
delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga
pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè,
sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra
le selvagge e rozze, pure la metafora è e sarà sempre luce e vaghezza della
conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità, che ora verrewo
particolarmente esponendo. La metafora presenta spesso all'animo più chiaramente
ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di forma *sensibile* una idea non-sensibile,
o intelleltuale (nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le
pone davanli agli cinque sensi. Voleva Alighieri significare che non è
meraviglia se per la le nuità della nostra fantasia non possiamo per venire ad
imaginare le cose, che Alighieri desiderava narrare del Cielo; e questo con una
metafora dicendo. E se le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è
maraviglia. Per tal modo il concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale,
divenne sensibile e per conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous
[sic] – the imperative of conversational clarity] e più popolare. E se taluno
volendo dire che gli uomini bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gli
atti e le parole a modo di parer verilieri, dicesse che la menzogna prende talvolta
il manto della verità, non significherebbe egli il suo concetto assai
vivamente. (He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re
the cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream
in the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella
metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si
mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza
della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi,
più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri
sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della
qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte
le altre appartenenti a quello pur si risvegliano, e vivamente ed intero lo ci
pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore
– parola dolce. che si cá vano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato
(secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto
senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore
di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento
ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si
presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinqe sensi, sono
le seguenti. Splende la gloriu (visum). Folgoreggiano gli scudi; ridono i prali
(udito); si rasserena la fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad
Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum,
rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora
attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di
Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche Virgilio,
parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, disse. Harsit virgineumque
alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa vivamente quasi
innanzi agli organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita (no morte) loro
ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele, partorisce
dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non osservata.
Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la no billà della prosapia?
Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. Opoca nostra
nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non s'appon
di die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco manto
adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni uomini
quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi nobillà: ma,
se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in giorno scemando.
Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova similitudine, e
ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere con maggior forza
l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie astretti a recare
alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una dopo l'altra, la
metafora, rappre sentandole tutte ad un tempo, assale l’animo con veemenza.
Basti un solo esempio del Petrarca, il quale rivolto alla morte così le dice:
con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce ed amoroso e
piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli pensieri si destano
nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione frasale “lume degli
ocehi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si vuole por menle che ella
non mostra il lavoro e la fatica dell’intelletto,
perocchè non è verisimile che colui, che ha l'animo perturbato, si perda a far
cerca d'ingegnosi concetti e figure retoriche. È ancora pregio della metafora
di coprire con velo di modestia e di gentilezza il segnato, che espressa con un
termino proprio (e non un termino figura como e la metafora) sarebbero odioso o
turpo. Ecco un bell’esempio del Passavanti. La innata concupiscenza, che nella
s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata, si cominciò a svegliare:
la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma; e le frigide membra, che come
morte si giacevano in prima, si risentirono con oltraggioso orgoglio. E
Virgilio disse. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua moerens curpere
juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e i principale
vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino proprio. Diremo
ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la metafora che fa
scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my
coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca, chiaro è che
deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e poco
somiglianti, e che sono male acconcie al pro posto dne (“a woman without a man
is a fish without a bycicle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose
paragonale nella seguente metafora del Marini, Folendo egli lodare un maestro,
che formara bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo
ch'ella deve essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto
e sicura, Se divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il
relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo
segnare una cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai
assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il
diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che disse a suo amante. Son
gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È
bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar
come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le
biade. Viziose come le sopraddeile erano la più parte delle metafore usate
dagli scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano
i monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio
colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè
il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra
nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo
essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir
cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la se. guente:
Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il
nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga
alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa
rimprovera Dante per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome quando
disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal vivanda fosse
gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi, se avessi
avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine plebea e
sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo Pallavicini,
comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale, quando disse,
che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora coll' inchiostro,
e quando per accennare la qualità, ond'è costituita l'eleganza della elocuzione,
disse: saputi distintamente quali ingredienti compongono quesla salsa, cioè
l'eleganza; i quali modi sono da biasimare, essendochè nel primo esempio li
vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce
l'abbietta voce che sa di cucina. Similmente non paiono degni di lode coloro,
che sogliono usare per vezzo della conversazione un idiotismo, e segnatamente
quello, che ha origine da certa anticha costumanze dimenticata oggidi. Non
merita lode Davanzali quando volendo dire: o nulla o lullo: disse: o asso o
sette. Questo proverbio, oltre chè si è di vilissima condizione, è tolto da un
giuoco, che potrebbe essere sconosciuto a molli. E proverbio, del quale non si
sa l'origine, il seguente; e perciò freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece
di cercar la cosa dove ella non e. Bastino questi pochi pro verbi per
moltissimi, che qui si po ebbero recare, e de' quali vanno in traccia alcuni
mal accorti conversatori, onde parere versali nella lingua antica. Aucora è biasimevole
alcune volte la metaſora, che si deriva dalle materie filosofiche;
imperciocchè, se il fine, pel quale il conversatore usa di quella, si è di
rendere più chiaro e più vivo i concetto, questo non si potrà ottenere traendo
la similitudine da cose poco nole o malagevoli ad intendere, come a la
metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno bisogno delle similitudini
tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano imagini, che vagliano a
cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi tempi sono alcuni
conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta metafora, avvisando d'illustrarne
la sua mozzione conversazionale, e di mo strarsi intendente e sottile; ma va
grandemente errato, perciocchè non solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid
obscurity of expression, be clear) alla sentenza, ma danno segno di
affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si è dello di sopra che la
metafora diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi agli oc ebi in forma
quasi sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci porge ammaestramento
col farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima non osservata; dal che
si deduce che il conversatore, i quali vogliono recar maraviglia, de guardarsi dall'
usare una metafora troppo comunale, come quelle, che, a somiglianza della
monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora
poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni conversazione. Poichè
tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri, converrà avvertire che il
grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità del componimenlo.
Similmente nel formare la metafora si vuole avere riguardo al pensare della gente
nella cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de' climi fa che gli
uomini abbiano diversi i costumi e le usanze, e perciò diverse ancora le idee e
le significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente le
similitudini dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra che
alcun popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima,
tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o
la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più
vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime
nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o
meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno
buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più
amore del verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva,
ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro,
che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di
venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle
tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro
inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di
bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul
brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i
torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono
in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe
anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se
non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto
contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere
produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga
manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli,
recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla lingua
latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit habenas;
deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla. Così per
segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem corruptam
undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse. lene caput
aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo dell'acqua
sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum Pelidae; e
malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime altre metaſore
potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua latina; ma chi ha
cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità di quello che io
dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora la lingua italiana
e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per clima, se tanto
differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di parentela congiunte.
Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso della metafora si è di
non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele parcamente e di guisa, che
paiano, come dice Cicerone, esserci venule volonterosamente, e non per forza nė
per invadere il luogo altrui. È da avvertire in secondo luogo, che la metafora
o non si dee congiungere con altra metafora o con voci proprie di maniera, che
fra queste e quella si scorga opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto
che Scipione è un fulmine di guerra, non dirai tosto che egli trioníò in
Campidoglio. Se paragonerai eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco
appresso la qualità del fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata
(e no mista) colle idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale
non trovi mai contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche
alcuni autori eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando
dal dire metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse
un mio lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che
(paventosamente a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non
così egli fece nel Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè
in esso avendo preso ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da
questa imagine non si diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare
coll’esempio di questa allegoria, che in breve discorso non possano star bene
insieme più metafore di natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene
il trapassare da una similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per
salto. Giova moltissimo talvolta a render chiare e naturali quella metafora,
che per se medesime sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole
modo l'animo di nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli
uomini per mal esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa”
della falsa opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno
ella diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti.
Va. glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il
cieco al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi
soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi
mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora
divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla
mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali
riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di
quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi
a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra
loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi
e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere
nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi
palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione,
principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, ' concorrer deve
a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo sviluppamento di
questa Costa. Vol. Un. 3 50 ec. (1 ) Oh quanta confusione ed oscurità in tanta
pompa di parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi conobbero
che la natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e
che da questo procede l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e
costituzione, che sono segni d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire”
ha composto un enigma; perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo
innesto. Più strana poi diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla
espressione “principio” si fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla
inopportunamente persona per trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa
a guisa di una malassa. In questa forma la metafora, che e vaghezza e luce
della favella, diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus vocis) agli
orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia solamente di
render chiaro il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e maraviglioso,
interviene che alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si fango a
derivare dalla metafora certe loro conseguenze, come se in quella non già una
simililudine si contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome novello,
veramente si trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di questa
specie di concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo decimo
settimo, forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà, ed in
fastidirono tutti i sani intellelli. Basti di ques 1 (1 ) Atti dell' Costitulo
pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare che non a
dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di un
epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de morte queri, namque ignea
tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta
a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine
in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non
dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il
derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose
diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare
dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici
quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome
di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde
ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e
de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati
di parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè queste cose sono state
definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il
ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto
vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la
metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta
il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del
tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è
composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural
– We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo
traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da
cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono
svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le
altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo
esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele, di
quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele
gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui,
che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa all'idea
del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa o
carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno con
venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela dabant
laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per l’effetto,
o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per la cosa
posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso: il
segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”,
giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza
alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono
in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già
dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”,
dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi
saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere
mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per
rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura,
ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che
nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi”
(contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far
uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella,
abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole
a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come
detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal,
riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici.
Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre
scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto
egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che
ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in
che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e
quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione
conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de'
traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine del Palavicini,
degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic
maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione
“eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza
e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad
essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da
tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella
si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid
unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole
morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà
(non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be
perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione
conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e
più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono
essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto
fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro
empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò
è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da
una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più
da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo
inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione,
che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le
seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi,
gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra
lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e
questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi,
che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta
qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle
cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando
tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui
do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene
questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione,
Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi
di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose
particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza;
ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben
ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il
concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in
falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè
quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che
vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non
induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo
che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un
solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando
negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine
eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon
desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i
lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane
forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori
plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo,
siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni
scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così
pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante,
e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi
quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che
precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”,
si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può
mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di
essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non
usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in
chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il
giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila
recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa
cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola.
Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come
una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene
non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e
per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere
parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato;
e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La
negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che
falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno
credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e
fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere
eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua,
compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla
boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per
bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per
verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare
occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi?
Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno
dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si
fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma
nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non
la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione
vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe
la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed
arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil
conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo
di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò
alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre
sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle
quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua
(come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da
questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere
autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana;
ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione
intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee
proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e
diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e
nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare
d'Italia, poichè, come dice il Bembo, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano
e e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano.
Tutte le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con
chiarezza i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o
moderne; chè le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie
no necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli
antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono
prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee
si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito
a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova
espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta
dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo –
libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua
italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli
illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando
si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non
si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero
vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la
potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo.
Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire,
cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali
hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i
quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi
forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”, e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi
e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque
sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per
derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co
storo petulanza coll'autorità di Cicerone ri spondano arditamente che colui, il
quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è
poela, ma non è uomo (Cic. de orat. I. 3.). Quarta e ultima, se le parole
fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o
legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può
ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare
brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente
la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti
del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci
sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi,
non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale
sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero
intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare
l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà
che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente
essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo
della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come,
a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire
era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare
della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe'
suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e
inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo
peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger,
che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un
esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel
rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al
cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la
congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata.
Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle
cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece
delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come
chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la
fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il
quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o
passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da
Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o
questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria
d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o
positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative
seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione
splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non
isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in
my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo
in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda
praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con
termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da
cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora
le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal
quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o
assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth
protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”)
si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto
sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem
virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna
ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è
il temere. La buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più
accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno
possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere
famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate
con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie
più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa
parere affettato. In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i
quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò
del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche
l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma
che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone
rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo
predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane
infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente
nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata,
ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori
invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di Seneca.
Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon uso della
sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle sieno condotte
nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per recar luce e
diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia o
piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa
proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui
diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di
due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio
nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e
differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da
cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente
che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso
comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la
congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un
esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un
vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e
di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione
d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa
figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave
con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena,
che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed
accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in
pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque
manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che
è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto
diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè
disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di
tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora
cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un
uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò
ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato,
o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol
dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si
dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi
sono pres sochè infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro
dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone
distingue primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da
quelle che stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli
dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le
parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni
verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di
queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella
imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella
che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole
con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene
la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue,
distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si
naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che
consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente
si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la
grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano
in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua
impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia
gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse.
Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza
tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che
metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora
stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini
ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà
covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è
spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi
tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose
tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della
facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide
e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che
sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti
molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a
sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo
le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola
slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato
mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed
insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo
di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe
ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è
in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la
quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo in cui si favella di un'amazzone dormiente,
recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena
era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai.
Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece
lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era
trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusavasi di
sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè,
o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo
gli uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si
DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio
Claudio disse a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei,
ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè
io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si,
che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava
sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè
col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta
conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun
insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano,
perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in
essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno
grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della
persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto inſermo,
era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto parlavano tra
loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse: Ponsate di
grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via la sete
lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che procedono
da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due seguenti
terzine del Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a Virgilio
Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per compassione, ch'egli
ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla disperazione. si può
similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di nuov, che esprimono al
cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono queste usate dal Boccaccio:
picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia santi. Si falte maniere,
che direi quasi deſormità della lingua, poichè dall'uso si allonta pano,
essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e perciò inducono a ridere e
han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso divengono proprie, perdono, a
somiglianza delle vecchie metafore, alquanto della grazia primiera. Osserva Demetrio
Falereo che la grazia del detto proviene alcuna volla dall'ordine solamente, quando
una cosa posta nel fine produce un effetto, che posta nel mezzo o nel principio
nol produrrebbe, o il produrrebbe minore. Egli reca l'esempio seguente di
Senofoole, che, parlando dei doni dali da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli
donò un cavallo, una vesle, una collana, e che i suoi campi non fossero guasti.
L'ullimo dono è quello dove sta la grazia, parendo cosa nuova, che si donasse a
siennesi ciò che egli possedeva: se quel dono fosse stalo collocato prima degli
altri non avrebbe avuto grazia alcuna. Bello pel medesimo artificio ci pare un
detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi da lui due personaggi di religione luterana,
egli avvisa di benedirli e di ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare
che egli no ricevessero con grato animo quell'atto di amore paterno: ma il
venerabile vecchio ollenne il buon effetto parlando così. Figliuoli, la
benedizio ne de vecchi è acceita a tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo
si è que sto detto per l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa
parola, “Figliuolo,” il papa procacciasi la benevolenza del compagno
conversazionale. Nella sentenza, la benedizione de’vecchi è accetta a tulle le
genti, chiude la prova della con venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel
l'io io vi benedico, trae la conseguenza delle promesse. Nella precazione poi
ripiglia la dignità di pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da
principio e solto cortesi pa role nasconde il documento, che a lui si ad dice
di porgere a chi è fuori della chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato
pei delli graziosi e piacevol, chè il voler parlare di tulle le maniere loro o
semplici o miste sarebbe officio di chi volesse trattare solamente di questa
materia: e diciamo con maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato
sublime qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina
qui si vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni
reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si
dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o
forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia.
Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di
vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli
inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne
il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di
Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato:
perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe
che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno
conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora
quel luogo di T. Livio nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal
pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la
fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria
fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla
nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e
tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec:
Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del
nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso
e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”.
Il poeta latino col nome di Medea destò nel compagno conversazionale la memoria
della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così
la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al
cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo
delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de'
concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria
alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le
grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto
che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta
dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene
d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle
e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la
cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla
materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità
conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le
cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare
acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che
abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di
riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime
arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi
seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla
fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è
costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è
necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha
maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci
rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla
dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac
crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely
(armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di
musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel
medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica,
presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono
quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa
significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste
nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel
salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia sta
nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si succedono
con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano dell'udito. L'armonia,
di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative. L’una ba per fine
soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la dilettazione degli
orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose inanimate e delle
animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni inaggiormente
ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La dilettazione
degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo analogo, come
è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le voci e tutti
gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole. L'imitazione
poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli o robusti,
secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo alcuna cosa
più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice e l’armonia
composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si compongono di
vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le lettere delle
due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le vocali fanno
dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che si succedono,
producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe consonanti fanno
le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro delle sillabe somiglianti
produce la cacofonia, Circa le parole non molto armoniche, ma approvate dall'
uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma si deve aver cura di
collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva al l'armonia di tutto
il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che ricche si trovano di
vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con bell'arte, sogliono
rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene, circa l'arte del collocare
le parole con armonia, non possa darsi maestro infuori dell' orecchio avvezzo
alla lettura de' classici scrittori, pure non sarà del tutto vano il dire più
particolarmente alcuna cosa delle parti, onde l'armonia si coropone. E prima di
tutto è a sapere che l’altenenza tra le lettere, le sillabe e le parole, dalle
quali risulta l'armonia, sono di due ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè
si pronunciano o in tempi uguali o disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni
sillaba differisce dall'altra per aculezza e gravità e per più o meno di
dolcezza o di asprezza. Diciamo prima delle attenenze di tempo. Pie chiamamo i
Latini quella certa quantità di sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si
potevano misurare colla battuta del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori.
E, poichè si pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione
delle parole) in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle
che occupavano la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le
altre, che occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due
sillabe e si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò
coelum è un piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due
brevi. I piedi sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de'
semplici di due sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga,
o una lunga e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione
delle brevi e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di
cento specie dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici.
Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura
dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non
si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi,
i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono
composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti
specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il
suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che
sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i
versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella
loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di
molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di
esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione
di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi
upili nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala
mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome
avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia
della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle
sillabe, come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi
hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali
il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma
quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere
rispondesse l'effett, apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali,
se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere
soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe
carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi
coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le
sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da
una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte
specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa
questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le
parole sono di una o più sillabe: se di una soltanto, l'accento è su quella,
come in tu, me, no, si: se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella
pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa,
come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la
pronuncia: dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli
acuto e il grave alzando ed abbassando
il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi
il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la
quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o
ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi
nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando
della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo
upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si
piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo
specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere
per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso
ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù
imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle
lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione
delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra
lingua troverà, secondo che osserva il Bembo, voci sciolle, languide, dense,
aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e
strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno
ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi.
tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina
Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che Dante udi
nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza
stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole
di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano
un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come
l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del
Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il
bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor
l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la
gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin
sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il
guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers.
Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose.
Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che
questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi
movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro. Recherò
qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il furore e
l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che d'un
vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu rallento,
E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va superbo, E fa
fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il tumullo dei
venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et terras turbine
per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque, Notusque
ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu clus.
Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che esprimono la
caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo morto cade; il
qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur praeruplus aquae mons.
In queste parole di Virgilio si sente il piom bare dell'acqua precipitosa: ed
eccellentemente fece sentire il medesimo suono il Caro: E d' acque un monte
intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di quest'altro verso dello
stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente il romor dell'acqua che
l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo stesso con una sola parola
lunga e scor revole dipinse il procedere del carro di Net tuno: Poscia sovra il
suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente, ovunque apparve Agguagliò il
mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole di Virgilio quasi sen tiamo a
stramazzare il bue; Procumbit humi bos. Dell’armonia che imita gli affetti col
suono, Onde conoscere per qual modo gli affelli vengano imitati dall'armonia,
uopo è d'inve sligare quali altenenze essi abbiano col suono e quali col
namero. In quanto alle altenenze si ponga mente che ad ogni sorta di affetli (1)
risponde un particolar molo del l'organo vocale, per cui si formano voci di
verse secondo la diversità de' medesimi affetli; all'allegrezza risponde il
riso, alla mestizia il pianto; ed il riso ed il pianto si manifestano con suono
al tutto diverso: così presso tutte le geoli la subita maraviglia è significata
dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura
dall'uh. Que ste voci, che da principio sono elfelti naturali delle aſſezioni
dell'animo, diventano poi, merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual
cosa interviene che i vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo
sentire il suono di quelle leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano,
avranno virtù d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in,
nalzano per la a o per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad
esprimere l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che declinano per
la é e per l'i, che sono lettere di molle suono, saranno convenienti alla
malinconia ed agli umili e miti affetti. (1) Omnis enim motus animi suum
quemdam a natura habet vullum, et sonum et gesium (Cic. de Orat. ). 84 quelle,
che si abbassano nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni
dell'animo, che ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi
rafforzata dalle attenenze, che le passioni hanno col numero. Volgendo la
considerazione alle varie passioni, si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è
fatto impetuoso, frettoloso nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo
nell' amore, immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente
si giova delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde
modulazioni a risvegliare ogni sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte
maravigliosa, anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando,
innalza o abbassa gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole,
secondo la natura degli affetti, che di esprimere intende. Con quest' arte
medesima l'accorto scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la
gravità della materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di
questo avremo altrove occasione di favellare. Ora in confer. mazione di quanto
abbiamo detto intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a
innalzi il verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del
Petrarca: Voi ch* ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe
rimesso se dicesse: O voi, che udite in dolci rime il suono; sostituendo 1'i
alla a. Veggasi come Dante seppe significare uno stesso concetto con due
diverse armonie, che rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino
sdegnalo, e Francesca d' Arimino dolente dicono all’Alighieri di esser presti a
rispon dere alla sua domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile:
Parlare e lagrimar vedrai insieme; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono:
Farò come colui che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci
aspre lo sdegno: E disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua
rabbia. La velocità de' pensieri, che procedono dal l'aſſello, apparisce in
questo esempio dello stesso poeta: Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè
tanta viltà nel core allelte? Perchè ardire e franchezza non bai? Un verso, che
esprime luogo pauroso e cupo, si è questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove
si vede che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe
messo nell'animo quel sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento,
basso ed oscuro, rende sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e
di notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol
tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que'
maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene
ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè
io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè
anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra
vaghezza poetica ed oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare,
perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l '
intelletto a dirittamente giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso
si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi
alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli
orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale
diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od
affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo
oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare
l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con
quello, che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci
rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della
collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione
conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le
proposizioni si possono, senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o
anteporre l'una all'altra in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte
possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che
spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle
volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto,
e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso,
segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun
affetto; ma certo egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti
che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome
freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella
già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le
propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace
l'espressione degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla
mente associate in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione
delle cose ester 88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza
particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che
maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre;
e questo mostrandoci, ella ne insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre
nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che
sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle
nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità
verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente
esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono
in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima
farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a
mano le altre secondo loro qualità e silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una
devola e venerabil chiesa, Che su colonne alabastrine e rare Con bella
architellura era sospesa. Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea
d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran
lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli
occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e
l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale
somiglia, cioè la devota e venerabil chiesa: indi l'allenzione del riguardante
si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le colonne
alabastrine e rare: queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle
qualità dell'architellura, indi alle parli. più minute, cioè all'altare, alla
lampada, alla luce, che si spande d'intorno. Quanto giovi disporre le parole
nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle
successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo esempio
di Virgilio, il quale, volendo rappresentare all'imaginazione nostra il greco
Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi: Namque ut conspectu in
medio turbatus, inermis Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit. La
collocazione di queste parole è secondo l' ordine, nel quale avrebbero
proceduto le sensazioni di colui, che avesse veduto cogli occhi propri sinone,
e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli
verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in
medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità, turbatus, inermis;
poi l'azione, constitit; poi la parte del' vollo, che subito chiama a sè
l'altenzione del riguardante, co Die quella, che è indizio dello stato dell'ani
ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli occhi si volsero, Phrygia agmina;
infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola
circumspesil. go Un altro esempio dello stesso Virgilio dimo. slrerà come sieno
poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo
tranquilla per alla (Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt
pelago, pariterque ad litora tendunt: Pectora quorum inter fluctus arrecta,
jubacque Sanguineae exsuperant undas: pars cae lera pontum Pone legit,
sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo, jamque arva
tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant
linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al descritto caso,
osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli
fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le quali nuotassero,
tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli
comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco che le due cose, che
da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due serpenti, angues, i
quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni l'azione loro; prima del
gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt pelago, pariterque ad
litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi le qualità de'
serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne,
e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec.
Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al
lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni, ne
ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per
l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la
catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso
avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che
all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri.
Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo
di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del
particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e
nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente
particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose
hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a
concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che
esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi
della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle
parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e
passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da
quello delle idee. Nel libro IX dell'Eneide veggendo Niso l'amico Eurialo già presso
ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver:
tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit:
coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza
della passione di Niso, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle
altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'ani. mo del
giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per
l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della
legge. Similipente il Petrarca: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero,
Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu,
padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero,
l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si
presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle
prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli.
Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria
sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che
all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee
vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu
se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi,
morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay
verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti
nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io
ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa
seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il
Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo
alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non
solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle
volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale
associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o
disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe
il trattare qui minutamente questa ma teria e il prescrivere le regole
applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre
dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94
basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il
verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boc caccio,
rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione
vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il
fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma
quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello:
non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe
par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in T. Livio, sdegnato che il
padre suo gli abbia in. pedito di uccidere Annibale, si volge alla pa tria
dicendo: o Patria, ferrurn, quo pro te armatus hanc arcem defendere colebam,
hodie minime parcens, quando pater extor. que, accipe. Ne'due cilati luoghi son
poste innanzi le idee, che prima si presentano ale l'animo passionato di colui
che favella, e in ullimo è il verbo, che apporta luce alla mente sospesa
dell'ascollatore. Se T. Livio avesse detto: 0 Patrin, accipe ferrum ec.,
oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo naturale di colui che ha l'animo
commosso, avrebbe an cora mancato di quell'arte, che l'altenzione altrui si
procaccia: imperciocchè qualvolta egli ci porge innanzi il ferro, col quale il
giovane voleva difendere ostinatamente la rocca, subito la niente nostra sta
attendendo impaziente menle che cosa esser debba di quel ferro; e, poiché ode
la risoluzione di esso giovane, re sla preso da subita maraviglia e ne riceve
dilelto. Nel collocare le parole secondo la catena delle idee, si vuol porre '
grande cura di con ciliare quest' ordine con quello che è richiesto
dall'orecchio e dal genio della lingua, al quale non si può contrariare.
Qualvolta 10 scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le sue parole siensi
di per sé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto dire la stessa cosa
l'avrebbe detta a quel modo. Que sta si è quella facilità, che molti avvisano
di poter conseguire, ma spesso invano a ciò si affaticano e sudano. Parliamo
del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gli elemenli, onde si
compongono le prose e le poesie, ac cade ora di ragionare più parlicolarmente
delle leggi della convenevolezza, o sia del decoro, di che abbiamo di sopra
falto cenno alcuna volta. Come dalla mescolanza de'selle colori fatta con legge
si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal pittore
imitate, cosi dalla mescolanza degli elementi predetti, similmente falta con
legge, nasce la varietà e la venustà delle prose e delle poesie. Colui che si
facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani,
mela fore, traslali, igure, sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di
buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e
i modi e l'ar monia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e
lulle insieme, secondo i fini che lo scrillore si propone, secondo la maleria
della quale ſavella, secondo la condi. zione sua e di coloro che l'odono,
secondo i luoghi in cui parla; chè in queste tulle cose consiste il decoro. Dal
decoro nasce la leggia dria, che risplende nelle più belle opere del. l'arle, e
senza di esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono i
fini speciali, che lo scrittore si propone, varii i subbielli, di che può
ragionare, varie le uma ne condizioni e le circostanze, conseguita che varii
pur sieno i generi e le specie de' con ponimenti per loro proprio carattere
distinti. Il qual carallere, per le cose delle di sopra, definiremo nel modo
seguente: Il carattere del discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da '
quali risultano la chiarezza e l'or. namenlo, ſalta secondo le leggi del
decoro. E perciocchè la principal legge del decoro si è quella, che riguarda il
fine, che ci pro poniano, quando altrui manifestiamo i nostri concelli, a
questo volgeremo tosto la nostra considerazione, Chi scrive inlende o a
convincere o ä pero suadere o dilellare altrui. Secondo questi tre fini nasceno
tre generi di scrivere o tre caralleri si diversi, che vogliono essere di
stigli e particolarmente considerati; cioè il fi losofico, il persuasivo, il
poelico. Di questi di reno prima alcuna cosa in generale, indi ne accenneremo
le specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi
si è il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare
che il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella
sentenza a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che
è quanto dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire
quella virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci
saranno subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue
dagli altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de'
sensi percepiamo l'attenenza ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser
convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni
insie me collegate ' e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le
quali si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere
convinti con evidenza di ragione. A costringere gli animi con questa evidenza
in. lendono i filosofi, ed a tal fine son loro neces sarii i vocaboli di
singolare significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle
proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso
significalo, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportanle
alcuna idea, si mulerebbero le at tenenze delle dette proposizioni, dal che
proce derebbe l'errore, come accade nelle operazioni arilmeliche, qualvolta, no
solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio
volesse) di ordinare la lin gua a modo che dalle percezioni delle qualità
semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non fosse
vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il ragionare
dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella matemalica;
inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al conoscimento
delle allenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro principii; e
per tal forma ciascuno potreb be sempre rendersi certo della enunciata verità.
Da tutto ciò si raccoglie che nella precisio ne delle parole e dei modi sta la
virtù di con vincere; e che perciò essa precisione esser dee la prerogativa
dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle figure può
divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che l'animo umano
ingannato dalle similitudini, di che si formano le meta fore, e commosso dagli
artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni, non secondo la
natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa indole della
fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se. guaci e disputatori
(per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si dovrà dunque
nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura, e renderlo
secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente alcune malerie (e
tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un linguaggio
pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è perciò che
le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera scienza
delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia
filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza
degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che
il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a
quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare,
trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala.
Perciò il filo soro collo schivare le parole barbare, rance, oscure e
disarmoniche toglierà ogni ruvidezza al suo discorso, e gli darà grazia e
leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore
scelte a maggiore schiari. mento di quanto per le parole ben determi nate fu
espresso; colla brevilà e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure,
quale sa rebbe l'interrogazione, e specialmente coll’ar. monia facile e piana,
e con tutti gli allri modi naturali alla tempérala favella. Questo carallere
filosofico fu si ben divisato da Cicerone, che io stimo convenevole cosa di
recare le sue parole Temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è
composta» di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre
liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente
di astulo. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento
che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso di carattere persuasive o protrettico. Poichè
abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo a fare il medesimo della
mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” segna propriamente far
credere altrui alcuna cosa; dal che manifeslo apparisce essere grande la
differenza tra il “convincimento” e la “persuasion”. Perchè siamo convinti è
forza che conosciamo ogni proposizione che compone un ragionamento fino alla
prima percezione, dalle quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè
siamo “persuasi” basta che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o
l'apparenza o l'autorità (non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a
cagion d' esempio, di essere “persuasi” che il sole si giri intorno la terra,
ed altri che la terra si volga intorno al proprio asse. Gli uni prestano fede
all'apparenza, gli allri al detto degli uomini sapienti. Ma di quello che
credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione. Da questo esempio, e da
infiniti altri, si può vedere che la persuasione non è sempre generata dal
conoscimento di ogni proposizioe che si richieg
gono nella dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a
tenere le menti del più degli uomini, non importa semipre il dimostrare
sollilmente alla maniera del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia
verisimile principio: di comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di
adoperare figure che, perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale,
conformino i pensieri di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli
sia per venire nella nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte queste
cose si vogliono ado perare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di
vera dimostrazione; perciocchè gli uditori di qualsivoglia condizione sempre
domandano a conversatore che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre
il discorso, per natural guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni
proposizione ed ogni artificio, nel quale apparisca alcuna ombra di falsità.
Primo ufficio del conversatore si è il provare la sua proposizione nella
divisata maniera. Secondo, il dilellare. Terzo, il commovere; accorgimento si
richiede nelle prove; sobriela degli ornamenti che intendono al diletto;
veemenza nel concitare gli affetli. Con queste arti si perviene a trionfare ed
a governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si
conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di
quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa,
che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una
delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa
(reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte
della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola
nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte
di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra
indicato inodo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva,
de abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione
falsissima; perciocchè non si ſa inganno agli uomini adoperando a bene
quell'arte, che sola si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono
coloro, che pos sono essere falli capaci della verità per via di sollile ed
esatto ragionamento; anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti
falsissimo il vero e piacesse a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare
l'opinione foro, venire ad alcuna utile verità per le strade del verisimile; e
questo non è certo ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei
conversatori si è l ' usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gli
uomini a fuggire il vizio, a seguitare la virtù e la verità; per metter fine
alle conlese, per sedare i tumulli, per sollevare l'autorità della legge contro
il volere di coloro, che il privato bene antepongono a quello della repubblica:
che se alcuni malvagi intellelli abusano di tutte le arli civili, dovremo per
questo sbandirle dal Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente
e la mozzion conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia
fou dai romani inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila
civile ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo
ricreamen to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle
favole, delle imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con
locuzione accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle
menli volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose.
Per lo che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione
conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli
uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina
Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti
a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha
vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se
dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini,
e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e
quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E
primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale
struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che
l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà
generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica
sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato
l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza,
perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto
si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la
mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e
tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti,
ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci
recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione
nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò
affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e
i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni
dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto
delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della mente.
Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione, e
gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi
sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci
verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più
frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose,
siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà
corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente
quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso
di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si
perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro
compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma
le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa,
che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad
esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti
i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio
Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo,
sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome
quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola;
sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano
secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli
nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’
palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che
la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E
guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che
assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono
veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione conversazionale
poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno per fine
primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie, che a
certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata
la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro,
i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e
di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e
distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco
molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e
commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del
poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E
quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo
dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi
molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare
a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli
vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e
non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta
si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per
le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra
sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si
vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati
i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna
nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari,
che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere
filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la
matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e
la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da
queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta,
richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in
chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar parole
e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano
diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle
persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due
maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono
avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre,
le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche
talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il
discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai
perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta
sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e
i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe
materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i
conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti
accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o
protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente
savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana
riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere
convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo
cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter
essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti
artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di
astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare
con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti
è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura
nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso
persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le
persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più
dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel
conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di
questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto,
cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è
perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il
discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona
dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto,
presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par
vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di
vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o
minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si
possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda
degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo
basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere persuasivo procedono.
La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di
quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima
specie e le allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici;
della seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a
persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la
predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati.
Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le
cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il
carattere persuasivo a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose
si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili,
piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del
carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che
a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile
comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un
eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero
accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera
famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura
diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi
che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò,
cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma
ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè
l'animo di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato,
o elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti,
variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che
similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente,
qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi
considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da
proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da
quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente
in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie
di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le
nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi negozii
a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia. Quale
sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga, insegnare
uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici scrittori assai
meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il collocare fra le
specie del carattere persuasivo anche quello che si addice alla istoria; e ciò
per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre coll'insegnamenlo la
prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre innanzi all ' animo del
lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli di quelli. Al qual line,
è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e particolari e generali,
assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi, trattazioni, páci congiure, delilli e virtù; di palesare nelle
concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai capilani, i gravi consigli e i
documenti della politica; di esprimere i caratteri delle passioni, e di usare le
più luminose sentenze. Le quali tulle cose vogliono essere significate con modi
che varino secondo il variare della maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia
sempre il carattere della storia, cioè grave, siccome si addice a chi le gravi
cose racconta, certo egli è che secondo la differenza degli avvenimenti dovrà
variare nel sostenersi e nello innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto
ed eſti cace, nelle descrizioni più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle
nella persona degli uo mini ivi introdolli a parlare, ma sempre temperato in
quella dello scrittore, che da ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può
dunque convenire al caraltere storico nè l'autorità filosofica, la quale
sarebbe contraria alle malerie, nè la poetica pompa, che torrebbe fede alla
narrazione; perciò é forza che gli sieno proprie le prerogative generali del
ca. rattere persuasivo, dal quale differisce sola mente per le qualità speciali
di sopra accennale. C’e una e altra specia del discourse di carattere poetico. Se
ſu bisogno dividere in alcune specie il carattere persuasivo a cagione della
maggiore o minore altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non
occorrerà circa il carallere poetico; imperciocchè tanto gli uo. mini di
sottile ingegno, quanto quelli, in cui la fantasia prevale all'intelletto,
hanno tulli dinanzi al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge
orecchio alle finzioni noe. tiche, quasi come a cose vere, i sapienti le
riguardano come simboli della verità e quasi come leggiadri sogni della
filosofia, e in questo loro dolce ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino
l'apparenza delle faticose forme filoso. fiche. Perciò è palese che il poeta
rivolge sem. pre le parole ad vomini, i quali, sieno di qual sivoglia
condizione, amano che la mente loro şia condotta ad operare senza fatica. Da
que. sto si ricava che ogni specie di carattere poe tico dovrà avere sempre la
prerogativa di schivare, come dicemmo di sopra, le idee che tengono in falica
l'intelletto, e rappresentare quelle, che vestile di forme sensibili, eserci.
citano la imaginativa. Non sarà dunque diviso in ispecie questo genere per
rispelto della diversità degl'intel letti, ma della condizione del poeta o
delle persone che introduce a parlare, e delle varie cose, che ei ſa subbietto
del canto. Ma, prima di entrare in questo proposito, parni che sia da togliere
una falsa opinione circa la natura della poesia. Sono alcuni i quali avvisano
che 115 ma il l'essenza di lei consista nel metro, e fra que sti è il
Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della Poetica d'Aristotele sostiene
che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo con che l'imitazione si fa, ne
forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a coloro che cosi la pensano, qual
nome vorrebbono dare all'Eneide tradolla in favella sciolta dal metro? Le daranno
per avventura nome di prosa? L’espressione “prosa” altro non segna che discorso
senza metro, e per ciò verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è
fatto sce. mo di quella sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio,
ma non già di tutte le altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti
a fine di diletto. Dal che appare manifesto che un altro general nome è bisogno
per distinguere i discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più
accomodalo vocabolo che quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua
origine, significa facilore o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà
lo stesso che fabbricazione o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i
discorsi, che si compongono a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è
dilettevole sempre e in ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che
il verso non è quello che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio
talvolla più poeta si mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide.
Ed Orazio afferma che a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta
disgiungerne le membra, cioè loglierle il metro, e allora si vede
manifestamente che il carattere non le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il
metro induce diſſerenza di specie ma non determina la natura del genere; e
stabiliamo che a tutti i discorsi che
hanno per fine il dilettare con metro o senza, si conviene il nome di “poesia”.
Ora veniamo alle specie. Talvolta il
poeta rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli
Eroi; talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore,
o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano
dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”,
e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si
possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in
varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo:
cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità
sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore
d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi
degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere
e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di
subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le
umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto
lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà
d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano
secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti
esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al
ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e
dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà
la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia,
e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri
ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi
epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a
parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le
tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste
specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla
condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia,
nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a
par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo
spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così
parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale
favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non
si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie.
Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che
ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or
quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle
forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il
più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene
delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a gareggiare
colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con sermone pe
destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si scorge
infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi vidui
della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente belli e
prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da' celebri
dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la bella
natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere. Raffaello, Correggio,
Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non mancano nelle regole
invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti. Tutti mostrano
invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben disposto colo.
rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e gli affelli, ma
ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale mislura, che
siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera dell'altro,
comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano maniera, è
similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed a'poeli. Quanti
scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene tale fra loro
sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio ed a nessun
altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni dela l'animo,
che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno di numero
pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della perspicuità,
alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza. Questi è grave
e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi copioso, chi
úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di noi
desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale di
loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la quale
ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi
chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce
dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa
più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in
genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla
nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale,
carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere
oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di
Demostene, di Cicerone, di Ortensio, di Omero, di Virgilio: percioc chè nei
primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno
ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non
gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera,
che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della
fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l'
animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far
si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le
qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo
sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare
civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà
indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello
scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e
pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia
e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e
pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può.
L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di
percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di
ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente
usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si
appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i
sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le
nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie
o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro
gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le
opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza
la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre
fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni
degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire
l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle
qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con
verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per
siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene di
leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò
che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia
nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà
di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia
genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e
maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed
all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i
quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le
cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano
quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno
di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza
de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le
cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni universali
ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si ecceda o si
manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o rimanere, per
non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del precello, è
bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e fatica.
Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure a
conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore,
l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo
na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da
virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio
che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della
viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo
scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le
cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi
perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che
imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione.
Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e
l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte
dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da
due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e
l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità
diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due
corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno
riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per
la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi
diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli
affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire
diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano
ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull'
orme di Dante, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria di
per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita buccia,
niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori? Rispondo
che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia ramente,
ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore ci sludieremo
di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre la nostra
natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo mi son un
che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo
significando. Che se allrove disse a Virgilio: Tu se' lo mio maestro e lo mio
autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo
onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel
poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal
filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo
stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che
coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri.
Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo
notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto
il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé
quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola
de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è
a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar
nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel
secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua
latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal
Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente
adoperato in varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo
acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da
alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e
rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene
usato, e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo
stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non
sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè
quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la
lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli
antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo
studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita
liani, pressoché tutti, più delle cose forestiere che delle proprie
dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture che sieno
stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che
dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione,
bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi
all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani nelle lettere
umane; pure sono al cuni cbe, deridendo coloro che studiano i lesti della
lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle parole ogni
qualvolta si 1centisti, abbia cura dei concelli; come se il recare alla mente
altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben accoviodate parole.
Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli domestici negozii o in
alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio della lingua, vilipendono
ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au. torità, non meritano alcuna
risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non si maraviglie ranno, se qui
vengono consigliati i giovanetti a studiare prima nelle opere de’ trecentisti,
ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme gentili, e chiarezza e
semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed a riserbare agli anni loro
più maturi lo studio dei cinque che scrissero eloquentemenle di cose gravi e
magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non dobbia. ino noi essere intesi
dagli uomini del nostro secolo e cercare di piacer loro seguendo l'usanza?
Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora quelle opere, ove si
trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e barbarismi e pleonasmi
e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e stranezza nel costrutti?
Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli scrillori del
cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate dal Fortunio e
da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono eloquen temente di
varie ed importanti materie? A queste obbiezioni risponderemo che si dee se
guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del volgo; che non si vuole
negare che in molle opere del trecento non si trovino ma non fra la copia delle
maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma che per questo non ci
rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro sopra tutti quel
secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti scrittori, poichè ci
teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari e domestiche le
maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere l’abito di peccare
contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non si può acquistare se
non con lungo esercizio: il diſello si può togliere assai agevolmente dopo lo
studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per la erudizione ci
verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben distinguere la
lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban no perduta la
grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed efficaci. Quanto
allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per essere ulilissimo,
essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo adoperarono la lingua,
che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e dagli altri tre centisti,
emulando mirabilmente i romani in molli generi di scrilture: ma teniamo per
ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al candore ed alla semplicità
del trecento prima di cercare lo splendore, la ma gnificenza, la copia e
l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché lulti coloro, che sfor
zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla filosofia sieno ſalli
ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella buccia, una
nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere con verila
se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la tenera età,
troveranno assai comodale al bi sogno le parole ed i modi usati da'trecentisti,
la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico sapere,
scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che a'giovani farà
mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora apprenderanno da
Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino sobrietà ed evidenza;
dal Caro copia, efficacia e gentilezza; dal Casa splendore e magnificenza; dal
Galileo ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi lulli, ond' ė divina
la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli, che fecero glorioso il
secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di. sposto se non coloro, cui
prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento, da'quali derivarono
i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è quanto ho stimato op
portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino delle lettere, alle quali
inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi ho mo strato quali sieno
gli elementi della Elocuzio ne; come nel contemperarli secondo le leggi del
decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come lo stile proceda da
naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni. Darò fine
coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è vero
altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore, vi
sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo. Wikipedia
Ricerca Sinestesia (figura retorica) Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce sull'argomento retorica è solo un abbozzo. Contribuisci a
migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La sinestesia (dal greco syn,
'insieme', e aisthánomai, 'percepisco') è una figura retorica, in particolare
un tipo di metafora ("metafora sinestetica"), che prevede
l'accostamento di 2 parole appartenenti a due sfere sensoriali
diverse.[1] Ha largo uso in poesia ed in genere nella
versificazione: «L'odorino amaro» (Giovanni Pascoli, Novembre.) «Voci
di tenebra azzurra.» (Giovanni Pascoli, La mia sera.) «Venivano soffi di
lampi.» (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo nero» (Salvatore Quasimodo,
Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si può citare Il sogno di Maria di
Fabrizio De André: «Quando mi chiese: "Conosci l'estate?" io per
un giorno per un momento, corsi a vedere il colore del vento.» È usata
anche nella lingua di tutti i giorni ("colori caldi", "giallo
squillante" ecc.) e quindi anche in prosa. NoteModifica ^ Angelo
Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, 4ª ed., Milano, Arnoldo
Mondadori Editore, 1984 [1978] , p. 299, ISBN 88-04-14664-8. Altri
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Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli
medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine
illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze. La
sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una
"contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il fenomeno
neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una
via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e
involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.[2]
Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al
fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il
termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una
stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi
sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella sua forma più blanda è
presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo
autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri. Più
indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in cui il percepire
uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione netta e propria di
un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma pura" si intende la
sinestesia che si manifesta automaticamente come fenomeno percettivo e non
cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal
soggetto può evocarlo con maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico
puro, vedendo i suoni e sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da
queste contaminazioni sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua
capacità fu Olivier Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij,
che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni,
entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro
sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas
Čiurlionis. Il compositore russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era
particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando
sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando
si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un potente
risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più
famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma
la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche
affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della popolazione e di
questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra caratteristica della
sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone mancine, o in
concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria (confusione della mano
destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento, dislessia, deficit
dell'attenzione e, raramente, autismo. Spesso la contaminazione
sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una nota musicale
come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente evochi quella
nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia percettiva,
l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino Leonardo Da
Vinci era affetto da sinestesia.[3] Esperienze di tipo sinestetico
possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze
allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di deprivazione
sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la
corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta pseudosinestesia, in
quanto è indotta o non presente dalla nascita. La sinestesia acquisita sembra
riguardare solo le forme di sinestesia percettiva, e non sono stati documentati
casi di sinestesia concettuale acquisita. Le persone che hanno esperienze
sinestesiche nella "forma pura" sono un numero relativamente ridotto.
Studi recenti hanno mostrato una certa variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni
200[5] Queste esperienze sono quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti
sinestesici si sorprendono scoprendo che questa esperienza non è provata da
tutte le persone. L'esperienza sinestetica è composta da due
elementi: L'evento induttore (inducer). L'evento concorrente
(concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico descriva il suono
(inducer) del proprio bambino che piange come un colore giallo sgradevole
(concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è sistematica, nel
senso che a ogni inducer corrisponde un preciso concurrent. Grossenbacher
& Lovelace (2001), distinguono due tipi di sinestesia a seconda che
l'inducer sia percettivoo concettuale. Sinestesia percettiva: l'inducer è
uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere produce anche la vista di
colori "collegati"). Sinestesia concettuale: i concurrent sono
prodotti dal pensare a un particolare concetto (per es: numero, mese dell'anno,
posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente la sinestesia anche nella
terminologia utilizzata nella degustazione o nell'analisi sensoriale.
Basi genetiche della sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze
scientifiche attuali non è possibile identificare singoli loci genici che
determinino con certezza questo fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più
probabilmente dovuto a un complesso meccanismo neurale e non a singole proteine
codificate da parti di genoma. In ogni caso interessanti esperimenti di
neuroimaging paiono confermare tale fenomeno. [6] Sinestesia:
grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi collaboratori hanno notato che la
forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera, numero) - colore e
infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra loro.[7]
Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno permesso
di individuare il "centro del colore" (es. Zeki & Marini, 1998,
Brain), l'area V4 nel giro fusiforme. L'area dei grafemi è stata
anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro
vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di lettere
sia in seguito alla presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è
che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa
attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area
del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un
eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.
Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che
si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è
un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni
cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e
area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece
intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa
fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito
all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei
grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene
sempre associato un certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione
del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni.
Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno
attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la
sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni
neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo
lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello
dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non
vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di
percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive
sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia",
circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze
dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente
una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile,
infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di
tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse
"strade" neurali solitamente "disattive". Influenza
dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard:
caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva
chiesto di fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se
invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano
verde. Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza
il manifestarsi del fenomeno sinestesico. Sinestesici projectorModifica
Nel caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il
numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare
un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello
del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli
evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.
Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore
appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator
riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente
con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La
percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più
intensa del fotismo, per un sinestesico associator. I sinestesici projector
sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra
quelli intervistati da Dixon e collaboratori). Tra i maggiori studiosi
della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean
Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina. Rapporto con i canali del
calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto
nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello
della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni
quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere
analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del
calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio
di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità
elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi
antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene
controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila
sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3
partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza
di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non
prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano
piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione,
l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo
doloroso sia di natura tattile.[8] NoteModifica ^ a b Emozioni colorate |
Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford:
Blackwell Publishing. ISBN 0-631-19764-8. ^ Leonardo Da Vinci. A Chinese
Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, 2015.
http://www.lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in
Internet Archive. ^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^
"Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S.
Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3,
2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer,
su psychomer.it (archiviato dall' url originale il 20 novembre 2010). ^
Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note
BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III
Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de
las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición
Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada 2009. ISBN 978-84-613-0289-5
Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos,
artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada
2012. ISBN 978-84-939054-1-5 Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses,
second edition, MIT Press, Cambridge, 2002. ISBN 978-0-262-03296-4 Cytowic,
R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts, 2003.
ISBN 0-262-53255-7. OCLC 53186027 Marks L.E., The Unity of the Senses.
Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, 1978. Riccò D.,
Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia,
Etas, Milano, 1999. ISBN 88-453-0941-X Riccò D., Sentire il design. Sinestesie
nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2008. ISBN 978-88-430-4698-0
Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata,
Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie,
Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci correlateModifica Takete e
Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri progettiModifica Collabora a
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Bernasconi Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce
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secondo le convenzioni di Wikipedia. Sinestesia Lingua originaleitaliano Paese
di produzioneSvizzera Anno2010 Durata 91
min Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik Bernasconi SceneggiaturaErik
Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm Lugano e RSI FotografiaPietro
Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti specialiFlavio Scarponi, Oltremondo
studio Lugano MusicheZeno Gabaglio, Christian Gilardi ScenografiaFabrizio
Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e personaggi Alessio Boni: Alan Giorgia
Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela Leonardo Nigro: Igor Teco Celio:
Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide Roberta Fossile: Cathrine Igor
Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva Allenbach: Segretaria
Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi: Fisioterapista Alessandro
Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un film del 2010 scritto e
diretto da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e coprodotto da Giulia
Fretta per la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni, Melanie Winiger, Giorgia
Würth e Leonardo Nigro. È stato nominato ai Quartz 2010 per la miglior
sceneggiatura, per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior
attrice esordiente (Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi
il 26 marzo 2010. TramaModifica Il film racconta due momenti della vita
di quattro giovani adulti confrontati con le prove del destino. Alan, sua
moglie Françoise, la sua amante Michela, il suo migliore amico Igor, vivono le
sfaccettature del quotidiano dopo un incidente che costringe Alan su una sedia
a rotelle. Per questo la narrazione si compone, con una struttura circolare, in
quattro capitoli: uno per personaggio, ognuno ispirato a un genere
cinematografico. Sono quattro momenti di una stessa storia, che esplorano le
emozioni dei personaggi da quattro angolature diverse. La trama si basa in
larga parte sull'osservazione di fatti realmente accaduti e affronta con
accenti diversi (thriller psicologico, commedia, dramma…) i temi dell'amicizia,
dell'amore, dell'infedeltà e della disabilità. ProduzioneModifica L'idea
del film è partita nel dicembre 2006, con la lettura di un trafiletto in un
quotidiano. Poi nell'estate del 2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi
ha vinto un concorso indetto dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino
e dalla RSI per progetti di scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a
collaborare con il produttore Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la
stesura della sceneggiatura. AmbientazioneModifica Il film è stato girato
quasi interamente nella Svizzera italiana, a parte alcune scene girate a
Lucerna e Ginevra. Le riprese hanno avuto luogo nella primavera e nell'estate
del 2009. RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero
Candidatura al premio Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti
esterniModifica ( EN ) Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com.
Modifica su Wikidata ( EN ) Sinestesia, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc.
Modifica su Wikidata ( EN , ES ) Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su
Wikidata Portale Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di televisione Ultima modifica 2 mesi fa di Botcrux PAGINE CORRELATE
Melanie Winiger modella e attrice svizzera Erik Bernasconi regista e
sceneggiatore svizzero Zeno Gabaglio Wikipedia Il contenuto èGrice: “It
may be said that my transcendental Kantian approach to cooperative rational
conversation is a response to Costa’s totally empiricist (or ‘sensista’ as he
prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of conversational clarity),
and brevita, eleganza, and all the categories that inform the maxims. Paolo
Costa. Keywords: la teoria sensista della communicazione – senso – consenso – aesthesis
– synaesthesia --– idea dei chi proferisce la proposizione “Me diletta l’odore
di questa rosa piu del colore”, cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e
“Contrariamente, a me mi diletta il colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702675055/in/photolist-2mLMHZZ-2mKApHn-E4u3XA-Dw1w1R-Bq5Z5y-CnttUK-nUj619-nBUubW-hSTpSd-G7oMm2-G55xdb-DeWyrT-CnAGLH-CnAwSe-Bq5WiS-BP5SQX-BP5RLx-Cd2bAj-CkhJ9S-CkaHMd-CfbuaM-Bq5Mgn-BVfXy9-BpU9Z4-BNM5Tv-CnttHx-CntuMM-CntseF-CkaGvL-BpXSw7-Bq4Qqv-BNWG9n-BnHAG1-BnL2uc-CdAEaL-CfWKjF-CdDizG-C5w76F-p3gA2D-ofCmSF-ofJrso-ofUXeP-oevzEE-ofQJ3g-nNzkWw-o7QPSt-o5WCN5-o41RkA-o5yjTn-nPvfXy
Grice e
Costanzi – amore e morte – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo
Umbro). Filosofo. Grice: “I like Costanzi; possibly my favourite of his essays
is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos for the Oxonian!” Si
laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere”
(Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella,
Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia,
Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia,
Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e
l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere
e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del
Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna
angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La
filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul prologo
di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso Prologo, in
Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica
pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo
come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna; “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto
di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità
della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria
editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia”
(Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede,
Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di
cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana
di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione
di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala
francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana
di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo
e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M.
Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia
del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "UmbriaLeft. Il filosofo imagliato dal Sessantotto,
"il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani. Wikipedia
Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua Segui
Modifica Al di là del principio di piacere Titolo originale Jenseits des Lustprinzips
Freud 1921 Jenseits des Lustprinzips.djvu AutoreSigmund Freud 1ª ed.
originale1920 GenereSaggio SottogenerePsicoanalisi Lingua originaletedesco Al
di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips)[2] è un
saggio di Sigmund Freudpubblicato nel 1920, incentrato sui temi dell'Eros e del
Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione
di morte" (Todestrieb[e]). Giuditta II di Gustav Klimt, 1909,
Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna.[1] Achille sorregge
Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite
sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento.
Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di
EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici
fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un
simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale
parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio
(o Discordia). «Empedocle di Agrigento, nato all'incirca nel 495 a.C., si
presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della
civiltà greca [...] Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di
Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni,
da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche
se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia
cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. [...] I
due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e
neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono,
sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e
Distruzione.»[3] Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca
dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse
o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma
d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la
pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora
l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome
del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la
rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).»[4]
Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo,
un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali
crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare
la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si
oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato
inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni
della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa
non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E
perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito
ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di
convalidare?"[5] «Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma
egli, a quanto riferisce Jones,[6] l'avrebbe talvolta usato nella
conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a
Federn.»[7] Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su esplicita influenza
di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro del 1920,[8] per Freud
Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare
al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di
destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla
libido). Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal
capitolo sette de L'interpretazione dei sogni (1899) e che adesso, sotto
l'influsso del pensiero di Schopenhauer,[10] diventa identico al principio del
Nirvana proposto da Barbara Low:[11] le eccitazioni della mente, del cervello,
dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute
costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado
zero della realtà inanimata.[12][13][14] La coazione a ripetereModifica
Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una
coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di
piacere.»[15][16] Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare
autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte «demoniaca»:[17]
"Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi,
le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da
un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si
creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso
attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco".[18] La
coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci
della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli
eventi più violenti. Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi
della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete
per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno
dell'uguale».[19] Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud
notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e
atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un
fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una
pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la
coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io.
La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia
psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli
stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel
lavoro. Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più
ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il
rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il
rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il
rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a
padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre
seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»),
quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»),
quando il rocchetto è di nuovo vicino.[20] Dopo l'esposizione d'una serie
di ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze
traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto),
Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte,
riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli
organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico,
inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo.
ConclusioneModifica In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di
piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte [...]. A questo punto
sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare
una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi
strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad
abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a
quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che
la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno
con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie
opinioni.»[21] ImplicazioniModifica Uno psicoanalista con competenze pure
di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «la vera
psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna
aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte,
per parlare di vera e propria psic[o]analisi. [...] [Essa] comincia con la
rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. [...] Il
nuovo modello freudiano [...] individuava nello psichico un nucleo patogeno
fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a
se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e
contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni
illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro
che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni
umanitarie».[22] Dal 1920 sino al 1939, anno della sua morte, Freud non
cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà
la sostanziale "inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso
arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato
l'esatto contrario. Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo (1927) e
Analisi del carattere (1925), propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria
della pulsione di morte. La madre morta (1910), Egon Schiele,
Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele sa che tutto
ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin
dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto del 1910: La
madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro
mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro,
ne circoscrive la parabola esistenziale.» (Marco Vozza[23]) Agonia
(1912), Egon Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek. Madre con i due
bambini(1915-1917), Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele
introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della
vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più
sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé,
ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita
nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della
sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si
pensi all'Agonia del 1912 [...], sacra rappresentazione di stupefacente
intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e
impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza
che è stato Grünewald.» (Marco Vozza[24]) «La Madre con i due bambini
[...] esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva
sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di
Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha
chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a
lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.» (Marco Vozza[25])
NoteModifica ^ Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello
rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima
(Roberto Faenza, 2002): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su
YouTube(vedi screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di
piacere(1920), in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri
scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986. ISBN 978-88-339-0059-9.
Ed. paperback 2006. ISBN 978-88-339-0479-5. ^ Sigmund Freud, Analisi
terminabile e interminabile (1937), in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione
monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp.
527-529. ISBN 978-88-339-0115-2. Ed. paperback2009. ISBN 978-88-339-0481-8. ^
Umberto Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino, 2001, p. 802.
ISBN 88-115-0479-1. ^ S. Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni
Boringhieri 1978, p.509. ^ Ernest Jones, Vita e opere di Freud, vol. 3:
L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti, 1977. ISBN non esistente. ^ Jean
Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca,
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Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Anteprima
disponibile, p. 447, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del
principio del piacere, op. cit., p. 240. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 195. ^
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Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema economico del
masochismo". URL consultato il 6 febbraio 2011. ^ Leonardo Della Pasqua,
Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza.URL
consultato il 26 agosto 2009. ^ Jean Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op.
cit., voce Principio di piacere. ( EN ) Op. cit., Anteprima disponibile, pp.
272-3, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 209. ^ Jean Laplanche,
Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. ( EN ) Op. cit.,
Anteprima disponibile, pp. 78-80, su Google Libri. ^ Sigmund Freud, op. cit.,
pp. 207, 221-2. Cf. anche Il perturbante (1919), OSF vol. 9, p. 99. ^ S. Freud
Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund
Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p.
39, ISBN 978-88-339-0055-1. ^ Cf. Sigmund Freud, Al di là del principio di
piacere, op. cit., pp. 200-1. ^ Sigmund Freud, op. cit., pp. 248-9. ^ Antonello
Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut
aut 315 (2003), pp. 134-6. ^ Marco Vozza, Il senso della fine nell'arte
contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas 54 (5/1999), p. 884. ^
Marco Vozza, op. cit., p. 885. ^ Marco Vozza, ibidem. Voci correlate Modifica
Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido
Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato Collegamenti esterniModifica
( EN ) Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Edizioni e traduzioni di
Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata
(EN) Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The language of psycho-analysis,
Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Thanatos,
p. 447, Nirvana Principle, pp. 272-3 e Compulsion to Repeat, pp. 78-80.
Controllo di autoritàThesaurus BNCF 6768 · LCCN( EN ) sh98005003 · BNF ( FR )
cb12125623j(data) Portale Letteratura Portale
Psicologia Ultima modifica 1 anno fa di 79.52.113.137 PAGINE CORRELATE Sabina
Nikolaevna Špil'rejn psicoanalista russa Differimento Resistenza
(psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei
contenuti inconsci alla coscienza Wikipedia Il contenutoTeodorico Moretti
Costanzi. Keywords: amore e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?),
Zarathustra, il singolo della diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum,
amore/morte, eros/tanatos, immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due
esseri, le due esseri entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a
new discourse on metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso
di metafisica: del genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita -- nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51770174255/in/dateposted-public/
Grice e Courmayeur – Hegel in Italia
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “The most interesting thing about
Courmayeur’s philosophy is that he is a count; unlike Locke, or the
common-or-garden English Oxonian philosopher who doesn’t have a dime, this one
has, as the Italians say, ‘all the money in the world’! That helps with
philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL, which proves that Hegel becomes
the taste of aristocrats and not just dons like Bosanquet!” - Dall'antica
famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Ottenuta la maturità
classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si laurea con Solari con “Hegel”
(Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi la filosofia politica del
medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a Torino. Fu capitano di
complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale venne nominato, primo
prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione autonoma Valle
d'Aosta. Fra le sue opere più note, Il
concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo pensiero
storico-filosofico. Oltre che filosofo del
diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il fondatore della
filosofia politica italiana come disciplina a sé stante, finalmente distinta
dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio col saggio,
“Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento tematico della
“Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per filosofi in uso nella
filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo uno schema concettuale
schiettamente filosofico: "il concetto di forza – forzare ", "il
concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il concetto di autorità –
auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato, secondo una scala di qualificazione
crescente. Il concetto di "forza" (il forzare) e qualificato di un
imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto di "potere"
(potere del giurato) contiene il concetto di forza (il forzare – come un mando
o imperativo efficace), ma organizzato in una istituzione e qualificato dal
‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto di "autorità" come
contenendo la second faccia del potere del giurato, qualificato da una concetto
di legge variable: la promozione del giurato, la promozione del bene comune (la
res publica), o la promozione della piccolo patria. Altre opere: Il concetto
dello stato (Torino: Giappichelli); “La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La
filosofia della politica, Torino: POMBA); “Filosofia politica nel medio evo
italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La filosofia politica d’Alighieri”
(Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed economia, Pavia: Libreria Internazionale
F.lli Treves); “Morale, Roma: Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine
politiche: la filosofia politica medioevale, Torino: Giappichelli); “Il concetto dello stato in Zwingli", in
Filosofia del diritto, Roma); La teoria del diritto e della politica in
Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino: Istituto giuridico della R.
Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità). La
piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione Politica, Pensa
Multimedia. Dizionario biografico degli
italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Wikipedia Ricerca
Patria Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai
cercando altri significati, vedi Patria (disambigua). Ulteriori informazioni
Questa voce sull'argomento antropologia è solo un abbozzo. Contribuisci a
migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La Patria (dal latino = la
terra dei padri) è il concetto di nazione e paese, natio interiorizzato e
idealizzato. L'Altare della Patria a Roma. Descrizione Modifica
La patria è un topos prettamente letterario (concetto ricorrente) che è
possibile ritrovare in tantissimi temi trattati e argomentati nelle scienze
umane, con particolare frequenza nell'area umanistica.
BibliografiaModifica Vincenzo Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in
«Il Veltro», LVI (2012), fasc. 1-2, pp. 73-77. Fabio Finotti, Italia.
L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, 2016, ISBN 978-88-452-8087-0.
Alessia Ceccarelli, Patria. Da patria a nazione, in Guido Pescosolido e
Giuseppe Bedeschi (a cura di), Dizionario di storia, vol. 3, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”, 2011, pp. 81-83. URL
consultato il 14 febbraio 2022. Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
Wikiquote contiene citazioni sulla patria Collabora a Wikizionario Wikizionario
contiene il lemma di dizionario «patria» Collegamenti esterniModifica patria,
su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata patria, in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Controllo di
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modifica 2 mesi fa di 151.53.2.56 PAGINE CORRELATE Popolo insieme delle persone
fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato Statista
personaggio politico deputato a governare e regolare gli affari di Stato
Sciovinismo forma fanatica ed esasperata di nazionalismo o patriottismo
Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s only natural
that Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was born in a
minority, like Russell, who was born in a place which some called England, some
called Wales. The situation is so borderline that it reminded me of my ancestors,
the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are having in Germany!
Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It
is not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’
– the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since
it just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is
legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have no legitimate power’ – and you have no power,
means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!”
As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of
Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta
belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with
Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre
Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et
Courmayeur. Courmayeur. Keywords: Hegel in Italia, piccola patria, il concetto
dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare
come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato
in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia: l’autorita,
come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto ideale
variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccola patria. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51769448478/in/dateposted-public/
Grice e Cotroneo – VIRTÙ – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Campo Calabro). Filosofo. Si laurea Messina
sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”.
“Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I
trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e
moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa,
società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della
libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà,
Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli,
Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane);
“Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo.
L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un
viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo,
Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La
virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le
Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La
scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo,
Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora);
“Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica
vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele,
retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini,
Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano
Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su
Raffaello Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del
Convegno di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La
Fenomenologia dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e
Chiesa” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale,
Girolamo Cotroneo, in Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, Storia della
filosofia, Milano, Bompiani, Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli,
Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra Storia della Filosofia e Liberalismo, in
Bollettino della Società Filosofica Italiana, Roma, Carocci, Giuseppe Giordano, Rivista di
storia della filosofia, Milano, Franco Angeli, Girolamo Cotroneo, in Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Wikipedia Ricerca Virtù disposizione
d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione
– Se stai cercando altri significati, vedi Virtù (disambigua). La virtù (dal
latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una disposizione d'animo volta al bene,
che consiste nella capacità di una persona di eccellere in qualcosa, di
compiere un certo atto in maniera ottimale, o di essere o agire in un modo ritenuto
perfetto secondo un punto di vista morale, religioso, o anche sociale in base a
alla cultura di riferimento. Il significato di virtù ha risentito di
quello di bene, un concetto che assume significati diversi a seconda delle
modifiche intervenute nel corso delle varie situazioni storiche e sociali.
Concezione questa non condivisa dalle dottrine che ne negano il
relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione di valori,
intesi come assoluti, immutabili nel tempo.[1] La parola latina virtus,
che significa letteralmente "virilità", dal latino vir
"uomo" (nel senso specifico di "maschio" e contrapposto
alla donna) si riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi
maschili, come ad esempio il coraggio. Nella lingua italiana la virtù è
invece la qualità di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il
termine è riferito comunemente anche a un qualche tratto caratteriale
considerato da alcuni positivo. Personificazione della virtù nella
Biblioteca di Celso. La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il
concetto greco Modifica
Niccolò Machiavelli Nella visione della vita secondo la filosofia anticagreca,
la concezione dell'aretè non era connessa all'azione per il conseguimento del
bene, bensì indicava semplicemente una forza d'animo, un vigore morale e anche
fisico. Essa coincide con la realizzazione dell'essenza innata della persona,
sia sul piano dell'aspetto fisico, il lavoro, il comportamento e gli interessi
intellettuali. Questa concezione di virtù contiene l'eccellenza degli
eroi omerici, quella degli statisti Ateniesi, o quella descritta nel Menone di
Platone ovvero la capacità di ben governare. In questo senso il coraggio, la
moderazione e la giustizia erano virtù morali[2]. Tale sarà, ad esempio,
il senso nella concezione rinascimentale sulla politica in Niccolò Machiavelli
che vorrà distinguere l'aretè del principe moderno, come la capacità di opporsi
alla "fortuna" e di modificare le circostanze ai propri fini di
potere e con lo scopo principale del mantenimento dello stato (senza tener
conto del giudizio morale sui mezzi impiegati), dalla virtus cristiana del
sovrano medioevale che governa per grazia di Dio a cui deve rispondere per la
giustificazione della sua azione politica, diretta anche a difendere i buoni e
proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale
né religiosa dovrà ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della
sua "aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica italiana
del '500.[3] Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù
consisterà nella "volontà di potenza" in opposizione alla
"morale degli schiavi" nata dallo spirito di risentimento del
Cristianesimo nei confronti degli uomini superiori. Le
virtùModifica Platone Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Etica § Socrate e Platone. La concezione della virtù nel pensiero
greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue
trasformazioni nel corso del tempo. Così in Platone le virtù
corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne
La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da
Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire
"principali": la temperanza, intesa come moderazione dei
desideri che, se eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza
d'animo necessaria per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o
"prudenza", variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che
costituisce, come controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la
giustizia è quella che realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le
altre virtù presenti nell'uomo virtuoso e nello stato perfetto.[4] Le virtù
secondo AristoteleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Aristotele § L'Etica. Aristotele Mentre Platone parlava
genericamente di saggezza per l'esercizio della virtù, Aristotele la distingue
invece dalla "sapienza". La saggezza, o "prudenza", è una
"virtù dianoetica", propria cioè della razionalità comune a tutti che
ispira la condotta umana permettendo il giusto esercizio delle "virtù
etiche", quelle cioè che riguardano l'azione concreta. Tra le virtù
dianoetiche che presiedono alla conoscenza (intelletto, scienza, sapienza) o
alla attività tecniche (arte), la saggezza è propria di colui che, pur non
essendo filosofo, è in grado di operare virtuosamente. Se si dovesse acquisire
la sapienza filosofica per praticare le virtù etiche questo comporterebbe che
solo chi ha raggiunto l'età matura, divenendo filosofo, potrebbe essere
virtuoso mentre con la saggezza, grado inferiore della sapienza, anche i
giovani possono praticare quelle virtù etiche che permetteranno l'acquisto
delle virtù dianoetiche. La saggezza insomma permette una vita virtuosa,
premessa e condizione della sapienza filosofica, intesa come "stile di
vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando
l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno
poiché «Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto
all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita
umana.[5]» Virtù eticheVirtù dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza
Liberalità Magnificenza Magnanimità Mansuetudine Virtù calcolative Arte
Prudenza Virtù scientifiche Sapienza Scienza Intelligenza La saggezza può esser
fatta conseguire ai giovani tramite l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti
tali dalla collettività, impartiranno anche con l'esempio concreto della loro
condotta. Da questi modelli il giovane apprenderà che le virtù etiche
consistono nella capacità di comportarsi secondo il "giusto mezzo"
tra i vizi ai quali si contrappongono (ad esempio il coraggio è l'atteggiamento
mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà), sino a conseguire con
l'abitudine un abito spontaneamente virtuoso: infatti «La virtù è una
disposizione abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in
relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in
base al quale la determinerebbe l'uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per
eccesso e quello per difetto[6]» In medio stat virtus è il detto della
filosofia scolastica che traduce il concetto greco di mesotes. La virtù
secondo gli stoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Stoicismo § Etica. La saggezza, ossia la capacità di operare con
prudenza, è al centro della morale epicurea e stoicama, mentre per gli epicurei
la virtù si consegue attraverso un calcolo razionale dei piaceri stabilendo
quali di essi siano veramente necessari e naturali, per gli stoici invece il
comportamento virtuoso, risultato del conseguimento dell'"apatia",
cioè della liberazione ascetica dalle passioni, è di per sé portatore di
felicità. Per coloro che non riescono a condurre la loro vita secondo saggezza
lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che insegneranno a operare
secondo ciò che è più "conveniente" od opportuno tenendosi sempre
lontano dagli eccessi delle passioni. La morale stoica ispirerà quella
dei filosofi del XVI e XVII secolo come Cartesio, che rivaluterà tra le
passioni quella della "magnanimità", considerata virtù somma,[7][8] e
Spinoza che afferma che «il primo e unico fondamento della virtù, ossia della
retta maniera di vivere, è di cercare il proprio utile»[9] intendendo per
"utile" solo ciò che «conduce l'uomo a maggior perfezione»[10]
infatti «gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione
non appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e perciò
essi sono giusti, fedeli, onesti»[10] e per ciò stesso la virtù è premio a sé
stessa come portatrice di una vita serena condotta secondo la
razionalità. Le virtù secondo il cristianesimoModifica «Il fine di una
vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio[11]» Nel pensiero
cristiano oltre le virtù umane è possibile l'esercizio di quelle
soprannaturali: le virtù teologali di fede, speranza e carità[12] che in
qualche modo dovranno conciliarsi con quelle dell'etica antica. San
Tommaso conserverà la validità delle virtù "cardinali" aristoteliche
ma considerandole inferiori a quelle teologali[13] mentre Sant'Agostino
riteneva false le virtù umane dei pagani che mascherano sotto il nome di virtù
quello che in realtà è l'esercizio di vizi[14]"splendidi"[15], ma pur
sempre negativi in quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca dell'effimera
gloria umana. L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il cui
esercizio, per quanto essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla volontà
divina che lo infonde negli spiriti eletti, cioè dalla infusione nell'uomo
della indispensabile grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà nel XVI
secolo con la Riforma protestante e nel Giansenismo del XVII secolo. Inoltre
uno dei nove cori delle gerarchie angeliche, viene denominato Virtù ed indica
secondo lo Pseudo-Dionigi il coro angelico preposto a dispensare la grazia
divina. La virtù nel pensiero modernoModifica Nella filosofia dell'età
moderna la concezione della virtù oscilla tra quella che la considera come
l'esercizio di un controllo delle passioni a cui rinunciare e quella che invece
la ritiene rientrare nell'ambito di un comportamento istintivo e naturale
dell'uomo. Alla prima interpretazione si associano le dottrine della corrente
libertina da Pierre Bayle a Mandeville che ironizzano sulla effettiva
possibilità per gli uomini dell'esercizio delle virtù che se anzi fossero
attuate provocherebbero la disgregazione della società. «Il vizio è
tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per
obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione
celebre e gloriosa.[16]» Si è sempre parlato ipocritamente di virtù,
osservano i libertini, le quali in realtà sono la mascheratura dei propri vizi
come ben appare nella contrapposizione tra le ostentate "pubbliche
virtù" e i nascosti "vizi privati"[17] La virtù come
sacrificio del singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti, è anche
nella concezione politica di Montesquieu che riporta questo comportamento
civile ai regimi repubblicani mentre in quelli monarchici prevale l'orgoglio e
in quelli dispotici la paura. Anthony Ashley Cooper, III conte di
Shaftesbury Nell'etica inglese la virtù è intesa, in opposizione alle dottrine
sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento impulsivo
naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza (Shaftesbury e
Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla riprovazione
morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura o
all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione
virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di
Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il
suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù
secondo David Hume e Adam Smith è quello della "simpatia": «Le
nostre sensazioni nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili
moralmente in rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una
dimensione esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre
da ciò che provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.» (David
Hume, Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza)
«Per scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che
deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la
forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o
nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di
cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre.[18]» Questa
disposizione naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà
espressione nel deismodel XVIII secolo e in seguito costituirà il nucleo della
teoria romantica dell'"anima bella" di Friedrich Schiller. La
virtù come sforzoModifica Immanuel Kant Una ripresa della concezione
della virtù come repressione delle passioni umane è nella filosofia morale di
Kant che distingue una "dottrina della virtù" dalla "dottrina
del diritto"[19]. Nel diritto l'uomo si sottomette alla legge per
rispettarne la formalità esteriore senza considerare il motivo della sua azione
ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella morale ci si vuole
comportare secondo il dettato morale indipendentemente da qualsiasi motivo e
conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù come soggezione
della volontà all'"imperativo categorico". La vetta,
opera simbolista di Cesare Saccaggi (1912), che esprime i concetti romantici di
Streben(«sforzo») e Sehnuct(«struggimento»), ossia l'anelito dell'uomo verso un
ideale che si rivela sempre più arduo ed elevato.[20] L'imperativo categorico,
ossia la virtù, implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben),
combattendo le inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua
volontà a ciò che l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa
avvenire spontaneamente significa confondere la debolezza umana con ciò che è
proprio della santità che appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei
confronti della legge morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per
gli uomini sia per la divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa
ostacolarla nell'osservanza della legge morale, non ha neppure virtù.[21]
Questa visione della virtù assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo
che Kant invece rifiuta laddove questo connette all'esercizio della virtù la
felicità. Certo l'uomo nella sua costituzione sensibile ha bisogno della
felicità ma nulla garantisce che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di
giustizia vuole poi che l'uomo abbia una felicità bilanciata al suo
comportamento virtuoso ma poiché questo non accadrà mai nel nostro mondo
terreno, egli allora postulerà l'esistenza di un'anima immortale a cui un Dio
giusto assicuri la giusta felicità. L'etica kantiana, tradotta da Fichte
e Schelling nella tensione verso un ideale infinito a cui l'Io cerca
progressivamente di conformare il non-io, pur non raggiungendolo mai
definitivamente, sarà invece messa in discussione da Hegel, il quale vi vedrà
l'espressione di un tipico soggettivismo delle "virtù private"
contrapposto a quella "eticità" antica, ancora valida nel suo tempo,
da apprezzare perché rivolta alla collettività dove si realizza il bene tramite
la famiglia, la società civile e lo Stato.[22] Le virtù secondo il
BuddhismoModifica Il Buddhismo sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù
come un desiderabile obiettivo per l'uomo buono[23] che ci ricorda l'antica
concezione socraticaispirata a quell'intellettualismo etico secondo cui il
l'uomo fa il male perché ignora cosa sia il bene. Le virtù nel Buddhismo
sono il continuo applicare, come regole di autodisciplina nella vita quotidiana,
dei Tre rifugi o dei Cinque precetti[24] che consistono nello 1.
Astenersi dall'uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente 2. Astenersi
dal prendere ciò che non ci è stato dato 3. Astenersi da una condotta sessuale
irresponsabile 4. Astenersi da un linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi
dall'assumere bevande alcoliche e droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano
la disciplina e la sensibilità necessarie per chi voglia coltivare la
meditazione, che è il secondo aspetto del sentiero. La virtù nella
filosofia cinese Modifica La virtù
(traduzione di "de" 德) è un
concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il confucianesimo e il
taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao (solitamente tradotta
come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore importante, contenuto nella
gran parte del pensiero cinese, è che lo stato sociale di ciascuno debba essere
determinato dall'insieme delle sue virtù manifeste, e non da un qualunque
privilegio di nascita. Nei suoi Analecta, Confucio parla della pratica che
conduce alla perfetta virtù. Le virtù confuciane si sviluppano in due rami: il
ren e il li; il ren può essere tradotto come benevolenza, amore disinteressato,
e l'uomo la può raggiungere praticando cinque virtù: magnanimità, rispetto, scrupolosità,
gentilezza e sincerità. Confucio afferma che queste virtù devono essere
praticate verso il li, che è la parte pratica della virtù confuciana. Il li
consiste in cinque canali relazionali: marito/moglie, genitore/figlio,
amico/amico, giovane/anziano, suddito/sovrano. Note Modifica ^ Romanus Cessario, Le virtù,
Editoriale Jaca Book, 1994 ^ Ancient Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of
Philosophy) ^ Giulio Ferroni, Machiavelli, o Dell'incertezza: la politica come
arte del rimedio, Donzelli Editore, 2003 p.87 ^ Platone, Repubblica o sulla
giustizia. Testo greco a fronte, a cura di M. Vitali, Feltrinelli Editore, 2008
^ Aristotele, Etica Nicomachea, X,7, 1177 b30-31 ^ Aristotele, Etica
Nicomachea, II, 6 ^ D. Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur
Descartes, Paris, Albin Michel 1995 ^ Remo Bodei, Geometria delle passioni.
Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli Editore, 2003
p.293 ^ Eth. V, prop. 41 ^ a b Eth. IV, prop. 18 ^ San Gregorio di Nissa, De
beatitudinibus, oratio 1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger, v. 72 (Leiden
1992) p. 82 ^ L'elenco è dedotto dalla prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi:
«Rivestiti della corazza della fede e della carità avendo come elmo la
speranza» (1Ts 5,8) ^ Giovanni Kostko, Beatitudine e vita cristiana nella Summa
theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, 2005 pp.285 e
sgg. ^ I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella
concezione cristiana sono superbia, avarizia, lussuria, gola, ira, invidia e
accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della diocesi di Nizza,1839 p.141) ^
Battista Mondin, Etica e politica, Edizioni Studio Domenicano, 2000 p.22 ^
Bernard de Mandeville, La favola delle api ^ L'espressione si ritrova
nell'operetta di Bernard de Mandeville pubblicata anonima nel 1705 con il
titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (Ronzio di arnie, o Furfanti
divenuti onesti), ristampata nel 1714 con l'aggiunta del sottotitolo Vizi
privati e pubbliche virtù e infine nel 1723 con il titolo Fable of the Bees:
or, Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati,
pubbliche virtù) ^ Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol.
XIII, pagg. 934-935 ^ Cfr, I. Kant, Metafisica dei costumi ^ Mauro Galli e
Aa.Vv., Cesare Saccaggi: un poliedrico pittore internazionale ( PDF ), su
gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro Gabbantichità, 1999, p. 81.
Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci (1912), l'atteggiamento
passionale e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida irraggiungibilità
della donna, allegoria della Montagna-Natura. ^ Fausto Fraisopi, Adamo sulla
sponda del Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando
Editore, 2005 p.318 ^ Pasquale Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un
confronto critico, Guida Editori, 1998 p.106 ^ Hsuan Hua, Buddhismo: Une breve
introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, p.51 e sgg. ^ Paolo Emilio
Pavolini, Buddismo, Hoepli, 1898, p. VIII e sgg. BibliografiaModifica Chiesa
Cattolica, Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992 (ISBN
88-209-1888-9). (EN) New Catholic Encyclopedia, Catholic University of
America, 1967. pg 704. Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù,
Feltrinelli UE 1996. Max Scheler, Per la riabilitazione della virtù, (1913).
Tommaso d'Aquino, Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a
fronte, Milano, Bompiani, 2014.' Voci correlateModifica Paideia Bushidō
Moralità Etica Bontà Teoria dei valori Giustizia sociale Pietà (teologia) Sette
peccati capitali Virtù cardinali Virtù teologali Timè Altri progettiModifica
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dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Virtù / Virtù
(altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Modifica su Wikidata ( EN ) Virtù, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata The Four Virtues, su thefourvirtues.com. The
Virtues Project, su metamind.us. URL consultato il 2 maggio 2005 (archiviato
dall' url originale il 25 maggio 2005). VirtueScience.com. Controllo di
autoritàThesaurus BNCF 3090 · LCCN( EN ) sh85143808 · GND ( DE ) 4125554-9 ·BNE
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della filosofia Etica Nicomachea opera di Aristotele Virtù
dianoetiche ed etiche Wikipedia Il contenutoGirolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords:
VIRTÙ, retorica, retorica di
Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51769142371/in/dateposted-public/
Grice e Cotta – la storia del diritto
romano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per che
violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a secondary-literature
study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You see, Plato thought that
the soul resided in the brain – cool as he was – but Aristotle corrected him:
it resides in the HEART – Cicero loved that and coined ‘cum-cor’ – i.e. something
like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice: “I would say Cotta is
Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on essentialism, deontic logic,
and from war to peace!” Figlio di Alberto,
studioso di scienze forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è
discendente diretto di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti
La Querce. Si laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di
sottotenente, il giorno dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi
l'esercito, scende in barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non
ancora occupata dai tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie
decide di raggiungere il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza
come comandante di una brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma
"Monferrato". È tra i primi ad entrare a Torino nei giorni della
liberazione. Per la sua partecipazione alla guerra partigiana gli vengono
attribuite la Medaglia di bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo gli
studi sul pensiero politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono
incentrati sulla filosofia giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere
con elementi della fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di
Montesquieu, Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a
riflessioni teoriche sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia,
Trieste, Trento, Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato
promotore del referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La
società; “Il concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il
concetto di ‘legge’ in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma
come città in Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La
sfida tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale
Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il
diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra
alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu,
Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il
sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La
Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, Cotta puo
fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente
stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione
finale e transitoria della Costituzione. Wikipedia
Ricerca Diritto romano ordinamento giuridico della civiltà romana Lingua Segui
Modifica Con diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno
costituito l'ordinamento giuridico romano per circa tredici secoli, dalla data
convenzionale della Fondazione di Roma (753 a.C.) fino alla fine dell'Impero di
Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l'Italia
fu invasa dai Longobardi: l'impero d'Occidente si dissolse definitivamente e
Bisanzio, formalmente imperiale e romana, si allontanò sempre più dall'eredità
dell'antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica). Il Corpus
Iuris Civilis in una stampa del XVIII secolo, che raggruppava l'insieme di
tutte le leggi romane contemporanee e precedenti alla sua compilazione,
avvenuta sotto Giustiniano I (dal 529 al 534) (LA) «Iuris praecepta sunt
haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.»
(IT) «Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non
danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.» (Eneo Domizio Ulpiano Libro
secondo delle Regole dal Digesto1.1.10 principio [1]) L'importanza storica del
diritto romano si riflette ancora oggi in una lista di termini legali latini.
Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero romano d'Occidente, il Codice
giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano d'Oriente, conosciuto come
Impero bizantino (331–1453). Dal VII secolo il linguaggio legale in Oriente fu
il greco. Il diritto romano definisce un sistema legale applicato nella
maggior parte dell'Europa occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In
Germania, il diritto romano venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano
Impero (963–1806). Il diritto romano servì inoltre come base per la pratica
legale attraverso l'Europa occidentale continentale, così come nella maggior parte
delle colonie delle nazioni europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia.
Il sistema inglese e nord americano della common law venne influenzato anche
dal diritto romano, in particolare nel loro glossario giuridico
latineggiante.[2][3] Anche la parte orientale dell'Europa venne
influenzata dalla giurisprudenza del Corpus Iuris Civilis, specialmente nei
paesi come la Romania medievale[4]che creò un nuovo sistema, un mix del diritto
romano e locale. L'Europa orientale fu inoltre influenzata dal diritto
medievale bizantino. StoriaModifica Il diritto romano viene diviso
approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi.[5][6]
Dalla fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole (753-451 a.C.)Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia del
diritto romano (753 - 451 a.C.), Ius Quiritium e Mos maiorum. La prima fase,
detta del diritto arcaico o quiritario, comprende il periodo che ha inizio con
la fondazione di Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole (dal 753 al 451
a.C.).[5][6] In questo periodo, il diritto privato, compreso il diritto civile
romano[7] era applicato solo ai cittadini romani, ed era legato alla religione.
Si trattava di una forma giuridica non sviluppata, quindi non contenente gli
attributi di formalismo rigoroso, simbolismo e conservatorismo[8]. Il giurista
Sesto Pomponio disse: "All'inizio della nostra città, le persone
iniziarono le loro prime attività senza alcun diritto scritto, e senza alcuna
regola fissa: tutte le cose erano governate dispoticamente dai re".[9] Si
ritiene che il diritto romano sia radicato nella mitologia etrusca, con
un'enfatizzazione dei rituali.[10] Diritto repubblicano fino alla seconda
guerra punica (451 al 201 a.C.)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges Liciniae Sextiae, Lex Canuleia, Lex
Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del secondo periodo coincide con il primo
testo di diritto: le leggi delle XII tavole, che si datano attorno alla metà
del V secolo a.C.[6] Il tribuno della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che
le leggi fossero scritte, per evitare che i magistrati potessero applicarle in
modo arbitrario.[11] Dopo otto anni di scontri politici, i plebei riuscirono a
convincere i patrizia inviare un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di
Solone; essi inviarono poi altre delegazioni ad altre città greche per
ottenerne il consenso.[11] Nel 451 a.C. secondo quanto ci racconta Tito
Livio,[12]furono scelti dieci cittadini romani per mettere per iscritto le
leggi[13]. Mentre stavano eseguendo questo lavoro, gli vennero attribuiti
poteri politici supremi, detti imperium, mentre il potere dei normali
magistrativenne ridotto.[11] Nel 450 a.C., i decemviri produssero le leggi su
dieci tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo
decemvirato, si racconta, aggiunse, nel 449 a.C. due ulteriori tavole. La nuova
legge delle dodici tavole venne ora approvata dall'assemblea
popolare.[11] Gli studiosi moderni tendono a non dar credito alla
precisione degli storici romani. Non credono in genere che un secondo
decemvirato abbia mai avuto luogo. Il decemvirato del 451 a.C. si ritiene abbia
incluso i punti più controversi del diritto consuetudinario, e di aver assunto
le funzioni principali a Roma.[11] Inoltre, la questione sulla influenza greca
trovata nel diritto romano arcaico è ancora molto discussa. Molti studiosi
ritengono improbabile che i patrizi abbiano inviato una delegazione ufficiale
in Grecia, come gli storici romani credevano. Invece, gli studiosi suggeriscono
che i Romani abbiano acquisito leggi dalle città greche della Magna Grecia,
serbatoio principale dal mondo romano a quello greco.[11] Il testo originale
delle XII tavole non si è conservato, anche perché furono distrutte durante il
sacco di Roma del 387 a.C. da parte dei Galli.[11] I frammenti
sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso
moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme
applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili.
Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare
l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano
valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al
diritto privato e alla procedura civile. In seguito le leggi delle dodici
tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come: la Lex
Canuleia (del 445 a.C.), che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi
e plebei; le Leges Licinae Sextiae (del 367 a.C.) che prevedevano restrizioni
sui terreni pubblici (ager publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva
essere plebeo; la Lex Ogulnia (del 300 a.C.) dove i plebei ottennero l'accesso
alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia (del 287 a.C.) dove i verdetti delle
assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le persone; la Lex Aquilia
(del 286 a.C.), che poteva essere considerata come la fonte del moderno diritto
civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla cultura giuridica
europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma l'emergere di una
classe di professionisti giuristi[14] e della giurisprudenza. Questo venne
realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la filosofia
greca al soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come una
scienza. Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana sono
collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato, intorno all'anno 300
a.C., una serie di "modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico
da utilizzare in tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio,
queste formule sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro
pubblicazione rese così possibile, anche per chi non ricopriva cariche
sacerdotali, di esplorare il significato di questi testi di legge.
Diritto pre-classico (201-27 a.C.)Modifica Il periodo che successe dopo la fine
della seconda guerra punica fino all'avvento del principato (27 a.C.),[15]
corrisponde storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico[6][16].
Questo periodo coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande
numero di trattati, soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi
giuristi del periodo repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di
un voluminoso trattato su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande
influenza nelle epoche successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco
Tullio Cicerone. E benché Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto
evoluto, oltre a una raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne
rimpiazzata nel 27 a.C. dal principato. In questo periodo possiamo notare
lo sviluppo di leggi più flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In
aggiunta al vecchio e formale ius civile venne creata una nuova classe
giuridica: lo ius honorarium, che può essere definita come "la legge
introdotta dai magistrati che avevano il diritto di promulgare editti al fine
di sostenere, integrare o correggere la giurisprudenza esistente".[17] Con
questa nuova legge il vecchio formalismo venne abbandonato per i più flessibili
principi dello ius gentium. L'adattamento del diritto alle nuove esigenze
fu dedicata alla pratica giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i
pretori. Un pretore non era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una
nuova legge quando emetteva i suoi editti[18]. I risultati delle sue sentenze
godevano di tutela giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove
norme giuridiche. Il successore del precedente pretore non era vincolato dalle
disposizioni del suo predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute
negli editti del suo predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si
generò un modo costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per
editto.[20] Così, nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile,
che andava integrandosi e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi
pretorie. In realtà, la legge pretoria venne così definita dal celebre giurista
romano Papiniano: (LA) «Ius praetorium est quod praetores
introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia
propter utilitatem publicam» (IT) «Il diritto pretorio è una legge
introdotta da pretori per integrare o correggere il diritto civile per il bene
pubblico.» Alla fine, il diritto civile e il diritto pretorio si fusero
nel Corpus Iuris Civilis. Diritto classico (27 a.C. - 235 d.C.)Modifica I
primi duecentocinquant'anni da Augusto (27 a.C.), fino alla morte dell'imperatore
Alessandro Severo(235)[15] o comunque attorno alla metà della crisi del III
secolo,[6] corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo
momento storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il
momento più elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le
pratiche dei giuristi di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto
romano. I giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali:
su richiesta delle parti private; ai magistrati a cui era affidata
l'amministrazione della giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli
editti dei pretori, quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro
mandato, su come avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in
base alle quali vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi
vennero incaricati di occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e
amministrativi. I giuristi produssero, inoltre, tutta una serie di
commentari legali e trattati. Attorno al 130 il giurista Salvio Giuliano
redasse un modello standard di come doveva essere redatto un editto di un
pretore, che poi venne utilizzato da tutti i pretori da quel momento in poi.
Questo editto conteneva dettagliate descrizioni di tutti i casi, nei quali il
pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale e una difesa. L'editto
standard funzionava come un codice di legge completa, anche se formalmente non
aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti giuridici per un'azione legale
di successo. L'editto divenne pertanto la base per numerosi commentari
giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda come, Giulio Paolo e
Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti giuridici elaborati dai
giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo numerosi da menzionare
qui. Seguono quindi alcuni esempi: i giuristi romani separarono
chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto legale, dalla
possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso). Elaborarono anche la
distinzione tra contratto e colpa come fonti delle obbligazioni legali. I
contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione, appalto di servizi)
furono regolati nei più importanti codici continentali e le caratteristiche di
ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella giurisprudenza romana. Il
giurista classico Gaio (attorno al 160) creò un sistema di diritto privato
basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e actiones
(azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi:
basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di William
Blackstone, gli atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile
tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch). Diritto post-classico (235-565 d.C.) Modifica
L'ultimo periodo è quello denominato post-classico, iniziato con la morte di
Alessandro Severo (235) e segnò la fine del principato, dilaniato dalle guerre
civiliper la porpora imperiale e dalle continue invasioni dei barbari del nord
e delle armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di Giustiniano (565).[6][21]
In questo periodo le condizioni per il fiorire di una cultura giuridica
raffinata divennero meno favorevoli. La situazione politica ed economica
generale si era andata deteriorando, da quando gli imperatori romaniavevano
assunto un controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita politica. Il
sistema politico del principato, che aveva mantenuto alcune caratteristiche
della costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi nella monarchia
assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di giuristi che
considerassero il diritto come una scienza, non come mero strumento per
raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca assoluto, non si
adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria cessò quasi di
esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del III secolo.
Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto classico
finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in Oriente prese
piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi classiche e della
giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive, soprattutto grazie
all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base del diritto
medievale. Eredità del diritto romanoModifica In OrienteModifica Edizione
del Digesta (XVI secolo), parte del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano I.
Quando la centralità dell'Impero romano venne spostata a est della Grecia nel
IV secolo, apparvero nella legislazione ufficiale romana molti concetti legali
di origine greca.[22] Questa influenza risulta visibile perfino nel diritto
privato inerente ai rapporti tra persone e alla famiglia, che tradizionalmente
faceva parte del diritto che subiva minori cambiamenti. Per esempio Costantino
I cominciò a porre delle restrizioni all'antico concetto romano di patria
potestas, il potere detenuto dal padre nei confronti della famiglia e dei suoi
discendenti, riconoscendo che le persone in potestate, i discendenti, potevano
avere diritti di proprietà. Egli apparentemente fece delle concessioni al
concetto molto più severo di autorità paterna del diritto
greco-ellenistico.[22] Il Codex Theodosianus(del 438) era una codificazione
delle leggi di Costantino. Gli imperatori successivi andarono perfino oltre,
fino a quando Giustiniano I decretò che un fanciullo in potestate potesse
diventare proprietario di tutto ciò che avesse acquistato, con esclusione di
quanto veniva acquistato da suo padre.[22] L'opera giuridica di
Giustiniano, particolarmente il Corpus Iuris Civilis (529-534), continuò a
costituire la base della pratica legale dell'Impero bizantino. Leone III
Isaurico emise un nuovo codice, denominato Ecloga,[23] nell'VIII secolo. Nel IX
secolo, gli imperatori Basilio I il Macedone e Leone VI il
Saggiocommissionarono la traduzione in greco del Codice e del Digesto, parti
del codice di Giustiniano, conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto
romano preservato nel corpus legislativo di Giustiniano e nella
Basilicarimasero la base della giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa
ortodossa perfino dopo la fine dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi,
formando così la base per gran parte del Fetha Negest, che rimase in essere in
Etiopia fino al 1931. Reintroduzione in OccidenteModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regni romano-barbarici,
Diritto barbarico e Diritto medievale. In seguito alle invasioni barbariche,
come fonte principale del diritto, il diritto romano scomparve in gran parte
dell'Europa occidentale. Nel 533, l'imperatore d'Oriente Giustiniano I promulgò
il Corpus iuris civilis che in futuro sarebbe diventato la base per la
reintroduzione del Diritto romano nell'Occidente. Nel Corpus, Giustiniano fece
confluire tutte le antiche leggi di Roma cercando di armonizzarle con le nuove che
nel frattempo erano state promulgate. Il Codice di Giustiniano fu applicato nei
territori italiani sottoposti all'autorità di Bisanzio, ma le seguenti
invasioni barbariche le cancellarono dall'Occidente, riducendo il diritto
romano a mero diritto comune[24] In seguito, l'insistenza degli
imperatori romano-germanici di proclamarsi diretti successori dell'Impero
romano, in particolare della Dinastia ottoniana di Sassonia favorì, anche
grazie alle università, la reintroduzione del Diritto romano in Occidente,
andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli invasori
germanici.[25] Nel Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per
volontà dell'imperatore Federico II con le due assise di Capua e Messina
(1220-1221).[26] A partire dalla metà del XVI secolo, il diritto romano
venne riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi europei. Un sistema
giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con elementi di Diritto
canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto feudale, divenne
comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius commune, termine
che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come civil law.
Diritto romano e tutela dei monumentiModifica La protezione delle opere
pubbliche e delle principali opere d'arte come anche, più in generale,
dell'intera consistenza cittadina[27] era disciplinata da un insieme organico
di statuti, leggi, costituzioni e provvedimenti risalenti già alla prima età
repubblicana.[28] Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche
pubbliche che sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici[29],
regolando e inserendo in un sistema altamente efficiente una realtà in
precedenza già presente, seppur in forma embrionale, anche nel mondo
greco.[30] Le tracce di come un tanto imponente sistema si sia trasmesso
sino ai giorni nostri, influenzando la nascita delle prime moderne forme di
protezione dei monumenti pubblici, sono fin troppo evidenti. Si pensi, per
esempio, all'istituzione dei magistri aedificiorum et stratarum voluti, nella
Roma del Quattrocento, da papa Martino V.[31] Diritto romano oggiModifica
Oggi, il diritto romano non è più applicato nella giurisprudenza moderna, anche
se negli ordinamenti giuridici di alcuni Stati come il Sudafrica e San Marinoalcune
parti si basano ancora sullo ius commune. Tuttavia, anche se la giurisprudenza
si basa su un codice, si applicano molte regole derivanti dal diritto romano:
nessun codice ha completamente rotto i collegamenti con la tradizione romana.
Piuttosto, le disposizioni del diritto romano sono state create su misura in un
sistema più coerente, espresso nella lingua nazionale di molti Stati. Per
questa ragione, la conoscenza del diritto romano è indispensabile per capire i
sistemi giuridici contemporanei. Il diritto romano risulta spesso un argomento
obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie giurisdizioni di diritto
civile. Come passo fondamentale verso l'unificazione del diritto privato
negli Stati membri dell'Unione europea, viene così adottato il vecchio Ius
Commune, che era la base comune della pratica legale in tutto il mondo,
permettendo poi molte varianti locali, ed è sentito da molti come un modello
basilare. Divisioni interne al diritto romanoModifica Il diritto romano
si suddivide in: ius Quiritium (deriva da "Quirites", sinonimo
di "Romani"), costituito da un insieme di consuetudini ancestrali,
non scritte, talmente remote che i Romani stessi non ne conoscevano l'origine.
Riguardava gli ambiti di diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e
proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non
esistevano. Costituisce il nucleo più arcaico del ius civile. ius civile, era
l'insieme delle norme che regolano i rapporti tra i cives romani, considerato
nell'ottica romana come orgogliosa prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso
il giurista romano Papiniano dà la seguente definizione tramandataci dal
Digesto giustinianeo: (LA) «Ius autem civile est quod ex legibus, plebis
scitis, senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium
venit.» (IT) «Il ius civile è il diritto che promana dalle leggi,
dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi
dei giurisperiti.» (Digesto, 1.1.7) ius gentium, l'insieme di tutti gli
istituti che trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche
presso altri popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da
Cicerone, si trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però,
non essendo filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando
la natura[32] come atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali.[33]
Ciò accadde specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché
stabilisce che "Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a
tutti gli esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della
femmina, che noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei
figli. [...] Vediamo infatti che anche gli altri animali, perfino quelli
selvaggi, conoscono e praticano questo diritto»[34]. Questo passo di Ulpiano
sarà inserito nel Digesto giustinianeo (D. 1, 1, 1, 3) e insieme con l'intero
Corpus iuris civilis costituirà oggetto di studio per le scuole giuridiche
medievali.[33][35] Gaio propende per una bipartizione del diritto, cioè che il
diritto si divida in ius civile, creazione artificiale della civitas, e in ius
gentium o ius naturale, diritto comune ai popoli e che trova la sua ragion
d'essere nella naturalis ratio, cioè in una ragione naturale, dunque ritenuto
anche eticamente migliore poiché ispirato dalla natura: in questa visione la
schiavitù è considerata come una situazione naturale già predisposta dalla
stessa natura; Ulpiano propende per una tripartizione del diritto; come Gaio,
pensa che lo ius civile sia creazione artificiale, ma va oltre affermando che
il ius gentium riguarda un regolamento per i soli uomini, mentre lo ius
naturale sarebbe quello di tutte le creature viventi: in questo caso la
condizione di schiavo viene vista come una condizione predisposta dal diritto e
non riconducibile alla condizione naturale dell'uomo. ius honorarium (o ius
praetorium), che riguarda le situazioni di diritto o di fatto che, pur non
trovando tutela nelle norme dello ius civile, sono state regolamentate dall'attività
giurisdizionale dei magistrati dotati di iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel
medesimo brano in cui definisce il ius civile, racchiude il concetto di ius
honorarium, che egli chiama ius praetorium, nelle seguenti parole: (LA)
«Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel
corrigendi gratia propter utilitatem publicam; quod et honorarium dicitur ab
honore praetorum.» (IT) «Il ius pretorium è il diritto introdotto
dai praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo ius civileper la
pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato honorariumdall'onore dei
pretori.» Ius legitimum, il cui nome deriva da lex è il diritto prodotto
in sede assembleare attraverso la votazione e approvazione di una legge comiziale;
lo ius legitimum ha particolare vita in età repubblicana e fiorisce
particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo la sua morte e la
trasformazione dello Stato in impero; con il venir meno delle assemblee a
favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio imperiale del
potere la lex perde il suo carattere di comizialità e viene a identificarsi con
la definizione di norme da parte dell'imperatore stesso, nella forma della
"costituzione imperiale". Da questo momento lo ius legitimum si estingue,
confluendo nello ius civile. Durante la repubblica le principali assemblee
produttrici di ius legitimum erano i comitia centuriata e i concilia plebis, in
minore parte le altre assemblee. NoteModifica ^ Eneo Domizio Ulpiano,
Digesto1.1.10 principio. ^ Ad esempio stare decisis, culpa in contrahendoo in
pacta sunt servanda. ^ In Germania, Art. 311 BGB. ^ Valacchia, Moldova e alcune
altre province medievali. ^ a b Secondo Pietro De Francisci (Sintesi storica
del diritto romano, p.15) la prima fase, denominata del diritto
"primitivo", iniziava con la fondazione di Roma e terminava con la
fine della seconda guerra punica. ^ a b c d e f Biondo Biondi, Istituzioni di
diritto romano, p.5. ^ Ius civile Quiritium. ^ Come ad esempio la pratica
rituale della mancipatio, una forma di vendita. ^ "Roman Law", in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company, New York, 1913. ^ Jenő Szmodis,
The Reality of the Law—From the Etruscan Religion to the Postmodern Theories of
Law, Ed. Kairosz, Budapest, 2005. [1]. ^ a b c d e f g Olga Tellegen-Couperus,
A Short History of Roman Law, pp. 19–20. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri. ^
Decemviri legibus scribundis. ^ Pudentes, sing. prudens, o jurisprudentes. ^ a
b Pietro De Francisci, Sintesi storica del diritto romano, p.16. ^ Invece
Biondo Biondi lo accorpa in un unico periodo con il precedente e lo chiama
"repubblicano". ^ Adolf Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law,
in The American Philosophical Society, 1953, p 529. ^ Magistratuum edicta. ^
Actionem dare. ^ Edictum traslatitium. ^ Pietro De Francisci, Sintesi storica
del diritto romano, p.17. ^ a b c Olga Tellegen-Couperus & Tellegen-Couper,
A Short History of Roman Law. ^ ( EN ) Ecloga | Byzantine law | Britannica, su
www.britannica.com. URL consultato il 27 febbraio 2022. ^ Franco Cardini e
Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia,
2006, p. 97 "È questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale
Giustiniano dettò le sue nuove leggi preoccupandosi però di armonizzarle
coerentemente con quelle antiche. Tale monumento alla sapienza giuridica di
Roma sarebbe stato alla base della rinascita degli studi giuridici e delle
istituzioni politiche della stessa Europa; e costituisce ancora oggi il
fondamento sul quale si appoggiano i sistemi giuridici di gran parte dei paesi
del mondo." ^ Franco Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale,
Firenze, Le Monnier Università/Storia, 2006, p. 179 "La pretesa di questi
re di atteggiarsi a imperatori romani non fu priva di risultati anche importanti:
essa fu ad esempio uno dei motivi per cui, a partire dalla metà del XII secolo,
il diritto romano rientrò nell'Europa occidentale e -anche grazie al lavoro che
fu allora espletato nelle università- s'impose come nuovo diritto sostituendosi
in tutto o in massima parte alle precedenti tradizioni giuridiche ereditate dai
germani delle invasioni." ^ Franco Cardini e Marina Montesano, Storia
Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, 2006, pag. 285
"Introdusse il diritto romano, fondò l'Università di Napoli (1224) per
disporre di un ceto di funzionari fedeli istruiti all'interno dei confini
(altrimenti i suoi sudditi avrebbero dovuto andare fino a Bologna per studiare)
e favorì lo "Studio" medico di Salerno." ^ Incluse tutte le
proprietà private. ^ V. Alessandro Pergoli Campanelli, L'antefatto: leggi e
norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", NS, 68, 2013, pp.
73-83. ^ I curatores viarum, operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^
Platone, nel VI capitolo delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati
chiamati astynomi, storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene
1902) dediti alla cura e alla riparazione dei luoghi pubblici. ^ Con la bolla
Etsi in cunctarum del 1425. ^ Che per gli Stoici era permeata dalla ragione
divina. ^ a b G. Fassò, p. 24. ^ G. Fassò, p. 25, nota 5: «Digesto, 1, 1, 1,
3». ^ G. Fassò, p. 25. BibliografiaModifica Fonti primarie giuridiche La
ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul ritrovamento
di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un elenco
(certamente non esaustivo) delle principali fonti di produzione del diritto
romano che ci sono pervenute: Augusto, Res gestae divi Augusti (opera
divisa in sei tabulae). Marco Tullio Cicerone, De legibus, libri I-III Wikisource-logo.svg.
Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano Imperatoris Theodosiani Codex
Wikisource-logo.svg; il contraltare alla codificazione Giustinianea, in sedici
libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra cui il Liber Legum
Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones Sirmondianae: raccolta di 16
costituzioni imperiali, che disciplinano materie ecclesiastiche; presero il
nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond (1631). Emanate fra il 333 e il
425, non furono tutte accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale
vennero pubblicate da Theodor Mommsen. Corpus Inscriptionum Latinarum [2].
Decretum Gelasianum, fonte di diritto canonico, più che di diritto romano (da
The Latin Library); Editto di Costantino e Licinio (del 311-313) Wikisource-logo.svg.
Edictum Theodorici Regis: l'Editto di Teodorico pubblicato nel 500, diviso in
154 articoli, era un codice "territoriale", cioè conteneva
disposizioni valide sia per i Romani che per gli Ostrogoti. Ciascuno degli
articoli era ricavato da un testo delle leges o degli iura, soprattutto dai
codices, dalle Sententiae di Paolo ecc. Vi sono anche alcune norme nuove, di
incerta origine (non si sa se di origine ostrogota oppure derivate dalla
pratica). Fontes Iuris Romani Anteiustiniani in usum scholarum, divise in 7
libri (due sulle Leges, due sugli Auctores, e 3 sui Negotia). Fragmenta
Vaticana Fragmenta Vaticana, frammenti di un'ampia compilazione privata di
costituzioni imperiali e di passi desunti dalle opere di Papiniano, Ulpiano e
Paolo. Il palinsesto fu scoperto nel 1821 dal cardinale Mai nella Biblioteca
Vaticana. Le costituzioni imperiali ivi riportate vanno dal 205 al 369 o al
372. Giustiniano I, Corpus iuris civilis, composto da: Imperatoris Iustiniani
Institutiones, (versione latina) Wikisource-logo.svg; opera didattica in 4
libri destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini Nostri Sacratissimi
Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure Collecti Digestorum
seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in 50 libri di frammenti estrapolati
(non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più eminenti giuristi della
storia di Roma (testo latino); Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani
Codex, libri I-XII, testo latino (raccolta di costituzioni imperiali da Adriano
allo stesso Giustiniano); Novellae Constitutiones - costituzioni emanate da
Giustiniano dopo la pubblicazione del Codex, fino alla sua morte. Istituzioni
di Gaio (Gai Institutionum). Leggi delle XII tavole (Duodecim Tabularum Leges).
Lex Romana Burgundionum, scritta all'inizio del VI secolo, è articolata in 47
titoli e la si attribuisce a Gundobado, re dei Burgundi (Gallia Orientale). È
destinata ai soli sudditi romani del regno dei Burgundi. Sententiae Pauli: i
cinque titoli delle Sententiae receptae Pavlo tributae e i cinque libri delle
Pavli sententiarvm interpretatio. Senatus consultum de Bacchanalibus, risalente
al 186 a.C.; Ulpiano, Titvli ex corpore Ulpiani, libri 1-29 (opera piuttosto
elementare, destinata soprattutto all'insegnamento del diritto, contenuta in un
manoscritto della Biblioteca Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si
tratta di una compilazione post-classica, con molta probabilità dell'epoca di
Diocleziano o Costantino di passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di
Ulpiano). Storiografia moderna Dario Annunziata, Temi e problemi della
giurisprudenza severiana. Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Editoriale
Scientifica, Napoli, 2019. Vincenzo Arangio Ruiz, Storia del diritto romano,
Jovene, 1937. Vincenzo Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene,
1957. Biondo Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré, Milano 1972.
Alberto Burdese, Manuale di Diritto Privato Romano, Utet giuridica, 1964.
Alberto Burdese, Manuale di Diritto Pubblico Romano, Utet giuridica, 1966. Felice
Costabile, Storia del diritto pubblico romano, Iriti, 3ª edizione, 2012. Pietro
De Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Roma 1968. Salvatore Di
Marzo, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano, 1938. Salvatore Di
Marzo, Manuale elementare di diritto romano, Utet, Torino 1954. Matteo Marrone,
Istituzioni di diritto romano, G.B. Palumbo, 2006. Cesare Sanfilippo.
Istituzioni di diritto romano, Rubbettino, 2002. Aldo Schiavone, Ius:
l'invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005. ISBN
88-06-16893-2. Voci correlateModifica International roman law moot court
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Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Digitalizzazione completa del Corpus
Iuris Civilis: Lion, Hugues de la Porte, 1558-1560. Corpus iuris civilis, su
thelatinlibrary.com. The Roman Law Library (Yves Lassard, Alexandr Koptev)
Dizionario Storico del Diritto Romano SimoneDiritto e Storia del Diritto Romano
Otto Vervaart, Rechtshistorieː A gateway to legal history - Roman Law, su
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voluta dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I Digesto Compilazione di
frammenti derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I.
Basilika Wikipedia Il contenutoIl conte Sergio Cotta. Keywords:
l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima ferita narcissista, Filangieri,
giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il normato, Latin ‘normare’ – not
recognized in Dizionario etimologico – il giurato d’entrambi – il concordato
d’entrambi – fenomenologia – Roma citta – polis, politea, res publica –
pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotta” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51632110209/in/photolist-2mEy4wH-JPArAv-Zfi6xa-G8sBRD-G8ngaQ-G8ngbb-G8sCc8-FeZdU7-FKjBVw-FeZ7vW-G4yqy8-G4yjkg-G882Af-FKjB53-G886pN-G87Rb7-Gaqcai-FeZhzo-G4xwgx-Ffb7VF-FeXV8h-FKiTAG-G2gBt1-FKizHN-DMJ5kq-DTJ6Cy-DtW7ZW-CYDsFv-DTHDe1-DMLpjH-DMMWH2-DW3r8g-CYvvjy-CYDsVt-DtW3Mh-CYx7hC-DMNkfr-DW1RXk-CYDv8z-CYDWFZ-DtWvaC-CYwY2j-CYwYU1-CYx6eW-CNheVt-B4RdHR-B2BAa9-A6WGqH-Dcd6e3-Dcd9v3
Grice e Credaro – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sondrio).
Filosofo. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the universities! I
especially love the way he connects it all, in that uniquely Italian way, with
the ‘assoluto’!” Si laurea a Pavia, dove
fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante di liceo. Wi recò a
Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto Wundt. Insegna a
Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia nei governi Luzzatti
e Giolitti IV -- istituì il Liceo
moderno. Relatore nella presentazione della Legge che istitutiva dei Corsi di
perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche, di durata biennale, di
preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la direzione didattica delle
scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-Credaro, che stabiliva che lo stipendio
dei maestri delle scuole elementari fosse a carico del bilancio dello Stato, e
non più dei Comuni, contribuendo così in maniera determinante all'eliminazione
dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa legge, infatti, i comuni di
campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non erano in grado di istituire e
mantenere scuole elementari e pertanto rendevano di fatto inapplicata la legge
Coppino sull'obbligo scolastico. Si
interessa attivamente dei problemi agricoli e forestali di Sondrio. Autore di
numerosi saggi, in particolare sui Kant eHerbart. Commissario Generale Civile della Venezia
Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere
fannesso all'Italia. In tale veste tentò una politica particolarmente conciliante
verso la minoranza di lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento
amministrativo de-centrato della regione. In seguito, anche a causa delle
pressioni dei nazionalisti, la sua politica nei confronti della minoranza di
lingua tedesca si fece più intransigente. Testimonianza ne è la cosiddetta Lex
Corbino,elaborata da Credaro, sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove
province che è considerata da una parte della storiografia strumento per
potenziare la presenza italiana soprattutto nel territorio misti-lingue della
regione a danno della minoranza tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una
squadra d'azione fascista che lo costrinse alle dimissioni per far luogo
all'insediamento di un prefetto di Trento. Termina quindi la sua carriera politica
in disparte rispetto al regime che si andava consolidando. Altre opere: “Lo
scetticismo degli platonisti (Roma, Tip. alle Terme Diocleziane); La libertà di
volere (Milano, Tip. Bernardoni); G. F. Herbart, Torino, Paravia),
“Razionalismo trascendente in Italia” Catania, Battiato); Wundt (Milano,
Società Anonima Editrice Dante Alighieri). Andrea Di Michele,
L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra
Italia liberale e fascismo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, Analfabetismo, Dizionario
biografico degli italiani, Credaro un italiano d'altri tempi articolo di Sergio
Romano, Corriere della Sera, Sondrio. Se il nome di Carneade non è completamente ignorato dalle
persone colte, che non si occupano di storia della filosofia, si deve alla parte
giuridica del suo pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da
pochi frammenti della famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto
dello giusto tenuta a Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha presi
dal trattato della repubblica di Cicerone. Questa orazione alla Trasimaco
*contro* la coerenza del concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum,
giurato cf. Cicero jusjuratum --, che fa epoca nella storia della cultura del
popolo romano, non deve essere considerata solamente un episodio della vita di
Carneade, una semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione
sugli animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre
vedute di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine
bisogna anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato
(Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che
tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e
Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito
avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la
battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per
desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro
scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono
un corso di conferenze (A. Gell. Noct. Att. VI, 14, 8-10. Macrob. Saturn., 5, I,
p.147-150). É probabile che tutti e tre filosofi – Carneade accademico,
Critolao peripatetico del liceo – e Diogene stoico -- abbiano scelto
l'argomento delle loro orazioni dalla filosofia pratica, come quella che interessa
vivamente i loro ospiti, tutti dati alle armi, agli affari, alla politica,
all'amministrazione; anzi e le cito supporre che ciascuno abbia esposte le idee
della sua scuola – l’accademia, il liceo, e la stoa -- intorno al “giurato” –
Cicerone iusiuratum, il principio o imperativo più importante della vita
pubblica e privata. Il soggetto del giurato – Cicerone, iusiuratum – dove
soddisfare pienamente le esigenze e i desideri dell'uditorio, poichè i romani,
a ragione o a torto, si credeno gli uomini più giusti (giuratura, iusiuraturus)
e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum) attribuivano la grandezza, alla
quale era pervenuta la propria patria. In questa ipotesi lo stoico Diogene, con
parola modesta e sobria, come attesta Polibio, che ebbe opportunità di
ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo morale e il cosmo-politismo della sua
setta. L'anima di tutti gli uomini è uguale; e come tutte le cose uguali si
attraggono, cosi anche gli esseri razionali; per ciò l'istinto della società è
insito nella stessa ragione, la quale insegna a ciascuno di noi che esiste una
sola città, un solo stato, la grande società umana; ciascuno si sente parte
integrante di questo immenso organismo governato da una sola legge (ius) e da
un solo diritto, la retta ragione (ius). Questa legge (ius) conforme alla
natura si fa sentire in tutti, immutabile, sempiterna, divina; invita col
comando al dovere, col divieto allontana dalla frode. È suprema, assoluta; non
è lecito crearne altre contrarie, nè abrogarla totalmente o parzialmente; non
voto di popolo, non decreto di senato possono dispensare dall'ubbidirla;
nessuno ha bisogno d'interprete per comprenderla; è la medesima in Atene e in
Roma, oggi e domani e sempre; l'inventore e il promulgatore di essa è uno solo,
il maestro e il comandante di tutti, Dio. Chi non vi obbedisce, va contro la
natura e per questo fatto solo soffrirà tutte le pene. L'uomo pensa e opera moralmente
(mos: costume) solo in quanto conformasi a questa unica legge; e poichè questa
è la medesima in tutti gli uomini, tutti debbono tendere allo stesso scopo, al
bene universale. Il uomo non deve vivere per sè, ma per l'umanità; l'interesse
personale deve essere asso lutarnente subordinato a quello umano (1) Cic., de
fin. III, 64; de rep; III, 33; Plut., de comm. notit. XXXIV, 6. Zeller, p. 285
e 8). In questo stato politico ed etico regna perfetta concordia ed armonia. Tutti
i cittadini hanno vivo il sentimento dell'ordine, coltivano la virtù e
reprimono gli appetiti irrazionali, che sono la causa dell’inimicizia e della
guerra (bellum, polemos). Sono sottomessi alla volontà divina, al fato, alla
serie universale e interminabile delle cause e degli effetti. I doveri
fondamentali sono il giurato (iusiuratum), in qua virtutis splendor est
maximus, e la benevolenza e la beneficenza.Questedue virtù sono le basi della
società civile (Cic., de fin. III, 67). Intorno ad esse Diogene puo parlare a
lungo ai Romani, perchè nella Stoa e stato soggetto di molte dispute e di scritti.
Il suo tutore Crisippo gli aveva insegnato in proposito una dottrina propria. Tutti
gli altri esseri sono nati per il bene degli uomini e degli dei, due uomini per
formare una popolazione, una società, una comunanza, una communita, un comune;
è inerente alla natura che tra l'uomo e il genere umano, come tra parte e
tutto, interceda un diritto naturale. Colui che lo osserva è giusto (promuove
il giurato – iusiurato); ingiusto chi lo trasgredisce. Tra il diritto pubblico
e quello privato non avvi opposizione (Cic., de fin. III, 67). Un uomo non si
trova in rapporti giuridici con una bestia, ma solo con suo simile. Affinchè si
realizzi il regno del giurato (iusiuratum) e della moralità occorre che la
perfetta ragione sia presente in tutti. La ragione invece si trova solamente
nel sapiente; si formarono quindi gli stati singoli, che tengono divisa
l'umanità. Come gli stati, così le istituzioni che li governano sono effetto di
errore e stoltezza: quali l’istituzione del matrimonio, l’istituzione della famiglia,
l’istituzione della proprietà, l’istituzione dela moneta, l’istituzione del
ribunale, l’istituzione del ginnasio (Diog. L. VII, 33 e 131). Stato conforme
alla natura umana, con istituzioni veramente buone, non esiste. Edotto di
questo idealismo politico, puo sul Campidoglio il pretore romano A. Albino,
uomo erudito e versato nella lingua greca, dire per ischerzo volgendosi a
Carneade. “A te, Carneade, non sembra io sia un pretore, nè questa una città,
nè in essa abitino cittadini). A cui Carneade, che subito capisce di essere stato
preso per il collega della Stoa. “A questo stoico non sembra cosi.” I filosofi
ateniesi non lasciano di contendere neppure in paese straniero; o certo
Carneade e stato assai lieto di osservare che al senso pratico dei romani la
dottrina de' suoi avversari si presenta come assolutamente *ridicola*; e
tornato in patria, credette il fatto degno di essere raccontato a' suoi
discepoli (L'aneddoto è ricordato da Clitomaco. Cic., Ac. II, 137). Sogliono
gli storici narrarci che Carneade tenne a Roma *due* discorsi ispirati a scopo
opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza del diritto naturale e loda la
giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike – cf. lex). Il secondo giorno
sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità, all’audacia e alla
sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di difendere contraddizione si
anorme. Anche non tenendo conto che, se si applicasse questo criterio, tutta la
filosofia dei accademici sarebbe un' immoralità, perchè il loro metodo e di
difendere in ogni quistione le soluziori opposte. Idue discorsi (tesi ed
antitesi, positio e contra-positio, posizione e contra-posizione), tenuti in
giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la sintesi, o com-posizione) e si
propongano il medesimo fine: mostrare la falsità della dottrina della tesi di
Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in questa parte della filosofia,
molto più che in altre, sono dipendenti da Platone e da Aristotele, bisogna
prendere le mosse da questi. Leggiamo in Lattanzio. Carneades autem, ut Aristotelem
refelleret ac Platonem, justitiae patronos, prima illa disputatione collegit ea
omnia, quae pro justitia dicebantur, ut posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades,
quoniam erant infirma, quæ a philosophis adserebantur, sumsit audaciam
refellendi, quia refelli posse intellexit (Lattanzio, Instit. div. V, 14; V,
17. 2-4.). E al trove. Nec immerito extitit Carneades, homo summo ingenio et
acumine, qui refelleret istorum (Platone e Aristotele ) orationem et iustitiam,
quæ fundamentum stabile non habebat, everteret, non quia vituperandam esse
iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius ostenderet nihil certi, nihil
firmi de iustitia disputare (Ibid. Epit. 55, 5-8). Di qui è evidente che la
prima orazione non era che un esordio, un'introduzione, uno sguardo storico
alla questione, un'esposizione delle idee accettate da Diogene, che Carneade
s'appresta a confutare nel vegnente giorno (Cic., de rep. III, 12);
confutazione, la quale non aveva per iscopo di vituperare la giustizia in sé,
ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria dommatica – il
domma.Non è la virtù stoica, che Carneade demole, ma il sapere. Su questo si dovrà
tornare più innanzi. E caso a noi pervennero frammenti solamente della seconda
orazione. Questa sola offriva una filosofia nuova, dava una scossa inaspettata
e forte all'intelligenza dei romani. Perciò eam disputationem, qua iustitia
evertitur, apud Ciceronem L. Furius recordatur (Lattanzio, Instit. dio. I. c.).
E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo singolare di scorso nelle sue
linee generali. Per Carneade, non esiste una giustizia (giurato – iusiurato) naturale
nè verso due uomini. Se esso esistesse le medesimecose sarebbero giurate
(iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive, morali o immorali, per ogni
uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le amare. Invece chi conosce
il mondo e la storia, sa che regna una grandissima diversità di apprezzamenti
morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano e il popolo sabino, da
Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gli
etoli reputano cosa onesta il brigantaggio. I Lacedemoni dichiarano loro
proprietà tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gli Ateniesi
solevano annunciare pubblicamente che loro apparteneva ogni terra che
producesse olive e biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi
il frumento col lavoro, invece che colle armi. I romani vietano ai Transalpini
la coltivazione dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro
prodotti e dar a questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno
una storia di moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni
genere. I semitici Persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i
tempii, persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione
tutto il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro
manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli
Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai
accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa
il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o
alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere?
Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana,
costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste
variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un
uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (ius) è una
invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto
che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a
questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’,
attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio
fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non
isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata
appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle
mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera,
per istinto di natura, gli animali e le altre nazione come istrumenti della
propria conservazione e felicità (Cic., de rep. III, 12-21). La storia insegna
che ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi
altrui, ma unicamente ai proprii. Voi stessi o Romani, disse Carneade parlando
a un Scipione Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a
Lelio il saggio, al letterato Furio Filo, a Scevola il futuro giureconsult,
all'erudito Sulpicio Gallo, algrande oratore Galba, al vecchio Catone,
l'implacabile nemico di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla
presenza dei colti ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande
storico e generale Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del
mondo colla giustizia. Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agli
altri, ritornate alle vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il
criterio direttivo della vostra vita non e il
giurato (iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara;
poichè voi, coll'intimare la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie*
sotto un pretesto di legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per
venuti al possesso di tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che
avesse potuto produrre negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori
della loro grandezza politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri
esempi, che sono celebri e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota
risposta data dal pirata catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve
tratto di mare con una sola fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o
Alessandro, infesti tutto il mondo con grande esercito e flotta. Il
patriottismo, questa virtù somma e perfetta, che suole essere portata fino al
cielo colle lodi, è la negazione del giurato (iusiuratum), perchè si alimenta
della discordia seminata tra gli uomini e consiste nell'aumentare la prosperità
del proprio paese, naturalmente a danno di un altro, coll’nvadere violentemente
il territorio altrui, estendere il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è
colui che acquista dei beni alla patria colla distruzione di altre città e
nazioni, colma l'erario di denaro, rese più ricchi i concittadini. E, quel che
è peggio, non solo il popolo e la classe incolta, ma eziandio i filosofi
esortano e incoraggiano a commettere cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità
non manca neppure l'autorità della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia,
che invano si tentano di nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno
diritto di vita e di morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire
per volontà divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta, o per
potenza, hanno nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una
setta. Ma i membri prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il
sopravvento nel maneggio dei pubblici affari, la forma di governo si chiama
libertà; ma è licenza. Ma poichè gli uomini si temono l'un l'altro, e una
classe ha paura dell'altra, interviene una specie di *patto* o contratto fra
popolo e potenti e si costituisce una forma mista di governo, dove la giustizia
è un effetto non di natura o di volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che
cosi avvenga. Se l'uomo deve scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria*
e non riceverne; e farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima
la prima, perchè soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona
quiete e sicurezza; ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad
essere continuamente in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”.
Adunque alla Hobbes lo stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta
(uomo uominis lupo), la guerra, la discordia, la rapina, la violenza, l'inganno,
in una parola, la negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù
che si esercita per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene,
come vedemmo, considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove
notare che l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de'
suoi avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non
si acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre,
le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la
distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati
nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle
rapine i tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità
nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i
trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma
ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente
colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è
prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene
osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale
dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la
critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente
tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo
quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha
chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione
teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie
utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza
politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria,
estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove
sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza
danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare
tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il
suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la
felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai
l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo
attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al
sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali
di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione
del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la
propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il
popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da
sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di
nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi
o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con
la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato
(iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il
sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi
negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque
mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine
della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un
individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche
desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo
l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della
gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa
guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum --
anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione
e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui
non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita.
Credeno, i Romani pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente
negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione
tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum)
(Cic., de fin. II, 59). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’
dimostra egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che
sa difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli
altri. Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari
e appropriati alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno
schiavo, che ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce
questi difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista fama di uomo onesto, perchè non inganna,
maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se
no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè
inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o
argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo
sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a
maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio,
sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai,
dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se
parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep. III, 34). Dunque qui pure si
presenta la contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente, è ingiusto.
Ma in questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di
vantaggi più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice
della povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe
più spiccato. Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare,
vede un altro più debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che
vale a sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e
si pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi
furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi
al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in
sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a
qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma
stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo. Cosicchè il giure naturale, la giustizia
naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta
d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il
giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un fatto
che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo -- principio
che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere quanto esteso
fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi una grande
forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il difensore
del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi opposta,
perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso schiavo,
il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e viene
meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo, l'anima
al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il conquistatore
tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto perchè e peggiore
di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci credere che egli risolve
il rimorso nella paura della pena, negando che fosse un sentimento più profondo
e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi il malvagio sarebbe
semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic. de leg. I, 40 e s.). In
conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del diritto è
l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che
ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per distinguere il giurato
dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è
l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la
quale non deriva da un imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come
provano la loro varietà e il dissenso degli uomini (Cic., de leg. I, 42
e s). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve
attribuire un significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione
colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo proclamato
da Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è una dottrina *precettiva*,
alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e l'esposizione di un fatto
psicologico e sociale – come il principio cooperativo di Grice. Carneade non
pare credere all'effetto pratico della morale normativa e si limita ad
analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza, prudential, il
quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal realizzare il precetto
dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal proporne del proprio
precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta all'osservazione
quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più alta e sforzano a credere
o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro:
swear to a binding formula. NA Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wilhelm Wundt
Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag Wundt 1932. Last changed 2016-02-25 NA
Wundt/III/1001-1100/1098/461-462. Estate Wilhelm Wundt Brief von Luigi Credaro
an Wilhelm Wundt Last changed 2016-01-13. Ricerca Sofistica Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Illuminismo greco"
rimanda qui. Se stai cercando il movimento culturale greco del XVIII secolo,
vedi Nuovo illuminismo greco. La sofistica (in greco σοφιστική τέχνη, sofistiké
téchne) è stata una corrente filosofica[1] sviluppatasi nell'antica Grecia, ad
Atene in particolare, a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quale,
in polemica con la scuola eleatica e avvalendosi del metodo dialettico di
Zenone di Elea,[2] pose al centro della propria riflessione l'uomo e le
problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non si
trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu
estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto
sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si
interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni differenti
e a volte tra loro contrastanti.[3] L'Acropoli e l'agorà di Atene:
qui fiorì la sofistica I sofisti rinunciarono alla vastità delle congetture
cosmologiche dei filosofi naturalisti, concentrandosi sulla soggettività
dell'uomo, sulla legittimità delle opinioni e il valore dei fenomeni.
L'approccio dei sofisti era quindi orientato all'individualismo e al
relativismo, alla critica dei valori tradizionali, al razionalismo. I
contemporanei avvertirono in queste posizioni il rischio di derive ateistiche e
di corruzione dei costumi. Certa storiografia moderna ha invece evocato l'idea
di un illuminismo greco.[4] EtimologiaModifica Anticamente il termine
σοφιστής (sophistés, sapiente[5]) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si
riferiva ad un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di
un'ampia cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti»
quegli intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano
dietro compenso:[6] quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva
scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il
termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come
ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere alcun
sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e ai
soldi, più che alla verità.[7] Il termine mantiene anche nel linguaggio
corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli
basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. Solo a partire dal
XIX secolo la sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un
momento fondamentale della filosofia antica.[8] Contesto
storico-culturaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Pentecontaetiae Guerra del Peloponneso. Veduta dell’Acropoli
di Atene Lo sviluppo della sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori
culturali, economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a
Salamina nel 480 a.C. le poleis greche affermarono la propria autonomia, e la
loro potenza si ampliò progressivamente nel corso dei successivi cinquant'anni
di pace (la cosiddetta Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte
furono le città rivali, ovvero Sparta e Atene: la prima espanse la propria
influenza su quasi tutto il Peloponneso attraverso un'ampia rete di alleanze,
mentre Atene, membro di primo piano della Lega delio-attica, con l'avvento di
Pericle finì con l'assumerne il comando. Con il potere politico ed economico
crebbe però anche l'ostilità tra le due città, e il desiderio di supremazia
sull'intera Grecia portò al disastro della Guerra del Peloponneso (431-404
a.C.). Pericle Pericle, leader carismatico della fazione
democratica, governò Atene per circa un trentennio, dal 461 al 429 a.C.,
portando la città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro
della Lega delio-attica da Deload Atene, e trasformò il volto della città con
un imponente piano di riforma architettonica (simbolo del potere dell'epoca
sono gli edifici dell'Acropoli: il Partenone, l'Eretteo, i Propilei); inoltre,
si intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi
commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l'affermarsi
della sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di
spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi
con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura
i confini dell'Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco
delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo eticoche
riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della
città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata
si riduceva all'insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai
cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona
fama. Tuttavia, bisogna considerare che non erano considerati “cittadini” le
donne, gli stranieri (meteci) e gli schiavi.[9] L'età di Pericle fu
dunque al tempo stesso l'età dello splendore e della crisi della polis, poiché
coincise con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono
protagonisti; come scrive Mario Untersteiner, la sofistica è «l'espressione
naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e
perciò tragica, sia la realtà».[10] Il primo interesse dei sofisti è la rottura
con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole
basate sulla forza dell'autorità e del mito (e per questo motivo sono talvolta
guardati come "precursori dell'Illuminismo"), a cui veniva
contrapposta una morale flessibile, basata sulla retorica. D'altra parte, la
stessa retorica che essi insegnavano aveva un'enorme importanza per la vita
civile nel regime democratico dell'epoca, il quale riconosceva a tutti i
cittadini l'uguaglianza giuridica (isonomia) e la libertà di parola durante
l'assemblea pubblica (parresia). Il tramonto dell'aristocrazia segnò il
tramonto di una mentalità, di un'epoca con le sue aspirazioni eroiche. Le
eroiche lotte sostenute contro i Persiani, le nuove leggi e le nuove
costituzioni crearono un grande senso di fiducia in se stessi. Nel pensiero dei
sofisti si rispecchiano le esigenze delle àlacri classi borghesi, l'arrivismo
degli uomini nuovi, l'irriverenza verso le tradizioni sacre ed il beffardo
disprezzo del passato, le violente lotte fra città e città, la corsa sfrenata
alle cariche politiche.[11] I sofistiModifica Salvator Rosa,
Protagora e Democrito I sofisti erano considerati maestri di virtù che si
facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi furono
aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Platone e Aristotele,
ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura».[12]
Ironicamente, i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di
cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma
come "metodo di formazione" di un individuo nell'ambito di un popolo
o di un contesto sociale.[13]. Essi riscossero successo soprattutto presso i
ceti altolocati. La figura del sofista, come persona che si guadagna da
vivere vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e
dell'insegnante professionista[14]. Argomento centrale del loro insegnamento è
la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la
morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i
giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per
essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere
convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche.[15] I sofisti, a
differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e
alla ricerca dell'archèoriginario, ma si concentrano sulla vita umana,
diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di
sofisti: Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e
Ippia Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a
loro volta distinguibili in: Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco,
Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico Sofisti della
physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi
naturalistici: Antifonte, (Ippia) Eristi, portano all'esasperazione il metodo
dialettico: Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto Altri: Seniade di
Corinto, forse l'anonimo autore dei Dissoi logoi Stando alle fonti, pare che
anche il filosofo Aristipposia stato un sofista prima di incontrare Socrate e
unirsi a lui; in particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per
certo che diede lezioni di eloquenza a pagamento.[16] A questo proposito si
racconta un aneddoto: protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno,
il quale, contestando il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe
detto: «Mille dracme? Ma io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e
Aristippo avrebbe risposto: «E tu compralo questo schiavo, così ne avrai due in
casa, questo e tuo figlio!».[17] A quanto pare Aristippo praticava tariffe
differenziate in base alle capacità degli allievi, così che se uno di questi
aveva la sfortuna di essere poco dotato la sua tariffa aumentava
vertiginosamente, mentre se al contrario era particolarmente brillante e
intuitivo la tariffa ammontava a poco più di 1 dracma, praticamente
gratis. Caratteri generali della sofistica Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Relativismo etico sofistico. La sofistica, come detto, fu un
movimento disomogeneo, e ogni sofista differiva dagli altri per interessi e
posizioni personali. Tuttavia, è possibile riconoscere in questi autori alcuni
caratteri comuni. Centralità dell'uomo. I sofisti si interessarono
prevalentemente di problematiche umane ed antropologiche, tanto che gli
studiosi parlano di antropocentrismo sofistico. Essi approfondirono i temi
legati alla vita dell'uomo, che venne analizzata soprattutto dal punto di vista
gnoseologico (ciò che l'uomo può conoscere e ciò che non può conoscere), etico
(ciò che è bene e ciò che è male) e politico (il problema dello Stato e della
giustizia). L'essere umano veniva considerato a partire dalla sua condizione di
individuo posto all'interno di una comunità, caratterizzata da determinati
valori culturali, morali, religiosi e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a
osservare formalmente le leggi e le tradizioni della polis, così da diventare
cittadini rispettati e di successo – quindi virtuosi. Rottura con la
“fisiologia” presocratica. Come conseguenza del punto precedente, i sofisti in
genere trascurarono le discipline naturalistiche e scientifiche, che invece
erano state tenute in grande considerazione dai filosofi precedenti. Per questa
ragione alcuni studiosi hanno definito "cosmologica" la filosofia
precedente ed "umanistico" o "antropologico" il pensiero
sofistico. In realtà, va precisato che tale generalizzazione è per certi versi
limitativa, poiché ad essa fanno eccezione i casi di Ippia di Elide (che,
mirando ad un sapere enciclopedico, coltivò studi inerenti a vari campi
scientifici, tra cui matematica, geometria e astronomia) e Antifonte (il quale,
studioso dei testi ippocratici, fu esperto di anatomia umana ed embriologia).
Relativismo ed empirismo. I sofisti concepivano la verità come una forma di
conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo
rapporto con l'esperienza. Non esiste un'unica verità, poiché essa si frantuma
in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative,
finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti: si parla
pertanto di relativismo gnoseologico. Questo relativismo investe tutti gli
ambiti della conoscenza, dall'etica alla politica, dalla religione alle scienze
della natura.[18] Dialettica e retorica. Le tecniche dialettiche
dell'argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi logici rigorosi, la
verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare logicamente la falsità
dell'antitesi, l'affermazione contraria alla tesi) erano già state utilizzate
da Zenone all'interno della scuola eleatica, ma fu soprattutto con i sofisti
che esse si affermarono e si affinarono. La dialettica divenne una disciplina
filosofica essenziale e influenzò profondamente la retorica, ponendo l'accento
sull'aspetto persuasivo dei discorsi, fino a scadere nell'eristica.[19] Alla
luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico
una sorta di “illuminismo greco” ante litteram, in quanto i miti e le credenze
tradizionali vennero criticati e sostituiti con nozioni razionali: in altre
parole la sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici
di quel movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo
appunto. L'insegnamentoModifica Johann Friedrich Greuter,
"Socrate e i suoi studenti", XVII secolo. Nell'Atene del V secolo era
costume che i maestri tenessero lezione all'aperto, in piazza o sotto i portici
Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi deputati all'insegnamento: le
case dei cittadini più ricchi,[20] le palestre pubbliche e le piazze, le quali
includevano dei portici in cui i maestri potevano passeggiare con i loro
discepoli o sedere in banchi dove potevano discutere. In genere, la scelta del
luogo in cui tenere lezione era legata al tipo di "sapienza"
professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza pubblica per mostrare la sua
disponibilità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il denaro – e lo
stesso faranno i cinici in epoca successiva – mentre gli accademici, i
peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi attrezzati con strumenti
scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato ancora una volta che la
sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un
ampio e variegato dibattito interno. Capisaldi dell'insegnamento
sofistico sono: L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti
"maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie
per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo infatti
possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori
più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si
rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che
aspiravano al successo.[21] La retorica: i sofisti non furono degli scienziati,
poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica;
piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per
apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima
consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una
discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla
morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione
dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col
diritto positivo (nomos).[22] Per quanto riguarda le leggi e le norme i
sofisti, spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha
diverse regole e leggi[23]. Ciò fece sorgere in loro domande quali: Ci
sono regole uguali per tutti? In genere i sofisti propendono per il no, cioè
per il relativismo etico. Vi è una cultura superiore alle altre? Porre la
domanda già equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per
il relativismo culturale. La Seconda sofisticaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Seconda sofistica. L'imperatore
Adriano, in veste greca, offre un sacrificio ad Apollo(Londra, British Museum)
Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la sofistica vide un
progressivo ridimensionamento della propria importanza, soprattutto a causa
delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai filosofi Platone e
Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire dall'inizio del II secolo
d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si assiste, in piena età imperiale,
ad una rinascita della sofistica, grazie a un movimento filosofico-letterario
definito da Filostrato Seconda sofistica[24] (detta anche Nuova sofistica o
Neosofistica, per differenziarla da quella antica). Diversamente dalla
sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica abbandona i temi di
interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e via dicendo), per
occuparsi esclusivamente di oratoriae retorica. La Nuova sofistica si presenta
così subito come un movimento di impronta essenzialmente letteraria, orientato
allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante dall'impegno politico
e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi sofisti mirano
all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando (eccetto che in
rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti; la loro
produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo lo stile
del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi, trattati,
opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di intrattenimento,
brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica.[25] Tra i vari
autori di lingua greca che rientrano in questo fenomeno letterario, i più
importanti sono: Dione Crisostomo («dalla bocca d'oro»), vissuto tra I e
II secolo, ricoprì varie cariche politiche e svolse la propria attività di
retore e insegnante in Bitinia e a Roma, dove però fu condannato all'esilio;
Erode Attico, tra i più importanti e rinomati, insegnante di retorica e amico
dell'imperatore stoicoMarco Aurelio, ricoprì vari incarichi
nell'amministrazione pubblica romana, tra cui il consolato del 143; Elio
Aristide, allievo di Erode Attico, famoso soprattutto per le opere di
onirocritica e per la sua devozione al dio Asclepio; Luciano di Samosata, uomo
vicino alla famiglia imperiale romana (dinastia degli Antonini), fu autore di
vari scritti sui più disparati argomenti, nonché modello di purismo
linguistico; Flavio Filostrato, membro di una famiglia di celebri retori e
sofisti, fu tra i più potenti letterati alla corte dei Severi. Lungi dal
concludersi con la fine del II secolo, la Seconda sofistica perdurò ancora nei
secoli successivi. Tratti tipici di questo movimento sono rintracciabili in
autori greci del IV secolo come Imerio, Libanio, Temistio e Sinesio, per
giungere infine alla Scuola di Gaza (V secolo).[26] Note Modifica
^ La storiografia moderna considera comunemente i sofisti come filosofi. Si
veda a proposito: M. Untersteiner, Le origini sociali della sofistica,
appendice a: I sofisti, Milano 2008, pp. 537-585; W.K.C. Guthrie, The Sophists,
Cambridge 1969, p. 176-181; G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna 1988, pp.
15-25; G. Reale, Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 63-66. ^ G.B. Kerferd, I
sofisti, trad. it., Bologna 1988, p. 79 ss. ^ Più precisamente, Mario
Untersteiner, riprendendo a sua volta H.I. Marrou e A. Levi, scrive: «Fu più
volte riconosciuto che nella sofistica non devesi scorgere una scuola
filosofica abbastanza uniforme e coerente, ma piuttosto sia meglio accogliere
l'opinione molto diffusa nell'antichità, “che considerava sofisti coloro che
andavano da una città all'altra della Grecia per insegnarvi pubblicamente la
loro σοφία dietro retribuzione. Il contenuto di questa sapienza variava secondo
gli insegnanti di essa; però (nemmeno Gorgia rappresenta un'eccezione) tutti i
sofisti professavano di essere maestri di ἀρετή (virtù), ossia dichiaravano
d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme
individuali e sociali”» (I sofisti, Milano 1996, p. XXI). ^ sofistica, in
Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. ^ Il
sostantivo σοφιστής deriva dal verbo σοφίζειν (sophízein), che significa
«rendere sapiente». Cfr. W.K.C Guthrie, The Sophists, Cambridge 1969, p. 27-29.
Per le varie accezioni del sostantivo si veda anche: L. Rocci, Dizionario Greco
Italiano, Firenze 1978, p. 1688. ^ G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna
1988, pp. 37ss. «Sofista» in origine indicava generalmente una personalità
ritenuta sapiente, e fu utilizzata per riferirsi anche a poeti come Omero ed
Esiodo. ^ DK 79 2a, 3. ^ La rivalutazione della sofistica come corrente
filosofica iniziò nel XIX secolo a opera di Hegel e Nietzsche. Oggi ai sofisti
è riconosciuto lo statusnon solo di filosofi morali ma anche di teoreti. Cfr.
G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna 1988, pp. 13-25. ^ M. Untersteiner,
I sofisti, Milano 1996, pp. 537 ss; G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna
1988, pp. 13-25. ^ M. Untersteiner, I sofisti, Milano 1996, p. 537. ^ Giuseppe
Faggin, Storia della filosofia, volume primo, Principato editore, Milano, 1983,
pag. 35. ^ Così li definisce Socrate in: Senofonte, Memorabili I.6.13. ^ W.
Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze 1959, pp. 442ss. ^ W. Jaeger, Paideia,
trad. it., Firenze 1959, vol.1, pp. 430 ss. ^ G.B. Kerferd, I sofisti, trad.
it., Bologna 1988, pp. 103 ss. ^ Diogene Laerzio II, 65. ^ Plutarco, De liberis
educandis 7. ^ M. Untersteiner, I sofisti, Milano 1996, p. 556. Questo è
l'argomento su cui verte il Teetetoplatonico, nel quale si analizza la dottrina
protagorea dell’homo mensura (Cfr. DK 80A1). ^ G.B. Kerferd, I sofisti, trad.
it., Bologna 1988, pp. 110-111. ^ Tra i cittadini ateniesi abbienti che
patrocinarono l'attività dei sofisti, il più famoso è senz'altro Callia, che
compare come personaggio nel Protagora di Platone (è in casa sua che avviene il
dialogo e sono ospitati Protagora, Prodico e Ippia). ^ M. Untersteiner, I
sofisti, Milano 1996, p. 558; G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna 1988,
p. 29. ^ W. Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze 1959, vol.1, p. 441ss. ^
Illuminanti al riguardo sono le affermazioni di Antifonte (DK 87B45-47) e quelle
contenute nei cosiddetti Dissoi logoi (DK 90 2, 9-14). ^ Filostrato, Vite dei
sofisti I 481. ^ D. Del Corno, Letteratura greca, Milano 1994, p. 517. ^ D. Del
Corno, Letteratura greca, Milano 1994, p. 547 BibliografiaModifica Edizioni dei
frammentiModifica I frammenti e le testimonianze sui sofisti sono raccolti in
Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di Hermann Diels e Walther Kranz
(19526). In traduzione italiana sono consultabili: I presocratici.
Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari: Laterza 1979. I
presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle
testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di
Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006. I sofisti. Testimonianze e frammenti, a
cura di M. Untersteiner e A.M. Battegazore, Firenze: La Nuova Italia, 1949-1962
(nuova edizione: Milano: Bompiani 2009, con introduzione di G. Reale). I
sofisti, a cura di M. Bonazzi, pref. di F. Trabattoni, Milano: BUR, 2007.
Bibliografia secondariaModifica Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero,
Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno
Mondadori, Torino 1999 Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, 2007. W.K.C.
Guthrie, The Sophists, Cambridge: Cambridge University Press, 1969. George B.
Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna: Il Mulino, 1988 M. Isnardi Parente,
Sofistica e democrazia antica, Firenze: Sansoni, 1977. W. Jaeger, Paideia. La
formazione dell'uomo greco, Firenze, La nuova Italia 1959, (nuova edizione con
un'introduzione di Giovanni Reale, Bompiani: Milano 2003). H.-I. Marrou, Storia
dell'educazione nell'antichità, Roma: Studium, 1966. Adolfo Levi, Storia delle
Sofistica, Napoli, Morano, 1966. E. Paci, Storia del pensiero presocratico,
Roma: Edizioni Radio Italiana, 1957. A. Plebe, Breve storia della retorica
antica, Bari: Laterza, 1988. G. Reale, Il pensiero antico, Milano: Vita e
Pensiero, 2001. Scott Gregory Schreiber, Aristotle on false reasoning: language
and the world in the Sophistical refutations, State University of New York
Press, 2003 ISBN 0-7914-5659-5 Mario Untersteiner, I sofisti, Milano: Bruno
Mondadori 1996². Voci correlateModifica Antropocentrismo Demagogia Dissoi logoi
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Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato, iusiuratum, Carneade, il secondo
discorso, contro Democrito, ragione pratica (saggezza), ragione teorica, a
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Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca, lingua italiana, ordinamento
amministrativode-centrato, Wundt, Kant, razionalismo trascendente, Herbart,
scetticismo, accademia, prima accademia, seconda accademia, terza accademia, liberta di volere, freewill, volere libero, ambiascata
ateniense a roma, influenza dell’academia nell’elite romana – l’accademia come perfezionamento
per la dirigenza romana, Wundt, positivismo, suggestione, i primordii del
kantismo in Italia, Hegel vacuo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Credaro” – The
Swimming-Pool Librrary. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51631460511/in/photolist-2mEuJp2
Grice e Crespi – Antonino e compagnia – filosofia
romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo.
Grice: “Crespi is an interesting figure; Strawson calls him an Englishman since
he became a Brit! My favourite is his edition of Marcauurelio’s remembrances –
which is a n irony: he was a roman, but left his remembrances in Hellenic; and
the Italians needed a translation! It would be as if Pocahontas’s remembrances
were in Anglo-Saxon!” Collaboratore della Critica sociale, si avvicina alle
posizione modernista. Collaboraa Il Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione
liberale, Coenobium. Emigrato durante il fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti.
Altre opere: “Le vie della fede” (Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi
religiosa” (Firenze, Tip. Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano,
Treves); “Dall'io al tu” (Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo,
"Annali della Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo,
Carteggio, Roma, Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni
Bonomi, Angelo Crespi, Cremona, Padus). Wikipedia
Ricerca Filosofia ellenistica periodo della filosofia greca antica Lingua Segui
Modifica La filosofia ellenistica è il periodo della filosofiaoccidentale e
della filosofia greca antica durante il periodo ellenistico.
StoriaModifica Il mondo ellenistico nel 300 a.C. Il periodo ellenistico
seguì le conquiste di Alessandro Magno (356-323 a.C.), che aveva diffuso la
cultura greca antica in tutto il Medio Oriente e nell'Asia occidentale, dopo il
precedente periodo culturale della Grecia classica. Il periodo classico della
filosofia greca antica era iniziato con Socrate (470-399 a.C. circa), il cui
allievo Platone aveva insegnato ad Aristotele, che a sua volta aveva istruito
Alessandro. Mentre i pensatori classici avevano per lo più sede ad Atene, il
periodo ellenistico vide i filosofi attivi in tutto l'impero. Il periodo iniziò
con la morte di Alessandro nel 323 a.C. (poi quella di Aristotele nel 322 a.C.),
e fu seguito dal predominio della filosofia dell'antica Roma durante il periodo
imperiale romano. Sviluppi e dibattiti sul pensieroModifica I fondatori
dell'Accademia, i peripatetici, i seguaci del cinismo e del cirenaismo erano
stati tutti allievi di Socrate, mentre lo stoicismo era soltanto indirettamente
influenzato da lui.[1] Il pensiero di Socrate fu quindi influente per molte di
queste scuole dell'epoca, portandole a concentrarsi sull'etica e su come
raggiungere l'eudaimonia (la bella vita), e alcune di loro seguirono il suo
esempio di usare l'autodisciplina e l'autarchia a tal fine.[2] Secondo AC
Grayling, la maggiore insicurezza e perdita di autonomia dell'epoca spinse
alcuni a usare la filosofia come mezzo per cercare sicurezza interiore dal mondo
esterno.[3] Questo interesse nell'usare la filosofia per migliorare la vita è
stato colto nell'affermazione di Epicuro: "vuote sono le parole di quel
filosofo che offre una terapia per nessuna sofferenza umana".[4]
EpistemologiaModifica L'epistemologia degli epicurei era empirica, con la
conoscenza che alla fine proveniva dai sensi.[4]Epicuro sosteneva che le
informazioni sensoriali non sono mai false, anche se a volte possono essere
fuorvianti, e che "Se combatti contro tutte le sensazioni, non avrai uno
standard contro il quale giudicare anche quelle di coloro che dici si
sbagliano".[5] Rispose a un'obiezione all'empirismo fatta da Platone in
Menone, secondo la quale non si può cercare informazioni senza avere un'idea
preesistente di cosa cercare, quindi significa che la conoscenza deve precedere
l'esperienza.[6] La risposta epicurea è che la prolepsi (preconcetti) sono
concetti generali che consentono di riconoscere cose particolari e che queste
emergono da ripetute esperienze di cose simili. PlatonismoModifica
Il Platonismo rappresenta la filosofia dell'allievo di Socrate, Platone, e i
sistemi filosofici da esso strettamente derivati. Antica
AccademiaModifica Il platonismo primitivo, noto come "l'Antica
Accademia", inizia con Platone, seguito da Speusippo(nipote di Platone),
che gli succedette come capo della scuola (fino al 339 a.C.), e da Senocrate
(fino al 313 a.C.). Entrambi cercarono di fondere le speculazioni pitagoriche
sul numero con la teoria delle forme di Platone. Scetticismo accademicoModifica
Carneade, copia romana dalla statua esposta nell'Agorà di Atene, c. 150 a.C.,
Museo Glyptothek Lo scetticismo accademico è il periodo dell'antico platonismo
risalente intorno al 266 a.C., quando Arcesilao divenne capo dell'Accademia
platonica, fino a circa il 90 a.C., quando Antioco di Ascalona respinse lo
scetticismo, sebbene i singoli filosofi, come Favorino e il suo maestro
Plutarco, continuassero a difendere lo scetticismo accademico dopo questa data.
Gli scettici accademici sostenevano che la conoscenza delle cose è impossibile.
Le idee o le nozioni non sono mai vere; tuttavia, ci sono gradi di somiglianza
con la verità, e quindi gradi di credenza, che consentono di agire. La scuola
era caratterizzata dai suoi attacchi agli stoici e al dogma stoico che
impressioni convincenti portavano alla vera conoscenza. Arcesilao
(316-232 a.C.) Carneade (214–129 a.C.) Cicerone (106–43 a.C.)
MedioplatonismoModifica Intorno al 90 a.C., Antioco di Ascalona respinse lo
scetticismo, lasciando il posto al periodo noto come Medioplatonismo, in cui il
platonismo era fuso con alcuni dogmi peripatetici e molti stoici. Nel
medioplatonismo, le forme platoniche non erano trascendenti ma immanenti alle
menti razionali, e il mondo fisico era un essere vivente e animato, l'anima del
mondo. La natura eclettica del platonismo in questo periodo è dimostrata dalla
sua incorporazione nel pitagorismo (Numenio di Apamea) e nella filosofia
ebraica[7] (Filone di Alessandria). Plutarco (46-dopo il 119)
NeoplatonismoModifica Il Neoplatonismo, o plotinismo, era una scuola di
filosofia religiosa e mistica fondata da Plotino nel III secolo e basata sugli
insegnamenti di Platone e degli altri platonici. Il vertice dell'esistenza era
l'Assoluto o il Bene, la fonte di tutte le cose. Nella virtù e nella
meditazione l'anima aveva il potere di elevarsi per raggiungere l'unione con
l'Assoluto, la vera funzione degli esseri umani. I neoplatonici non cristiani
erano soliti attaccare il cristianesimo fino a quando cristiani come Agostino,
Boezio ed Eriugena non adottarono il neoplatonismo. Plotino (205-270
d.C.) Porfirio (233-309 d.C.) Giamblico (245-325 d.C.) Proclo (412-485 d.C.)
CirenaismoModifica Il Cirenaismo fu fondato nel IV secolo a.C. da Aristippo(ca.
435-356 a.C.), allievo di Socrate. Aristippo il Giovane, nipote del fondatore,
sosteneva che il motivo per cui il piacere era buono era che era evidente nel
comportamento umano fin dalla più giovane età, perché questo lo rendeva
naturale e quindi buono (il cosiddetto argomento della culla).[8] I Cirenaici
credevano anche che il piacere presente liberasse dall'ansia del futuro e dai
rimpianti del passato, lasciandoci in pace.[9] Queste idee furono prese
ulteriormente da Anniceride di Cirene (fl. 300 a.C.), che espanse il piacere
per includere cose come l'amicizia e l'onore.[10] Teodoro l'Ateo (ca. 340-250
a.C.) non era d'accordo e sosteneva che i legami sociali dovrebbero essere
tagliati e dovrebbe essere sposata l'autosufficienza.[11] Egesia di Cirene (fl.
290), d'altra parte, affermava che la vita alla fine non poteva essere
complessivamente piacevole. CinismoModifica Il pensiero dei Cinici
si basava sul vivere con il minimo necessario e nel rispetto della natura.[12]
Il primo cinico fu Antistene (circa 446-366 a.C.), che era un allievo di Socrate.[13]
Introdusse le idee di ascetismo e opposizione alle norme sociali.[14] Il suo
seguace fu Diogene (ca. 412–323 a.C.), che seguì questa direzione.[15] Invece
del piacere, i cinici promuovevano il vivere intenzionalmente in difficoltà
(ponos). Tutto questo perché era visto come naturale e quindi buono, mentre la
società era innaturale e quindi cattiva, così come i benefici materiali. I
piaceri forniti dalla natura (che sarebbero stati immediatamente accessibili)
erano tuttavia accettabili.[16] Cratete di Tebe (365-285 a.C.) affermava quindi
che "la filosofia è un chilo di fagioli e non si cura di nulla".
Altri cinici includevano Menippo (intorno al 275 a.C.) e Demetrio
(10–80). Scuola peripatetica Modifica
Un busto in marmo di Aristotele La scuola peripatetica era composta dai
filosofi che avevano mantenuto e sviluppato la filosofia di Aristotele.
Sostenevano l'esame del mondo per comprendere il fondamento ultimo delle cose.
Lo scopo della vita era l'eudaimonia che nasceva da azioni virtuose, che consistevano
nel mantenere la media tra i due estremi del troppo e del troppo poco.
Teofrasto (371-287 a.C.) Stratone di Lampsaco (335-269 a.C.) Alessandro di
Afrodisia (200 circa) Aristocle di Messene (I secolo circa)
PirronismoModifica Pirro d'Elide, testa in marmo, copia romana, Museo
Archeologico di Corfù Il Pirronismo era una scuola di scetticismo filosoficoche
ebbe origine con Pirrone nel III secolo a.C. e fu ulteriormente avanzata da
Enesidemo nel I secolo a.C. Il suo obiettivo era l'atarassia (essere mentalmente
imperturbabile), che si ottiene attraverso l'epoché(cioè la sospensione del
giudizio) su questioni non evidenti (cioè, questioni di credenza).
Pirrone (365-275 aC) Timone di Fliunte (320-230 a.C.) Enesidemo (I secolo a.C.)
Sesto Empirico (II secolo d.C.) EpicureismoModifica Busto romano di
Epicuro L'epicureismo fu fondato da Epicuro nel III secolo a.C. La sua
epistemologia era basata sull'empirismo, ritenendo che le esperienze sensoriali
non possano essere false, anche se possono essere fuorvianti, poiché sono il
prodotto del mondo che interagisce con il proprio corpo.[17] Ripetute
esperienze sensoriali possono quindi essere utilizzate per formare concetti
(prolepsi) sul mondo, e tali concetti ampiamente condivisi ("concezioni
comuni") possono fornire ulteriormente le basi per la filosofia.
Applicando il suo empirismo, Epicuro sostenne l'atomismo notando che la materia
non poteva essere distrutta poiché alla fine si sarebbe ridotta a nulla e che
doveva esserci vuotoaffinché la materia potesse muoversi.[18] Anche se questo
di per sé non provava l'esistenza degli atomi, si oppose all'alternativa
osservando che gli oggetti infinitamente divisibili sarebbero infinitamente
grandi, simili ai paradossi di Zenone.[19] Considerava l'universo governato
dal caso, senza alcuna interferenza da parte degli dei. Considerava l'assenza
di dolore come il più grande piacere e sosteneva una vita semplice.
Epicuro (341-270 a.C.) Metrodoro (331-278 a.C.) Ermarco di Mitilene (325-250
a.C.) Zenone di Sidone (I secolo a.C.) Filodemo di Gadara (110-40 a.C.)
Lucrezio (99-55 a.C.) StoicismoModifica Zenone di Cizio (333–263 a.C.),
il fondatore dello stoicismo Lo stoicismo fu fondato da Zenone di Cizio nel III
secolo a.C. Basato sulle idee etiche dei cinici, insegnava che l'obiettivo
della vita era vivere in accordo con la natura. Sostenne lo sviluppo
dell'autocontrollo e della forza d'animo come mezzi per superare le emozioni
distruttive. Zenone di Cizio (333-263 a.C.) Cleante (331-232 aC) Crisippo
(280-207 a.C.) Panezio (185-110 a.C.) Posidonio (135-51 a.C.) Seneca (4 a.C. -
65) Epitteto (55-135) Marco Aurelio (121-180) Giudaismo ellenisticoModifica Il
giudaismo ellenistico era un tentativo di stabilire la tradizione religiosa
ebraica all'interno della cultura e della lingua dell'ellenismo. Il suo
principale rappresentante fu Filone di Alessandria. Filone di Alessandria
(30 a.C. - 45) Flavio Giuseppe (37-100) NeopitagorismoModifica Il
neopitagorismo era una scuola di filosofia che faceva rivivere le dottrine
pitagoriche, prominente nel I e II secolo. Era un tentativo di introdurre un
elemento religioso nella filosofia greca, adorare Dio vivendo una vita
ascetica, ignorando i piaceri del corpo e tutti gli impulsi sensoriali, per
purificare l'anima. Publio Nigidio Figulo (98-45 a.C.) Apollonio di Tiana
(15 / 40-100 / 120 d.C.) Numenio di Apamea (II secolo d.C.) Cristianesimo
ellenisticoModifica Il cristianesimo ellenistico fu il tentativo di
riconciliare il cristianesimo con la filosofia greca, a partire dalla fine del
II secolo. Attingendo in particolare al platonismo e al neoplatonismo
emergente, figure come Clemente Alessandrino cercarono di fornire al
cristianesimo un quadro filosofico. Clemente Alessandrino (150-215)
Origene (185–254) Agostino d'Ippona (354-430) Elia Eudocia (401-460) Voci
correlateModifica Filosofia greca Filosofia antica Ellenismo Religione
ellenistica Cento scuole di pensiero NoteModifica ^ ( EN ) A. C. Grayling, The
History of Philosophy, Penguin UK, 20 giugno 2019, p. 99, ISBN
978-0-241-98086-6. ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and
Roman Worlds, Oxford University Press, 2015, pp. 8-9, ISBN 978-0-19-872802-3. ^
( EN ) A. C. Grayling, The History of Philosophy, Penguin UK, 20 giugno 2019,
p. 99, ISBN 978-0-241-98086-6. ^ a b ( EN ) John Sellars, Hellenistic
Philosophy, Oxford University Press, 2018, p. 32, ISBN 978-0-19-967412-1. ^ (
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Philosophy, Oxford University Press, 2018, p. 36, ISBN 978-0-19-967412-1. ^
Platonismo su Enciclopedia Britannica ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, 2015, p. 20, ISBN
978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and
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p. 23, ISBN 978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, 2015, p. 10, ISBN
978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and
Roman Worlds, Oxford University Press, 2015, p. 10, ISBN 978-0-19-872802-3. ^ (
EN ) Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford
University Press, 2015, p. 11, ISBN 978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, 2015,
p. 14, ISBN 978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, 2015, p. 15, ISBN
978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and
Roman Worlds, Oxford University Press, 2015, p. 26, ISBN 978-0-19-872802-3. ^ (
EN ) Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford
University Press, 2015, p. 27, ISBN 978-0-19-872802-3. ^ ( EN ) Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, 2015,
p. 28, ISBN 978-0-19-872802-3. BibliografiaModifica AA Long, DN Sedley (eds.),
The Hellenistic Philosophers (2 voll., Cambridge University Press, 1987)
Giovanni Reale, The Systems of the Hellenistic Age: History of Ancient
Philosophy (Suny Series in Philosophy), edito e tradotto dall'italiano da John
R. Catan, Albany, State of New York University Press, 1985,ISBN 0887060080 .
"Platonismo." Cross, FL, ed. nel dizionario di Oxford della chiesa
cristiana . New York: Oxford University Press. 2005 Controllo di
autoritàThesaurus BNCF 29698 · BNE( ES ) XX541462 (data) · BNF( FR ) cb119423240
(data) Portale Antica Grecia Portale Antica Roma
Portale Filosofia Ultima modifica 7 mesi fa di DanielAron4444 PAGINE
CORRELATE Atarassia termine filosofico Scuola cirenaica Autarchia
(filosofia) Wikipedia IlAngelo Crespi. Grice: “His essay on Antonino is
brilliant – his philosophy of history is controversial. Keywords: la filosofia
dell’impero romano, impero, impero romano, impero britannico, funzione
dell’impero, funzione storica dell’impero, filosofia imperial, imperialismo,
imperialismo romano, imperialism britannico, post-imperialismo, Antonino. Filosofia della storia – aporie, lingua
latina, impero romano, lingua nazionale, nazione romana, nazione italiana,
lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana, toscano, -- Refs.: Luigi
Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51767645268/in/dateposted-public/
Crespo
Grice e Croce – idealismo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Pescasseroli). Filosofo. Grice: “I would
think the fashionable Englishwoman may think Croce is the most important
philosopher that ever lived!” -- vide under “Grice as Croceian” -- Grice as
Croceian: expression and intention -- Croce, B., philosopher. I genitori
appartenevano a due abbienti famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari, quella
materna, originaria della stessa Pescasseroli, ma radicatasi anche in
Capitanata e Terra di Lavoro, particolarmente legata agli ideali liberali, e
l'altra, quella paterna, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti),
ma trapiantata a Napoli, legata invece ad una mentalità di stampo borbonico[9].
Croce crebbe in un ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora
adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla religiosità
tradizionale. Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni perse i
genitori, Pasquale Croce e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti durante il terremoto di Casamicciola,
nell'isola d'Ischia, dove Croce si trovava in vacanza con la famiglia. Un
terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e
per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle
popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie
ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del
male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà
insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero,
influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni private
dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli
nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente
bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di
suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Paolo Petroni, la
famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro
residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da
Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite
Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna
Croce e fratello del filosofo Bertrando Spaventa, che, mettendo da parte dei
dissapori storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria
casa a Roma, dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed
ebbe modo di formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo
culturale nella casa dello zio Silvio, Croce ebbe modo di frequentare
importanti uomini politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al
marxismo. Pur essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università
di Napoli, Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal
Labriola. Non terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi
eruditi e filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la
forma incomprensibile. Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa
di passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa
dove aveva trascorso la sua vita Giambattista Vico, il filosofo napoletano
amato da Croce per la concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti,
della sua. Nel 1890 fu tra i fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo
di intellettuali. Compì numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e
Regno Unito mentre nella sua formazione culturale cresceva l'interesse per gli
studi storici e letterari, in particolare per la poesia di Giosuè Carducci, e
per le opere di Francesco De Sanctis. Attraverso Antonio Labriola con cui era
rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di cui però criticava come
astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx risalì alla filosofia
hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad approfondire. La fondazione de
La critica e la vita politica Nel gennaio del 1903 uscì il primo numero della
rivista La critica, con la collaborazione di Giovanni Gentile, e stampata a sue
spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per censo senator e fu
Ministro della Pubblica Istruzione[16] nel quinto e ultimo governo Giolitti. Con regio decreto dgli fu concesso il titolo
di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica istruzione che fu poi
ripresa e attuata da Giovanni Gentile. Posizione nella prima guerra
mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche tra
«interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che [gli
interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro
oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di
tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le
tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come
suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe
inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla
tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un
«interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le
due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si
rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni
liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole
alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non
andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio,
volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che
saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla
come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni
antinazionali e settarie» (B. Croce, Epistolario, Napoli) Il rapporto con
il fascismo L'iniziale fiducia al governo fascista Benedetto Croce nella
sua biblioteca Inizialmente Croce fu vicino al fascismo[19]. Ascoltò e applaudì
il discorso di Mussolini al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata
preparatoria per la marcia su Roma. In occasione delle votazioni al Senato,
successive all'uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, fu tra i
225 senatori che votarono la fiducia al governo Mussolini, insieme a Giovanni Gentile
e Vincenzo Morello. In seguito Croce spiegò in un'intervista che il suo non era
stato un voto fascista, aveva votato a favore del regime perché pensava che
Mussolini, se sostenuto, poteva esser sottratto all'estremismo fascista a cui
Croce faceva risalire la responsabilità del delitto Matteotti. «Abbiamo
deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata. Nell'ordine
del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il Senato si aspetta
che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto Mussolini ha
promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a
negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è
stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve
andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo
sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al
nostro beneplacito. Croce scrisse su Il Giornale d'Italiache il regime
mussoliniano «non poteva e non doveva essere altro che un ponte di passaggio
per la restaurazione di un più severo regime liberale». La rottura e il
Manifesto degli intellettuali antifascisti Il filosofo abruzzese si allontanò
definitivamente dal regime allorché, su sollecitazione di Giovanni Amendola,
scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti in replica al Manifesto
degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. Lo scritto, pubblicato sul
quotidiano Il Mondo, tra l'altro sosteneva: «Contaminare politica e
letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in
questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la
soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso.
E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di
molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre
al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di
guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie
nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la
nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e,
d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo
spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli
all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione
delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti
assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti
alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso
una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. Per
questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo,
dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e
mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella
fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di
generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale,
di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento.» Secondo
Norberto Bobbio, il Manifesto degli intellettuali antifascisti sancì
l'assunzione da parte di Croce del ruolo di «coscienza morale dell'antifascismo
italiano» e di «filosofo della libertà. Lo scritto segnò inoltre la rottura dell'amicizia
con Gentile, a causa delle ormai inconciliabili divergenze filosofiche e
politiche. In seguito Croce fu l'unica voce fuori dal coro tollerata dal
regime. Il ruolo di Croce come coscienza dell'antifascismo è testimoniato, tra
gli altri, da Primo Levi, che nel 1975 ricordò che negli anni del fascismo e
della guerra, segnati per gli antifascisti da smarrimento morale, isolamento e
incertezze, solo «La Bibbia, Croce, la geometria, la fisica, ci apparivano
fonti di certezza. Il mio liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio
morale degli uomini che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De
Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi
metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento
che ho quel posto da difendere, che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere
difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio.
Ecco tutto.» (Lettera a Alfieri) Rifiutò di entrare nell'Accademia
d'Italia, e dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale
per la Libertà, fondato dal poeta Lauro De Bosis, si allontanò dalla vita
politica, continuando peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche,
senza che il regime fascista lo censurasse, almeno esplicitamente. L'unico atto
di ostilità violenta ed esplicita compiuto dal fascismo verso Croce fu la
devastazione della sua casa napoletana avvenuta nel novembre del 1926[29].
Negli anni successivi, quelli della sua affermazione e del cosiddetto
“consenso”, il fascismo ritenne Croce un avversario poco temibile, sostenitore
com'era della tesi di un fascismo inteso come "malattia morale"
inevitabilmente superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di Croce
presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da
parte del regime. Ebbe altresì blandi rapporti culturali con intellettuali in
qualche modo vicini al regime, anche se marginali, come un carteggio epistolare
con il tradizionalista Julius Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per
due opere, da pubblicare presso Laterza con il benestare dello stesso Croce,
Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente,
La tradizione ermetica. Il governo fascista richiese ai docenti delle
università italiane un atto di formale adesione al regime in base all'articolo
18 del regio decreto (il cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A
seguito di tale provvedimento, i docenti avrebbero dovuto giurare di essere
fedeli non solo "alla patria", secondo quanto già imposto dal
regolamento generale universitario del 1924, ma anche al regime fascista. In
quell'occasione, Croce incoraggiò professori come Guido Calogero e Luigi
Einaudi a rimanere all'università, «per continuare il filo dell'insegnamento secondo
l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per l'area politica del
liberalismo, la sua scuola ebbe durante tutto il ventennio fascista una platea
assai più ampia di allievi[36]: del resto, già prima dalle sue idee avevano
tratto esempio anche Antonio Gramsci[37] e il gruppo comunista de L'Ordine
Nuovo.Polemica sulla Giornata della fede La non adesione di Croce al fascismo
parve messa in discussione dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia,
quando il filosofo, in occasione della "Giornata della fede" donò la
propria medaglietta da senatore accompagnandola con questa secca lettera al
presidente del Senato: «Eccellenza, quantunque io non approvi la politica del
Governo, ho accolto in omaggio al nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho
rimesso alla questura del Senato la mia medaglia, Il gesto “suscitò negli
ambienti dell'antifascismo italiano, in patria e all'estero, sorpresa, dolore e
polemiche” che colpirono dolorosamente Croce. Al termine di un drammatico
colloquio con Bianca Ceva, inviata a sostenere il punto di vista degli
antifascisti, dopo un iniziale tentativo di giustificazione, Croce affermò:
“dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro. Il regime varò la
legislazione antisemita (Croce non era presente nell'aula del Senato, quale
forma di protesta; egli fu uno dei pochi a esprimersi contro di esse a livello
pubblico). Il governo inviò a tutti i professori universitari e i membri delle
accademie un questionario da compilare ai fini della classificazione
"razziale". Tutti gli interpellati risposero. L'unico intellettuale
non ebreo che rifiutò di compilare il questionario fu Croce. «L'unico
effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo
me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare
che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata.[40]» Il
filosofo, invece di restituire compilata la scheda, inviò una lettera al
presidente dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, in cui scrisse
sarcasticamente: «Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario
che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito,
preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo
che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita
politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose?»
(Benedetto Croce a Luigi Messedaglia, Presidente dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A. CAPRISTO, L’espulsione degli ebrei
dalle accademie italiane, Torino, Zamorani,) Croce fu quindi espulso da quasi
tutte le accademie di cui era membro, comprese l'Accademia Nazionale dei Lincei
e la Società Napoletana di Storia Patria. All'Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti, unica accademia che lo mantenne socio, alla fine della guerra
Croce riconoscerà il merito di non averlo espulso durante il regime fascista. Dopo
aver denunciato la persecuzione degli ebrei, Croce però critica anche gli
atteggiamenti degli ebrei stessi, sia quelli che avevano aderito al fascismo,
sia quelli che vivevano "separati", ritenendo la specificità ebraica
come pericolosa per gli ebrei stessi: «Quando s'iniziò l'infame persecuzione
contro gli ebrei, io ebbi, con un brivido di orrore, la piena rivelazione della
sostanziale delinquenza che era nel fascismo, come chi fosse costretto ad
assistere allo sgozzamento a freddo di un innocente e mi misi di lancio dalla
loro parte con tutto l'esser mio per fare quello che per loro si poteva a
lenire o diminuire il loro strazio. Molti danni e molte iniquità compiute dal
fascismo non si possono ora riparare per essi come per altri italiani che le
soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro
studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gli altri italiani;
procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno
persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle
persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire l'idea di popolo eletto,
che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il quale, purtroppo, aveva a
suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la folle attuazione... [essi]
disconoscono le premesse storiche (Grecia, Roma, Cristianità) della civiltà di
cui dovrebbero venire a fare parte.» (Lettera a Cesare Merzagora)
Espresse quindi una posizione di perplessità per il sionismo. Il rientro nella
vita politica Dopo la caduta del regime Croce rientrò in politica, accettando
la nomina a presidente del Partito Liberale Italiano. Durante la Resistenza
cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti e nel 1944 fu Ministro senza
portafoglio nel secondo governo Badoglio, benché non stimasse né il Maresciallo
né il re Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione col fascismo.
Subito dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) entrò a far parte del secondo
governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni
qualche mese dopo. Egli avrebbe
preferito l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio
Emanuele (con rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e
l'incarico di capo del governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno
Unito si opposero.[46] Al referendum sulla forma dello Stato (2 giugno 1946)
votò per la monarchia, inducendo tuttavia il Partito Liberale (di cui rimane
presidente) a non schierarsi, per far sì che prevalesse sulla questione piena
ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando in seguito: «il buon senso fece
considerare a quei milioni di votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche
essi avessero riportato la maggioranza legale, una monarchia con debole
maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e l'autorità necessaria, e perciò
meglio valeva accettare la forma nuova della Repubblica e procurar di farla
vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente il contributo delle proprie
forze.»[48] Benedetto Croce con Enrico Altavilla e il Capo
provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola Concetti che Croce aveva, nella loro
sostanza, già espresso; ben prima che Umberto II, nel messaggio ribadisse tale
indicazione. Eletto all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di
essere candidato a Capo provvisorio dello Stato, così come in seguito rifiutò
la proposta, avanzata da Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose
strenuamente alla firma del Trattato di pace, con un accorato e famoso
intervento all'Assemblea costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova
Repubblica. Fonda a Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici
destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria
abitazione e biblioteca nel Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione
Biblioteca Benedetto Croce. Presidente dell'associazione PEN International e,
negli stessi anni, entrò a far parte del Consiglio di Amministrazione
dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Per un ictus cerebrale rimase
semiparalizzato e si ritirò in casa continuando a studiare: morì seduto in
poltrona nella sua biblioteca il 20 novembre 1952, all'età di 86 anni. I
funerali solenni si tennero nella sua Napoli e le sue spoglie tumulate nella
tomba di famiglia al Cimitero di Poggioreale. Il rapporto con la cultura
cattolica «Pure filosofo quale sono io stimo che il più profondo rivolgimento
spirituale compiuto dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo
ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima[53]» Il rapporto
di Croce con la cultura cattolica variò nel corso del tempo. Agli inizi del
Novecento i filosofi idealisti, come Croce e Gentile, avevano esercitato
assieme alla cultura cattolica una comune critica al positivismo ottocentesco.
Alla fine degli anni venti vi era stato un progressivo allontanamento della
cultura laica e idealistica dalla cultura cattolica. Croce, pur non essendo un
anticlericale militante, riteneva importante la separazione liberale tra Chiesa
e Stato, propugnata da Cavour. La Chiesa con i Patti Lateranensi aveva ormai
raggiunto un rapporto equilibrato con le istituzioni statali italiane
distaccandosi quindi dalle posizioni politiche antifasciste dell'idealismo
crociano. Croce fu contrario al Concordato e dichiarò apertamente in Senato che
«accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono
altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più
di Parigi, perché è affare di coscienza. Mussolini gli rispose dichiarandolo
«un imboscato della storia», e accusando il filosofo di passatismo e di viltà
di fronte al progresso storico. Quando Croce scrisse la Storia d'Europa nel
secolo decimonono, il Vaticano criticò aspramente l'autore che difendeva le
filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose
all'Indice nel 1932 questo libro ma, non ottenendo negli anni successivi da
Croce un qualsiasi ripensamento, ninserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i
suoi scritti. La polemica anti-concordataria crociana vide l'adesione del
giovane filosofo nonviolento e liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a
casa di Luigi Russo, aveva avuto modo di conoscere Croce, a cui aveva
consegnato un pacco di dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva
apprezzato e fatto pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore
Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco
tempo gli Elementi diventarono uno tra i principali riferimenti letterari della
gioventù antifascista. La posizione personale di Croce nei confronti della
religione cattolica è ben espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci
"cristiani", scritto nel 1942. Il termine "cristiani"
inserito nel titolo tra virgolette non voleva indicare l'adesione a un credo
confessionale, bensì la consapevolezza di un'inevitabile appartenenza culturale
rappresentata nella sua particolare prospettiva dal fenomeno del cristianesimo:
non si trattava di una professione di fede cristiana dovuta a un rinnegamento
dell'agnosticismo come volle fare intendere la propaganda fascista[60], ma di
riconoscere il valore storico e di «rivolgimento spirituale»: «Il
cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai
compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di
conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non
maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione
dall'alto, un intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto
legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori
scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo
confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse
quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della
libertà politica, e Roma del diritto: per la capacità dei princìpi cristiani di
contrastare il neopaganesimo e l'ateismo propagandati dal nazismo e dal
comunismo sovietico[61]:» «...sono profondamente convinto e persuaso che
il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato
da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico,
che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella
che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione
ancora cristiana della vita con un'altra che potrebbe risalire all'età
precristiana, e anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella
anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell'orda?[62]» Croce, in
sintesi, vede nel cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale
ma non ripudia l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella
religione un momento della realizzazione storica dello spirito che si avvia,
superandolo, ad una più alta sintesi.[63] All'Assemblea Costituente
lotterà contro l'inserimento, voluto dalla DC, e dal comunista Togliatti[64],
dei Patti Lateranensi nel secondo comma dell'articolo 7 della Costituzione
della Repubblica Italiana, giudicandolo come "sfacciata prepotenza
pretesca". In vista delle elezioni politiche del 1948, tuttavia, si
accordò con il segretario della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, per
dare vita a un manifesto comune, Europa, cultura e libertà, contro i
totalitarismi passati e presenti. A seguito della vittoria della DC, replicò
severamente ai laici benpensanti schierati col Fronte Popolare che
sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era composto in prevalenza
l'elettorato cattolico: «Beneditele quelle beghine di cui ridete, perché
senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo liberi.» Nel 1950,
lasciando disposizioni per la sua morte (che avverrà tre anni dopo) scriverà
invece che la sensibilità religiosa della moglie cattolica le consentirà di
evitare che un sacerdote tenti di "redimerlo" all'ultimo minuto,
perché è "cosa orrenda profittare delle infermità per strappare a un uomo
una parola che sano egli non avrebbe mai detta". Croce fu legato sentimentalmente e convisse
con Angelina Zampanelli, fino alla morte di lei. La coppia prese alloggio a
Palazzo Filomarino, a Napoli. Angelina, sofferente di cuore, morì poco più che
quarantenne a Raiano, dove insieme a Croce ella soggiornava spesso d'estate,
presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti della cugina del filosofo, Maria Teresa
Petroni, moglie di Valentino Rossi. Croce sposa a Torino, con rito religioso e
poi civile, Adele Rossi, da cui ebbe cinque figli: Giulio, Elena, Alda, Lidia
(moglie dello scrittore e dissidente anticomunista polacco Gustaw
Herling-Grudziński) e Silvia.Il filosofo, oggi, deve non già fare il puro
filosofo, ma esercitare un qualche mestiere, e in primo luogo, il mestiere
dell'uomo.» (Benedetto Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, Sicilia
Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di Croce può essere suddivisa in tre periodi:
quello degli studi storici, letterari e il dialogo con il marxismo, quello
della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e quello
dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito in
chiave storicista. Come idealista, ritiene che la realtà sia quella che viene
concepita dal soggetto, in quanto riflesso della sua idea e interiorità, ed è
convinto che la razionalità e la libertà emergano nella storia, pur tra immani
difficoltà. La filosofia idealista riconduce totalmente l'essere al pensiero,
negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di
un'attività interna al soggetto; l'idealismo, come in Hegel, implica una
concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero di Fichte
che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo al
principio ideale da cui esso ha origine; in Croce questo ideale è la libertà
umana. Definito da Gramsci "papa laico della cultura italiana", a sua
filosofia ha goduto di enorme credito nella cultura italiana del XX secolo,
perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in cui si sono levate molte
critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce fu un intellettuale
rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time gli dedicò la
copertina negli anni '30[7], e negli anni 2000, contestualmente alla
rivalutazione del pensiero crociano, si è registrato l'interesse della collana
editoriale dell'Università di Stanford, mentre la rivista statunitense di
politica internazionale Foreign Affairs lo inserì tra i pensatori più attuali
tra quelli del '900, accanto a intellettuali come Isaiah Berlin, Francis
Fukuyama e Lev Trotsky. Parallelamente allo studio del marxismo, Croce
approfondisce anche il pensiero di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come
spirito che continuamente si determina e, in un certo senso, si produce. Lo
spirito è quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza
dinamicamente divenendo storia secondo un processo razionale. Da Hegel egli
recupera soprattutto il carattere razionalistico e dialettico in sede
gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe allora attraverso processi di
mediazione dal particolare all'universale, dal concreto all'astratto, per cui
Croce afferma che la conoscenza è data dal giudizio storico, nel quale
universale e particolare si fondono recuperando la sintesi a priori di Kant e lo
storicismo di Giambattista Vico, suo altro filosofo di riferimento. Da destra,
Giovanni Laterza, Stefano Jacini, Croce e Luigi De Secly. Il divenire e la
logica della dialettica, in Hegel e in Marx, è esso stesso verità in movimento;
anche per Croce la verità è dialettica, ma occorre esprimere un giudizio
storico ed esistono delle regole che arginano la pretesa giustificativa di ogni
fenomeno: in Croce lo Spirito - in quanto intelletto umano - si realizza nella
storia ma nel rispetto della libertà. Per questo ogni fatto è quindi calato
nella realtà storica, ma questo non può giustificare, con la scusa del divenire
e del progresso, aspetti deplorevoli come, ad esempio, il totalitarismo
fascista o comunista, il primo come necessario (concezione di Giovanni Gentile
e della sua idea di realtà come atto puro di pensare e agire) e il secondo come
fase storica obbligata (seguendo il concetto marxiano della dittatura del
proletariato, di cui il filosofo tedesco parla nella sua teoria
"razionalista" del materialismo storico). Quindi il materialismo
dialettico di Engels e quello storico di Marx sono da ritenersi errati. In
questo, il suo storicismo si differenzia dal pensiero di un altro filosofo
liberale, Karl Popper, secondo cui dialettica e storicismo finiscono invece per
generare quasi sempre totalitarismo (concezione assai diffusa nel pensiero del
liberalismo novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt, per Croce la radice
totalitaria è proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto dello storicismo
stesso. Il neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove filosofie come
l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà e
dell'umanesimo, Croce critica l'esistenzialista Martin Heidegger, divenuto poi
anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo, definendolo
anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa
pasta morale"[79]; esprime così nel 1939 un tagliente giudizio sul
filosofo di Essere e tempo: «Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a
un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai segno di
prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell'etica,
della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita spirituale nelle
sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi tedeschi
di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di
colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il
quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito
come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di
lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e vero attore, l'umanità.
[...] E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che
è certamente un modo di prostituire la filosofia.» (Conversazioni
Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione di Hegel che "la
storia sia storia di libertà" viene da Croce inquadrata nella sua
concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale nascere, nel
successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio finale e
definitivo di maturità.[74] Croce fa proprio questo detto hegeliano
chiarendo però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di
una libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà
come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come
tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per
l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui anelano sempre
alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale» (cioè la ragione
concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale è razionale»
(cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni fenomeno storico,
anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni storici, senza ben
rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai la libertà ha
abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe
dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che possa
sostituire quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il cuore
dell'uomo, nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è una
fase di presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo,
venendo superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli
critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in
modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre
secondo Croce sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è
infatti opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che
certi atti ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto
ad altri ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un
vero e proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre,
la prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi
rientra né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un
complesso miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono
di presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che
l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della considerazione
economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività (ovvero produzione
dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme fondamentali,
suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o universale):
estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale), economia
(pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione tra queste
quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre all'interno di
ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti.[73] All'interno dell'estetica
infatti si ha opposizione dialettica tra bello e brutto, all'interno della
logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella economia tra utile e inutile e
infine nell'etica tra bene e male. Estetica Croce scrisse anche
importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto, Shakespeare e
Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e "La poesia di
Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria estetica che mirava
alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione artistica.
Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con le categorie
di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la ritroviamo in opere
come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Breviario
di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò questa iniziale teoria
stabilendo per la storia un nesso con la filosofia. L'estetica, dal significato
originario del termine aisthesis (sensazione), si configura in primo luogo come
attività teoretica relativa al sensibile, si riferisce alle rappresentazioni e
alle intuizioni che noi abbiamo della realtà. Come conoscenza del
particolare l'intuizione estetica è la prima forma della vita dello Spirito.
Prima logicamente e non cronologicamente poiché tutte le forme sono presenti
insieme nello spirito. L'arte, come aspetto dell'Estetica, è una forma della
vita spirituale che consiste nella conoscenza, intuizione del particolare che:
come forma dello spirito, come creatività non è sensazione, conoscenza
sensibile che è un aspetto passivo dello spirito rispetto ad una materia oscura
e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma dell'attività teoretica) non
ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi respingere tutte le estetiche
che abbiano fini edonistici, sentimentali e moralistici; quale espressione di
un valore autonomo dello spirito, l'arte non può né deve essere giudicata
secondo criteri di verità, moralità o godimento; come intuizione pura va
distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale: compito proprio della
filosofia. L'arte può essere definita quindi come intuizione-espressione, due
termini inscindibili per cui non è possibile intuire senza esprimere né è
possibile espressione senza intuizione. Ciò che l'artista intuisce è la stessa
immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.) che egli per ispirazione crea
da una considerazione del reale, nel senso che l'opera artistica è l'unità
indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile.
La distinzione tra arte e non arte risiede nel grado di intensità
dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed esprimiamo: ma l'artista è
tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e profonda a cui sa far
corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che sostengono di essere artisti
potenziali poiché hanno delle intense intuizioni ma che non sono capaci di
tradurre in espressioni, non si rendono conto che in realtà non hanno alcuna
intuizione poiché se la possedessero veramente essa si tradurrebbe in
espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto ma espressione,
che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore
come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione. Nell'estetica dobbiamo
far rientrare anche quella forma dell'espressione che è il linguaggio che nella
sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia. L'estetica quindi come una
«linguistica in generale». Dall'estetica deriva la critica letteraria crociana,
espressa in molti saggi. Della logica, Croce tratta essenzialmente nella Logica
come scienza del concetto puro[83]); essa corrisponde al momento in cui
l'attività teoretica non è più affidata alla sola intuizione (all'ambito
estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che attinge dalla sfera
dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è l'elaborazione del
concetto puro, universale e concreto che esprime la verità universale di una
determinazione. La logica crociana è anche storica, nella misura in cui essa
deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli oggetti di cui si
occupa. Il termine logica in Benedetto Croce assume quindi un significato più
vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la Logica
di Croce è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi
dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il
filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è
invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali
Croce non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Geymonat
nel suo Corso di filosofia - immagini dell'uomo, «la vera indubbia grandezza di
Croce va cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico
letterario, ecc., che non nella sua opera di filosofo. Gentile ai tempi del
direttorato alla Scuola normale di Pisa. In ogni caso la logica e la filosofia
della scienza è stata sviluppata in Italia da altre correnti di pensiero
contemporaneo a quello crociano, con studiosi fra quali Peano e lo stesso
Geymonat. Un orientamento parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile
che, pur criticando gli eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con
matematici e fisici italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con
la cultura scientifica. Invece Croce ebbe con la logica e la scienza un
rapporto difficile. La sua posizione portò in Italia nella prima metà del
Novecento ad uno scontro dialettico fra due culture contrapposte: quella
artistico-letteraria e quella tecnico-scientifica. Il rapporto conflittuale con
le scienze matematiche e sperimentali Un caso emblematico del giudizio di
Benedetto Croce nei confronti della matematica e delle scienze sperimentali è
la sua nota diatriba con il matematico e filosofo della scienza Federigo
Enriques, avvenuta il 6 aprile 1911 in seno al congresso della Società
Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques. Questi
sosteneva che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse
ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di
Enriques mal si confaceva a quella idealistica di Croce e Gentile, come pure a
gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più
formata da idealisti crociani. Croce, in particolare, rispose ad
Enriques[84], liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo
Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle
problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono
vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e
dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei
filosofi idealisti, come Croce medesimo. I concetti scientifici non sono veri e
propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti
pratici di costituzione fittizia. «La realtà è storia e solo storicamente
la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur
necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla
nell'intrinseco. Sul tema Benedetto Croce sostenne, tra l'altro, che:
«Gli uomini di scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale,
proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di
notizie all'organismo filosofico-storico.» (Benedetto Croce da Il
risveglio filosofico e la cultura italiana, A proposito dello sviluppo
novecentesco della logica matematica e dell'introduzione dei formalismi
simbolici, ad opera di matematici e filosofi quali Gottlob Frege, Giuseppe
Peano, Bertrand Russell, Benedetto Croce dichiarerà: «I nuovi congegni
[della logica matematica] sono stati offerti sul mercato: e tutti, sempre, li
hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né
punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra
probabile e, ad ogni modo, è fuori della competenza della filosofia e
appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai
commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le
acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni
logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro
nullità filosofica rimane, sin da ora, pienamente provata.» (Benedetto
Croce da Logica come scienza del concetto puro,Anni dopo, ancora scriveva
che: «Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia,
hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse
rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono
concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la
meditazione del vero.» (Benedetto Croce da Indagini su Hegel e e schiarimenti
filosofici e ribadiva come: «Le finzioni delle scienze naturali e
matematiche postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La
logica, come scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio,
scienza di finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del
concetto filosofico e quindi filosofia della filosofia.» (Benedetto Croce
da Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici. Tuttavia ebbe altresì un
cordiale e rispettoso scambio epistolare con Albert Einstein. Secondo diversi
storici e filosofi (es. Giorello, Bellone, Massarenti), l'influenza antiscientifica
di Croce e di Gentile[90] sarebbe stata fortemente deleteria sia sul piano
dell'istituzione scolastica per gli orientamenti pedagogici della scuola
italiana, che si sarebbe indirizzata prevalentemente agli studi umanistici
considerando quelli scientifici di secondo piano, sia per la formazione di una
classe politica e dirigente che attribuisse importanza alla scienza e alla
tecnica e portando, per conseguenza, ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e
scientifico nazionale. «[La scuola] sarà caratterizzata dal primato
dell'umanesimo letterario e in particolare dell'umanesimo classico. Tutte le
istituzioni culturali saranno improntate al primato delle lettere, della filosofia
e della storia. Giorello nel quarantennale della morte di Croce ha scritto che
"predicò la religione della libertà e per questo gli siamo riconoscenti.
Ma la sua condanna della scienza e la sua estetica hanno causato danni
gravissimi alla nostra cultura. Che ora esige riparazione. Lo stesso Giorello però ha in parte ritrattato
l'affermazione, negando che sia da attribuire a Croce il mancato sviluppo
scientifico italiano, adducendo che quelle che lui considerava una
"colpa" sarebbero da accreditare maggiormente alla Chiesa, agli
scienziati stessi e alla classe politica, più che all'idealismo, che trascura
le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la filosofia di Croce
«interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di
scienza. Croce riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque validità
e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso dichiarò più
volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del tempo a studiare
«i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori come Kant. ilosofia
della pratica «La legge morale è la suprema forza della vita e la realtà della
Realtà.» (Filosofia della pratica. Etica ed economica, Laterza, Bari)
Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della pratica. Economica ed
etica. Croce dà molto rilievo alla volizione individuale che è poi l'economia,
avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che regolano la vita
umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a quello degli altri:
nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita degli individui. Il
diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso amorale, poiché i
suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e propria.
Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di
incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto,
quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. Croce critica
anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile: lo
Stato non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione
di individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è
poi concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello
spirito; non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono
contenuti eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello
spirito, che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari.
Questo avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria
e storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma
giustificatrice» (Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia) La
storia e lo spirito: lo storicismo assoluto Giambattista Vico Come si
evince anche da Teoria e storia della storiografia la filosofia di Croce,
ispirata soprattutto a Giambattista Vico, è fortemente storicista. Per ciò, se
volessimo riassumere con una formula la filosofia di Croce, questa sarebbe
storicismo assoluto, ossia la convinzione che tutto è storia, affermando che
tutta la realtà è spirito e che questo si dispiega nella sua interezza
all'interno della storia. La storia non è dunque una sequela capricciosa di
eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza storica ci illumina a
proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei fatti che li giustifica
con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il compito dello storico:
egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni forma di emotività nei
confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza. In questo
modo la storia perde la sua passionalità e diviene visione logica della realtà.
Quanto appena affermato si può evincere dalla celebre frase «la storia non è
giustiziera, ma giustificatrice». Con questo afferma che lo storico non giudica
e non fa riferimento al bene o al male. Quest'ultimo delinea, inoltre, come la
storia abbia anche un preciso orizzonte gnoseologico, poiché in primo luogo è
conoscenza, e conoscenza contemporanea, ovvero la storia non è passata, ma viva
in quanto il suo studio è motivato da interessi del presente. Il bisogno
pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il
carattere di "storia contemporanea", perché, per remoti e remotissimi
che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia
sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti
propagano le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per
comprendere l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo
essa è conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise.
Anche se subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, Croce critica gli
illuministi e in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli
assoluti che regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia
nella sua totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente,
secondo i propri ritmi e le proprie ragioni. La storia è un cammino
progressivo per cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e
progredisce incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per
l'appunto questo progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a
superare storicamente la negatività dei periodi bui della storia non è una
certezza su cui adagiarsi: questa consapevolezza del progresso storico deve
essere confermata da un impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati
non sono mai scontati né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia
di libertà, dei modi in cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria
esistenza. La libertà si traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta
di religione della libertà o di metodo interpretativo della storia e di
orientamento dell'azione, che è imprescindibile nel processo del progresso
storico-politico, come si evince dal volume del 1938 La storia come pensiero e
come azione Per Croce la libertà può essere apprezzata solo difendendola
costantemente in maniera dialettica, poiché la storia è necessariamente
contrasto. Chi desideri in breve persuadersi che la libertà non può vivere
diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa
e combattente, pensi per un istante a un mondo di libertà senza contrasti,
senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta; e subito se ne ritrarrà
inorridito come dall'immagine, peggio che della morte, della noia
infinita.» (La storia come pensiero e come azione). Ciò però non vuol
dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso saggio
ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere
creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla». La concezione
storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole
influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del
maggior storico americano del nazismo, George Mosse. Croce interviene al
congresso liberale. Croce critico letterario, specie quello di Poesia e non
poesia, esercitò molta influenza successiva, quasi una "dittatura
intellettuale sulla cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio
furono ritenute scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola
usata da Croce), poiché non presentate come opinione personale ma come veri
canoni estetici, varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie
europee, esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di
Gabriele D'Annunzio, Giovanni Pascoli (di cui apprezzò solo alcune parti di
Myricae e dei Canti di Castelvecchio criticando i saggi e le poesie civili),
del crepuscolarismo e di Giacomo Leopardi: di quest'ultimo salvò, nei Canti,
gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma criticò le poesie
"dottrinali" e polemiche (in particolare i Paralipomeni della
Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e le opere
filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali), affermando
che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo poetico in
prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle condizioni
fisiche e psicologiche del poeta recanatese. Croce non considera Leopardi un
vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità filosofica ma
che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e indifferente, ma solo
un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al servizio della sua poesia.
Sulla scorta di Francesco de Sanctis, esprime simpatia umana al poeta
recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le
sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande
ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e
sentimentale al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale,
e, a proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in
Del carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Giosuè
Carducci a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre
malati di nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro
il positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova
come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista
al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze
da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il
misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina
dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la
gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce
spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica
letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un
elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S.
Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi
dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono
anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad
esempio, la prefazione all'opera di Tommaso Parodi, Poesia e letteratura:
conquista di anime e studi di critica, pubblicata postuma nel 1916 da Laterza,
a cura del Croce. Il filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi
articoli su vari argomenti pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e
italiani (Cfr. Panetta, Settant'anni di militanza: Croce, tra riviste e
quotidiani) Ad esempio la sua collaborazione con il quotidiano Il Resto del
Carlino durò per più di 40 anni. Filosofia dello spirito Estetica come scienza
dell'espressione e linguistica generale Logica come scienza del concetto puro
Filosofia della pratica. Economica ed Etica Teoria e storia della storiografia;
Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana La
filosofia di Vico Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della
filosofia Materialismo storico ed economia marxistica Nuovi saggi di estetica
Etica e politica. La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e
della letteratura La storia come pensiero e come azione Il carattere della
filosofia moderna Discorsi di varia filosofia; Filosofia e storiografia; Indagini
su Hegel e schiarimenti filosofici; Perché non possiamo non dirci
"cristiani"; Primi saggi Cultura e vita morale L'Italia. Pagine sulla
guerra Pagine sparse; Nuove pagine sparse; Terze pagine sparse; Scritti e
discorsi politici; Carteggio Croce-Vossler; B. Croce - G. Papini, Carteggio; Il
caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana; Saggi sulla
letteratura italiana del Seicento La rivoluzione napoletana del 1799 La letteratura
della nuova Italia; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo
decimottavo La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza Conversazioni
critiche Storie e leggende napoletane Manifesto degli intellettuali
antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici
Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della storiografia italiana nel secolo
decimonono; La poesia di Dante Poesia e non poesia Storia del Regno di Napoli
Uomini e cose della vecchia Italia Storia d'Italia; Storia dell'età barocca in
Italia Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento Storia d'Europa nel
secolo decimonono Poesia popolare e poesia d'arte Varietà di storia letteraria
e civile Vite di avventure, di fede e di passione Poesia antica e moderna Poeti
e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento La letteratura italiana del
Settecento Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della
poesia Aneddoti di varia letteratura Isabella di Morra e Diego Sandoval de
Castro Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di
pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce, promossa con
Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio Montale, Tutte le poesie,
Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani alla voce
"neoidealismo" Emanuele
Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano,
Rizzoli, Giulio Giorello, Dimenticare Croce?
Benedetto Croce - Senato Partito
Liberale Italiano «nato nel 1924, sciolto durante il fascismo e ricostituito».
In Enciclopedia Treccani alla voce "Partito Liberale Italiano"
Pagina jpg del Corriere del Mezzogiorno: Luigi Mosca, L'America innamorata di
Croce. La prestigiosa rivista USA "Foreign Affairs" lo incorona tra i
pensatori più attuali, Einaudi infatti sosteneva che «il liberismo non è né
punto né poco "un principio economico", non è qualcosa che si
contrapponga al liberalismo etico; è una "soluzione concreta" che
talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema,
ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la
via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei
fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico
guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza
subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.» (in
G.Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica, a cura di E. Rossi, Il
filosofo, rispettivamente nel 1919 e nel 1922, dedica ai paesi degli avi, sia
paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia di un
comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito collocate
in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari). È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato
in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra
le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr.
C. Del Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C.,
Napoli, Un'analisi di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera
di Croce è in S. Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica,
Rubbettino, Soveria Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza
di Croce sul terremoto Benedetto Croce,
Memorie della mia vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli
1966. "Il superstite è accolto
allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e
fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non
stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi
d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da
questo periodo oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono
«i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia
fortemente bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo,
Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Antonio Labriola, che con
le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel
naufragio della fede. Croce ricorda di averne recitato più volte i capisaldi
sotto le coperte, come una preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di
Croce, di Matteo Marchesini, Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Ministri della Pubblica Istruzione, su storia.camera. Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera. A. Jannazzo, Croce e la corsa verso la
guerra, in Idem, Croce e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa,
Palermo, Giorgio Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli,
Benedetto Croce e il suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati -
Portale storico Giugno 1924; citato in
G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore Guglielmino/Hermann
Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia letteraria e all'analisi
testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato S.p.A.,. Salvatore Guglielmino/Hermann Grosser, Sambugar,
Salà, Letteratura italiana, Croce e il manifesto antifascista. Primo Levi, Potassio, in Il sistema
periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa della civiltà
e della cultura si è avuta in Italia, per opera di Benedetto Croce. Se da noi
solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a
differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al Croce. (Guido
De Ruggiero) Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il
regime fascista, certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti
internazionali della cultura, consentì tacitamente a Croce una certa libertà di
critica politica; e Croce si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa
degli ideali di libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra
mondiale la figura di Croce ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il
valore di un simbolo della loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui
lo spirito prevalga sulla violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il
terzo volume del carteggio tra Croce e Laterza (l'editore delle opere crociane)
offre una grande quantità di esempi delle difficoltà di mantenersi in
equilibrio “tra l'opposizione concreta e organizzata al fascismo, e l'adesione
o la cinica indifferenza”. Esempi “quasi tutti orientati però verso una precisa
direzione: quella dell'autocensura, a volte praticata, altre volte
orgogliosamente respinta... Tra i molti casi che potrebbero essere citati a
illustrazione di questo atteggiamento, è notevole quello sorto attorno alla
dedica apposta da Paolo Treves, nel libro sulla filosofia di Tommaso
Campanella, al padre Claudio, scrittore e parlamentare socialista, famigerato
tra i fascisti soprattutto per il celebre duello ingaggiato con Mussolini. La
dedica recitava: “A mio padre, che mi additò con l'esempio la dignità della
vita”. Laterza scrive a Croce accostando, con diplomatica sottigliezza, la
lettura di un volgare trafiletto anticrociano e antilaterziano sul “Lavoro
fascista” alla questione della dedica, che egli propone al Treves di limitare
“alle prime tre parole essenziali, non essendo opportuno motivarla allo stato
attuale delle cose”. Alla lettera Croce risponde il giorno dopo,
tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del Treves e
sull'assenza in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con maliziosa e
retorica ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto senso
quella dedica affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della vita (il
corsivo è ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”. Comunque sia,
la dedica uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino, recensione a
Benedetto Croce-Giovanni Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio,
Napoli, Roma-Bari, Istituto italiano per gli studi storici, Laterza, “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia
di particolari in una lettera di Fausto Nicolini a Giovanni Gentile riportata
da Gennaro Sasso in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro
Barbera (a cura di), La biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-Croce-Laterza,
Roma, Fondazione Julius Evola, Cesare Medail, Julius Evola: mi manda Don Benedetto,
in Corriere della Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a
Croce. Regio Decreto Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Flavio Fiorani, Francesca Tacchi,
Storia illustrata del fascismo, Giunti Editore, 2000,91 La Repubblica, Giuseppe Giarrizzo rivendicò
con una punta di orgoglio l'essere annoverato tra i “nipotini” di Croce (se,
nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per Ernesto De Martino un
«basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di Benedetto Croce e
del filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori, si veda: Antonio Gramsci, Il materialismo
storico e la filosofia di Benedetto Croce
B. Croce, Epistolario, I, Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, La vicenda è descritta e analizzata da Gennaro Sasso, La guerra
d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Pierluigi
Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini di lavoro, Napoli, La
tentazione antisemita di tre antifascisti liberali Dante Lattes, Ferruccio Pardo, Benedetto
Croce e l'inutile martirio d'Israele. L'ebraismo secondo B. Croce e secondo la
filosofia crociana Michele Sarfatti, Il
ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda
guerra mondiale, pag. 111 Peter
Tompkins, L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di
liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo
sulle sue posizioni: l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti
dell'opposizione avrebbero accettato di entrare nel governo di Badoglio era
l'abdicazione di Vittorio Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire
le porte al fascismo, favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni». Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a
Benedetto Croce, Torino, Lattes, Giuseppe Mazzini (1948), poi in Scritti e
discorsi politici, II, Bari, Laterza, 1963,451; sulle caratteristiche
"affettive" del pronunciamento di Croce al referendum, vedi Fulvio
Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla repubblica attraverso i
Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, in Benedetto Croce e la nascita della
Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica,
Soveria Mannelli, Rubbettino, "non
sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a
fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che
quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre
questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche
eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la
duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi
sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata
e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. Benedetto
Croce, mai nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata
nomina potesse concretizzarsi.» (In Davide Galliani, Il Capo dello Stato e le
leggi, Volume 1, Giuffrè Editore, Ente Morale, su UniSOB.na. URL consultato il
30 ottobre 2018. Senato della
Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della libertà: Napoli - il funerale di
Benedetto Croce B. Croce, Maria
Curtopassi, Dialogo su Dio: carteggio 1941-1952, Archinto, Il carteggio fra
Croce e Maria Curtopassi è stato pubblicato presso la casa editrice Archinto da
Giovanni Russo, autore anche della nota introduttiva, Maurizio Griffo, Il
pensiero di Benedetto Croce tra religione e laicità. La citazione è tratta da:
B. Croce, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. Croce, Perché non possiamo non
dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi, tratto da:
Benedetto Croce, Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari
della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. Croce, Gentile e la condanna
del Sant'Uffizio, Laterza, Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei
viventi, Il Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e
Filosofia diretta da B. Croce, Il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe
Bottai alluse ironicamente all'operetta crociana con un articolo intitolato
Benedetto Croce rincristianito per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia:
venti secoli di identità, Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci
"cristiani, in La Critica, 20 novembre 1942; poi in Discorsi di varia
filosofia, Laterza, Bari 1945 B. Croce,
M. Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio op.cit. ibidem. F.Focher, Rc. a F. Capanna, La religione in
Benedetto Croce. Il momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia
come religione, Bari 1965, in Rivista di studi crociati, Sandro Magister,
Colloquio con Vittorio Foa (Da l'Espresso, Documenti) In Vittorio Messori, Pensare la storia: una
lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline,Nello Ajello, Solo per amore,
"La Repubblica, Gennaro Sasso, Per invigliare me stesso, Bologna, Il
mulino, 1989,36-9 Nel registro mortuario
di Raiano, vicino a L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del
senatore Benedetto Croce" Benedetto Croce e l'amore Ottaviano Giannangeli, Benedetto Croce a
Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, n. 10,
ottobre 1964 Morta Alda Croce, figlia di
Benedetto Croce È morta Silvia Croce
l'ultima nata del filosofo Morta Lidia,
l'ultima figlia ancora vivente di Benedetto Croce. Si è spenta a Napoli a 93
anni Il pensiero filosofico di Benedetto Croce - senato B. Croce,
La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel Croce, da "papa laico" a grande
dimenticato Renzo Grassano, La filosofia
politica di Karl Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello
storicismo; commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello
storicismo di Popper Croce e il
totalitarismo Carteggio
Croce-Omodeo Georg Wilhelm Friedrich
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al
positivismo che voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si
era interessato dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la
storia; cfr. La storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari 1919 Per questo motivo Croce della Divina Commedia
di Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una
forte e sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del
Paradiso dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia Nella premessa datata «novembre 1908» Croce
scrive di aver trattato l'argomento nello scritto intitolato Lineamenti di una
logica come scienza del concetto puro pubblicato negli Atti dell’Accademia pontaniana
nel 1905. In effetti però avverte Croce che il volume «È una seconda edizione
del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (B. Croce, Logica, Cent'anni di
ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del prof. Carlo
Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, B. Croce, La storia come pensiero e
come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e Croce Dimenticare Croce? (Corriere della Sera) La scienza negata. Il caso italiano, Codice
Edizioni, l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore) Ministro dell'Istruzione del governo
Mussolini, promotore della riforma scolastica varata in Italia nel 1923 Lucio Lombardo Radice in O. Pompeo Faracovi
(a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte, Livorno 1982 Giulio Giorello, Dimenticare Croce?, in Il
Corriere della Sera, L'arretratezza dell'Italia in campo scientifico è il
risultato di cattive scelte dei politici da una parte e di resistenze culturali
e di incapacità degli scienziati stessi a comunicare dall'altra e che quindi
risultano indipendenti dall'idealismo crociano. A livello culturale, casomai,
esistono altre forze che potrebbero essere imputate del ritardo scientifico, si
veda per esempio la nefasta influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti
delle ricerche bioetiche. La mia perplessità nei confronti di Croce non
riguarda le pretese conseguenze della sua filosofia sullo sviluppo
tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi sembra che sia una polemica datata e
ormai superata. Non credo che dalle posizioni antiscientifiche di Croce derivi
un ritardo della società italiana nei confronti della scienza. Quella di Croce
è una filosofia interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando
si parla di scienza e quindi è deficitaria sotto il profilo di una seria
trattazione del problema della conoscenza.» (Giulio Giorello), in È vero che
Croce odiava la scienza? - Dialogo tra Giulio Giorello e Corrado Ocone, Vincenzo
Matera, Angela Biscaldi, Mariangela Giusti, Elena Pezzotti, Elena Rosci, Scienze
umane - Corso integrato, Marietti Scuola,9.
Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, Nicola
Abbagnano, Storia della filosofia, Lorenzo Benadusi, Giorgio Caravale, George
L. Mosse's Italy: Interpretation, Reception, and Intellectual Heritage,
Palgrave Macmillan, Sambugar, Salà, Letteratura italiana Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette
morali di Leopardi, ed. Garzanti
Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano Croce, Schopenhauer e il nome del male Si riferisce a d'Annunzio, Fogazzaro e
Pascoli Riportato in Mario Pazzaglia,
Letteratura italiana III Benedetto
Croce, Del carattere della più recente letteratura italiana, in Letteratura
della nuova Italia, Bari, Dino Biondi, Il Resto del Carlino, Edizioni Nazionali
istituite anteriormente alla legge su Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, concernente l'«Edizione Nazionale delle opere di Benedetto Croce.
Integrazione della composizione della Commissione» su Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, VISTO il D.P.R. 14 agosto 1981 istitutivo dell'Edizione
Nazionale delle opere di Benedetto Croce».Bibliografia Guido Fassò, Croce,
Benedetto, in Novissimo Digesto Italiano, diretto da A. Azara e E. Eula, Torino,
Pomba, Carlo Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Alfredo Parente, Il
pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo, Sergio Solmi, Il
Croce e noi, in "La Rassegna d'Italia", La letteratura italiana
contemporanea, a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi). Fausto Nicolini,
Benedetto Croce, Pomba, Torino, Ottaviano Giannangeli, Benedetto Croce a
Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, (ora in
Id., Operatori letterari abruzzesi, Lanciano, Itinerari). Damiano Venanzio
Fucinese, Dieci lettere inedite di Croce, in "Dimensioni", Lanciano, Ulisse
Benedetti, Benedetto Croce e il Fascismo, Roma, Volpe Rditore, Roma, Gennaro
Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, Nicola
Badaloni, Carlo Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Roma-Bari, Laterza (in
part. di Muscetta: La versatile precocità giovanile di Benedetto Croce. Profilo
della sua lunga operosità, Critica e metodologia letteraria di Croce, Croce
scrittore: multiforme unità della sua prosa). Gianfranco Contini, La parte di
Benedetto Croce nella cultura italiana, in Altri esercizi, Torino, Einaudi, Gennaro
Sasso, La "Storia d'Italia" di Benedetto Croce. Cinquant'anni dopo,
Napoli, Bibliopolis, Paolo Bonetti,
Introduzione a Croce, Editori Laterza, Claes G. Ryn, Will, Imagination and
Reason: Babbitt, Croce and the Problem of Reality (1986). Emma Giammattei,
Retorica e idealismo, Il Mulino, Bologna, 1987. Gennaro Sasso, Per invigilare
me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989.
Giuseppe Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano, Il Saggiatore, Croce
e la cultura meridionale. Atti del convegno di studi, Sulmona-Pescasseroli-Raiano,
a cura di Giuseppe Papponetti, Pescara, Ediars, Toni Iermano, Lo scrittoio di
Croce con scritti inediti e rari, Napoli, Fiorentino, Antonio Cordeschi, Croce
e la bella Angelina. Storia di un amore, Milano, Mursia, Gennaro Sasso,
Filosofia e idealismo. I - Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, Pier Vincenzo
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Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Giovanni Sartori, Studi crociani, Bologna,
Il Mulino, Ottaviano Giannangeli, Croce e la riconquista dell'Abruzzo e Due
monografie e un appunto, in Scrittura e radici. Saggi, Lanciano, Carabba, Croce
filosofo. Atti del convegno internazionale di studi in occasione del 50º
anniversario della morte: Napoli-Messina, Soveria Mannelli, Rubbettino, Ernesto
Paolozzi, L'estetica di Benedetto Croce, Napoli, Guida, Fabio Fernando Rizi,
Benedetto Croce and Italian fascism, University of Toronto Press, Toronto, M.
Visentin, Il neoparmenidismo italiano, I. Le premesse storiche e filosofiche:
Croce e Gentile, Napoli, Bibliopolis, Maria Panetta, Croce editore, Napoli,
Bibliopolis, Guido Verucci, Idealisti all'indice. Croce, Gentile e la condanna
del Sant'Uffizio, Laterza, Roma-Bari, Girolamo Cotroneo, Croce filosofo
italiano, Firenze, Le Lettere, Giuseppe Gembillo, Benedetto Croce, filosofo
della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, Antonio di Mauro, Il problema
religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, FrancoAngeli. Marcello
Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Marcello Mustè,
Croce, Carocci, Roma, Emma Giammattei, I dintorni di Croce. Tra figure e corrispondenze,
Napoli, Guida, Giancristiano Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di
Benedetto Croce, Macerata, Liberilibri,G. Galasso, La memoria, la vita, i
valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei, Napoli, Istituto italiano
per gli studi storici - il Mulino, Carlo Nitsch, «Diritto»: studio per la voce
di un lessico crociano, in JusOnline, IV. Pirro, filosofia e politica in Benedetto
Croce, Roma, Bulzoni, G. Sasso, Croce. Storia d'Italia e Storia d'Europa,
Napoli, Bibliopolis, Michele Lasala, Il lirico sospiro di un istante.
L'estetica crociana e i suoi critici, in "Quaderni di Diacritica", Roma,
Diacritica Edizioni, Roma, G. Sasso, Croce e le letterature e altri saggi,
Napoli, Bibliopolis, Silvestri Paolo, “Rileggendo Einaudi e Croce: spunti per
un liberalismo fondato su un’antropologia della libertà”, Annali della
Fondazione Luigi Einaudi, Silvestri Paolo, “Liberalismo, legge, normatività.
Per una rilettura epistemologica del dibattito Croce-Einaudi”, in R.
Marchionatti,Soddu (Eds.), Luigi Einaudi nella cultura, nella società e nella
politica del Novecento, Leo Olschki, Firenze, Silvestri P., Economia, diritto e
politica nella filosofia di Croce. Tra finzioni, istituzioni e libertà,
Giappichelli, Turin, Giuseppe Russo, Croce e il diritto: dalla ricerca della
pura forma giuridica all'irrealtà delle leggi, in Diacronìa. Rivista di storia
della filosofia del diritto, Voci correlate Istituto italiano per gli studi
storici Fondazione Biblioteca Benedetto Croce Liberalismo Manifesto degli
intellettuali antifascisti Premio nazionale di cultura Benedetto Croce. Treccani
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Benedetto Croce, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Benedetto
Croce, su Dictionary of Art Historians, Lee Sorensen.Opere di Benedetto Croce /
Benedetto Croce (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di
Benedetto Croce, su Open Library, Internet Archive.Opere di Benedetto Croce, su
Progetto Gutenberg.Audiolibri d su LibriVox.(FR) Pubblicazioni di Benedetto
Croce, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation.Bibliografia di Croce, su Internet Speculative Fiction Database,
Al von Ruff.Benedetto Croce, su storia.camera, Camera dei deputati.Benedetto
Croce, su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica.Benedetto Croce, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Scheda sul sito del Senato, su notes9.senato. L'Istituto italiano per
gli studi storici fondato da Benedetto Croce, su iiss. La Fondazione Biblioteca
Benedetto Croce, su fondazionebenedettocroce. Una bibliografia di Benedetto
Croce, su rivista.ssef. Una bibliografia di Benedetto Croce con corredo di
riassunti delle opere e piccoli s aggi, su nuovorealismo.Biografia di Benedetto
Croce con elenco opere, su giornaledifilosofia.net. Il problema
dell'impressione nella ricerca filosofica del giovane Croce, su
giornaledifilosofia.net. L'elenco dei volumi dell'Edizione Nazionale, su
bibliopolis. Benedetto Croce, su Camera - Assemblea Costituente, Parlamento
italiano. Le riviste di Benedetto Croce on line. Accesso full text a «La
Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia» ai «Quaderni della
“Critica”» su bibliotecafilosofia.uniroma1. Benedetto Croce, il filosofo
liberale, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Alessandra Tarquini, Benedetto
Croce, il filosofo liberale, Radio3, Aus dieser Schule sind die beiden
großen zeitgenössischen i 'hilosophen Italiens hervorgegangen, Croce und
Gentile. Beide Denker knüpfen an die J ) Gentile, Che cosa e il
fascismo. 2 ) Gentile hat einen Neudruck seiner Werke veranlaßt. In
seiner ,,Introduzione alla filosotia'*, Bd. 3, sagt er: Damit aus einem
Volke eine Nation werde, muß es sich seiner Nationalität, seiner Kraft
und seiner Kultur bewußt sein. 28
Philosophie Hegels an, die gerade in Italien, namentlich an der
Universität Neapel, von jeher gepflegt wurde. Croce übernimmt von dem
großen deutschen Denker den Leitgedanken, nämlich die Idee des Geistes
als einer dialektischen Tätigkeit, die sich im Rhytmus von Gegensätzen
bewegt. Diese Gegensätze formuliert er allerdings etwas anders als
Siegel, indem er zwischen kontra- diktorischen und nur konträren Momenten
unterscheidet. Ferner lehnt Croce die empirischen Gedanken völlig ab; für
ihn erzeugt nur der Geist die Realität. Es gibt in der Welt nichts, was
nicht Manifestation des Geistes wäre. Er gliedert sich in zwei
Hauptformen: theoretische Aktivität (Erkennen) und praktische (Wollen und
Handeln). Unterformen sind: intuitives Anschauen (Kunst), intellektuelles
Denken (Wissenschaft), ulititalisches Handeln (Ökonomie), moralisches
Wollen (Ethik). So schrieb denn Croce ein Buch über Lebendiges und Totes
in Hegels Philosophie und betonte seine innere Verwandtschaft mit Vico,
dessen Lehre er gleichfalls eine besondere Schrift gewidmet hat. Diese
Verwandtschaft tritt besonders in Croces Werken über Historik und
Ästhetik hervor. Diese und andere Bücher des italienischen Philosophen
haben internationales Ansehen erlangt. Gentile schließt sich zwar im all¬
gemeinen an den Geist der Hegelschen Dialektik an. Er faßt sie aber nicht
als abstrakte Reflexion auf, sondern als konkretes Denken, das zugleich ein
landein ist. Daher bezeichnet er seine Philosophie als Aktualismus. Die
wahre Realität liegt in dem schöpferischen Akt des Geistes. Dieser ist
nicht etwa nur Bewußtsein und Kontemplation der Welt, sondern
schöpferisches Hervorbringen der Welt; Ethik und Politik sind daher ein
Ausfluß des Geistes. Selbst die historische Schau bedeutet nicht nur
einen Bericht über Gescheh¬ nisse der Vergangenheit, sondern auch eine
geistige Schöpfung 1 ). In dieser Lehre erblickt Gentile eine Fortführung
der italienischen Tradition, die von Bruno bis auf Vico, Gioberti und
Spaventa reicht. Er hat sich vollkommen dem Faschismus angeschlossen, war
eine Zeitlang Unterrichtsminister und Urheber einer tiefgreifenden
Schulreform. Gentile hat auch wichtige Beiträge zur Staatstheorie des
Faschismus geliefert 2 ), welche weiter unten erwähnt werden sollen. Es
sei noch hinzugefügt, daß auf dem Gebiete der Rechts¬ philosophie sich G.
Del Vecchio auch außerhalb Italiens einen Namen gemacht hat durch seinen Kampf
gegen den reinen Rechtspositivismus und seine philosophische Begründung
des Imperialismus; dadurch hat seine Lehre eine nahe Beziehung zum
Faschismus. *) Von den zahlreichen Schriften Gentiles ist ,,Der
aktuale Idealismus“ auch in deutscher Übersetzung erschienen
(1932). -I Vgl. besonders „Che cosa e il fascismo", „La
filosolia de] fascismo“. Charakte¬ ristisch ist der Satz: ,,L<» stato
drj fascismo e una creazionc tutta spirituale". Benedetto Croce.
Croce. Keywords: idealism, la filosofia
di Croce come antecedente del fascismo, Mussolini giornalista, la ruttura
Croce-Gentile – l’idealismo di Croce pre-fascismo come fascista: hegel, idea
dello spirito, idealism assoluto, la relazione tra Vico e Hegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Croce:
implicatura: intenzione, espressione, e communicazione” https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51680412208/in/photolist-2mJPC2N-2mJPC5J-2mJNjHK-2mJJdqJ-2mJRM6M-2mJJdpb-2mJNjFf-2mJJdoj-2mJSSNH-2mJPC2T-2mJSSQ1-2mJSSQB-2mJSSNN-2mJJdqi-2mJPC6v-2mJJdrA-2mJJdrF-2mJNjHu-2mJJdpw-2mJNjFa-2mJJdoe-2mJJdqU-2mJPC5o-2mJPC9M-2mJRMdq-2mJSSTN-2mJJdsN-2mJNjKP-2mJPC7x-2mJSSTh-2mJSSQX-2mJPC7H-2mJNjLv-2mJNjMx-2mJJdrL-2mJNjKJ-2mJPC8u-2mJRMbX-2mJSSSL-2mJJdsY-2mJSSR3-2mJRMci-2mJRMe2-2mJNjKZ-2mJNjLR-2mJRMe7-2mJPC7h-2mJNjLL-2mJPC9b-2mJPC9w
Grice e Curcio – corpi esistenti – lucrezio epicureo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Noto).
Filosofo. Grice: “Curcio is what we could call at Oxford a poet; he wrote a
little book ‘Esistentee,’ an obvious parody on Sartre, ‘L’essistentialismo e un
umanesimo.’ – His background is philososophical though, and it shows!” Ensegna
a Noto e Messina. Direttore Generale per l'Ordine Ginnasiale. Altre opere: “Armonia e dissonanza” –
consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia – cognata con ‘armento’
e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il prezzo della salute” (Noto).
Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del templo” (Bonacci, Roma);
“Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma); “II grano di follia”
(Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo, (Bonacci, Roma); “A
due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci, Roma); “Esistente”
(Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due cene” (Bonacci, Roma);
“Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma); “Derelictus” (Bonacci,
Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale” (Bonacci, Roma); “Felix”
(Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma). MARIUS THE
EPICUREAN By the same Author. THE RENAISSANCE :
Studies in Art and Poetry. Globe 8vo. $2. IMAGINARY
PORTRAITS : A Prince of Court Painters— Denys I'Auxerrois — Sebastian van
Storck — Diike Carl of Rosen- mold. Globe 8vo. $1.50.
APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Globe 8vo. $1.75.
PLATO AND PLATONISM : A Series of Lectures. Globe 8vo.
$1.75. MARIUS THE EPICUREAN HIS SENSATIONS
AND IDEAS BY WALTER PATER FELLOW OF
BRASENOSE COLLEGE a Xfiiiepivis Svapos, Sre
fi^Kiarai ai viKTCs m^ LIBRARY MACMILLAN
AND CO., Ltd. NEW YORK : MACMILLAN & CO. ,^|
TO HESTER AND CLARA CONTENTS
PART THE FIRST 1. "The Religion of Numa'
2. White-nights 3. Change of Air . 4. The Tree of
Knowledge 5. The Golden Book 6. Euphuism . 7. A
Pagan End PAGE I 9 19 31
40 68 82 93 PART THE SECOND
8. Animula Vagula 9. New Cyrenaicism . ... log
10. On the Way 120 11. "The Most Religious City in the
World" 130 1 2. "The Divinity that doth hedge a
King" . . 142 13. The "Mistress and Mother" of
Palaces . . 160 14. Manly Amusement ... ... 174
CONTENTS PART THE THIRD CHAP. PAGE
IS. Stoicism at Court i6. Second Thoughts 17.
Beata Urbs , . . . 18. "The Ceremony of the Dart''
19. The Will as Vision 187 I9S
206 21S 227 PART THE FOURTH
20. Two Curious Houses — i. Guests . . . .241 21. Two Curious
Houses — 2. The Church in Cecilia's House . . 253 22.
"The Minor Peace of the Church" . . . 266 23. Divine
Service 280 24. A Conversation not Imaginary . . 290
25. Sunt Lacrim^e Rerum ... , 313 26. The Martyrs . 323
27. The Triumph of Marcus Aurelius . . 331 28. Anima
naturaliter Christiana -----Original Message----- From: Luigi
Speranza <luigisperanza@aol.com> To: jlsperanza@aol.com
<jlsperanza@aol.com> Sent: Fri, Apr 8, 2022 3:35 pm MARIUS THE
EPICUREAN BY WALTER PATER. ESSAYS FROM THE
GUARDIAN. Extra Crown 8vo. 6s. G ASTON DE LATOUR : An Unfinished
Romance. Prepared for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of
Oriel College. Extra Crown 8vo. 7s. 6d. MISCELLANEOUS STUDIES
: A Series of Essays. Pre- pared for the Press by CHARLES L. SHADWELL,
Fellow of Oriel College. Extra Crown 8vo. 95.
GREEK STUDIES : A Series of Essays. Prepared for the Press by
CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel College. Extra Crown 8vo. IDS.
6d. MARIUS THE EPICUREAN. His Sensations and Ideas. 2 Vols.
Extra Crown 8vo. 155. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court
Painters ; Denys 1'Auxerrois : Sebastian van Storck ; Duke Carl of
Rosenmold. Extra Crown 8vo. 6s. THE RENAISSANCE : Studies in Art and
Poetry. Extra Crown 8vo. los. 6d. PLATO AND PLATONISM : A
Series of Lectures. Extra Crown 8vo. 8s. 6d.
APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Extra Crown 8vo. 8s.
6d. LIFE OF WALTER PATER. By ARTHUR C. BENSON. Crown
8vo. 2s. net. [English Men of Letters Series. MACMILLAN AND CO.,
LTD., LONDON. MARIUS THE EPICUREAN HIS
SENSATIONS AND IDEAS BY WALTER PATER
FELLOW OF BRASENOSE COLLEGE Xet/u/nvos oVetpos, ore
pjjcurrat at VOLUME II MACMILLAN AND CO.,
LIMITED ST. MARTIN'S STREET, LONDON 1909
\ 8 First Edition, February 1885 Second
Edition, November 1885 Third Edition, 1892 Fourth
Edition, 1898 Reprinted 1899, 1900, 1901, 1902, 1903, 1904, 1907,
1909 CONTENTS PART THE THIRD CHAP.
PAGE 15. STOICISM AT COURT . 3 1 6. SECOND THOUGHTS . .
.14 17. BE AT A URBS . . . . . .29 18. "THE
CEREMONY OF THE DART" . . .41 19. THE WILL AS VISION . . . .
.57 PART THE FOURTH 20. TWO CURIOUS HOUSES i. GUESTS .
. .75 21. TWO CURIOUS HOUSES 2. THE CHURCH IN CECILIA'S
HOUSE 92 22. " THE MINOR PEACE OF THE CHURCH " . .
109 23. DIVINE SERVICE . . . . . .128 24. A
CONVERSATION NOT IMAGINARY . . 141 25. SUNT LACRIM^E RERUM . . .
172 26. THE MARTYRS 186 27. THE TRIUMPH OF MARCUS
AURELIUS . . 197 28. ANIMA NATURALITER CHRISTIANA 208
Marius the Epicurean HIS SENSATIONS AND IDEAS by WALTER
PATER VOLUME ONE London: 1910. (The Library Edition.)
Contents PART THE FIRST 1. “The Religion of Numa”
2. White-Nights 3. Change of Air 4. The Tree of Knowledge 5.
The Golden Book 6. Euphuism 7. A Pagan End PART THE
SECOND 8. Animula Vagula 9. New Cyrenaicism 10. On the
Way 11. “The Most Religious City in the World” 12. “The Divinity
that Doth Hedge a King” 13. The “Mistress and Mother” of Palaces
14. Manly Amusement NOTES BY THE E-TEXT EDITOR: Notes: I have
placed an asterisk immediately after each of Pater’s footnotes and a + sign
after my own notes, and have listed each of my notes at that chapter’s end.
Greek typeface: For this full-text edition, I have transliterated Pater’s Greek
quotations. If there is a need for the original Greek, it can be viewed at my
site, http://www.ajdrake.com/etexts, a Victorianist archive that contains the
complete works of Walter Pater and many other nineteenth-century texts, mostly
in first editions. MARIUS THE EPICUREAN, VOLUME ONE WALTER PATER
Χειμερινὸς ὄνειρος, ὅτε μήκισται αἱ νύκτες+ +“A winter’s
dream, when nights are longest.” Lucian, The Dream, Vol. 3. MARIUS
THE EPICUREAN, VOLUME ONE PART THE FIRST
CHAPTER I. “THE RELIGION OF NUMA” As, in the triumph of
Christianity, the old religion lingered latest in the country, and died out at
last as but paganism—the religion of the villagers, before the advance of the
Christian Church; so, in an earlier century, it was in places remote from
town-life that the older and purer forms of paganism itself had survived the
longest. While, in Rome, new religions had arisen with bewildering complexity
around the dying old one, the earlier and simpler patriarchal religion, “the
religion of Numa,” as people loved to fancy, lingered on with little change
amid the pastoral life, out of the habits and sentiment of which so much of it
had grown. Glimpses of such a survival we may catch below the merely artificial
attitudes of Latin pastoral poetry; in Tibullus especially, who has preserved
for us many poetic details of old Roman religious usage. At mihi
contingat patrios celebrare Penates, Reddereque antiquo menstrua thura
Lari: —he prays, with unaffected seriousness. Something liturgical,
with repetitions of a consecrated form of words, is traceable in one of his
elegies, as part of the order of a birthday sacrifice. The hearth, from a spark
of which, as one form of old legend related, the child Romulus had been
miraculously born, was still indeed an altar; and the worthiest sacrifice to
the gods the perfect physical sanity of the young men and women, which the
scrupulous ways of that religion of the hearth had tended to maintain. A
religion of usages and sentiment rather than of facts and belief, and attached
to very definite things and places—the oak of immemorial age, the rock on the
heath fashioned by weather as if by some dim human art, the shadowy grove of
ilex, passing into which one exclaimed involuntarily, in consecrated phrase,
Deity is in this Place! Numen Inest!—it was in natural harmony with the temper
of a quiet people amid the spectacle of rural life, like that simpler faith
between man and man, which Tibullus expressly connects with the period when,
with an inexpensive worship, the old wooden gods had been still pressed for
room in their homely little shrines. And about the time when the dying
Antoninus Pius ordered his golden image of Fortune to be carried into the
chamber of his successor (now about to test the truth of the old Platonic
contention, that the world would at last find itself happy, could it detach
some reluctant philosophic student from the more desirable life of celestial
contemplation, and compel him to rule it), there was a boy living in an old
country-house, half farm, half villa, who, for himself, recruited that body of
antique traditions by a spontaneous force of religious veneration such as had
originally called them into being. More than a century and a half had past
since Tibullus had written; but the restoration of religious usages, and their
retention where they still survived, was meantime come to be the fashion
through the influence of imperial example; and what had been in the main a
matter of family pride with his father, was sustained by a native instinct of
devotion in the young Marius. A sense of conscious powers external to
ourselves, pleased or displeased by the right or wrong conduct of every
circumstance of daily life—that conscience, of which the old Roman religion was
a formal, habitual recognition, was become in him a powerful current of feeling
and observance. The old-fashioned, partly puritanic awe, the power of which
Wordsworth noted and valued so highly in a northern peasantry, had its counterpart
in the feeling of the Roman lad, as he passed the spot, “touched of heaven,”
where the lightning had struck dead an aged labourer in the field: an upright
stone, still with mouldering garlands about it, marked the place. He brought to
that system of symbolic usages, and they in turn developed in him further, a
great seriousness—an impressibility to the sacredness of time, of lifeand its
events, and the circumstances of family fellowship; of such gifts to men as
fire, water, the earth, from labour on which they live, really understood by
him as gifts—a sense of eligious responsibility in the reception of them.
It was a religion for the most part of fear, of multitudinous scruples, of a
year-long burden of forms; yet rarely (on clear summer mornings, for instanrce)
the thought of those heavenly powers afforded a welcome channel for the almost
stifling sense of health and delight in him, and relieved it as gratitude to
the gods. The day of the “little” or private Ambarvalia was come, to be
celebrated by a single family for the welfare of all belonging to it, as the
great college of the Arval Brothers offici ated at Rome in the interest of
the whole state. At the appointed time all work ceases; the instruments of
labour lie untouched, hung with wreaths of flowers, while masters and servants
together go in solemn procession along the dry paths of vineyard and cornfield,
conducting the victims whose blood is presently to be shed for the purification
from all natural or supernatural taint o f the lands they have “gone
about.” The old Latin words of the liturgy, to be said as the procession moved
on its way, though their precise meaning was long since become unintelligible,
were recited from an ancient illuminated roll, kept in the painted chest in the
hall, together with the family records. Early on that day the girls of the farm
had been busy in the great portico, filling large baskets with flowers plucked
short from branches of apple and cherry, then in spacious bloom, to strew
before the quaint images of the gods—Ceres and Bacchus and the yet more
mysterious Dea Dia—as they passed through the fields, carried in their little
houses on the shoulders of white-clad youths, who were understood to proceed to
this office in perfect temperance, as pure in soul and body as the air they
breathed in the firm weather of that early summer-time. The clean lustral water
and the full incense-box were carried after them. The altars were gay with
garlands of wool and the more sumptuous sort of blossom and green herbs to be
thrown into the sacrificial fire, fresh-gathered this morning from a particular
plot in the old garden, set apart for the purpose. Just then the young leaves
were almost as fragrant as flowers, and the scent of the bean-fields mingled
pleasantly with the cloud of incense. But for the monotonous intonation of the
liturgy by the priests, clad in their strange, stiff, antique vestments, and
bearing ears of green corn upon their heads, secured by flowing bands of white,
the procession moved in absolute stillness, all persons, even the children,
abstaining from speech after the utterance of the pontifical formula, Favete
linguis!—Silence! Propitious Silence!—lest any words save those proper to the
occasion should hinder the religious efficacy of the rite. With the lad
Marius, who, as the head of his house, took a leading part in the ceremonies of
the day, there was a devout effort to complete this impressive outward silence
by that inward tacitness of mind, esteemed so important by religious Romans in
the performance of these sacred functions. To him the sustained stillness
without seemed really but to be waiting upon that interior, mental condition of
preparation or expectancy, for which he was just then intently striving. The
persons about him, certainly, had never been challenged by those prayers and
ceremonies to any ponderings on the divine nature: they conceived them rather
to be the appointed means of setting such troublesome movements at rest. By
them, “the religion of Numa,” so staid, ideal and comely, the object of so much
jealous conservatism, though of direct service as lending sanction to a sort of
high scrupulosity, especially in the chief points of domestic conduct, was
mainly prized as being, through its hereditary character, something like a
personal distinction—as contributing, among the other accessories of an ancient
house, to the production of that aristocratic atmosphere which separated them
from newly-made people. But in the young Marius, the very absence from those
venerable usages of all definite history and dogmatic interpretation, had
already awakened much speculative activity; and to-day, starting from the
actual details of the divine service, some very lively surmises, though
scarcely distinct enough to be thoughts, were moving backwards and forwards in
his mind, as the stirring wind had done all day among the trees, and were like
the passing of some mysterious influence over all the elements of his nature
and experience. One thing only distracted him—a certain pity at the bottom of
his heart, and almost on his lips, for the sacrificial victims and their looks
of terror, rising almost to disgust at the central act of the sacrifice itself,
a piece of everyday butcher’s work, such as we decorously hide out of sight;
though some then present certainly displayed a frank curiosity in the spectacle
thus permitted them on a religious pretext. The old sculptors of the great
procession on the frieze of the Parthenon at Athens, have delineated the placid
heads of the victims led in it to sacrifice, with a perfect feeling for animals
in forcible contrast with any indifference as to their sufferings. It was this
contrast that distracted Marius now in the blessing of his fields, and
qualified his devout absorption upon the scrupulous fulfilment of all the
details of the ceremonial, as the procession approached the altars. The
names of that great populace of “little gods,” dear to the Roman home, which
the pontiffs had placed on the sacred list of the Indigitamenta, to be invoked,
because they can help, on special occasions, were not forgotten in the long
litany—Vatican who causes the infant to utter his first cry, Fabulinus who
prompts his first word, Cuba who keeps him quiet in his cot, Domiduca
especially, for whom Marius had through life a particular memory and devotion,
the goddess who watches over one’s safe coming home. The urns of the dead in
the family chapel received their due service. They also were now become
something divine, a goodly company of friendly and protecting spirits, encamped
about the place of their former abode—above all others, the father, dead ten
years before, of whom, remembering but a tall, grave figure above him in early
childhood, Marius habitually thought as a genius a little cold and
severe. Candidus insuetum miratur limen Olympi, Sub pedibusque videt
nubes et sidera.— Perhaps!—but certainly needs his altar here
below, and garlands to-day upon his urn. But the dead genii were satisfied with
little—a few violets, a cake dipped in wine, or a morsel of honeycomb. Daily,
from the time when his childish footsteps were still uncertain, had Marius
taken them their portion of the family meal, at the second course, amidst the
silence of the company. They loved those who brought them their sustenance;
but, deprived of these services, would be heard wandering through the house,
crying sorrowfully in the stillness of the night. And those simple gifts,
like other objects as trivial—bread, oil, wine, milk—had regained for him, by
their use in such religious service, that poetic and as it were moral
significance, which surely belongs to all the means of daily life, could we but
break through the veil of our familiarity with things by no means vulgar in
themselves. A hymn followed, while the whole assembly stood with veiled faces.
The fire rose up readily from the altars, in clean, bright flame—a favourable
omen, making it a duty to render the mirth of the evening complete. Old wine
was poured out freely for the servants at supper in the great kitchen, where
they had worked in the imperfect light through the long evenings of winter. The
young Marius himself took but a very sober part in the noisy feasting. A
devout, regretful after-taste of what had been really beautiful in the ritual
he had accomplished took him early away, that he might the better recall in
reverie all the circumstances of the celebration of the day. As he sank into a
sleep, pleasant with all the influences of long hours in the open air, he
seemed still to be moving in procession through the fields, with a kind of
pleasurable awe. That feeling was still upon him as he awoke amid the beating
of violent rain on the shutters, in the first storm of the season. The thunder
which startled him from sleep seemed to make the solitude of his chamber almost
painfully complete, as if the nearness of those angry clouds shut him up in a
close place alone in the world. Then he thought of the sort of protection which
that day’s ceremonies assured. To procure an agreement with the gods—Pacem
deorum exposcere: that was the meaning of what they had all day been busy upon.
In a faith, sincere but half-suspicious, he would fain have those Powers at
least not against him. His own nearer household gods were all around his bed.
The spell of his religion as a part of the very essence of home, its intimacy,
its dignity and security, was forcible at that moment; only, it seemed to
involve certain heavy demands upon him. CHAPTER II.
WHITE-NIGHTS To an instinctive seriousness, the material abode in
which the childhood of Marius was passed had largely added. Nothing, you felt,
as you first caught sight of that coy, retired place,—surely nothing could
happen there, without its full accompaniment of thought or reverie.
White-nights! so you might interpret its old Latin name.* “The red rose came
first,” says a quaint German mystic, speaking of “the mystery of so-called
white things,” as being “ever an after-thought—the doubles, or seconds, of real
things, and themselves but half-real, half-material—the white queen, the white
witch, the white mass, which, as the black mass is a travesty of the true mass
turned to evil by horrible old witches, is celebrated by young candidates for
the priesthood with an unconsecrated host, by way of rehearsal.” So,
white-nights, I suppose, after something like the same analogy, should be
nights not of quite blank forgetfulness, but passed in continuous dreaming,
only half veiled by sleep. Certainly the place was, in such case, true to its
fanciful name in this, that you might very well conceive, in face of it, that
dreaming even in the daytime might come to much there. * _Ad Vigilias
Albas_. The young Marius represented an ancient family whose estate
had come down to him much curtailed through the extravagance of a certain
Marcellus two generations before, a favourite in his day of the fashionable
world at Rome, where he had at least spent his substance with a correctness of
taste Marius might seem to have inherited from him; as he was believed also to
resemble him in a singularly pleasant smile, consistent however, in the younger
face, with some degree of sombre expression when the mind within was but
slightly moved. As the means of life decreased, the farm had crept nearer
and nearer to the dwelling-house, about which there was therefore a trace of
workday negligence or homeliness, not without its picturesque charm for some,
for the young master himself among them. The more observant passer-by would
note, curious as to the inmates, a certain amount of dainty care amid that
neglect, as if it came in part, perhaps, from a reluctance to disturb old
associations. It was significant of the national character, that a sort of
elegant gentleman farming, as we say, had been much affected by some of the
most cultivated Romans. But it became something more than an elegant diversion,
something of a serious business, with the household of Marius; and his actual
interest in the cultivation of theearth and the care of flocks had brought him,
at least, intimately near to those elementary conditions of life, a reverence
for which, the great Roman poet, as he has shown by his own half-mystic
pre-occupation with them, held to be the ground of primitive Roman religion, as
of primitive morals. But then, farm-life in Italy, including the culture of the
olive and the vine, has a grace of its own, and might well contribute to
the production of an ideal dignity of character, like that of nature itself in
this gifted region. Vulgarity seemed impossible. The place, though
impoverished, was still deservedly dear, full of venerable memories, and with a
living sweetness of its own for to-day. To hold by such ceremonial
traditions had been a part of the struggling family pride of the lad’s father,
to which the example of the head of the state, old Antoninus Pius—an example to
be still further enforced by his successor—had given a fresh though perhaps
somewhat artificial popularity. It had been consistent with many another homely
and old-fashioned trait in him, not to undervalue the charm of exclusiveness
and immemorial authority, which membership in a local priestly college,
hereditary in his house, conferred upon him. To set a real value on these
things was but one element in that pious concern for his home and all that
belonged to it, which, as Marius afterwards discovered, had been a strong
motive with his father. The ancient hymn—Fana Novella!—was still sung by his
people, as the new moon grew bright in the west, and even their wild custom of
leaping through heaps of blazing straw on a certain night in summer was not
discouraged. The privilege of augury itself, according to tradition, had at one
time belonged to his race; and if you can imagine how, once in a way, an
impressible boy might have an inkling, an inward mystic intimation, of the
meaning and consequences of all that, what was implied in it becoming explicit
for him, you conceive aright the mind of Marius, in whose house the auspices
were still carefully consulted before every undertaking of moment. The
devotion of the father then had handed on loyally—and that is all many not
unimportant persons ever find to do—a certain tradition of life, which came to
mean much for the young Marius. The feeling with which he thought of his dead
father was almost exclusively that of awe; though crossed at times by a not
unpleasant sense of liberty, as he could but confess to himself, pondering, in
the actual absence of so weighty and continual a restraint, upon the arbitrary
power which Roman religion and Roman law gave to the parent over the son. On
the part of his mother, on the other hand, entertaining the husband’s memory,
there was a sustained freshness of regret, together with the recognition, as
Marius fancied, of some costly self-sacrifice to be credited to the dead. The
life of the widow, languid and shadowy enough but for the poignancy of that
regret, was like one long service to the departed soul; its many annual
observances centering about the funeral urn—a tiny, delicately carved marble
house, still white and fair, in the family-chapel, wreathed always with the
richest flowers from the garden. To the dead, in fact, was conceded in such
places a somewhat closer neighbourhood to the old homes they were thought still
to protect, than is usual with us, or was usual in Rome itself—a closeness
which the living welcomed, so diverse are the ways of our human sentiment, and
in which the more wealthy, at least in the country, might indulge themselves.
All this Marius followed with a devout interest, sincerely touched and awed by
his mother’s sorrow. After the deification of the emperors, we are told, it was
considered impious so much as to use any coarse expression in the presence of
their images. To Marius the whole of life seemed full of sacred presences,
demanding of him a similar collectedness. The severe and archaic religion of
the villa, as he conceived it, begot in him a sort of devout circumspection
lest he should fall short at any point of the demand upon him of anything in
which deity was concerned. He must satisfy with a kind of sacred equity, he
must be very cautious lest he be found wanting to, the claims of others, in
their joys and calamities—the happiness which deity sanctioned, or the blows in
which it made itself felt. And from habit, this feeling of a responsibility
towards the world of men and things, towards a claim for due sentiment
concerning them on his side, came to be a part of his nature not to be put off.
It kept him serious and dignified amid the Epicurean speculations which in
after years much engrossed him, and when he had learned to think of all
religions as indifferent, serious amid many fopperies and through many languid
days, and made him anticipate all his life long as a thing towards which he
must carefully train himself, some great occasion of self-devotion, such as
really came, that should consecrate his life, and, it might be, its memory with
others, as the early Christian looked forward to martyrdom at the end of his
course, as a seal of worth upon it. The traveller, descending from the
slopes of Luna, even as he got his first view of the Port-of-Venus, would pause
by the way, to read the face, as it were, of so beautiful a dwelling-place,
lying away from the white road, at the point where it began to decline somewhat
steeply to the marsh-land below. The building of pale red and yellow marble,
mellowed by age, which he saw beyond the gates, was indeed but the exquisite
fragment of a once large and sumptuous villa. Two centuries of the play of the
sea-wind were in the velvet of the mosses which lay along its inaccessible
ledges and angles. Here and there the marble plates had slipped from their places,
where the delicate weeds had forced their way. The graceful wildness which
prevailed in garden and farm gave place to a singular nicety about the actual
habitation, and a still more scrupulous sweetness and order reigned within. The
old Roman architects seem to have well understood the decorative value of the
floor—the real economy there was, in the production of rich interior effect, of
a somewhat lavish expenditure upon the surface they trod on. The pavement of
the hall had lost something of its evenness; but, though a little rough to the
foot, polished and cared for like a piece of silver, looked, as mosaic-work is
apt to do, its best in old age. Most noticeable among the ancestral masks, each
in its little cedarn chest below the cornice, was that of the wasteful but
elegant Marcellus, with the quaint resemblance in its yellow waxen features to
Marius, just then so full of animation and country colour. A chamber, curved
ingeniously into oval form, which he had added to the mansion, still contained his
collection of works of art; above all, that head of Medusa, for which the villa
was famous. The spoilers of one of the old Greek towns on the coast had flung
away or lost the thing, as it seemed, in some rapid flight across the river
below, from the sands of which it was drawn up in a fisherman’s net, with the
fine golden laminae still clinging here and there to the bronze. It was
Marcellus also who had contrived the prospect-tower of two storeys with the
white pigeon-house above, so characteristic of the place. The little glazed
windows in the uppermost chamber framed each its dainty landscape—the pallid
crags of Carrara, like wildly twisted snow-drifts above the purple heath; the
distant harbour with its freight of white marble going to sea; the lighthouse
temple of Venus Speciosa on its dark headland, amid the long-drawn curves of
white breakers. Even on summer nights the air there had always a motion in it,
and drove the scent of the new-mown hay along all the passages of the
house. Something pensive, spell-bound, and but half real, something
cloistral or monastic, as we should say, united to this exquisite order, made
the whole place seem to Marius, as it were, sacellum, the peculiar sanctuary,
of his mother, who, still in real widowhood, provided the deceased Marius the
elder with that secondary sort of life which we can give to the dead, in our
intensely realised memory of them—the “subjective immortality,” to use a modern
phrase, for which many a Roman epitaph cries out plaintively to widow or sister
or daughter, still in the land of the living. Certainly, if any such
considerations regarding them do reach the shadowy people, he enjoyed that
secondary existence, that warm place still left, in thought at least, beside
the living, the desire for which is actually, in various forms, so great a
motive with most of us. And Marius the younger, even thus early, came to think
of women’s tears, of women’s hands to lay one to rest, in death as in the sleep
of childhood, as a sort of natural want. The soft lines of the white hands and
face, set among the many folds of the veil and stole of the Roman widow, busy
upon her needlework, or with music sometimes, defined themselves for him as the
typical expression of maternity. Helping her with her white and purple wools,
and caring for her musical instruments, he won, as if from the handling of such
things, an urbane and feminine refinement, qualifying duly his country-grown
habits—the sense of a certain delicate blandness, which he relished, above all,
on returning to the “chapel” of his mother, after long days of open-air
exercise, in winter or stormy summer. For poetic souls in old Italy felt,
hardly less strongly than the English, the pleasures of winter, of the hearth,
with the very dead warm in its generous heat, keeping the young myrtles in
flower, though the hail is beating hard without. One important principle, of
fruit afterwards in his Roman life, that relish for the country fixed deeply in
him; in the winters especially, when the sufferings of the animal world became
so palpable even to the least observant. It fixed in him a sympathy for all
creatures, for the almost human troubles and sicknesses of the flocks, for
instance. It was a feeling which had in it something of religious veneration
for life as such—for that mysterious essence which man is powerless to create
in even the feeblest degree. One by one, at the desire of his mother, the lad
broke down his cherished traps and springes for the hungry wild birds on the
salt marsh. A white bird, she told him once, looking at him gravely, a bird
which he must carry in his bosom across a crowded public place—his own soul was
like that! Would it reach the hands of his good genius on the opposite side,
unruffled and unsoiled? And as his mother became to him the very type of
maternity in things, its unfailing pity and protectiveness, and maternity
itself the central type of all love;—so, that beautiful dwelling-place lent the
reality of concrete outline to a peculiar ideal of home, which throughout the
rest of his life he seemed, amid many distractions of spirit, to be ever
seeking to regain. And a certain vague fear of evil, constitutional in
him, enhanced still further this sentiment of home as a place of tried
security. His religion, that old Italian religion, in contrast with the really
light-hearted religion of Greece, had its deep undercurrent of gloom, its sad,
haunting imageries, not exclusively confined to the walls of Etruscan tombs.
The function of the conscience, not always as the prompter of gratitude for benefits
received, but oftenest as his accuser before those angry heavenly masters, had
a large part in it; and the sense of some unexplored evil, ever dogging his
footsteps, made him oddly suspicious of particular places and persons. Though
his liking for animals was so strong, yet one fierce day in early summer, as he
walked along a narrow road, he had seen the snakes breeding, and ever
afterwards avoided that place and its ugly associations, for there was
something in the incident which made food distasteful and his sleep uneasy for
many days afterwards. The memory of it however had almost passed away, when at
the corner of a street in Pisa, he came upon an African showman exhibiting a
great serpent: once more, as the reptile writhed, the former painful impression
revived: it was like a peep into the lower side of the real world, and again
for many days took all sweetness from food and sleep. He wondered at himself
indeed, trying to puzzle out the secret of that repugnance, having no
particular dread of a snake’s bite, like one of his companions, who had put his
hand into the mouth of an old garden-god and roused there a sluggish viper. A
kind of pity even mingled with his aversion, and he could hardly have killed or
injured the animals, which seemed already to suffer by the very circumstance of
their life, being what they were. It was something like a fear of the
supernatural, or perhaps rather a moral feeling, for the face of a great
serpent, with no grace of fur or feathers, so different from quadruped or bird,
has a sort of humanity of aspect in its spotted and clouded nakedness. There
was a humanity, dusty and sordid and as if far gone in corruption, in the
sluggish coil, as it awoke suddenly into one metallic spring of pure enmity
against him. Long afterwards, when it happened that at Rome he saw, a second
time, a showman with his serpents, he remembered the night which had then
followed, thinking, in Saint Augustine’s vein, on the real greatness of those
little troubles of children, of which older people make light; but with a
sudden gratitude also, as he reflected how richly possessed his life had
actually been by beautiful aspects and imageries, seeing how greatly what was
repugnant to the eye disturbed his peace. Thus the boyhood of Marius passed;
on the whole, more given to contemplation than to action. Less prosperous in
fortune than at an earlier day there had been reason to expect, and animating
his solitude, as he read eagerly and intelligently, with the traditions of the
past, already he lived much in the realm of the imagination, and became
betimes, as he was to continue all through life, something of an idealist,
constructing the world for himself in great measure from within, by the
exercise of meditative power. A vein of subjective philosophy, with the
individual for its standard of all things, there would be always in his
intellectual scheme of the world and of conduct, with a certain incapacity
wholly to accept other men’s valuations. And the generation of this peculiar
element in his temper he could trace up to the days when his life had been so
like the reading of a romance to him. Had the Romans a word for unworldly? The
beautiful word umbratilis perhaps comes nearest to it; and, with that precise
sense, might describe the spirit in which he prepared himself for the
sacerdotal function hereditary in his family—the sort of mystic enjoyment he
had in the abstinence, the strenuous self-control and ascêsis, which such
preparation involved. Like the young Ion in the beautiful opening of the play
of Euripides, who every morning sweeps the temple floor with such a fund of
cheerfulness in his service, he was apt to be happy in sacred places, with a
susceptibility to their peculiar influences which he never outgrew; so that
often in after-times, quite unexpectedly, this feeling would revive in him with
undiminished freshness. That first, early, boyish ideal of priesthood, the
sense of dedication, survived through all the distractions of the world, and
when all thought of such vocation had finally passed from him, as a ministry,
in spirit at least, towards a sort of hieratic beauty and order in the conduct
of life. And now what relieved in part this over-tension of soul was the
lad’s pleasure in the country and the open air; above all, the ramble to the
coast, over the marsh with its dwarf roses and wild lavender, and delightful
signs, one after another—the abandoned boat, the ruined flood-gates, the flock
of wild birds—that one was approaching the sea; the long summer-day of idleness
among its vague scents and sounds. And it was characteristic of him that he
relished especially the grave, subdued, northern notes in all that—the charm of
the French or English notes, as we might term them—in the luxuriant Italian
landscape. CHAPTER III. CHANGE OF AIR Dilexi
decorem domus tuae. That almost morbid religious idealism, and his
healthful love of the country, were both alike developed by the circumstances
of a journey, which happened about this time, when Marius was taken to a
certain temple of Aesculapius, among the hills of Etruria, as was then usual in
such cases, for the cure of some boyish sickness. The religion of Aesculapius,
though borrowed from Greece, had been naturalised in Rome in the old republican
times; but had reached under the Antonines the height of its popularity
throughout the Roman world. That was an age of valetudinarians, in many
instances of imaginary ones; but below its various crazes concerning health and
disease, largely multiplied a few years after the time of which I am speaking
by the miseries of a great pestilence, lay a valuable, because partly
practicable, belief that all the maladies of the soul might be reached through
the subtle gateways of the body. Salus, salvation, for the Romans, had
come to mean bodily sanity. The religion of the god of bodily health, Salvator,
as they called him absolutely, had a chance just then of becoming the one
religion; that mild and philanthropic son of Apollo surviving, or absorbing,
all other pagan godhead. The apparatus of the medical art, the salutary mineral
or herb, diet or abstinence, and all the varieties of the bath, came to have a
kind of sacramental character, so deep was the feeling, in more serious
minds, of a moral or spiritual profit in physical health, beyond the obvious bodily
advantages one had of it; the body becoming truly, in that case, but a quiet
handmaid of the soul. The priesthood or “family” of Aesculapius, a vast
college, believed to be in possession of certain precious medical secrets, came
nearest perhaps, of all the institutions of the pagan world, to the Christian
priesthood; the temples of the god, rich in some instances with the accumulated
thank-offerings of centuries of a tasteful devotion, being really also a kind
of hospitals for the sick, administered in a full conviction of the
religiousness, the refined and sacred happiness, of a life spent in the
relieving of pain. Elements of a really experimental and progressive
knowledge there were doubtless amid this devout enthusiasm, bent so faithfully
on the reception of health as a direct gift from God; but for the most part his
care was held to take effect through a machinery easily capable of misuse for
purposes of religious fraud. Through dreams, above all, inspired by
Aesculapius himself, information as to the cause and cure of a malady was
supposed to come to the sufferer, in a belief based on the truth that dreams do
sometimes, for those who watch them carefully, give many hints concerning the
conditions of the body—those latent weak points at which disease or death may
most easily break into it. In the time of Marcus Aurelius these medical dreams
had become more than ever a fashionable caprice. Aristeides, the “Orator,” a
man of undoubted intellectual power, has devoted six discourses to their
interpretation; the really scientific Galen has recorded how beneficently they
had intervened in his own case, at certain turning-points of life; and a belief
in them was one of the frailties of the wise emperor himself. Partly for the
sake of these dreams, living ministers of the god, more likely to come to one
in his actual dwelling-place than elsewhere, it was almost a necessity that the
patient should sleep one or more nights within the precincts of a temple
consecrated to his service, during which time he must observe certain rules
prescribed by the priests. For this purpose, after devoutly saluting the
Lares, as was customary before starting on a journey, Marius set forth one
summer morning on his way to the famous temple which lay among the hills beyond
the valley of the Arnus. It was his greatest adventure hitherto; and he had
much pleasure in all its details, in spite of his feverishness. Starting early,
under the guidance of an old serving-man who drove the mules, with his wife who
took all that was needful for their refreshment on the way and for the offering
at the shrine, they went, under the genial heat, halting now and then to pluck
certain flowers seen for the first time on these high places, upwards, through
a long day of sunshine, while cliffs and woods sank gradually below their path.
The evening came as they passed along a steep white road with many windings
among the pines, and it was night when they reached the temple, the lights of
which shone out upon them pausing before the gates of the sacred enclosure,
while Marius became alive to a singular purity in the air. A rippling of water
about the place was the only thing audible, as they waited till two priestly
figures, speaking Greek to one another, admitted them into a large,
white-walled and clearly lighted guest-chamber, in which, while he partook of a
simple but wholesomely prepared supper, Marius still seemed to feel pleasantly
the height they had attained to among the hills. The agreeable sense of
all this was spoiled by one thing only, his old fear of serpents; for it was
under the form of a serpent that Aesculapius had come to Rome, and the last
definite thought of his weary head before he fell asleep had been a dread
either that the god might appear, as he was said sometimes to do, under this
hideous aspect, or perhaps one of those great sallow-hued snakes themselves,
kept in the sacred place, as he had also heard was usual. And after an
hour’s feverish dreaming he awoke—with a cry, it would seem, for some one had
entered the room bearing a light. The footsteps of the youthful figure which
approached and sat by his bedside were certainly real. Ever afterwards, when
the thought arose in his mind of some unhoped-for but entire relief from
distress, like blue sky in a storm at sea, would come back the memory of that
gracious countenance which, amid all the kindness of its gaze, had yet a
certain air of predominance over him, so that he seemed now for the first time
to have found the master of his spirit. It would have been sweet to be the
servant of him who now sat beside him speaking. He caught a lesson from
what was then said, still somewhat beyond his years, a lesson in the skilled
cultivation of life, of experience, of opportunity, which seemed to be the aim
of the young priest’s recommendations. The sum of them, through various
forgotten intervals of argument, as might really have happened in a dream, was
the precept, repeated many times under slightly varied aspects, of a diligent
promotion of the capacity of the eye, inasmuch as in the eye would lie for him
the determining influence of life: he was of the number of those who, in the
words of a poet who came long after, must be “made perfect by the love of
visible beauty.” The discourse was conceived from the point of view of a theory
Marius found afterwards in Plato’s Phaedrus, which supposes men’s spirits
susceptible to certain influences, diffused, after the manner of streams or
currents, by fair things or persons visibly present—green fields, for instance,
or children’s faces—into the air around them, acting, in the case of some
peculiar natures, like potent material essences, and conforming the seer to
themselves as with some cunning physical necessity. This theory,* in itself so
fantastic, had however determined in a range of methodical suggestions,
altogether quaint here and there from their circumstantial minuteness. And
throughout, the possibility of some vision, as of a new city coming down “like
a bride out of heaven,” a vision still indeed, it might seem, a long way off,
but to be granted perhaps one day to the eyes thus trained, was presented as
the motive of this laboriously practical direction. * [Transliteration:]
Ê aporroê tou kallous. +Translation: “Emanation from a thing of beauty.”
“If thou wouldst have all about thee like the colours of some fresh
picture, in a clear light,” so the discourse recommenced after a pause, “be
temperate in thy religious notions, in love, in wine, in all things, and of a
peaceful heart with thy fellows.” To keep the eye clear by a sort of exquisite
personal alacrity and cleanliness, extending even to his dwelling-place; to
discriminate, ever more and more fastidiously, select form and colour in things
from what was less select; to meditate much on beautiful visible objects, on
objects, more especially, connected with the period of youth—on children at
play in the morning, the trees in early spring, on young animals, on the
fashions and amusements of young men; to keep ever by him if it were but a
single choice flower, a graceful animal or sea-shell, as a token and
representative of the whole kingdom of such things; to avoid jealously, in his
way through the world, everything repugnant to sight; and, should any
circumstance tempt him to a general converse in the range of such objects, to
disentangle himself from that circumstance at any cost of place, money, or
opportunity; such were in brief outline the duties recognised, the rights
demanded, in this new formula of life. And it was delivered with conviction; as
if the speaker verily saw into the recesses of the mental and physical being of
the listener, while his own expression of perfect temperance had in it a
fascinating power—the merely negative element of purity, the mere freedom from
taint or flaw, in exercise as a positive influence. Long afterwards, when
Marius read the Charmides—that other dialogue of Plato, into which he seems to
have expressed the very genius of old Greek temperance—the image of this
speaker came back vividly before him, to take the chief part in the
conversation. It was as a weighty sanction of such temperance, in almost
visible symbolism (an outward imagery identifying itself with unseen
moralities) that the memory of that night’s double experience, the dream of the
great sallow snake and the utterance of the young priest, always returned to
him, and the contrast therein involved made him revolt with unfaltering
instinct from the bare thought of an excess in sleep, or diet, or even in
matters of taste, still more from any excess of a coarser kind. When he
awoke again, still in the exceeding freshness he had felt on his arrival, and
now in full sunlight, it was as if his sickness had really departed with the
terror of the night: a confusion had passed from the brain, a painful dryness
from his hands. Simply to be alive and there was a delight; and as he bathed in
the fresh water set ready for his use, the air of the room about him seemed
like pure gold, the very shadows rich with colour. Summoned at length by one of
the white-robed brethren, he went out to walk in the temple garden. At a
distance, on either side, his guide pointed out to him the Houses of Birth and
Death, erected for the reception respectively of women about to become mothers,
and of persons about to die; neither of those incidents being allowed to
defile, as was thought, the actual precincts of the shrine. His visitor of the
previous night he saw nowhere again. But among the official ministers of the
place there was one, already marked as of great celebrity, whom Marius saw
often in later days at Rome, the physician Galen, now about thirty years old.
He was standing, the hood partly drawn over his face, beside the holy well, as
Marius and his guide approached it. This famous well or conduit, primary
cause of the temple and its surrounding institutions, was supplied by the water
of a spring flowing directly out of the rocky foundations of the shrine. From
the rim of its basin rose a circle of trim columns to support a cupola of
singular lightness and grace, itself full of reflected light from the rippling
surface, through which might be traced the wavy figure-work of the marble
lining below as the stream of water rushed in. Legend told of a visit of
Aesculapius to this place, earlier and happier than his first coming to Rome:
an inscription around the cupola recorded it in letters of gold. “Being come
unto this place the son of God loved it exceedingly:”—Huc profectus filius Dei
maxime amavit hunc locum;—and it was then that that most intimately human of
the gods had given men the well, with all its salutary properties. The element
itself when received into the mouth, in consequence of its entire freedom from
adhering organic matter, was more like a draught of wonderfully pure air than
water; and after tasting, Marius was told many mysterious circumstances
concerning it, by one and another of the bystanders:—he who drank often thereof
might well think he had tasted of the Homeric lotus, so great became his desire
to remain always on that spot: carried to other places, it was almost
indefinitely conservative of its fine qualities: nay! a few drops of it would
amend other water; and it flowed not only with unvarying abundance but with a
volume so oddly rhythmical that the well stood always full to the brim,
whatever quantity might be drawn from it, seeming to answer with strange
alacrity of service to human needs, like a true creature and pupil of the
philanthropic god. Certainly the little crowd around seemed to find singular
refreshment in gazin g on it. The whole place appeared sensibly influenced
by the amiable and healthful spirit of the thing. All the objects of the
country were there at their freshest. In the great park-like enclosure for the
maintenance of the sacred animals offered by the convalescent, grass and trees
were allowed to grow with a kind of graceful wildness; otherwise, all was
wonderfully nice. And thatfreshness seemed to have something moral in its
influence, as if it acted upon the body and the merely bodily powers of
apprehension, through the intelligence; and to the end of his visit Marius saw
no more serpents. A lad was just then drawing water for ritual uses, and
Marius followed him as he returned from the well, more and more impressed by
the religiousness of all he saw, on his way through a long cloister or
corridor, the walls well-nigh hidden under votive inscriptions recording
favours from the son of Apollo, and with a distant fragrance of incense in the
air, explained when he turned aside through an open doorway into the temple
itself. His heart bounded as the refined and dainty magnificence of the place
came upon him suddenly, in the flood of early sunshine, with the ceremonial
lights burning here and there, and withal a singular expression of sacred
order, a surprising cleanliness and simplicity. Certain priests, men whose
countenances bore a deep impression of cultivated mind, each with his little
group of assistants, were gliding round silently to perform their morning
salutation to the god, raising the closed thumb and finger of the right hand
with a kiss in the air, as the y came and went on their sacred business,
bearing their frankincense and lustral water. Around the walls, at such a level
that the worshippers might read, as in a book, the story of the god and his
sons, the brotherhood of the Asclepiadae, ran a series of imageries, in low relief,
their delicate light and shade being heightened, here and there, with gold.
Fullest of inspired and sacred expression, as if in this place the chisel of
the artist had indeed dealt not with marble but with the very breath
of feeling and thought, was the scene in which the earliest generation of the
sons of Aesculapius were transformed into healing dreams; for “grown now too
glorious to abide longer among men, by the aid of their sire they put away
their mortal bodies, and came into another country, yet not indeed into Elysium
nor into the Islands of the Blest. But being made like to the immortal gods,
they began to pass about through the world, changed thus far from their first
form that they appear eternally young, as many persons have seen them in many
places—ministers and heralds of their father, passing to and fro over the
earth, like gliding stars. Which thing is, indeed, the most wonderful
concerning them!” And in this scene, as throughout the series, with all its
crowded personages, Marius noted on the carved faces the same peculiar union of
unction, almost of hilarity, with a certain self-possession and reserve, which
was conspicuous in the living ministrants around him. In the central
space, upon a pillar or pedestal, hung, ex voto, with the richest personal
ornaments, stood the image of Aesculapius himself, surrounded by choice
flowering plants. It presented the type, still with something of the severity
of the earlier art of Greece about it, not of an aged and crafty physician, but
of a youth, earnest and strong of aspect, carrying an ampulla or bottle in one
hand, and in the other a traveller’s staff, a pilgrim among his pilgrim
worshippers; and one of the ministers explained to Marius this pilgrim
guise.—One chief source of the master’s knowledgeof healing had been
observation of the remedies resorted to by animals labouring under disease or
pain—what leaf or berry the lizard or dormouse lay upon its wounded fellow; to
which purpose for long years he had led the life of a wanderer, in wild places.
The boy took his place as the last comer, a little way behind the group of
worshippers who stood in front of the image. There, with uplifted face, the
palms of his two hands raised and open before him, and taught by the priest, he
said his collect of thanksgiving and prayer (Aristeides has recorded it at the
end of his Asclepiadae) to the Inspired Dreams:— “O ye children of
Apollo! who in time past have stilledthe waves of sorrow for many people,
lighting up a lamp of safety before those who travel by sea and land, be
pleased, in your great condescension, though ye be equal in glory with your
elder brethren the Dioscuri, and your lot in immortal youth be as theirs, to
accept this prayer, which in sleep and vision ye have inspired. Order it
arig ht, I pray you, according to your loving-kindness to men. Preserve me
from sickness; and endue my body with such a measure of health as may suffice
it for the obeying of the spirit, that I maypass my days unhindered and in
quietness.” On the last morning of his visit Marius entered the shrine
again, and just before his departure the priest, who had been his special
director during his stay at the place, lifting a cunningly contrived panel,
which formed the back of one of the carved seats, bade him look through. What
he saw was like the vision of a new world, by the opening of some unsuspected
window in a familiar dwelling-place. He looked out upon a long-d rawn
valley of singularly cheerful aspect, hidden, by the peculiar conformation of
the locality, from all points of observation but this. In a green meadow at the
foot of the steep olive-clad rocks below, the novices were taking their
exercise. The softly sloping sides of the vale lay alike in full sunlight; and
its distant opening was closed by a beautifully formed mountain, from which the
last wreaths of morning mist were rising under the heat. It might have seemed
the very presentment of a land of hope, its hollows brimful of a shadow of blue
flowers; and lo! on the one level space of the horizon, in a long dark line,
were towers and a dome: and that was Pisa.—Or Rome, was it? asked Marius, ready
to believe the utmost, in his excitement. All this served, as he
understood afterwards in retrospect, at once to strengthen and to purify a
certain vein of character in him. Developing the ideal, pre-existent there, of
a religious beauty, associated for the future with the exquisite splendour of
the temple of Aesculapius, as it dawned upon him on that morning of his first
visit—it developed that ideal in connexion with a vivid sense of the value of
mental and bodily sanity. And this recognition of the beauty, even for the
aesthetic sense, of mere bodily health, now acquired, operated afterwards as an
influence morally salutary, counteracting the less desirable or hazardous
tendencies of some phases of thought, through which he was to pass. He
came home brown with health to find the health of his mother failing; and about
her death, which occurred not long afterwards, there was a circumstance which
rested with him as the cruellest touch of all, in an event which for a time
seemed to have taken the light out of the sunshine. She died away from home,
but sent for him at the last, with a painful effort on her part, but to his
great gratitude, pondering, as he always believed, that he might chance
otherwise to look back all his life long upon a single fault with something
like remorse, and find the burden a great one. For it happened that, through
some sudden, incomprehensible petulance there had been an angry childish gesture,
and a slighting word, at the very moment of her departure, actually for the
last time. Remembering this he would ever afterwards pray to be saved from
offences against his own affections; the thought of that marred parting having
peculiar bitterness for one, who set so much store, both by principle and
habit, on the sentiment of home. CHAPTER IV. THE TREE OF
KNOWLEDGE O mare! O littus! verum secretumque Mouseion,+ quam multa
invenitis, quam multa dictatis! Pliny’s Letters. It would hardly
have been possible to feel more seriously than did Marius in those grave years
of his early life. But the death of his mother turned seriousness of feeling
into a matter of the intelligence: it made him a questioner; and, by bringing
into full evidence to him the force of his affections and the probable
importance of their place in his future, developed in him generally the more
human and earthly elements of character. A singularly virile consciousness of
the realities of life pronounced itself in him; still however as in the main a
poetic apprehension, though united already with something of personal ambition
and the instinct of self-assertion. There were days when he could suspect,
though it was a suspicion he was careful at first to put from him, that that
early, much cherished religion of the villa might come to count with him as but
one form of poetic beauty, or of the ideal, in things; as but one voice, in a
world where there were many voices it would be a moral weakness not to listen
to. And yet this voice, through its forcible pre-occupation of his childish
conscience, still seemed to make a claim of a quite exclusive character,
defining itself as essentially one of but two possible leaders of his spirit,
the other proposing to him unlimited self-expansion in a world of various
sunshine. The contrast was so pronounced as to make the easy, light-hearted,
unsuspecting exercise of himself, among the temptations of the new phase of
life which had now begun, seem nothing less than a rival religion, a rival
religious service. The temptations, the various sunshine, were those of the old
town of Pisa, where Marius was now a tall schoolboy. Pisa was a place lying
just far enough from home to make his rare visits to it in childhood seem like
adventures, such as had never failed to supply new and refreshing impulses to
the imagination. The partly decayed pensive town, which still had its commerce
by sea, and its fashion at the bathing-season, had lent, at one time the vivid
memory of its fair streets of marble, at another the solemn outline of the dark
hills of Luna on its background, at another the living glances of its men and
women, to the thickly gathering crowd of impressions, out of which his notion
of the world was then forming. And while he learned that the object, the
experience, as it will be known to memory, is really from first to last the
chief point for consideration in the conduct of life, these things were feeding
also the idealism constitutional with him—his innate and habitual longing for a
world altogether fairer than that he saw. The child could find his way in
thought along those streets of the old town, expecting duly the shrines at
their corners, and their recurrent intervals of garden-courts, or side-views of
distant sea. The great temple of the place, as he could remember it, on turning
back once for a last look from an angle of his homeward road, counting its tall
gray columns between the blue of the bay and the blue fields of blossoming flax
beyond; the harbour and its lights; the foreign ships lying there; the sailors’
chapel of Venus, and her gilded image, hung with votive gifts; the seamen
themselves, their women and children, who had a whole peculiar colour-world of
their own—the boy’s superficial delight in the broad light and shadow of all
that was mingled with the sense of power, of unknown distance, of the danger of
storm and possible death. To this place, then, Marius came down now from
White-nights, to live in the house of his guardian or tutor, that he might
attend the school of a famous rhetorician, and learn, among other things,
Greek. The school, one of many imitations of Plato’s Academy in the old
Athenian garden, lay in a quiet suburb of Pisa, and had its grove of cypresses,
its porticoes, a house for the master, its chapel and images. For the memory of
Marius in after-days, a clear morning sunlight seemed to lie perpetually on
that severe picture in old gray and green. The lad went to this school daily
betimes, in state at first, with a young slave to carry the books, and
certainly with no reluctance, for the sight of his fellow-scholars, and their
petulant activity, coming upon the sadder sentimental moods of his childhood,
awoke at once that instinct of emulation which is but the other side of
sympathy; and he was not aware, of course, how completely the difference of his
previous training had made him, even in his most enthusiastic participation in
the ways of that little world, still essentially but a spectator. While all
their heart was in their limited boyish race, and its transitory prizes, he was
already entertaining himself, very pleasurably meditative, with the tiny drama
in action before him, as but the mimic, preliminary exercise for a larger
contest, and already with an implicit epicureanism. Watching all the gallant
effects of their small rivalries—a scene in the main of fresh delightful
sunshine—he entered at once into the sensations of a rivalry beyond them, into
the passion of men, and had already recognised a certain appetite for fame, for
distinction among his fellows, as his dominant motive to be. The fame he
conceived for himself at this time was, as the reader will have anticipated, of
the intellectual order, that of a poet perhaps. And as, in that gray monastic
tranquillity of the villa, inward voices from the reality of unseen things had
come abundantly; so here, with the sounds and aspects of the shore, and amid
the urbanities, the graceful follies, of a bathing-place, it was the reality,
the tyrannous reality, of things visible that was borne in upon him. The real world
around—a present humanity not less comely, it might seem, than that of the old
heroic days—endowing everything it touched upon, however remotely, down to its
little passing tricks of fashion even, with a kind of fleeting beauty,
exercised over him just then a great fascination. That sense had come
upon him in all its power one exceptionally fine summer, the summer when, at a
somewhat earlier age than was usual, he had formally assumed the dress of
manhood, going into the Forum for that purpose, accompanied by his friends in
festal array. At night, after the full measure of those cloudless days, he
would feel well-nigh wearied out, as if with a long succession of pictures and
music. As he wandered through the gay streets or on the sea-shore, the real world
seemed indeed boundless, and himself almost absolutely free in it, with a
boundless appetite for experience, for adventure, whether physical or of the
spirit. His entire rearing hitherto had lent itself to an imaginative
exaltation of the past; but now the spectacle actually afforded to his untired
and freely open senses, suggested the reflection that the present had, it might
be, really advanced beyond the past, and he was ready to boast in the very fact
that it was modern. If, in a voluntary archaism, the polite world of that day
went back to a choicer generation, as it fancied, for the purpose of a
fastidious self-correction, in matters of art, of literature, and even, as we
have seen, of religion, at least it improved, by a shade or two of more scrupulous
finish, on the old pattern; and the new era, like the Neu-zeit of the German
enthusiasts at the beginning of our own century, might perhaps be discerned,
awaiting one just a single step onward—the perfected new manner, in the
consummation of time, alike as regards the things of the imagination and the
actual conduct of life. Only, while the pursuit of an ideal like this demanded
entire liberty of heart and brain, that old, staid, conservative religion of
his childhood certainly had its being in a world of somewhat narrow
restrictions. But then, the one was absolutely real, with nothing less than the
reality of seeing and hearing—the other, how vague, shadowy, problematical!
Could its so limited probabilities be worth taking into account in any practical
question as to the rejecting or receiving of what was indeed so real, and, on
the face of it, so desirable? And, dating from the time of his first
coming to school, a great friendship had grown up for him, in that life of so
few attachments—the pure and disinterested friendship of schoolmates. He had
seen Flavian for the first time the day on which he had come to Pisa, at the
moment when his mind was full of wistful thoughts regarding the new life to
begin for him to-morrow, and he gazed curiously at the crowd of bustling
scholars as they came from their classes. There was something in Flavian a
shade disdainful, as he stood isolated from the others for a moment, explained
in part by his stature and the distinction of the low, broad forehead; though
there was pleasantness also for the newcomer in the roving blue eyes which
seemed somehow to take a fuller hold upon things around than is usual with
boys. Marius knew that those proud glances made kindly note of him for a
moment, and felt something like friendship at first sight. There was a tone of
reserve or gravity there, amid perfectly disciplined health, which, to his
fancy, seemed to carry forward the expression of the austere sky and the clear
song of the blackbird on that gray March evening. Flavian indeed was a creature
who changed much with the changes of the passing light and shade about him, and
was brilliant enough under the early sunshine in school next morning. Of all
that little world of more or less gifted youth, surely the centre was this lad
of servile birth. Prince of the school, he had gained an easy dominion over the
old Greek master by the fascination of his parts, and over his fellow-scholars
by the figure he bore. He wore already the manly dress; and standing there in
class, as he displayed his wonderful quickness in reckoning, or his taste in
declaiming Homer, he was like a carved figure in motion, thought Marius, but
with that indescribable gleam upon it which the words of Homer actually
suggested, as perceptible on the visible forms of the gods—hoia theous
epenênothen aien eontas.+ A story hung by him, a story which his comrades
acutely connected with his habitual air of somewhat peevish pride. Two points
were held to be clear amid its general vagueness—a rich stranger paid his schooling,
and he was himself very poor, though there was an attractive piquancy in the
poverty of Flavian which in a scholar of another figure might have been
despised. Over Marius too his dominion was entire. Three years older than he,
Flavian was appointed to help the younger boy in his studies, and Marius thus
became virtually his servant in many things, taking his humours with a sort of
grateful pride in being noticed at all, and, thinking over all this afterwards,
found that the fascination experienced by him had been a sentimental one,
dependent on the concession to himself of an intimacy, a certain tolerance of
his company, granted to none beside. That was in the earliest days; and
then, as their intimacy grew, the genius, the intellectual power of Flavian began
its sway over him. The brilliant youth who loved dress, and dainty food, and
flowers, and seemed to have a natural alliance with, and claim upon, everything
else which was physically select and bright, cultivated also that foppery of
words, of choice diction which was common among the élite spirits of that day;
and Marius, early an expert and elegant penman, transcribed his verses (the
euphuism of which, amid a genuine original power, was then so delightful to
him) in beautiful ink, receiving in return the profit of Flavian’s really great
intellectual capacities, developed and accomplished under the ambitious desire
to make his way effectively in life. Among other things he introduced him to
the writings of a sprightly wit, then very busy with the pen, one
Lucian—writings seeming to overflow with that intellectual light turned upon
dim places, which, at least in seasons of mental fair weather, can make people
laugh where they have been wont, perhaps, to pray. And, surely, the sunlight
which filled those well-remembered early mornings in school, had had more than
the usual measure of gold in it! Marius, at least, would lie awake before the
time, thinking with delight of the long coming hours of hard work in the
presence of Flavian, as other boys dream of a holiday. It was almost by
accident at last, so wayward and capricious was he, that reserve gave way, and
Flavian told the story of his father—a freedman, presented late in life, and
almost against his will, with the liberty so fondly desired in youth, but on
condition of the sacrifice of part of his peculium—the slave’s diminutive
hoard—amassed by many a self-denial, in an existence necessarily hard. The rich
man, interested in the promise of the fair child born on his estate, had sent
him to school. The meanness and dejection, nevertheless, of that unoccupied old
age defined the leading memory of Flavian, revived sometimes, after this first
confidence, with a burst of angry tears amid the sunshine. But nature had had
her economy in nursing the strength of that one natural affection; for, save
his half-selfish care for Marius, it was the single, really generous part, the
one piety, in the lad’s character. In him Marius saw the spirit of unbelief,
achieved as if at one step. The much-admired freedman’s son, as with the
privilege of a natural aristocracy, believed only in himself, in the brilliant,
and mainly sensuous gifts, he had, or meant to acquire. And then, he had
certainly yielded himself, though still with untouched health, in a world where
manhood comes early, to the seductions of that luxurious town, and Marius
wondered sometimes, in the freer revelation of himself by conversation, at the
extent of his early corruption. How often, afterwards, did evil things present
themselves in malign association with the memory of that beautiful head, and
with a kind of borrowed sanction and charm in its natural grace! To Marius, at
a later time, he counted for as it were an epitome of the whole pagan world,
the depth of its corruption, and its perfection of form. And still, in his
mobility, his animation, in his eager capacity for various life, he was so real
an object, after that visionary idealism of the villa. His voice, his glance,
were like the breaking in of the solid world upon one, amid the flimsy fictions
of a dream. A shadow, handling all things as shadows, had felt a sudden real
and poignant heat in them. Meantime, under his guidance, Marius was
learning quickly and abundantly, because with a good will. There was that in
the actual effectiveness of his figure which stimulated the younger lad to make
the most of opportunity; and he had experience already that education largely
increased one’s capacity for enjoyment. He was acquiring what it is the chief
function of all higher education to impart, the art, namely, of so relieving
the ideal or poetic traits, the elements of distinction, in our everyday
life—of so exclusively living in them—that the unadorned remainder of it, the
mere drift or débris of our days, comes to be as though it were not. And the
consciousness of this aim came with the reading of one particular book, then
fresh in the world, with which he fell in about this time—a book which awakened
the poetic or romantic capacity as perhaps some other book might have done, but
was peculiar in giving it a direction emphatically sensuous. It made him, in
that visionary reception of every-day life, the seer, more especially, of a
revelation in colour and form. If our modern education, in its better efforts,
really conveys to any of us that kind of idealising power, it does so (though
dealing mainly, as its professed instruments, with the most select and ideal
remains of ancient literature) oftenest by truant reading; and thus it happened
also, long ago, with Marius and his friend. NOTES 43.
+Transliteration: Mouseion. The word means “seat of the muses.” Translation: “O
sea! O shore! my own Helicon, / How many things have you uncovered to me, how
many things suggested!” Pliny, Letters, Book I, ix, to Minicius Fundanus.
50. +Transliteration: hoia theous epenênothen aien eontas. Translation:
“such as the gods are endowed with.” Homer, Odyssey, 8.365.
CHAPTER V. THE GOLDEN BOOK The two lads were lounging
together over a book, half-buried in a heap of dry corn, in an old granary—the
quiet corner to which they had climbed out of the way of their noisier
companions on one of their blandest holiday afternoons. They looked round: the
western sun smote through the broad chinks of the shutters. How like a picture!
and it was precisely the scene described in what they were reading, with just
that added poetic touch in the book which made it delightful and select, and,
in the actual place, the ray of sunlight transforming the rough grain among the
cool brown shadows into heaps of gold. What they were intent on was, indeed,
the book of books, the “golden” book of that day, a gift to Flavian, as was
shown by the purple writing on the handsome yellow wrapper, following the title
Flaviane!—it said, Flaviane! lege Felicitur! Flaviane! Vivas! Fioreas!
Flaviane! Vivas! Gaudeas! It was perfumed with oil of sandal-wood,
and decorated with carved and gilt ivory bosses at the ends of the
roller. And the inside was something not less dainty and fine, full of
the archaisms and curious felicities in which that generation delighted, quaint
terms and images picked fresh from the early dramatists, the lifelike phrases
of some lost poet preserved by an old grammarian, racy morsels of the
vernacula r and studied prettinesses:—all alike, mere playthings for the
genuine power and natural eloquence of the erudite artist, unsuppressed by his
erudition, which, however, made some people angry, chiefly less well “got-up”
people, and especially those who were untidy from indolence. No! it was
certainly not that old-fashioned, unconscious ease of the early literature,
which could never come again; which, after all, had had more in common with the
“infinite patience” of Apuleius than with the hack-work readiness of his
detractors, who might so well have been “self-conscious” of going slip-shod.
And at least his success was unmistakable as to the precise literary effect he
had intended, including a certain tincture of “neology” in expression—nonnihil
interdum elocutione novella parum signatum—in the language of Cornelius Fronto,
the contemporary prince of rhetoricians. What words he had found for conveying,
with a single touch, the sense of textures, colours, incidents! “Like
jewellers’ work! Like a myrrhine vase!”—admirers said of his writing. “The
golden fibre in the hair, the gold thread-work in the gown marked her as the
mistress”—aurum in comis et in tunicis, ibi inflexum hic intextum, matronam
profecto confitebatur—he writes, with his “curious felicity,” of one of his
heroines. Aurum intextum: gold fibre:—well! there was something of that kind in
his own work. And then, in an age when people, from the emperor Aurelius
downwards, prided themselves unwisely on writing in Greek, he had written for
Latin people in their own tongue; though still, in truth, with all the care of
a learned language. Not less happily inventive were the incidents
recorded—story within story—stories with the sudden, unlooked-for changes of
dreams. He had his humorous touches also. And what went to the ordinary boyish
taste, in those somewhat peculiar readers, what would have charmed boys more
purely boyish, was the adventure:—the bear loose in the house at night, the
wolves storming the farms in winter, the exploits of the robbers, their
charming caves, the delightful thrill one had at the question—“Don’t you know
that these roads are infested by robbers?” The scene of the romance was
laid in Thessaly, the original land of witchcraft, and took one up and down its
mountains, and into its old weird towns, haunts of magic and incantation, where
all the more genuine appliances of the black art, left behind her by Medea when
she fled through that country, were still in use. In the city of Hypata,
indeed, nothing seemed to be its true self—“You might think that through the
murmuring of some cadaverous spell, all things had been changed into forms not
their own; that there was humanity in the hardness of the stones you stumbled
on; that the birds you heard singing were feathered men; that the trees around
the walls drew their leaves from a like source. The statues seemed about to
move, the walls to speak, the dumb cattle to break out in prophecy; nay! the
very sky and the sunbeams, as if they might suddenly cry out.” Witches are
there who can draw down the moon, or at least the lunar virus—that white fluid
she sheds, to be found, so rarely, “on high, heathy places: which is a poison.
A touch of it will drive men mad.” And in one very remote village lives
the sorceress Pamphile, who turns her neighbours into various animals. What
true humour in the scene where, after mounting the rickety stairs, Lucius,
peeping curiously through a chink in the door, is a spectator of the
transformation of the old witch herself into a bird, that she may take flight
to the object of her affections—into an owl! “First she stripped off every rag
she had. Then opening a certain chest she took from it many small boxes, and
removing the lid of one of them, rubbed herself over for a long time, from head
to foot, with an ointment it contained, and after much low muttering to her
lamp, began to jerk at last and shake her limbs. And as her limbs moved to and
fro, out burst the soft feathers: stout wings came forth to view: the nose grew
hard and hooked: her nails were crooked into claws; and Pamphile was an owl.
She uttered a queasy screech; and, leaping little by little from the ground,
making trial of herself, fled presently, on full wing, out of doors.” By
clumsy imitation of this process, Lucius, the hero of the romance, transforms
himself, not as he had intended into a showy winged creature, but into the animal
which has given name to the book; for throughout it there runs a vein of racy,
homely satire on the love of magic then prevalent, curiosity concerning which
had led Lucius to meddle with the old woman’s appliances. “Be you my Venus,” he
says to the pretty maid-servant who has introduced him to the view of Pamphile,
“and let me stand by you a winged Cupid!” and, freely applying the magic
ointment, sees himself transformed, “not into a bird, but into an ass!”
Well! the proper remedy for his distress is a supper of roses, could such be
found, and many are his quaintly picturesque attempts to come by them at that
adverse season; as he contrives to do at last, when, the grotesque procession
of Isis passing by with a bear and other strange animals in its train, the ass
following along with the rest suddenly crunches the chaplet of roses carried in
the High-priest’s hand. Meantime, however, he must wait for the spring,
with more than the outside of an ass; “though I was not so much a fool, nor so
truly an ass,” he tells us, when he happens to be left alone with a daintily
spread table, “as to neglect this most delicious fare, and feed upon coarse
hay.” For, in truth, all through the book, there is an unmistakably real
feeling for asses, with bold touches like Swift’s, and a genuine animal
breadth. Lucius was the original ass, who peeping slily from the window of his
hiding-place forgot all about the big shade he cast just above him, and gave
occasion to the joke or proverb about “the peeping ass and his shadow.”
But the marvellous, delight in which is one of the really serious elements in
most boys, passed at times, those young readers still feeling its fascination,
into what French writers call the macabre—that species of almost insane
pre-occupation with the materialities of our mouldering flesh, that luxury of
disgust in gazing on corruption, which was connected, in this writer at least,
with not a little obvious coarseness. It was a strange notion of the gross lust
of the actual world, that Marius took from some of these episodes. “I am told,”
they read, “that when foreigners are interred, the old witches are in the habit
of out-racing the funeral procession, to ravage the corpse”—in order to obtain
certain cuttings and remnants from it, with which to injure the
living—“especially if the witch has happened to cast her eye upon some goodly
young man.” And the scene of the night-watching of a dead body lest the witches
should come to tear off the flesh with their teeth, is worthy of Théophile
Gautier. But set as one of the episodes in the main narrative, a true gem
amid its mockeries, its coarse though genuine humanity, its burlesque horrors,
came the tale of Cupid and Psyche, full of brilliant, life-like situations,
speciosa locis, and abounding in lovely visible imagery (one seemed to see and
handle the golden hair, the fresh flowers, the precious works of art in it!)
yet full also of a gentle idealism, so that you might take it, if you chose,
for an allegory. With a concentration of all his finer literary gifts, Apuleius
had gathered into it the floating star-matter of many a delightful old
story.— The Story of Cupid and Psyche. In a certain city
lived a king and queen who had three daughters exceeding fair. But the beauty
of the elder sisters, though pleasant to behold, yet passed not the measure of
human praise, while such was the loveliness of the youngest that men’s speech
was too poor to commend it worthily and could express it not at all. Many of
the citizens and of strangers, whom the fame of this excellent vision had
gathered thither, confounded by that matchless beauty, could but kiss the
finger-tips of their right hands at sight of her, as in adoration to the
goddess Venus herself. And soon a rumour passed through the country that she
whom the blue deep had borne, forbearing her divine dignity, was even then
moving among men, or that by some fresh germination from the stars, not the sea
now, but the earth, had put forth a new Venus, endued with the flower of
virginity. This belief, with the fame of the maiden’s loveliness, went
daily further into distant lands, so that many people were drawn together to
behold that glorious model of the age. Men sailed no longer to Paphos, to
Cnidus or Cythera, to the presence of the goddess Venus: her sacred rites were
neglected, her images stood uncrowned, the cold ashes were left to disfigure
her forsaken altars. It was to a maiden that men’s prayers were offered, to a
human countenance they looked, in propitiating so great a godhead: when the
girl went forth in the morning they strewed flowers on her way, and the victims
proper to that unseen goddess were presented as she passed along. This
conveyance of divine worship to a mortal kindled meantime the anger of the true
Venus. “Lo! now, the ancient parent of nature,” she cried, “the fountain of all
elements! Behold me, Venus, benign mother of the world, sharing my honours with
a mortal maiden, while my name, built up in heaven, is profaned by the mean
things of earth! Shall a perishable woman bear my image about with her? In vain
did the shepherd of Ida prefer me! Yet shall she have little joy, whosoever she
be, of her usurped and unlawful loveliness!” Thereupon she called to her that
winged, bold boy, of evil ways, who wanders armed by night through men’s
houses, spoiling their marriages; and stirring yet more by her speech his
inborn wantonness, she led him to the city, and showed him Psyche as she
walked. “I pray thee,” she said, “give thy mother a full revenge. Let
this maid become the slave of an unworthy love.” Then, embracing him closely,
she departed to the shore and took her throne upon the crest of the wave. And
lo! at her unuttered will, her ocean-servants are in waiting: the daughters of
Nereus are there singing their song, and Portunus, and Salacia, and the tiny
charioteer of the dolphin, with a host of Tritons leaping through the billows.
And one blows softly through his sounding sea-shell, another spreads a silken
web against the sun, a third presents the mirror to the eyes of his mistress,
while the others swim side by side below, drawing her chariot. Such was the
escort of Venus as she went upon the sea. Psyche meantime, aware of her
loveliness, had no fruit thereof. All people regarded and admired, but none
sought her in marriage. It was but as on the finished work of the craftsman
that they gazed upon that divine likeness. Her sisters, less fair than she,
were happily wedded. She, even as a widow, sitting at home, wept over her
desolation, hating in her heart the beauty in which all men were pleased.
And the king, supposing the gods were angry, inquired of the oracle of Apollo,
and Apollo answered him thus: “Let the damsel be placed on the top of a certain
mountain, adorned as for the bed of marriage and of death. Look not for a
son-in-law of mortal birth; but for that evil serpent-thing, by reason of whom
even the gods tremble and the shadows of Styx are afraid.” So the king
returned home and made known the oracle to his wife. For many days she
lamented, but at last the fulfilment of the divine precept is urgent upon her,
and the company make ready to conduct the maiden to her deadly bridal. And now
the nuptial torch gathers dark smoke and ashes: the pleasant sound of the pipe
is changed into a cry: the marriage hymn concludes in a sorrowful wailing: below
her yellow wedding-veil the bride shook away her tears; insomuch that the whole
city was afflicted together at the ill-luck of the stricken house. But
the mandate of the god impelled the hapless Psyche to her fate, and, these
solemnities being ended, the funeral of the living soul goes forth, all the
people following. Psyche, bitterly weeping, assists not at her marriage but at
her own obsequies, and while the parents hesitate to accomplish a thing so
unholy the daughter cries to them: “Wherefore torment your luckless age by long
weeping? This was the prize of my extraordinary beauty! When all people
celebrated us with divine honours, and in one voice named the New Venus, it was
then ye should have wept for me as one dead. Now at last I understand that that
one name of Venus has been my ruin. Lead me and set me upon the appointed
place. I am in haste to submit to that well-omened marriage, to behold that
goodly spouse. Why delay the coming of him who was born for the destruction of
the whole world?” She was silent, and with firm step went on the way. And
they proceeded to the appointed place on a steep mountain, and left there the
maiden alone, and took their way homewards dejectedly. The wretched parents, in
their close-shut house, yielded themselves to perpetual night; while to Psyche,
fearful and trembling and weeping sore upon the mountain-top, comes the gentle
Zephyrus. He lifts her mildly, and, with vesture afloat on either side, bears
her by his own soft breathing over the windings of the hills, and sets her
lightly among the flowers in the bosom of a valley below. Psyche, in
those delicate grassy places, lying sweetly on her dewy bed, rested from the
agitation of her soul and arose in peace. And lo! a grove of mighty trees, with
a fount of water, clear as glass, in the midst; and hard by the water, a
dwelling-place, built not by human hands but by some divine cunning. One
recognised, even at the entering, the delightful hostelry of a god. Golden
pillars sustained the roof, arched most curiously in cedar-wood and ivory. The
walls were hidden under wrought silver:—all tame and woodland creatures leaping
forward to the visitor’s gaze. Wonderful indeed was the craftsman, divine or
half-divine, who by the subtlety of his art had breathed so wild a soul into
the silver! The very pavement was distinct with pictures in goodly stones. In
the glow of its precious metal the house is its own daylight, having no need of
the sun. Well might it seem a place fashioned for the conversation of gods with
men! Psyche, drawn forward by the delight of it, came near, and, her
courage growing, stood within the doorway. One by one, she admired the
beautiful things she saw; and, most wonderful of all! no lock, no chain, nor
living guardian protected that great treasure house. But as she gazed there
came a voice—a voice, as it were unclothed of bodily vesture—“Mistress!” it
said, “all these things are thine. Lie down, and relieve thy weariness, and
rise again for the bath when thou wilt. We thy servants, whose voice thou hearest,
will be beforehand with our service, and a royal feast shall be ready.”
And Psyche understood that some divine care was providing, and, refreshed with
sleep and the Bath, sat down to the feast. Still she saw no one: only she heard
words falling here and there, and had voices alone to serve her. And the feast
being ended, one entered the chamber and sang to her unseen, while another
struck the chords of a harp, invisible with him who played on it. Afterwards
the sound of a company singing together came to her, but still so that none
were present to sight; yet it appeared that a great multitude of singers was
there. And the hour of evening inviting her, she climbed into the bed;
and as the night was far advanced, behold a sound of a certain clemency approaches
her. Then, fearing for her maidenhood in so great solitude, she trembled, and
more than any evil she knew dreaded that she knew not. And now the husband,
that unknown husband, drew near, and ascended the couch, and made her his wife;
and lo! before the rise of dawn he had departed hastily. And the attendant
voices ministered to the needs of the newly married. And so it happened with
her for a long season. And as nature has willed, this new thing, by continual
use, became a delight to her: the sound of the voice grew to be her solace in
that condition of loneliness and uncertainty. One night the bridegroom
spoke thus to his beloved, “O Psyche, most pleasant bride! Fortune is grown
stern with us, and threatens thee with mortal peril. Thy sisters, troubled at
the report of thy death and seeking some trace of thee, will come to the
mountain’s top. But if by chance their cries reach thee, answer not, neither
look forth at all, lest thou bring sorrow upon me and destruction upon
thyself.” Then Psyche promised that she would do according to his will. But the
bridegroom was fled away again with the night. And all that day she spent in
tears, repeating that she was now dead indeed, shut up in that golden prison,
powerless to console her sisters sorrowing after her, or to see their faces;
and so went to rest weeping. And after a while came the bridegroom again,
and lay down beside her, and embracing her as she wept, complained, “Was this
thy promise, my Psyche? What have I to hope from thee? Even in the arms of thy
husband thou ceasest not from pain. Do now as thou wilt. Indulge thine own
desire, though it seeks what will ruin thee. Yet wilt thou remember my warning,
repentant too late.” Then, protesting that she is like to die, she obtains from
him that he suffer her to see her sisters, and present to them moreover what
gifts she would of golden ornaments; but therewith he ofttimes advised her
never at any time, yielding to pernicious counsel, to enquire concerning his
bodily form, lest she fall, through unholy curiosity, from so great a height of
fortune, nor feel ever his embrace again. “I would die a hundred times,” she
said, cheerful at last, “rather than be deprived of thy most sweet usage. I
love thee as my own soul, beyond comparison even with Love himself. Only bid
thy servant Zephyrus bring hither my sisters, as he brought me. My honeycomb!
My husband! Thy Psyche’s breath of life!” So he promised; and after the
embraces of the night, ere the light appeared, vanished from the hands of his
bride. And the sisters, coming to the place where Psyche was abandoned,
wept loudly among the rocks, and called upon her by name, so that the sound
came down to her, and running out of the palace distraught, she cried,
“Wherefore afflict your souls with lamentation? I whom you mourn am here.”
Then, summoning Zephyrus, she reminded him of her husband’s bidding; and he
bare them down with a gentle blast. “Enter now,” she said, “into my house, and
relieve your sorrow in the company of Psyche your sister.” And Psyche displayed
to them all the treasures of the golden house, and its great family of
ministering voices, nursing in them the malice which was already at their
hearts. And at last one of them asks curiously who the lord of that celestial
array may be, and what manner of man her husband? And Psyche answered
dissemblingly, “A young man, handsome and mannerly, with a goodly beard. For
the most part he hunts upon the mountains.” And lest the secret should slip
from her in the way of further speech, loading her sisters with gold and gems,
she commanded Zephyrus to bear them away. And they returned home, on fire
with envy. “See now the injustice of fortune!” cried one. “We, the elder
children, are given like servants to be the wives of strangers, while the
youngest is possessed of so great riches, who scarcely knows how to use them.
You saw, Sister! what a hoard of wealth lies in the house; what glittering
gowns; what splendour of precious gems, besides all that gold trodden under
foot. If she indeed hath, as she said, a bridegroom so goodly, then no one in
all the world is happier. And it may be that this husband, being of divine
nature, will make her too a goddess. Nay! so in truth it is. It was even thus
she bore herself. Already she looks aloft and breathes divinity, who, though
but a woman, has voices for her handmaidens, and can command the winds.”
“Think,” answered the other, “how arrogantly she dealt with us, grudging us
these trifling gifts out of all that store, and when our company became a
burden, causing us to be hissed and driven away from her through the air! But I
am no woman if she keep her hold on this great fortune; and if the insult done
us has touched thee too, take we counsel together. Meanwhile let us hold our
peace, and know naught of her, alive or dead. For they are not truly happy of
whose happiness other folk are unaware.” And the bridegroom, whom still
she knows not, warns her thus a second time, as he talks with her by night:
“Seest thou what peril besets thee? Those cunning wolves have made ready for
thee their snares, of which the sum is that they persuade thee to search into
the fashion of my countenance, the seeing of which, as I have told thee often,
will be the seeing of it no more for ever. But do thou neither listen nor make
answer to aught regarding thy husband. Besides, we have sown also the seed of
our race. Even now this bosom grows with a child to be born to us, a child, if
thou but keep our secret, of divine quality; if thou profane it, subject to
death.” And Psyche was glad at the tidings, rejoicing in that solace of a
divine seed, and in the glory of that pledge of love to be, and the dignity of
the name of mother. Anxiously she notes the increase of the days, the waning
months. And again, as he tarries briefly beside her, the bridegroom repeats his
warning: “Even now the sword is drawn with which thy sisters seek thy
life. Have pity on thyself, sweet wife, and upon our child, and see not those
evil women again.” But the sisters make their way into the palace once more,
crying to her in wily tones, “O Psyche! and thou too wilt be a mother! How
great will be the joy at home! Happy indeed shall we be to have the nursing of
the golden child. Truly if he be answerable to the beauty of his parents, it
will be a birth of Cupid himself.” So, little by little, they stole upon
the heart of their sister. She, meanwhile, bids the lyre to sound for their
delight, and the playing is heard: she bids the pipes to move, the quire to
sing, and the music and the singing come invisibly, soothing the mind of the
listener with sweetest modulation. Yet not even thereby was their malice put to
sleep: once more they seek to know what manner of husband she has, and whence
that seed. And Psyche, simple over-much, forgetful of her first story, answers,
“My husband comes from a far country, trading for great sums. He is already of
middle age, with whitening locks.” And therewith she dismisses them
again. And returning home upon the soft breath of Zephyrus one cried to
the other, “What shall be said of so ugly a lie? He who was a young man with
goodly beard is now in middle life. It must be that she told a false tale: else
is she in very truth ignorant what manner of man he is. Howsoever it be, let us
destroy her quickly. For if she indeed knows not, be sure that her bridegroom
is one of the gods: it is a god she bears in her womb. And let that be far from
us! If she be called mother of a god, then will life be more than I can
bear.” So, full of rage against her, they returned to Psyche, and said to
her craftily, “Thou livest in an ignorant bliss, all incurious of thy real
danger. It is a deadly serpent, as we certainly know, that comes to sleep at
thy side. Remember the words of the oracle, which declared thee destined to a
cruel beast. There are those who have seen it at nightfall, coming back from
its feeding. In no long time, they say, it will end its blandishments. It but
waits for the babe to be formed in thee, that it may devour thee by so much the
richer. If indeed the solitude of this musical place, or it may be the
loathsome commerce of a hidden love, delight thee, we at least in sisterly
piety have done our part.” And at last the unhappy Psyche, simple and frail of
soul, carried away by the terror of their words, losing memory of her husband’s
precepts and her own promise, brought upon herself a great calamity. Trembling
and turning pale, she answers them, “And they who tell those things, it may be,
speak the truth. For in very deed never have I seen the face of my husband, nor
know I at all what manner of man he is. Always he frights me diligently from
the sight of him, threatening some great evil should I too curiously look upon
his face. Do ye, if ye can help your sister in her great peril, stand by her
now.” Her sisters answered her, “The way of safety we have well
considered, and will teach thee. Take a sharp knife, and hide it in that part
of the couch where thou art wont to lie: take also a lamp filled with oil, and
set it privily behind the curtain. And when he shall have drawn up his coils
into the accustomed place, and thou hearest him breathe in sleep, slip then
from his side and discover the lamp, and, knife in hand, put forth thy
strength, and strike off the serpent’s head.” And so they departed in
haste. And Psyche left alone (alone but for the furies which beset her)
is tossed up and down in her distress, like a wave of the sea; and though her
will is firm, yet, in the moment of putting hand to the deed, she falters, and
is torn asunder by various apprehension of the great calamity upon her. She hastens
and anon delays, now full of distrust, and now of angry courage: under one
bodily form she loathes the monster and loves the bridegroom. But twilight
ushers in the night; and at length in haste she makes ready for the terrible
deed. Darkness came, and the bridegroom; and he first, after some faint essay
of love, falls into a deep sleep. And she, erewhile of no strength, the
hard purpose of destiny assisting her, is confirmed in force. With lamp plucked
forth, knife in hand, she put by her sex; and lo! as the secrets of the bed
became manifest, the sweetest and most gentle of all creatures, Love himself,
reclined there, in his own proper loveliness! At sight of him the very flame of
the lamp kindled more gladly! But Psyche was afraid at the vision, and, faint
of soul, trembled back upon her knees, and would have hidden the steel in her
own bosom. But the knife slipped from her hand; and now, undone, yet ofttimes
looking upon the beauty of that divine countenance, she lives again. She sees
the locks of that golden head, pleasant with the unction of the gods, shed down
in graceful entanglement behind and before, about the ruddy cheeks and white
throat. The pinions of the winged god, yet fresh with the dew, are spotless
upon his shoulders, the delicate plumage wavering over them as they lie at
rest. Smooth he was, and, touched with light, worthy of Venus his mother. At
the foot of the couch lay his bow and arrows, the instruments of his power,
propitious to men. And Psyche, gazing hungrily thereon, draws an arrow
from the quiver, and trying the point upon her thumb, tremulous still, drave in
the barb, so that a drop of blood came forth. Thus fell she, by her own act,
and unaware, into the love of Love. Falling upon the bridegroom, with indrawn
breath, in a hurry of kisses from eager and open lips, she shuddered as she
thought how brief that sleep might be. And it chanced that a drop of burning
oil fell from the lamp upon the god’s shoulder. Ah! maladroit minister of love,
thus to wound him from whom all fire comes; though ’twas a lover, I trow, first
devised thee, to have the fruit of his desire even in the darkness! At the
touch of the fire the god started up, and beholding the overthrow of her faith,
quietly took flight from her embraces. And Psyche, as he rose upon the
wing, laid hold on him with her two hands, hanging upon him in his passage
through the air, till she sinks to the earth through weariness. And as she lay
there, the divine lover, tarrying still, lighted upon a cypress tree which grew
near, and, from the top of it, spake thus to her, in great emotion. “Foolish
one! unmindful of the command of Venus, my mother, who had devoted thee to one
of base degree, I fled to thee in his stead. Now know I that this was vainly
done. Into mine own flesh pierced mine arrow, and I made thee my wife, only
that I might seem a monster beside thee—that thou shouldst seek to wound the
head wherein lay the eyes so full of love to thee! Again and again, I thought
to put thee on thy guard concerning these things, and warned thee in
loving-kindness. Now I would but punish thee by my flight hence.” And therewith
he winged his way into the deep sky. Psyche, prostrate upon the earth,
and following far as sight might reach the flight of the bridegroom, wept and
lamented; and when the breadth of space had parted him wholly from her, cast
herself down from the bank of a river which was nigh. But the stream, turning
gentle in honour of the god, put her forth again unhurt upon its margin. And as
it happened, Pan, the rustic god, was sitting just then by the waterside,
embracing, in the body of a reed, the goddess Canna; teaching her to respond to
him in all varieties of slender sound. Hard by, his flock of goats browsed at
will. And the shaggy god called her, wounded and outworn, kindly to him and
said, “I am but a rustic herdsman, pretty maiden, yet wise, by favour of my
great age and long experience; and if I guess truly by those faltering steps,
by thy sorrowful eyes and continual sighing, thou labourest with excess of
love. Listen then to me, and seek not death again, in the stream or otherwise.
Put aside thy woe, and turn thy prayers to Cupid. He is in truth a delicate
youth: win him by the delicacy of thy service.” So the shepherd-god
spoke, and Psyche, answering nothing, but with a reverence to his serviceable
deity, went on her way. And while she, in her search after Cupid, wandered
through many lands, he was lying in the chamber of his mother, heart-sick. And
the white bird which floats over the waves plunged in haste into the sea, and
approaching Venus, as she bathed, made known to her that her son lies afflicted
with some grievous hurt, doubtful of life. And Venus cried, angrily, “My son,
then, has a mistress! And it is Psyche, who witched away my beauty and was the
rival of my godhead, whom he loves!” Therewith she issued from the sea,
and returning to her golden chamber, found there the lad, sick, as she had
heard, and cried from the doorway, “Well done, truly! to trample thy mother’s
precepts under foot, to spare my enemy that cross of anunworthy love; nay,
unite her to thyself, child as thou art, that I might have a daughter-in-law
who hates me! I will make thee repent of thy sport, and the savour of thy
marriage bitter. There is one who shall chasten this body of thine, put out thy
torch and unstring thy bow. Not till she has plucked forth that hair, into
which so oft these hands have smoothed the golden light, and sheared away thy
wings, shall I feel the injury done me avenged.” And with this she hastened in
anger from the doors. And Ceres and Juno met her, and sought to know the
meaning of her troubled countenance. “Ye come in season,” she cried; “I pray
you, find for me Psyche. It must needs be that ye have heard the disgrace of my
house.”And they, ignorant of what was done, would have soothed her anger,
saying, “What fault, Mistress, hath thy son committed, that thou wouldst
destroy the girl he loves? Knowest thou not that he is now of age? Because he
wears his years so lightly must he seem to thee ever but a child? Wilt thou for
ever thus pry into the pastimes of thy son, always accusing his wantonness, and
blaming in him those delicate wiles which are all thine own?” Thus, in secret
fear of the boy’s bow, did they seek to please him with their gracious
patronage. But Venus, angry at their light taking of her wrongs, turned her
back upon them, and with hasty steps made her way once more to the sea.
Meanwhile Psyche, tost in soul, wandering hither and thither, rested not night
or day in the pursuit of her husband, desiring, if she might not soothe his
anger by the endearments of a wife, at the least to propitiate him with the
prayers of a handmaid. And seeing a certain temple on the top of a high
mountain, she said, “Who knows whether yonder place be not the abode of my lord?”
Thither, therefore, she turned her steps, hastening now the more because desire
and hope pressed her on, weary as she was with the labours of the way, and so,
painfully measuring out the highest ridges of the mountain, drew near to the
sacred couches. She sees ears of wheat, in heaps or twisted into chaplets; ears
of barley also, with sickles and all the instruments of harvest, lying there in
disorder, thrown at random from the hands of the labourers in the great heat.
These she curiously sets apart, one by one, duly ordering them; for she said
within herself, “I may not neglect the shrines, nor the holy service, of any
god there be, but must rather win by supplication the kindly mercy of them
all.” And Ceres found her bending sadly upon her task, and cried aloud,
“Alas, Psyche! Venus, in the furiousness of her anger, tracks thy footsteps
through the world, seeking for thee to pay her the utmost penalty; and thou,
thinking of anything rather than thine own safety, hast taken on thee the care
of what belongs to me!” Then Psyche fell down at her feet, and sweeping the
floor with her hair, washing the footsteps of the goddess in her tears,
besought her mercy, with many prayers:—“By the gladdening rites of harvest, by
the lighted lamps and mystic marches of the Marriage and mysterious Invention
of thy daughter Proserpine, and by all beside that the holy place of Attica
veils in silence, minister, I pray thee, to the sorrowful heart of Psyche!
Suffer me to hide myself but for a few days among the heaps of corn, till time
have softened the anger of the goddess, and my strength, out-worn in my long
travail, be recovered by a little rest.” But Ceres answered her, “Truly
thy tears move me, and I would fain help thee; only I dare not incur the
ill-will of my kinswoman. Depart hence as quickly as may be.” And Psyche,
repelled against hope, afflicted now with twofold sorrow, making her way back
again, beheld among the half-lighted woods of the valley below a sanctuary
builded with cunning art. And that she might lose no way of hope, howsoever
doubtful, she drew near to the sacred doors. She sees there gifts of price, and
garments fixed upon the door-posts and to the branches of the trees, wrought
with letters of gold which told the name of the goddess to whom they were
dedicated, with thanksgiving for that she had done. So, with bent knee and
hands laid about the glowing altar, she prayed saying, “Sister and spouse of
Jupiter! be thou to these my desperate fortune’s Juno the Auspicious! I know
that thou dost willingly help those in travail with child; deliver me from the
peril that is upon me.” And as she prayed thus, Juno in the majesty of her
godhead, was straightway present, and answered, “Would that I might incline
favourably to thee; but against the will of Venus, whom I have ever loved as a
daughter, I may not, for very shame, grant thy prayer.” And Psyche,
dismayed by this new shipwreck of her hope, communed thus with herself,
“Whither, from the midst of the snares that beset me, shall I take my way once more?
In what dark solitude shall I hide me from the all-seeing eye of Venus? What if
I put on at length a man’s courage, and yielding myself unto her as my
mistress, soften by a humility not yet too late the fierceness of her purpose?
Who knows but that I may find him also whom my soul seeketh after, in the abode
of his mother?” And Venus, renouncing all earthly aid in her search,
prepared to return to heaven. She ordered the chariot to be made ready, wrought
for her by Vulcan as a marriage-gift, with a cunning of hand which had left his
work so much the richer by the weight of gold it lost under his tool. From the
multitude which housed about the bed-chamber of their mistress, white doves
came forth, and with joyful motions bent their painted necks beneath the yoke.
Behind it, with playful riot, the sparrows sped onward, and other birds sweet
of song, making known by their soft notes the approach of the goddess. Eagle
and cruel hawk alarmed not the quireful family of Venus. And the clouds broke
away, as the uttermost ether opened to receive her, daughter and goddess, with
great joy. And Venus passed straightway to the house of Jupiter to beg
from him the service of Mercury, the god of speech. And Jupiter refused not her
prayer. And Venus and Mercury descended from heaven together; and as they went,
the former said to the latter, “Thou knowest, my brother of Arcady, that never
at any time have I done anything without thy help; for how long time, moreover,
I have sought a certain maiden in vain. And now naught remains but that, by thy
heraldry, I proclaim a reward for whomsoever shall find her. Do thou my bidding
quickly.” And therewith she conveyed to him a little scrip, in the which was
written the name of Psyche, with other things; and so returned home. And
Mercury failed not in his office; but departing into all lands, proclaimed that
whosoever delivered up to Venus the fugitive girl, should receive from herself
seven kisses—one thereof full of the inmost honey of her throat. With that the
doubt of Psyche was ended. And now, as she came near to the doors of Venus, one
of the household, whose name was Use-and-Wont, ran out to her, crying, “Hast
thou learned, Wicked Maid! now at last! that thou hast a mistress?” And seizing
her roughly by the hair, drew her into the presence of Venus. And when Venus
saw her, she cried out, saying, “Thou hast deigned then to make thy salutations
to thy mother-in-law. Now will I in turn treat thee as becometh a dutiful
daughter-in-law!” And she took barley and millet and poppy-seed, every
kind of grain and seed, and mixed them together, and laughed, and said to her:
“Methinks so plain a maiden can earn lovers only by industrious ministry: now
will I also make trial of thy service. Sort me this heap of seed, the one kind
from the others, grain by grain; and get thy task done before the evening.” And
Psyche, stunned by the cruelty of her bidding, was silent, and moved not her
hand to the inextricable heap. And there came forth a little ant, which had
understanding of the difficulty of her task, and took pity upon the consort of
the god of Love; and he ran deftly hither and thither, and called together the
whole army of his fellows. “Have pity,” he cried, “nimble scholars of the
Earth, Mother of all things!—have pity upon the wife of Love, and hasten to
help her in her perilous effort.” Then, one upon the other, the hosts of the
insect people hurried together; and they sorted asunder the whole heap of seed,
separating every grain after its kind, and so departed quickly out of
sight. And at nightfall Venus returned, and seeing that task finished
with so wonderful diligence, she cried, “The work is not thine, thou naughty
maid, but his in whose eyes thou hast found favour.” And calling her again in
the morning, “See now the grove,” she said, “beyond yonder torrent. Certain
sheep feed there, whose fleeces shine with gold. Fetch me straightway a lock of
that precious stuff, having gotten it as thou mayst.” And Psyche went
forth willingly, not to obey the command of Venus, but even to seek a rest from
her labour in the depths of the river. But from the river, the green reed,
lowly mother of music, spake to her: “O Psyche! pollute not these waters by
self-destruction, nor approach that terrible flock; for, as the heat groweth,
they wax fierce. Lie down under yon plane-tree, till the quiet of the river’s
breath have soothed them. Thereafter thou mayst shake down the fleecy gold from
the trees of the grove, for it holdeth by the leaves.” And Psyche,
instructed thus by the simple reed, in the humanity of its heart, filled her
bosom with the soft golden stuff, and returned to Venus. But the goddess smiled
bitterly, and said to her, “Well know I who was the author of this thing also.
I will make further trial of thy discretion, and the boldness of thy heart.
Seest thou the utmost peak of yonder steep mountain? The dark stream which
flows down thence waters the Stygian fields, and swells the flood of Cocytus.
Bring me now, in this little urn, a draught from its innermost source.” And
therewith she put into her hands a vessel of wrought crystal. And Psyche
set forth in haste on her way to the mountain, looking there at last to find
the end of her hapless life. But when she came to the region which borders on
the cliff that was showed to her, she understood the deadly nature of her task.
From a great rock, steep and slippery, a horrible river of water poured forth,
falling straightway by a channel exceeding narrow into the unseen gulf below.
And lo! creeping from the rocks on either hand, angry serpents, with their long
necks and sleepless eyes. The very waters found a voice and bade her depart, in
smothered cries of, Depart hence! and What doest thou here? Look around thee!
and Destruction is upon thee! And then sense left her, in the immensity of her
peril, as one changed to stone. Yet not even then did the distress of
this innocent soul escape the steady eye of a gentle providence. For the bird
of Jupiter spread his wings and took flight to her, and asked her, “Didst thou
think, simple one, even thou! that thou couldst steal one drop of that
relentless stream, the holy river of Styx, terrible even to the gods? But give
me thine urn.” And the bird took the urn, and filled it at the source, and
returned to her quickly from among the teeth of the serpents, bringing with him
of the waters, all unwilling—nay! warning him to depart away and not molest
them. And she, receiving the urn with great joy, ran back quickly that
she might deliver it to Venus, and yet again satisfied not the angry goddess.
“My child!” she said, “in this one thing further must thou serve me. Take now
this tiny casket, and get thee down even unto hell, and deliver it to
Proserpine. Tell her that Venus would have of her beauty so much at least as
may suffice for but one day’s use, that beauty she possessed erewhile being
foreworn and spoiled, through her tendance upon the sick-bed of her son; and be
not slow in returning.” And Psyche perceived there the last ebbing of her
fortune—that she was now thrust openly upon death, who must go down, of her own
motion, to Hades and the Shades. And straightway she climbed to the top of an
exceeding high tower, thinking within herself, “I will cast myself down thence:
so shall I descend most quickly into the kingdom of the dead.” And the tower
again, broke forth into speech: “Wretched Maid! Wretched Maid! Wilt thou
destroy thyself? If the breath quit thy body, then wilt thou indeed go down
into Hades, but by no means return hither. Listen to me. Among the pathless
wilds not far from this place lies a certain mountain, and therein one of
hell’s vent-holes. Through the breach a rough way lies open, following which
thou wilt come, by straight course, to the castle of Orcus. And thou must not
go empty-handed. Take in each hand a morsel of barley-bread, soaked in hydromel;
and in thy mouth two pieces of money. And when thou shalt be now well onward in
the way of death, then wilt thou overtake a lame ass laden with wood, and a
lame driver, who will pray thee reach him certain cords to fasten the burden
which is falling from the ass: but be thou cautious to pass on in silence. And
soon as thou comest to the river of the dead, Charon, in that crazy bark he
hath, will put thee over upon the further side. There is greed even among the
dead: and thou shalt deliver to him, for the ferrying, one of those two pieces
of money, in such wise that he take it with his hand from between thy lips. And
as thou passest over the stream, a dead old man, rising on the water, will put
up to thee his mouldering hands, and pray thee draw him into the ferry-boat.
But beware thou yield not to unlawful pity. “When thou shalt be come
over, and art upon the causeway, certain aged women, spinning, will cry to thee
to lend thy hand to their work; and beware again that thou take no part therein;
for this also is the snare of Venus, whereby she would cause thee to cast away
one at least of those cakes thou bearest in thy hands. And think not that a
slight matter; for the loss of either one of them will be to thee the losing of
the light of day. For a watch-dog exceeding fierce lies ever before the
threshold of that lonely house of Proserpine. Close his mouth with one of thy
cakes; so shalt thou pass by him, and enter straightway into the presence of
Proserpine herself. Then do thou deliver thy message, and taking what she shall
give thee, return back again; offering to the watch-dog the other cake, and to
the ferryman that other piece of money thou hast in thy mouth. After this
manner mayst thou return again beneath the stars. But withal, I charge thee,
think not to look into, nor open, the casket thou bearest, with that treasure
of the beauty of the divine countenance hidden therein.” So spake the
stones of the tower; and Psyche delayed not, but proceeding diligently after
the manner enjoined, entered into the house of Proserpine, at whose feet she
sat down humbly, and would neither the delicate couch nor that divine food the
goddess offered her, but did straightway the business of Venus. And Proserpine
filled the casket secretly and shut the lid, and delivered it to Psyche, who
fled therewith from Hades with new strength. But coming back into the light of
day, even as she hasted now to the ending of her service, she was seized by a
rash curiosity. “Lo! now,” she said within herself, “my simpleness! who bearing
in my hands the divine loveliness, heed not to touch myself with a particle at
least therefrom, that I may please the more, by the favour of it, my fair one,
my beloved.” Even as she spoke, she lifted the lid; and behold! within, neither
beauty, nor anything beside, save sleep only, the sleep of the dead, which took
hold upon her, filling all her members with its drowsy vapour, so that she lay
down in the way and moved not, as in the slumber of death. And Cupid
being healed of his wound, because he would endure no longer the absence of her
he loved, gliding through the narrow window of the chamber wherein he was
holden, his pinions being now repaired by a little rest, fled forth swiftly
upon them, and coming to the place where Psyche was, shook that sleep away from
her, and set him in his prison again, awaking her with the innocent point of
his arrow. “Lo! thine old error again,” he said, “which had like once more to
have destroyed thee! But do thou now what is lacking of the command of my
mother: the rest shall be my care.” With these words, the lover rose upon the
air; and being consumed inwardly with the greatness of his love, penetrated
with vehement wing into the highest place of heaven, to lay his cause before
the father of the gods. And the father of gods took his hand in his, and kissed
his face and said to him, “At no time, my son, hast thou regarded me with due
honour. Often hast thou vexed my bosom, wherein lies the disposition of the
stars, with those busy darts of thine. Nevertheless, because thou hast grown up
between these mine hands, I will accomplish thy desire.” And straightway he
bade Mercury call the gods together; and, the council-chamber being filled,
sitting upon a high throne, “Ye gods,” he said, “all ye whose names are in the
white book of the Muses, ye know yonder lad. It seems good to me that his
youthful heats should by some means be restrained. And that all occasion may be
taken from him, I would even confine him in the bonds of marriage. He has
chosen and embraced a mortal maiden. Let him have fruit of his love, and
possess her for ever.” Thereupon he bade Mercury produce Psyche in
heaven; and holding out to her his ambrosial cup, “Take it,” he said, “and live
for ever; nor shall Cupid ever depart from thee.” And the gods sat down
together to the marriage-feast. On the first couch lay the bridegroom,
and Psyche in his bosom. His rustic serving-boy bare the wine to Jupiter; and
Bacchus to the rest. The Seasons crimsoned all things with their roses. Apollo
sang to the lyre, while a little Pan prattled on his reeds, and Venus danced
very sweetly to the soft music. Thus, with due rites, did Psyche pass into the
power of Cupid; and from them was born the daughter whom men call
Voluptas. CHAPTER VI. EUPHUISM So the famous story
composed itself in the memory of Marius, with an expression changed in some
ways from the original and on the whole graver. The petulant, boyish Cupid of
Apuleius was become more like that “Lord, of terrible aspect,” who stood at
Dante’s bedside and wept, or had at least grown to the manly earnestness of the
Erôs of Praxiteles. Set in relief amid the coarser matter of the book, this
episode of Cupid and Psyche served to combine many lines of meditation, already
familiar to Marius, into the ideal of a perfect imaginative love, centered upon
a type of beauty entirely flawless and clean—an ideal which never wholly faded
from his thoughts, though he valued it at various times in different degrees.
The human body in its beauty, as the highest potency of all the beauty of
material objects, seemed to him just then to be matter no longer, but, having
taken celestial fire, to assert itself as indeed the true, though visible, soul
or spirit in things. In contrast with that ideal, in all the pure brilliancy,
and as it were in the happy light, of youth and morning and the springtide,
men’s actual loves, with which at many points the book brings one into close
contact, might appear to him, like the general tenor of their lives, to be
somewhat mean and sordid. The hiddenness of perfect things: a shrinking
mysticism, a sentiment of diffidence like that expressed in Psyche’s so
tremulous hope concerning the child to be born of the husband she had never yet
seen—“in the face of this little child, at the least, shall I apprehend
thine”—in hoc saltem parvulo cognoscam faciem tuam: the fatality which seems to
haunt any signal+ beauty, whether moral or physical, as if it were in itself
something illicit and isolating: the suspicion and hatred it so often excites
in the vulgar:—these were some of the impressions, forming, as they do, a
constant tradition of somewhat cynical pagan experience, from Medusa and Helen
downwards, which the old story enforced on him. A book, like a person, has its
fortunes with one; is lucky or unlucky in the precise moment of its falling in
our way, and often by some happy accident counts with us for something more
than its independent value. The Metamorphoses of Apuleius, coming to Marius
just then, figured for him as indeed The Golden Book: he felt a sort of
personal gratitude to its writer, and saw in it doubtless far more than was
really there for any other reader. It occupied always a peculiar place in his
remembrance, never quite losing its power in frequent return to it for the
revival of that first glowing impression. Its effect upon the elder youth
was a more practical one: it stimulated the literary ambition, already so
strong a motive with him, by a signal example of success, and made him more
than ever an ardent, indefatigable student of words, of the means or instrument
of the literary art. The secrets of utterance, of expression itself, of that
through which alone any intellectual or spiritual power within one can actually
take effect upon others, to over-awe or charm them to one’s side, presented
themselves to this ambitious lad in immediate connexion with that desire for
predominance, for the satisfaction of which another might have relied on the
acquisition and display of brilliant military qualities. In him, a fine
instinctive sentiment of the exact value and power of words was connate with
the eager longing for sway over his fellows. He saw himself already a gallant
and effective leader, innovating or conservative as occasion might require, in
the rehabilitation of the mother-tongue, then fallen so tarnished and languid;
yet the sole object, as he mused within himself, of the only sort of patriotic
feeling proper, or possible, for one born of slaves. The popular speech was
gradually departing from the form and rule of literary language, a language
always and increasingly artificial. While the learned dialect was yearly
becoming more and more barbarously pedantic, the colloquial idiom, on the other
hand, offered a thousand chance-tost gems of racy or picturesque expression,
rejected or at least ungathered by what claimed to be classical Latin. The time
was coming when neither the pedants nor the people would really understand
Cicero; though there were some indeed, like this new writer, Apuleius, who,
departing from the custom of writing in Greek, which had been a fashionable
affectation among the sprightlier wits since the days of Hadrian, had written
in the vernacular. The literary prog ramme which Flavian had already
designed for himself would be a work, then, partly conservative or reactionary,
in its dealing with the instrument of the literary art; partly popular and
revolutionary, asserting, so to term them, the rights of the proletariate of
speech. More than fifty years before, the younger Pliny, himself an effective
witness for the delicate power of the Latin tongue, had said,—“I am one of
those who admire the ancients, yet I do not, like some others, underrate
certain instances of genius which our own times afford. For it is not true that
nature, as if weary and effete, no longer produces what is admirable.” And he,
Flavian, would prove himself the true master of the opportunity thus indicated.
In his eagerness for a not too distant fame, he dreamed over all that, as the
young Caesar may have dreamed of campaigns. Others might brutalise or
neglect the native speech, that true “open field” for charm and sway over men.
He would make of it a serious study, weighing the precise power of every phrase
and word, as though it were precious metal, disentangling the later
associations and going back to the original and native sense of each,—restoring
to full significance all its wealth of latent figurative expression, reviving
or replacing its outworn or tarnished images. Latin literature and the Latin
tongue were dying of routine and languor; and what was necessary, first of all,
was to re-establish the natural and direct relationship between thought and
expression, between the sensation and the term, and restore to words their
primitive power. For words, after all, words manipulated with all his delicate
force, were to be the apparatus of a war for himself. To be forcibly impressed,
in the first place; and in the next, to find the means of making visible to
others that which was vividly apparent, delightful, of lively interest to
himself, to the exclusion of all that was but middling, tame, or only half-true
even to him—this scrupulousness of literary art actually awoke in Flavian, for
the first time, a sort of chivalrous conscience. What care for style! what
patience of execution! what research for the significant tones of ancient
idiom—sonantia verba et antiqua! What stately and regular word-building—gravis
et decora constructio! He felt the whole meaning of the sceptical Pliny’s
somewhat melancholy advice to one of his friends, that he should seek in
literature deliverance from mortality—ut studiis se literarum a mortalitate
vindicet. And there was everything in the nature and the training of Marius to
make him a full participator in the hopes of such a new literary school, with
Flavian for its leader. In the refinements of that curious spirit, in its
horror of profanities, its fastidious sense of a correctness in external form,
there was something which ministered to the old ritual interest, still
surviving in him; as if here indeed were involved a kind of sacred service
tothe mother-tongue. Here, then, was the theory of Euphuism, as
manifested in every age in which the literary conscience has been awakened to
forgotten duties towards language, towards the instrument of expression: infact
it does but modify a little the principles of all effective expression at all
times. ’Tis art’s function to conceal itself: ars est celare artem:—is a
saying, which, exaggerated by inexact quotation, has perhaps been oftenest and
most confidently quoted by those who have had little literary or other art to
conceal; and from the very beginning of professional literature, the “labour of
the file”—a labour in the case of Plato, for instance, or Virgil, like that of
the oldest of goldsmiths as described by Apuleius, enriching the work by far
more than the weight of precious metal it removed—has always had its function.
Sometimes, doubtless, as in later examples of it, this Roman Euphuism,
determined at any cost to attain beauty in writing—es kallos graphein+—might
lapse into its characteristic fopperies or mannerisms, into the “defects of its
qualities,” in truth, not wholly unpleasing perhaps, or at least excusable,
when looked at as but the toys (so Cicero calls them), the strictly congenial
and appropriate toys, of an assiduously cultivated age, which could not help
being polite, critical, self-conscious. The mere love of novelty also had, of
course, its part there: as with the Euphuism of the Elizabethan age, and of the
modern French romanticists, its neologies were the ground of one of the
favourite charges against it; though indeed, as regards these tricks of taste
also, there is nothing new, but a quaint family likeness rather, between the
Euphuists of successive ages. Here, as elsewhere, the power of “fashion,” as it
is called, is but one minor form, slight enough, it may be, yet distinctly
symptomatic, of that deeper yearning of human nature towards ideal perfection,
which is a continuous force in it; and since in this direction too human nature
is limited, such fashions must necessarilyreproduce themselves. Among other
resemblances to later growths of Euphuism, its archaisms on the one hand, and
its neologies on the other, the Euphuism of the days of Marcus Aurelius had, in
the composition of verse, its fancy for the refrain. It was a snatch from a
popular chorus, something he had heard sounding all over the town of Pisa one
April night, one of the firstbland and summer-like nights of the year, that
Flavian had chosen for the refrain of a poem he was then pondering—the
Pervigilium Veneris—the vigil, or “nocturn,” of Venus. Certain elderly
counsellors, filling what may be thought a constant part in the little
tragi-comedy which literature and its votaries are playing in all ages, would
ask, suspecting some affectation or unreality in that minute culture of
form:—Cannot those who have a thing to say, say it directly? Why not be simple
and broad, like the old writers of Greece? And this challenge had at least the
effect of setting his thoughts at work on the intellectual situation
as it lay between the children of the present and those earliest masters.
Certainly, the most wonderful, the unique, point, about the Greek genius, in
literature as in everything else, was the entire absence of imitation in its
productions. How had the burden of precedent, laid upon every artist, increased
since then! It was all around one:—that smoothly built world of old classical
taste, an accomplished fact, with overwhelming authority on every detail of the
conduct of one’s work. With no fardel on its own back, yet so imperious towards
those who came labouring after it, Hellas, in its early freshness, looked as
distant from him even then as it does from ourselves. There might seem to be no
place left for novelty or originality, —place only for a patient, an
infinite, faultlessness. On this question too Flavian passed through a world of
curious art-casuistries, of self-tormenting, at the threshold of his work. Was
poetic beauty a thing ever one and the same, a type absolute; or, changing always
with the soul of time itself, did it depend upon the taste, the peculiar trick
of apprehension, the fashion, as we say, of each successive age? Might one
recover that old, earlier sense of it, that earlier manner, in a mas terly
effort to recall all the complexities of the life, moral and intellectual, of
the earlier age to which it had belonged? Had there been really bad ages in art
or literature? Were all ages, even those earliest, adventurous, matutinal days,
in themselves equally poetical or unpoetical; and poetry, the literary beauty,
the poetic ideal, always but a borrowed light upon men’s actual life?
Homer had said— Hoi d’hote dê limenos polybentheos entos hikonto, Histia
men steilanto, thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi phêgmini
thalassês.+ And how poetic the simple incident seemed, told just
thus! Homer was always telling things after this manner. And one might think
there had been no effort in it: that here was but the almost mechanical
transcript of a time, naturally, intrinsically, poetic, a time in which one
could hardly have spoken at all without ideal effect, or, the sailors pulled
down their boat without making a picture in “the great style,” against a sky
charged with marvels. Must not the mere prose of an age, itself thus ideal,
have coun ted for more than half of Homer’s poetry? Or might the closer
student discover even here, even in Homer, the really mediatorial function of
the poet, as between the reader and the actual matter of his experience; the
poet waiting, so to speak, in an age which had felt itself trite and
commonplace enough, on his opportunity for the touch of “golden alchemy,” or at
least for the pleasantly lighted side of things themselves? Might not another,
in one’s own prosaic and used-up time, so uneventful as it had been through the
long reign of these quiet Antonines, in like manner, discover his ideal, by a
due waiting upon it? Would not a future generation, looking back upon this,
under the power of the enchanted-distance fallacy, find it ideal to view, in
contrast with its own languor—the languor that for some reason (concerning
which Augustine will one day have his view) seemed to haunt men always? Had
Homer, even, appeared unreal and affected in his poetic flight, to some of the
people of his own age, as seemed to happen with every new literature in turn?
In any case, the intellectual conditions of early Greece had been—how different
from these! And a true literary tact would accept that difference in forming
the primary conception of the literary function at a later time. Perhaps the
utmost one could get by conscious effort, in the way of a reaction or return to
the conditions of an earlier and fresher age, would be but novitas, artificial
artlessness, naïveté; and this quality too might have its measure of euphuistic
charm, direct and sensible enough, though it must count, in comparison with
that genuine early Greek newness at the beginning, not as the freshness of the
open fields, but only of a bunch of field-flowers in a heated room. There
was, meantime, all this:—on one side, the old pagan culture, for us but a
fragment, for him an accomplished yet present fact, still a living, united,
organic whole, in the entirety of its art, its thought, its religions, its
sagacious forms of polity, that so weighty authority it exercised on every
point, being in reality only the measure of its charm for every one: on the
other side, the actual world in all its eager self-assertion, with Flavian
himself, in his boundless animation, there, at the centre of the situation.
From the natural defects, from the pettiness, of his euphuism, his assiduous
cultivation of manner, he was saved by the consciousness that he had a matter
to present, very real, at least to him. That preoccupation of the dilettante
with what might seem mere details of form, after all, did but serve the purpose
of bringing to the surface, sincerely and in their integrity, certain strong
personal intuitions, a certain vision or apprehension of things as really
being, with important results, thus, rather than thus,—intuitions which the
artistic or literary faculty was called upon to follow, with the exactness of
wax or clay, clothing the model within. Flavian too, with his fine clear
mastery of the practically effective, had early laid hold of the principle, as
axiomatic in literature: that to know when one’s self is interested, is the
first condition of interesting other people. It was a principle, the forcible
apprehension of which made him jealous and fastidious in the selection of his
intellectual food; often listless while others read or gazed diligently; never
pretending to be moved out of mere complaisance to people’s emotions: it served
to foster in him a very scrupulous literary sincerity with himself. And it was
this uncompromising demand for a matter, in all art, derived immediately from
lively personal intuition, this constant appeal to individual judgment, which
saved his euphuism, even at its weakest, from lapsing into mere artifice.
Was the magnificent exordium of Lucretius, addressed to the goddess Venus, the
work of his earlier manhood, and designed originally to open an argument less
persistently sombre than that protest against the whole pagan heaven which
actually follows it? It is certainly the most typical expression of a mood, still
incident to the young poet, as a thing peculiar to his youth, when he feels the
sentimental current setting forcibly along his veins, and so much as a matter
of purely physical excitement, that he can hardly distinguish it from the
animation of external nature, the upswelling of the seed in the earth, and of
the sap through the trees. Flavian, to whom, again, as to his later euphuistic
kinsmen, old mythology seemed as full of untried, unexpressed motives and
interest as human life itself, had long been occupied with a kind of mystic
hymn to the vernal principle of life in things; a composition shaping itself,
little by little, out of a thousand dim perceptions, into singularly definite
form (definite and firm as fine-art in metal, thought Marius) for which, as I
said, he had caught his “refrain,” from the lips of the young men, singing
because they could not help it, in the streets of Pisa. And as oftenest happens
also, with natures of genuinely poetic quality, those piecemeal beginnings came
suddenly to harmonious completeness among the fortunate incidents, the physical
heat and light, of one singularly happy day. It was one of the first hot
days of March—“the sacred day”—on which, from Pisa, as from many another
harbour on the Mediterranean, the Ship of Isis went to sea, and every one
walked down to the shore-side to witness the freighting of the vessel, its
launching and final abandonment among the waves, as an object really devoted to
the Great Goddess, that new rival, or “double,” of ancient Venus, and like her
a favourite patroness of sailors. On the evening next before, all the world had
been abroad to view the illumination of the river; the stately lines of
building being wreathed with hundreds of many-coloured lamps. The young men had
poured forth their chorus— Cras amet qui nunquam amavit, Quique amavit
cras amet— as they bore their torches through the yielding crowd,
or rowed their lanterned boats up and down the stream, till far into the night,
when heavy rain-drops had driven the last lingerers home. Morning broke,
however, smiling and serene; and the long procession started betimes. The
river, curving slightly, with the smoothly paved streets on either side,
between its low marble parapet and the fair dwelling-houses, formed the main
highway of the city; and the pageant, accompanied throughout by innumerable
lanterns and wax tapers, took its course up one of these streets, crossing the
water by a bridge up-stream, and down the other, to the haven, every possible
standing-place, out of doors and within, being crowded with sight-seers, of
whom Marius was one of the most eager, deeply interested in finding the
spectacle much as Apuleius had described it in his famous book. At the
head of the procession, the master of ceremonies, quietly waving back the
assistants, made way for a number of women, scattering perfumes. They were
succeeded by a company of musicians, piping and twanging, on instruments the
strangest Marius had ever beheld, the notes of a hymn, narrating the first
origin of this votive rite to a choir of youths, who marched behind them
singing it. The tire-women and other personal attendants of the great goddess
came next, bearing the instruments of their ministry, and various articles from
the sacred wardrobe, wrought of the most precious material; some of them with
long ivory combs, plying their hands in wild yet graceful concert of movement
as they went, in devout mimicry of the toilet. Placed in their rear were the
mirror-bearers of the goddess, carrying large mirrors of beaten brass or
silver, turned in such a way as to reflect to the great body of worshippers who
followed, the face of the mysterious image, as it moved on its way, and their
faces to it, as though they were in fact advancing to meet the heavenly
visitor. They comprehended a multitude of both sexes and of all ages, already
initiated into the divine secret, clad in fair linen, the females veiled, the
males with shining tonsures, and every one carrying a sistrum—the richer sort
of silver, a few very dainty persons of fine gold—rattling the reeds, with a
noise like the jargon of innumerable birds and insects awakened from torpor and
abroad in the spring sun. Then, borne upon a kind of platform, came the goddess
herself, undulating above the heads of the multitude as the bearers walked, in
mystic robe embroidered with the moon and stars, bordered gracefully with a
fringe of real fruit and flowers, and with a glittering crown upon the head.
The train of the procession consisted of the priests in long white vestments,
close from head to foot, distributed into various groups, each bearing, exposed
aloft, one of the sacred symbols of Isis—the corn-fan, the golden asp, the
ivory hand of equity, and among them the votive ship itself, carved and gilt,
and adorned bravely with flags flying. Last of all walked the high priest; the
people kneeling as he passed to kiss his hand, in which were those
well-remembered roses. Marius followed with the rest to the harbour,
where the mystic ship, lowered from the shoulders of the priests, was loaded
with as much as it could carry of the rich spices and other costly gifts,
offered in great profusion by the worshippers, and thus, launched at last upon
the water, left the shore, crossing the harbour-bar in the wake of a much
stouter vessel than itself with a crew of white-robed mariners, whose function
it was, at the appointed moment, finally to desert it on the open sea.
The remainder of the day was spent by most in parties on the water. Flavian and
Marius sailed further than they had ever done before to a wild spot on the bay,
the traditional site of a little Greek colony, which, having had its eager,
stirring life at the time when Etruria was still a power in Italy, had perished
in the age of the civil wars. In the absolute transparency of the air on this
gracious day, an infinitude of detail from sea and shore reached the eye with
sparkling clearness, as the two lads sped rapidly over the waves—Flavian at
work suddenly, from time to time, with his tablets. They reached land at last.
The coral fishers had spread their nets on the sands, with a tumble-down of
quaint, many-hued treasures, below a little shrine of Venus, fluttering and gay
with the scarves and napkins and gilded shells which these people had offered
to the image. Flavian and Marius sat down under the shadow of a mass of gray
rock or ruin, where the sea-gate of the Greek town had been, and talked of life
in those old Greek colonies. Of this place, all that remained, besides those
rude stones, was—a handful of silver coins, each with a head of pure and
archaic beauty, though a little cruel perhaps, supposed to represent the Siren
Ligeia, whose tomb was formerly shown here—only these, and an ancient song, the
very strain which Flavian had recovered in those last months. They were records
which spoke, certainly, of the charm of life within those walls. How strong
must have been the tide of men’s existence in that little republican town, so
small that this circle of gray stones, of service now only by the moisture they
gathered for the blue-flowering gentians among them, had been the line of its
rampart! An epitome of all that was liveliest, most animated and adventurous,
in the old Greek people of which it was an offshoot, it had enhanced the effect
of these gifts by concentration within narrow limits. The band of “devoted
youth,”—hiera neotês.+—of the younger brothers, devoted to the gods and
whatever luck the gods might afford, because there was no room for them at
home—went forth, bearing the sacred flame from the mother hearth; itself a flame,
of power to consume the whole material of existence in clear light and heat,
with no smouldering residue. The life of those vanished townsmen, so brilliant
and revolutionary, applying so abundantly the personal qualities which alone
just then Marius seemed to value, associated itself with the actual figure of
his companion, standing there before him, his face enthusiastic with the sudden
thought of all that; and struck him vividly as precisely the fitting
opportunity for a nature like his, so hungry for control, for ascendency over
men. Marius noticed also, however, as high spirits flagged at last, on
the way home through the heavy dew of the evening, more than physical fatigue
in Flavian, who seemed to find no refreshment in the coolness. There had been
something feverish, perhaps, and like the beginning of sickness, about his
almost forced gaiety, in this sudden spasm of spring; and by the evening of the
next day he was lying with a burning spot on his forehead, stricken, as was
thought from the first, by the terrible new disease. NOTES
93. +Corrected from the Macmillan edition misprint “singal.”
98. +Transliteration: es kallos graphein. Translation: “To write
beautifully.” 100. +Iliad 1.432-33, 437. Transliteration:
Hoi d’ hote dê limenos polybentheos entos hikonto, Histia men steilanto,
thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi phêgmini
thalassês. Etext editor’s translation: When they had
safely made deep harbor They took in the sail, laid it in their black ship...
And went ashore just past the breakers. 109. +Transliteration:
hiera neotês. Pater translates the phrase, “devoted youth.”
CHAPTER VII. A PAGAN END For the fantastical colleague of the
philosophic emperor Marcus Aurelius, returning in triumph from the East, had
brought in his train, among the enemies of Rome, one by no means a captive.
People actually sickened at a sudden touch of the unsuspected foe, as they
watched in dense crowds the pathetic or grotesque imagery of failure or success
in the triumphal procession. And, as usual, the plague brought with it a power
to develop all pre-existent germs of superstition. It was by dishonour done to
Apollo himself, said popular rumour—to Apollo, the old titular divinity of
pestilence, that the poisonous thing had come abroad. Pent up in a golden
coffer consecrated to the god, it had escaped in the sacrilegious plundering of
his temple at Seleucia by the soldiers of Lucius Verus, after a traitorous
surprise of that town and a cruel massacre. Certainly there was something which
baffled all imaginable precautions and all medical science, in the suddenness
with which the disease broke out simultaneously, here and there, among both
soldiers and citizens, even in places far remote from the main line of its
march in the rear of the victorious army. It seemed to have invaded the whole
empire, and some have even thought that, in a mitigated form, it permanently
remained there. In Rome itself many thousands perished; and old authorities
tell of farmsteads, whole towns, and even entire neighbourhoods, which from
that time continued without inhabitants and lapsed into wildness or ruin.
Flavian lay at the open window of his lodging, with a fiery pang in the brain,
fancying no covering thin or light enough to be applied to his body. His head
being relieved after a while, there was distress at the chest. It was but the
fatal course of the strange new sickness, under many disguises; travelling from
the brain to the feet, like a material resident, weakening one after another of
the organic centres; often, when it did not kill, depositing various degrees of
lifelong infirmity in this member or that; and after such descent, returning
upwards again, now as a mortal coldness, leaving the entrenchments of the
fortress of life overturned, one by one, behind it. Flavian lay there,
with the enemy at his breast now in a painful cough, but relieved from that
burning fever in the head, amid the rich-scented flowers—rare Paestum roses,
and the like —procured by Marius for his solace, in a fancied convalescence;
and would, at intervals, return to labour at his verses, with a great
eagerness to complete and transcribe the work, while Marius sat and wrote at
his dictation, one of the latest but not the poorest specimens of genuine Latin
poetry. It was in fact a kind of nuptial hymn, which, taking its start
from the thought of nature as the universal mother, celebrated the preliminary
pairing and mating together of all fresh things, in the hot and genial
spring-time—the immemorial nuptials of the soul of spring itself and the brown
earth; and was full of a delighted, mystic sense of what passed between them in
that fantastic marriage. That mystic burden was relieved, at intervals, by the
familiar playfulness of the Latin verse-writer in dealing with mythology,
which, though coming at so late a day, had still a wonderful freshness in its
old age.—“Amor has put his weapons by and will keep holiday. He was bidden go
without apparel, that none might be wounded by his bowand arrows. But take
care! In truth he is none the less armed than usual, though he be all
unclad.” In the expression of all this Flavian seemed, while making it
his chief aim to retain the opulent, many-syllabled vocabulary of the Latin
genius, at some points even to have advanced beyond it, in anticipation of
wholly new laws of taste as regards sound, a new range of sound itself. The
peculiar resultant note, associating itself with certain other experiences of
his, was to Marius like the foretaste of an entirely novel world of poetic
beauty to come. Flavian had caught, indeed, something of the rhyming cadence,
the sonorous organ-music of the medieval Latin, and therewithal something of
its unction and mysticity of spirit. There was in his work, along with the
last splendour of the classical language, a touch, almost prophetic, of that
transformed life it was to have in the rhyming middle age, just about to dawn.
The impression thus forced upon Marius connected itself with a feeling, the
exact inverse of that, known to every one, which seems to say, You have been
just here, just thus, before!—a feeling, in his case, not reminiscent but
prescient of the future, which passed over him afterwards many times, as he
came across certain places and people. It was as if he detected there the
process of actual change to a wholly undreamed-of and renewed condition of
human body and soul: as if he saw the heavy yet decrepit old Roman
architectureabout him, rebuilding on an intrinsically better pattern. Could it
have been actually on a new musical instrument that Flavian had first heard the
novel accents of his verse? And still Marius noticed there, amid all its
richness of expression and imagery, that firmness of outline he had always
relished so much in the composition of Flavian. Yes! a firmness like that of some
master of noble metal-work, manipulating tenacious bronze or gold. Even now
that haunting refrain, with its impromptu variations, from the throats of those
strong young men, came floating through the window. Cras amet qui nunquam
amavit, Quique amavit cras amet! —repeated Flavian, tremulously,
dictating yet one stanza more. What he was losing, his freehold of a soul
and body so fortunately endowed, the mere liberty of life above-ground, “those
sunny mornings in the cornfields by the sea,” as he recollected them one day,
when the window was thrown open upon the early freshness—his sense of all this,
was from the first singularly near and distinct, yet rather as of something he
was but debarred the use of for a time than finally bidding farewell to. That
was while he was still with no very grave misgivings as to the issue of his
sickness, and felt the sources of life still springing essentially unadulterate
within him. From time to time, indeed, Marius, labouring eagerly at the poem
from his dictation, was haunted by a feeling of the triviality of such work
just then. The recurrent sense of some obscure danger beyond the mere danger of
death, vaguer than that and by so much the more terrible, like the menace of
some shadowy adversary in the dark with whose mode of attack they had no
acquaintance, disturbed him now and again through those hours of excited
attention to his manuscript, and to the purely physical wants of Flavian.
Still, during these three days there was much hope and cheerfulness, and even jesting.
Half-consciously Marius tried to prolong one or another relieving circumstance
of the day, the preparations for rest and morning refreshment, for instance;
sadly making the most of the little luxury of this or that, with something of
the feigned cheer of the mother who sets her last morsels before her famished
child as for a feast, but really that he “may eat it and die.” On the
afternoon of the seventh day he allowed Marius finally to put aside the
unfinished manuscript. For the enemy, leaving the chest quiet at length though
much exhausted, had made itself felt with full power again in a painful
vomiting, which seemed to shake his body asunder, with great consequent
prostration. From that time the distress increased rapidly downwards. Omnia tum
vero vitai claustra lababant;+ and soon the cold was mounting with sure pace
from the dead feet to the head. And now Marius began more than to suspect
what the issue must be, and henceforward could but watch with a sort of
agonised fascination the rapid but systematic work of the destroyer, faintly
relieving a little the mere accidents of the sharper forms of suffering.
Flavian himself appeared, in full consciousness at last—in clear-sighted,
deliberate estimate of the actual crisis—to be doing battle with his adversary.
His mind surveyed, with great distinctness, the various suggested modes of
relief. He must without fail get better, he would fancy, might he be removed to
a certain place on the hills where as a child he had once recovered from
sickness, but found that he could scarcely raise his head from the pillow
without giddiness. As if now surely foreseeing the end, he would set himself,
with an eager effort, and with that eager and angry look, which is noted as one
of the premonitions of death in this disease, to fashion out, without formal
dictation, still a few more broken verses of his unfinished work, in hard-set
determination, defiant of pain, to arrest this or that little drop at least
from the river of sensuous imagery rushing so quickly past him. But at
length delirium—symptom that the work of the plague was done, and the last
resort of life yielding to the enemy—broke the coherent order of words and
thoughts; and Marius, intent on the coming agony, found his best hope in the
increasing dimness of the patient’s mind. In intervals of clearer consciousness
the visible signs of cold, of sorrow and desolation, were very painful. No
longer battling with the disease, he seemed as it were to place himself at the
disposal of the victorious foe, dying passively, like some dumb creature, in
hopeless acquiescence at last. That old, half-pleading petulance, unamiable,
yet, as it might seem, only needing conditions of life a little happier than
they had actually been, to become refinement of affection, a delicate grace in
its demand on the sympathy of others, had changed in those moments of full
intelligence to a clinging and tremulous gentleness, as he lay—“on the very
threshold of death”—with a sharply contracted hand in the hand of Marius, to
his almost surprised joy, winning him now to an absolutely self-forgetful
devotion. There was a new sort of pleading in the misty eyes, just because they
took such unsteady note of him, which made Marius feel as if guilty;
anticipating thus a form of self-reproach with which even the tenderest
ministrant may be sometimes surprised, when, at death, affectionate labour
suddenly ceasing leaves room for the suspicion of some failure of love perhaps,
at one or another minute point in it. Marius almost longed to take his share in
the suffering, that he might understand so the better how to relieve it.
It seemed that the light of the lamp distressed the patient, and Marius
extinguished it. The thunder which had sounded all day among the hills, with a
heat not unwelcome to Flavian, had given way at nightfall to steady rain; and
in the darkness Marius lay down beside him, faintly shivering now in the sudden
cold, to lend him his own warmth, undeterred by the fear of contagion which had
kept other people from passing near the house. At length about day-break he
perceived that the last effort had come with a revival of mental clearness, as
Marius understood by the contact, light as it was, in recognition of him there.
“Is it a comfort,” he whispered then, “that I shall often come and weep over
you?”—“Not unless I be aware, and hear you weeping!” The sun shone out on
the people going to work for a long hot day, and Marius was standing by the
dead, watching, with deliberate purpose to fix in his memory every detail, that
he might have this picture in reserve, should any hour of forgetfulness
hereafter come to him with the temptation to feel completely happy again. A
feeling of outrage, of resentment against nature itself, mingled with an agony
of pity, as he noted on the now placid features a certain look of humility,
almost abject, like the expression of a smitten child or animal, as of one,
fallen at last, after bewildering struggle, wholly under the power of a
merciless adversary. From mere tenderness of soul he would not forget one circumstance
in all that; as a man might piously stamp on his memory the death-scene of a
brother wrongfully condemned to die, against a time that may come. The
fear of the corpse, which surprised him in his effort to watch by it through
the darkness, was a hint of his own failing strength, just in time. The first
night after the washing of the body, he bore stoutly enough the tax which
affection seemed to demand, throwing the incense from time to time on the
little altar placed beside the bier. It was the recurrence of the thing—that
unchanged outline below the coverlet, amid a silence in which the faintest
rustle seemed to speak—that finally overcame his determination. Surely, here,
in this alienation, this sense of distance between them, which had come over him
before though in minor degree when the mind of Flavian had wandered in his
sickness, was another of the pains of death. Yet he was able to make all due
preparations, and go through the ceremonies, shortened a little because of the
infection, when, on a cloudless evening, the funeral procession went forth;
himself, the flames of the pyre having done their work, carrying away the urn
of the deceased, in the folds of his toga, to its last resting-place in the
cemetery beside the highway, and so turning home to sleep in his own desolate
lodging. Quis desiderio sit pudor aut modus Tam cari
capitis?—+ What thought of others’ thoughts about one could there
be with the regret for “so dear a head” fresh at one’s heart? NOTES
116. +Lucretius, Book VI.1153. 120. +Horace, Odes
I.xxiv.1-2. PART THE SECOND CHAPTER VIII.
ANIMULA VAGULA Animula, vagula, blandula Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca? Pallidula, rigida, nudula. The Emperor
Hadrian to his Soul Flavian was no more. The little marble chest
with its dust and tears lay cold among the faded flowers. For most people the
actual spectacle of death brings out into greater reality, at least for the
imagination, whatever confidence they may entertain of the soul’s survival in another
life. To Marius, greatly agitated by that event, the earthly end of Flavian
came like a final revelation of nothing less than the soul’s extinction.
Flavian had gone out as utterly as the fire among those still beloved ashes.
Even that wistful suspense of judgment expressed by the dying Hadrian,
regarding further stages of being still possible for the soul in some dim
journey hence, seemed wholly untenable, and, with it, almost all that remained
of the religion of his childhood. Future extinction seemed just then to be what
the unforced witness of his own nature pointed to. On the other hand, there
came a novel curiosity as to what the various schools of ancient philosophy had
had to say concerning that strange, fluttering creature; and that curiosity impelled
him to certain severe studies, in which his earlier religious conscience seemed
still to survive, as a principle of hieratic scrupulousness or integrity of
thought, regarding this new service to intellectual light. At this time,
by his poetic and inward temper, he might have fallen a prey to the enervating
mysticism, then in wait for ardent souls in many a melodramatic revival of old
religion or theosophy. From all this, fascinating as it might actually be to
one side of his character, he was kept by a genuine virility there, effective
in him, among other results, as a hatred of what was theatrical, and the
instinctive recognition that in vigorous intelligence, after all, divinity was
most likely to be found a resident. With this was connected the feeling,
increasing with his advance to manhood, of a poetic beauty in mere clearness of
thought, the actually aesthetic charm of a cold austerity of mind; as if the
kinship of that to the clearness of physical light were something more than a
figure of speech. Of all those various religious fantasies, as so many forms of
enthusiasm, he could well appreciate the picturesque; that was made easy by his
natural Epicureanism, already prompting him to conceive of himself as but the
passive spectator of the world around him. But it was to the severer reasoning,
of which such matters as Epicurean theory are born, that, in effect, he now
betook himself. Instinctively suspicious of those mechanical arcana, those
pretended “secrets unveiled” of the professional mystic, which really bring
great and little souls to one level, for Marius the only possible dilemma lay
between that old, ancestral Roman religion, now become so incredible to him and
the honest action of his own untroubled, unassisted intelligence. Even the Arcana
Celestia of Platonism—what the sons of Plato had had to say regarding the
essential indifference of pure soul to its bodily house and merely occasional
dwelling-place—seemed to him while his heart was there in the urn with the
material ashes of Flavian, or still lingering in memory over his last agony,
wholly inhuman or morose, as tending to alleviate his resentment at nature’s
wrong. It was to the sentiment of the body, and the affections it defined—the
flesh, of whose force and colour that wandering Platonic soul was but so frail
a residue or abstract—he must cling. The various pathetic traits of the
beloved, suffering, perished body of Flavian, so deeply pondered, had made him
a materialist, but with something of the temper of a devotee. As a consequence
it might have seemed at first that his care for poetry had passed away, to be
replaced by the literature of thought. His much-pondered manuscript verses were
laid aside; and what happened now to one, who was certainly to be something of
a poet from first to last, looked at the moment like a change from poetry to
prose. He came of age about this time, his own master though with beardless
face; and at eighteen, an age at which, then as now, many youths of capacity,
who fancied themselves poets, secluded themselves from others chiefly in
affectation and vague dreaming, he secluded himself indeed from others, but in
a severe intellectual meditation, that salt of poetry, without which all the
more serious charm is lacking to the imaginative world. Still with something of
the old religious earnestness of hischildhood, he set himself—Sich im Denken zu
orientiren—to determine his bearings, as by compass, in the world of thought—to
get that precise acquaintance with the creative intelligence itself, its
structure and capacities, its relation to other parts of himself and to other
things, without which, certainly, no poetry can be masterly. Like a young
man rich in this world’s goods coming of age, he must go into affairs, and
ascertain his outlook. There must be no disguises. An exact estimate of
realities, as towards himself, he must have—a delicately measured gradation of
certainty in things—from the distant, haunted horizon of mere surmise or
imagination, to the actual feeling of sorrow in his heart, as he reclined one
morning, alone instead of in pleasant company, to ponder the hard sayings of an
imperfect old Greek manuscript, unrolled beside him. His former gay companions,
meeting him in the streets of the old Italian town, and noting the graver lines
coming into the face of the sombre but enthusiastic student of intellectual
structure, who could hold his own so well in the society of accomplished older
men, were half afraid of him, though proud to have him of their company.
Why this reserve?—they asked, concerning the orderly, self-possessed youth,
whose speech and carriage seemed so carefully measured, who was surely no poet
like the rapt, dishevelled Lupus. Was he secretly in love, perhaps, whose toga
was so daintily folded, and who was always as fresh as the flowers he wore; or
bent on his own line of ambition: or even on riches? Marius, meantime,
was reading freely, in early morning for the most part, those writers chiefly
who had made it their business to know what might be thought concerning that strange,
enigmatic, personal essence, which had seemed to go out altogether, along
with the funeral fires. And the old Greek who more than any other was now
giving form to his thoughts was a very hard master. From Epicurus, from the
thunder and lightning of Lucretius—like thunder and lightning some distance
off, one might recline to enjoy, in a garden of roses—he had gone back to the
writer who was in a ce rtain sense the teacher of both, Heraclitus of
Ionia. His difficult book “Concerning Nature” was even then rare, for people
had long since satisfied themselves by the quotation of certain brilliant,
isolated, oracles only, out of what was at best a taxing kind of lore. But the
difficulty of the early Greek prose did but spur the curiosity of Marius; the
writer, the superior clearness of whose intellectual view had so sequestered
him from other men, who had had so little joy of that superiority, being
avowedly exacting as to the amount of devout attention he required from the
student. “The many,” he said, always thus emphasising the difference between
the many and the few, are “like people heavy with wine,” “led by children,”
“knowing not whither they go;” and yet, “much learning doth not make wise;” and
again, “the ass, after all, would have his thistles rather than fine
gold.” Heraclitus, indeed, had not under-rated the difficulty for “the
many” of the paradox with which his doctrine begins, and the due reception of
which must involve a denial of habitual impressions, as the necessary first
step in the way of truth. His philosophy had been developed in conscious,
outspoken opposition to the current mode of thought, as a matter requiring some
exceptional loyalty to pure reason and its “dry light.” Men are subject to
an illusion, he protests, regarding matters apparent to sense. What the
uncorrected sense gives was a false impression of permanence or fixity in
things, which have really changed their nature in the very moment in which we
see and touch them. And the radical flaw in the current mode of thinking would
lie herein: that, reflecting this false or uncorrected sensation, it attributes
to the phenomena of experience a durability which does not really belong to
them. Imaging forth from those fluid impressions a world of firmly out-lined
objects, it leads one to regard as a thing stark and dead what is in reality
full of animation, of vigour, of the fire of life—that eternal process of
nature, of which at a later time Goethe spoke as the “Living Garment,” whereby
God is seen of us, ever in weaving at the “Loom of Time.” And the appeal
which the old Greek thinker made was, in the first instance, from confused to
unconfused sensation; with a sort of prophetic seriousness, a great claim and
assumption, such as we may understand, if we anticipate in this preliminary scepticism
the ulterior scope of his speculation, according to which the universal
movement of all natural things is but one particular stage, or measure, of that
ceaseless activity wherein the divine reason consists. The one true being—that
constant subject of all early thought—it was his merit to have conceived, not
as sterile and stagnant inaction, but as a perpetual energy, from the restless
stream of which, at certain points, some elements detach themselves, and harden
into non-entity and death, corresponding, as outward objects, to man’s inward
condition of ignorance: that is, to the slowness of his faculties. It is with
this paradox of a subtle, perpetual change in all visible things, that the high
speculation of Heraclitus begins. Hence the scorn he expresses for anything
like a careless, half-conscious, “use-and-wont” reception of our experience,
which took so strong a hold on men’s memories! Hence those many precepts
towards a strenuous self-consciousness in all we think and do, that loyalty to
cool and candid reason, which makes strict attentiveness of mind a kind of
religious duty and service. The negative doctrine, then, that the objects
of our ordinary experience, fixed as they seem, are really in perpetual change,
had been, as originally conceived, but the preliminary step towards a large
positive system of almost religious philosophy. Then as now, the illuminated
philosophic mind might apprehend, in what seemed a mass of lifeless matter, the
movement of that universal life, in which things, and men’s impressions of
them, were ever “coming to be,” alternately consumed and renewed. That
continual change, to be discovered by the attentive understanding where
common opinion found fixed objects, was but the indicator of a subtler but
all-pervading motion—the sleepless, ever-sustained, inexhaustible energy of the
divine reason itself, proceeding always by its own rhythmical logic, and
lendingto all mind and matter, in turn, what life they had. In this “perpetual
flux” of things and of souls, there was, as Heraclitus conceived, a
continuance, if not of their material or spiritual elements, yet of orderly
intelligible relationships, like the harmony of musical notes, wrought out in
and through the series of their mutations—ordinances of the divine reason, maintained
throughout the changes of the phenomenal world; and this harmony in their
mutation and opposition, was, after all, a principle of sanity, of reality,
there. But it happened, that, of all this, the first, merely sceptical or
negative step, that easiest step on the threshold, had alone remained in
general memory; and the “doctrine of motion” seemed to those who had felt its
seduction to make all fixed knowledge impossible. The swift passage of things,
the still swifter passage of those modes of our conscious being which seemed to
reflect them, might indeed be the burning of the divine fire: but what was
ascertained was that they did pass away like a devouring flame, or like the
race of water in the mid-stream—too swiftly for any real knowledge of them to
be attainable. Heracliteanism had grown to be almost identical with the famous
doctrine of the sophist Protagoras, that the momentary, sensible apprehension
of the individual was the only standard of what is or is not, and each one the
measure of all things to himself. The impressive name of Heraclitus had become
but an authority for a philosophy of the despair of knowledge. And as it
had been with his original followers in Greece, so it happened now with the
later Roman disciple. He, too, paused at the apprehension of that constant
motion of things—the drift of flowers, of little or great souls, of ambitious
systems, in the stream around him, the first source, the ultimate issue, of
which, in regions out of sight, must count with him as but a dim problem. The
bold mental flight of the old Greek master from the fleeting, competing objects
of experience to that one universal life, in which the whole sphere of physical
change might be reckoned as but a single pulsation, remained by him as
hypothesis only—the hypothesis he actually preferred, as in itself most
credible, however scantily realisable even by the imagination—yet still as but
one unverified hypothesis, among many others, concerning the first principle of
things. He might reserve it as a fine, high, visionary consideration, very
remote upon the intellectual ladder, just at the point, indeed, where that
ladder seemed to pass into the clouds, but for which there was certainly no
time left just now by his eager interest in the real objects so close to him,
on the lowlier earthy steps nearest the ground. And those childish days of
reverie, when he played at priests, played in many another day-dream, working
his way from the actual present, as far as he might, with a delightful sense of
escape in replacing the outer world of other people by an inward world as
himself really cared to have it, had made him a kind of “idealist.” He was
become aware of the possibility of a large dissidence between an inward and
somewhat exclusive world of vivid personal apprehension, and the unimproved,
unheightened reality of the life of those about him. As a consequence, he was
ready now to concede, somewhat more easily than others, the first point of his
new lesson, that the individual is to himself the measure of all things, and to
rely on the exclusive certainty to himself of his own impressions. To move
afterwards in that outer world of other people, as though taking it at their
estimate, would be possible henceforth only as a kind of irony. And as with the
Vicaire Savoyard, after reflecting on the variations of philosophy, “the first
fruit he drew from that reflection was the lesson of a limitation of his
researches to what immediately interested him; to rest peacefully in a profound
ignorance as to all beside; to disquiet himself only concerning those things
which it was of import for him to know.” At least he would entertain no theory
of conduct which did not allow its due weight to this primary element of
incertitude or negation, in the conditions of man’s life. Just here he joined
company, retracing in his individual mental pilgrimage the historic order of
human thought, with another wayfarer on the journey, another ancient Greek
master, the founder of the Cyrenaic philosophy, whose weighty traditional
utterances (for he had left no writing) served in turn to give effective
outline to the contemplations of Marius. There was something in the doctrine
itself congruous with the place wherein it had its birth; and for a time Marius
lived much, mentally, in the brilliant Greek colony which had given a dubious
name to the philosophy of pleasure. It hung, for his fancy, between the
mountains and the sea, among richer than Italian gardens, on a certain breezy
table-land projecting from the African coast, some hundreds of miles southward
from Greece. There, in a delightful climate, with something of transalpine
temperance amid its luxury, and withal in an inward atmosphere of temperance
which did but further enhance the brilliancy of human life, the school of
Cyrene had maintained itself as almost one with the family of its founder;
certainly as nothing coarse or unclean, and under the influence of accomplished
women. Aristippus of Cyrene too had left off in suspense of judgment as
to what might really lie behind—flammantia moenia mundi: the flaming ramparts
of the world. Those strange, bold, sceptical surmises, which had haunted the
minds of the first Greek enquirers as merely abstract doubt, which had been
present to the mind of Heraclitus as one element only in a system of abstract
philosophy, became with Aristippus a very subtly practical worldly-wisdom. The
difference between him and those obscure earlier thinkers is almost like that
between an ancient thinker generally, and a modern man of the world: it was the
difference between the mystic in his cell, or the prophet in the desert, and
the expert, cosmopolitan, administrator of his dark sayings, translating the
abstract thoughts of the master into terms, first of all, of sentiment. It has
been sometimes seen, in the history of the human mind, that when thus
translated into terms of sentiment—of sentiment, as lying already half-way
towards practice—the abstract ideas of metaphysics for the first time reveal
their true significance. The metaphysical principle, in itself, as it were,
without hands or feet, becomes impressive, fascinating, of effect, when
translated into a precept as to how it were best to feel and act; in other
words, under its sentimental or ethical equivalent. The leading idea of the
great master of Cyrene, his theory that things are but shadows, and that we,
even as they, never continue in one stay, might indeed have taken effect as a
languid, enervating, consumptive nihilism, as a precept of “renunciation,”
which would touch and handle and busy itself with nothing. But in the reception
of metaphysical formulae, all depends, as regards their actual and ulterior
result, on the pre-existent qualities of that soil of human nature into which
they fall—the company they find already present there, on their admission into
the house of thought; there being at least so much truth as this involves in
the theological maxim, that the reception of this or that speculative
conclusion is really a matter of will. The persuasion that all is vanity, with
this happily constituted Greek, who had been a genuine disciple of Socrates and
reflected, presumably, something of his blitheness in the face of the world,
his happy way of taking all chances, generated neither frivolity nor sourness,
but induced, rather, an impression, just serious enough, of the call upon men’s
attention of the crisis in which they find themselves. It became the stimulus
towards every kind of activity, and prompted a perpetual, inextinguishable
thirst after experience. With Marius, then, the influence of the philosopher
of pleasure depended on this, that in him an abstract doctrine, originally
somewhat acrid, had fallen upon a rich and genial nature, well fitted to
transform it into a theory of practice, of considerable stimulative power
towards a fair life. What Marius saw in him was the spectacle of one of the
happiest temperaments coming, so to speak, to an understanding with the most
depressing of theories; accepting the results of a metaphysical system which
seemed to concentrate into itself all the weakening trains of thought in
earlier Greek speculation, and making the best of it; turning its hard, bare
truths, with wonderful tact, into precepts of grace, and delicate wisdom, and a
delicate sense of honour. Given the hardest terms, supposing our days are indeed
but a shadow, even so, we may well adorn and beautify, in scrupulous
self-respect, our souls, and whatever our souls touch upon—these wonderful
bodies, these material dwelling-places through which the shadows pass together
for a while, the very raiment we wear, our very pastimes and the intercourse of
society. The most discerning judges saw in him something like the graceful
“humanities” of the later Roman, and our modern “culture,” as it is termed;
while Horace recalled his sayings as expressing best his own consummate amenity
in the reception of life. In this way, for Marius, under the guidance of
that old master of decorous living, those eternal doubts as to the criteria of
truth reduced themselves to a scepticism almost drily practical, a scepticism
which developed the opposition between things as they are and our impressions
and thoughts concerning them—the possibility, if an outward world does really
exist, of some faultiness in our apprehension of it—the doctrine, in short, of
what is termed “the subjectivity of knowledge.” That is a consideration,
indeed, which lies as an element of weakness, like some admitted fault or flaw,
at the very foundation of every philosophical account of the universe; which
confronts all philosophies at their starting, but with which none have really
dealt conclusively, some perhaps not quite sincerely; which those who are not
philosophers dissipate by “common,” but unphilosophical, sense, or by religious
faith. The peculiar strength of Marius was, to have apprehended this weakness
on the threshold of human knowledge, in the whole range of its consequences.
Our knowledge is limited to what we feel, he reflected: we need no proof that
we feel. But can we be sure that things are at all like our feelings? Mere
peculiarities in the instruments of our cognition, like the little knots and
waves on the surface of a mirror, may distort the matter they seem but to
represent. Of other people we cannot truly know even the feelings, nor how far
they would indicate the same modifications, each one of a personality really
unique, in using the same terms as ourselves; that “common experience,” which
is sometimes proposed as a satisfactory basis of certainty, being after all
only a fixity of language. But our own impressions!—The light and heat of that
blue veil over our heads, the heavens spread out, perhaps not like a curtain
over anything!—How reassuring, after so long a debate about the rival criteria
of truth, to fall back upon direct sensation, to limit one’s aspirations after
knowledge to that! In an age still materially so brilliant, so expert in the
artistic handling of material things, with sensible capacities still in
undiminished vigour, with the whole world of classic art and poetry outspread
before it, and where there was more than eye or ear could well take in—how
natural the determination to rely exclusively upon the phenomena of the senses,
which certainly never deceive us about themselves, about which alone we can
never deceive ourselves! And so the abstract apprehension that the little
point of this present moment alone really is, between a past which has just
ceased to be and a future which may never come, became practical with Marius,
under the form of a resolve, as far as possible, to exclude regret and desire,
and yield himself to the improvement of the present with an absolutely
disengaged mind. America is here and now—here, or nowhere: as Wilhelm Meister
finds out one day, just not too late, after so long looking vaguely across the
ocean for the opportunity of the development of his capacities. It was as if,
recognising in perpetual motion the law of nature, Marius identified his own
way of life cordially with it, “throwing himself into the stream,” so to speak.
He too must maintain a harmony with that soul of motion in things, by
constantly renewed mobility of character. Omnis Aristippum decuit color
et status et res.— Thus Horace had summed up that perfect manner in
the reception of life attained by his old Cyrenaic master; and the first
practical consequence of the metaphysic which lay behind that perfect manner,
had been a strict limitation, almost the renunciation, of metaphysical enquiry
itself. Metaphysic—that art, as it has so often proved, in the words of
Michelet, _de s’égarer avec méthode_, of bewildering oneself methodically:—one
must spend little time upon that! In the school of Cyrene, great as was its
mental incisiveness, logical and physical speculation, theoretic interests
generally, had been valued only so far as they served to give a groundwork, an
intellectual justification, to that exclusive concern with practical ethics
which was a note of the Cyrenaic philosophy. How earnest and enthusiastic, how
true to itself, under how many varieties of character, had been the effort of
the Greeks after Theory—Theôria—that vision of a wholly reasonable world,
which, according to the greatest of them, literally makes man like God: how
loyally they had still persisted in the quest after that, in spite of how many
disappointments! In the Gospel of Saint John, perhaps, some of them might have
found the kind of vision they were seeking for; but not in “doubtful
disputations” concerning “being” and “not being,” knowledge and appearance.
Men’s minds, even young men’s minds, at that late day, might well seem
oppressed by the weariness of systems which had so far outrun positive
knowledge; and in the mind of Marius, as in that old school of Cyrene, this
sense of ennui, combined with appetites so youthfully vigorous, brought about
reaction, a sort of suicide (instances of the like have been seen since) by
which a great metaphysical acumen was devoted to the function of proving
metaphysical speculation impossible, or useless. Abstract theory was to be
valued only just so far as it might serve to clear the tablet of the mind from suppositions
no more than half realisable, or wholly visionary, leaving it in flawless
evenness of surface to the impressions of an experience, concrete and
direct. To be absolutely virgin towards such experience, by ridding
ourselves of such abstractions as are but the ghosts of bygone impressions—to
be rid of the notions we have made for ourselves, and that so often only
misrepresent the experience of which they profess to be the
representation—_idola_, idols, false appearances, as Bacon calls them later—to
neutralise the distorting influence of metaphysical system by an
all-accomplished metaphysic skill: it is this bold, hard, sober recognition,
under a very “dry light,” of its own proper aim, in union with a habit of
feeling which on the practical side may perhaps open a wide doorway to human
weakness, that gives to the Cyrenaic doctrine, to reproductions of this
doctrine in the time of Marius or in our own, their gravity and importance. It
was a school to which the young man might come, eager for truth, expecting much
from philosophy, in no ignoble curiosity, aspiring after nothing less than an
“initiation.” He would be sent back, sooner or later, to experience, to the
world of concrete impressions, to things as they may be seen, heard, felt by
him; but with a wonderful machinery of observation, and free from the tyranny
of mere theories. So, in intervals of repose, after the agitation which
followed the death of Flavian, the thoughts of Marius ran, while he felt
himself as if returned to the fine, clear, peaceful light of that pleasant
school of healthfully sensuous wisdom, in the brilliant old Greek colony, on
its fresh upland by the sea. Not pleasure, but a general completeness of life,
was the practical ideal to which this anti-metaphysical metaphysic really
pointed. And towards such a full or complete life, a life of various yet select
sensation, the most direct and effective auxiliary must be, in a word, Insight.
Liberty of soul, freedom from all partial and misrepresentative doctrine which
does but relieve one element in our experience at the cost of another, freedom
from all embarrassment alike of regret for the past and of calculation on the
future: this would be but preliminary to the real business of
education—insight, insight through culture, into all that the present moment
holds in trust for us, as we stand so briefly in its presence. From that maxim
of Life as the end of life, followed, as a practical consequence, the
desirableness of refining all the instruments of inward and outward intuition,
of developing all their capacities, of testing and exercising one’s self in
them, till one’s whole nature became one complex medium of reception, towards
the vision—the “beatific vision,” if we really cared to make it such—of our
actual experience in the world. Not the conveyance of an abstract body of
truths or principles, would be the aim of the right education of one’s self, or
of another, but the conveyance of an art—an art in some degree peculiar to each
individual character; with the modifications, that is, due to its special
constitution, and the peculiar circumstances of its growth, inasmuch as no one
of us is “like another, all in all.” CHAPTER IX. NEW
CYRENAICISM Such were the practical conclusions drawn for himself
by Marius, when somewhat later he had outgrown the mastery of others, from the
principle that “all is vanity.” If he could but count upon the present, if a
life brief at best could not certainly be shown to conduct one anywhere beyond
itself, if men’s highest curiosity was indeed so persistently baffled—then,
with the Cyrenaics of all ages, he would at least fill up the measure of that
present with vivid sensations, and such intellectual apprehensions, as, in
strength and directness and their immediately realised values at the bar of an
actual experience, are most like sensations. So some have spoken in every age;
for, like all theories which really express a strong natural tendency of the
human mind or even one of its characteristic modes of weakness, this vein of
reflection is a constant tradition in philosophy. Every age of European thought
has had its Cyrenaics or Epicureans, under many disguises: even under the hood
of the monk. But—Let us eat and drink, for to-morrow we die!—is a
proposal, the real import of which differs immensely, according to the natural
taste, and the acquired judgment, of the guests who sit at the table. It may
express nothing better than the instinct of Dante’s Ciacco, the accomplished
glutton, in the mud of the Inferno;+ or, since on no hypothesis does man “live
by bread alone,” may come to be identical with—“My meat is to do what is just
and kind;” while the soul, which can make no sincere claim to have apprehended
anything beyond the veil of immediate experience, yet never loses a sense of
happiness in conforming to the highest moral ideal it can clearly define for
itself; and actually, though but with so faint hope, does the “Father’s
business.” In that age of Marcus Aurelius, so completely disabused of the
metaphysical ambition to pass beyond “the flaming ramparts of the world,” but,
on the other hand, possessed of so vast an accumulation of intellectual
treasure, with so wide a view before it over all varieties of what is powerful
or attractive in man and his works, the thoughts of Marius did but follow the
line taken by the majority of educated persons, though to a different issue.
Pitched to a really high and serious key, the precept—Be perfect in regard to
what is here and now: the precept of “culture,” as it is called, or of a
complete education—might at least save him from the vulgarity and heaviness of
a generation, certainly of no general fineness of temper, though with a
material well-being abundant enough. Conceded that what is secure in our
existence is but the sharp apex of the present moment between two hypothetical
eternities, and all that is real in our experience but a series of fleeting
impressions:—so Marius continued the sceptical argument he had condensed, as
the matter to hold by, from his various philosophical reading:—given, that we
are never to get beyond the walls of the closely shut cell of one’s own
personality; that the ideas we are somehow impelled to form of an outer world,
and of other minds akin to our own, are, it may be, but a day-dream, and the
thought of any world beyond, a day-dream perhaps idler still: then, he, at
least, in whom those fleeting impressions—faces, voices, material sunshine—were
very real and imperious, might well set himself to the consideration, how such
actual moments as they passed might be made to yield their utmost, by the most
dexterous training of capacity. Amid abstract metaphysical doubts, as to what
might lie one step only beyond that experience, reinforcing the deep original
materialism or earthliness of human nature itself, bound so intimately to the
sensuous world, let him at least make the most of what was “here and now.” In
the actual dimness of ways from means to ends—ends in themselves desirable, yet
for the most part distant and for him, certainly, below the visible horizon—he
would at all events be sure that the means, to use the well-worn terminology,
should have something of finality or perfection about them, and themselves
partake, in a measure, of the more excellent nature of ends—that the means
should justify the end. With this view he would demand culture, paideia,+
as the Cyrenaics said, or, in other words, a wide, a complete, education—an
education partly negative, as ascertaining the true limits of man’s capacities,
but for the most part positive, and directed especially to the expansion and
refinement of the power of reception; of those powers, above all, which are
immediately relative to fleeting phenomena, the powers of emotion and sense. In
such an education, an “aesthetic” education, as it might now be termed, and
certainly occupied very largely with those aspects of things which affect us
pleasurably through sensation, art, of course, including all the finer sorts of
literature, would have a great part to play. The study of music, in that wider
Platonic sense, according to which, music comprehends all those matters over
which the Muses of Greek mythology preside, would conduct one to an exquisite
appreciation of all the finer traits of nature and of man. Nay! the products of
the imagination must themselves be held to present the most perfect forms of
life—spirit and matter alike under their purest and most perfect conditions—the
most strictly appropriate objects of that impassioned contemplation, which, in
the world of intellectual discipline, as in the highest forms of morality and
religion, must be held to be the essential function of the “perfect.” Such
manner of life might come even to seem a kind of religion—an inward, visionary,
mystic piety, or religion, by virtue of its effort to live days “lovely and
pleasant” in themselves, here and now, and with an all-sufficiency of
well-being in the immediate sense of the object contemplated, independently of
any faith, or hope that might be entertained as to their ulterior tendency. In
this way, the true aesthetic culture would be realisable as a new form of the
contemplative life, founding its claim on the intrinsic “blessedness” of
“vision”—the vision of perfect men and things. One’s human nature, indeed,
would fain reckon on an assured and endless future, pleasing itself with the
dream of a final home, to be attained at some still remote date, yet with a
conscious, delightful home-coming at last, as depicted in many an old poetic
Elysium. On the other hand, the world of perfected sensation, intelligence,
emotion, is so close to us, and so attractive, that the most visionary of
spirits must needs represent the world unseen in colours, and under a form
really borrowed from it. Let me be sure then—might he not plausibly say?—that I
miss no detail of this life of realised consciousness in the present! Here at
least is a vision, a theory, theôria,+ which reposes on no basis of unverified
hypothesis, which makes no call upon a future after all somewhat problematic;
as it would be unaffected by any discovery of an Empedocles(improving on the
old story of Prometheus) as to what had really been the origin, and course of
development, of man’s actually attained faculties and that seemingly divine
particle of reason or spirit in him. Such a doctrine, at more leisurable
moments, would of course have its precepts to deliver on the embellishment,
generally, of what is near at hand, on the adornment of life, till, in a not
impracticable rule of conduct, one’s existence, from day to day, came to be
like a well-executed piece of music; that “perpetual motion” in things (so
Marius figured the matter to himself, under the old Greek imageries) according
itself to a kind of cadence or harmony. It was intelligible that this
“aesthetic” philosophy might find itself (theoretically, at least, and by way
of a curious question in casuistry, legitimate from its own point of view)
weighing the claims of that eager, concentrated, impassioned realisation of
experience, against those of the received morality. Conceiving its own function
in a somewhat desperate temper, and becoming, as every high-strung form of
sentiment, as the religious sentiment itself, may become, somewhat antinomian,
when, in its effort towards the order of experiences it prefers, it is
confronted with the traditional and popular morality, at points where that
morality may look very like a convention, or a mere stage-property of the
world, it would be found, from time to time, breaking beyond the limits of the
actual moral order; perhaps not without some pleasurable excitement in so bold
a venture. With the possibility of some such hazard as this, in thought
or even in practice—that it might be, though refining, or tonic even, in the
case of those strong and in health, yet, as Pascal says of the kindly and
temperate wisdom of Montaigne, “pernicious for those who have any natural
tendency to impiety or vice,” the line of reflection traced out above, was
fairly chargeable.—Not, however, with “hedonism” and its supposed consequences.
The blood, the heart, of Marius were still pure. He knew that his carefully
considered theory of practice braced him, with the effect of a moral principle
duly recurring to mind every morning, towards the work of a student, for which
he might seem intended. Yet there were some among his acquaintance who jumped
to the conclusion that, with the “Epicurean stye,” he was making
pleasure—pleasure, as they so poorly conceived it—the sole motive of life; and
they precluded any exacter estimate of the situation by covering it with a
high-sounding general term, through the vagueness of which they were enabled to
see the severe and laborious youth in the vulgar company of Lais. Words like
“hedonism”— terms of large and vague comprehension—above all when used for a
purpose avowedly controversial, have ever been the worst examples of what are
called “question-begging terms;” and in that late age in which Marius lived,
amid the dust of so many centuries of philosophical debate, the air was full of
them. Yet those who used that reproachful Greek term for the philosophy of
pleasure, were hardly more likely than the old Greeks themselves (on whom
regarding this very subject of the theory of pleasure, their masters in the art
of thinking had so emphatically to impress the necessity of “making
distinctions”) to come to any very delicately correct ethical conclusions by a
reasoning, which began with a general term, comprehensive enough to cover
pleasures so different in quality, in their causes and effects, as the
pleasures of wine and love, of art and science, of religious enthusiasm and
political enterprise, and of that taste or curiosity which satisfied itself
with long days of serious study. Yet, in truth, each of those pleasurable modes
of activity, may, in its turn, fairly become the ideal of the “hedonistic”
doctrine. Really, to the phase of reflection through which Marius was then
passing, the charge of “hedonism,” whatever its true weight might be, was not
properly applicable at all. Not pleasure, but fulness of life, and “insight” as
conducting to that fulness—energy, variety, and choice of experience, including
noble pain and sorrow even, loves such as those in the exquisite old story of
Apuleius, sincere and strenuous forms of the moral life, such as Seneca and
Epictetus—whatever form of human life, in short, might be heroic, impassioned,
ideal: from these the “new Cyrenaicism” of Mariustook its criterion of values.
It was a theory, indeed, which might properly be regarded as in great degree
coincident with the main principle of the Stoics themselves, and an older
version of the precept “Whatsoever thy hand findeth to do, do it with thy
might”—a doctrine so widely acceptable among the nobler spirits of that time.
And, as with that, its mistaken tendency would lie in the direction of a kind
of idolatry of mere life, or natural gift, or strength—l’idôlatrie des
talents. To understand the various forms of ancient art and thought, the
various forms of actual human feeling (the only new thing, in a world almost
too opulent in what was old) to satisfy, with a kind of scrupulous equity, the
claims of these concrete and actual objects on his sympathy, his intelligence,
his senses—to “pluck out the heart of their mystery,” and in turn become the
interpreter of them to others: this had now defined itself for Marius as a very
narrowly practical design: it determined his choice of a vocation to live by.
It was the era of the rhetoricians, or sophists, as they were sometimes called;
of men who came in some instances to great fame and fortune, by way of a
literary cultivation of “science.” That science, it has been often said, must
have been wholly an affair of words. But in a world, confessedly so opulent in
what was old, the work, even of genius, must necessarily consist very much in
criticism; and, in the case of the more excellent specimens of his class, the
rhetorician was, after all, the eloquent and effective interpreter, for the
delighted ears of others, of what understanding himself had come by, in years
of travel and study, of the beautiful house of art and thought which was the
inheritance of the age. The emperor Marcus Aurelius, to whose service Marius
had now been called, was himself, more or less openly, a “lecturer.” That late
world, amid many curiously vivid modern traits, had this spectacle, so familiar
to ourselves, of the public lecturer or essayist; in some cases adding to his
other gifts that of the Christian preacher, who knows how to touch people’s
sensibilities on behalf of the suffering. To follow in the way of these
successes, was the natural instinct of youthful ambition; and it was with no
vulgar egotism that Marius, at the age of nineteen, determined, like many
another young man of parts, to enter as a student of rhetoric at Rome.
Though the manner of his work was changed formally from poetry to prose, he
remained, and must always be, of the poetic temper: by which, I mean, among
other things, that quite independently of the general habit of that pensive age
he lived much, and as it were by system, in reminiscence. Amid his eager
grasping at the sensation, the consciousness, of the present, he had come to
see that, after all, the main point of economy in the conduct of the present,
was the question:—How will it look to me, at what shall I value it, this day
next year?—that in any given day or month one’s main concern was its impression
for the memory. A strange trick memory sometimes played him; for, with no
natural gradation, what was of last month, or of yesterday, of to-day even,
would seem as far off, as entirely detached from him, as things of ten years
ago. Detached from him, yet very real, there lay certain spaces of his life, in
delicate perspective, under a favourable light; and, somehow, all the less
fortunate detail and circumstance had parted from them. Such hours were
oftenest those in which he had been helped by work of others to the pleasurable
apprehension of art, of nature, or of life. “Not what I do, but what I am,
under the power of this vision”—he would say to himself—“is what were indeed
pleasing to the gods!” And yet, with a kind of inconsistency in one who
had taken for his philosophic ideal the monochronos hêdonê+ of Aristippus—the
pleasure of the ideal present, of the mystic now—there would come, together
with that precipitate sinking of things into the past, a desire, after all, to
retain “what was so transitive.” Could he but arrest, for others also, certain
clauses of experience, as the imaginative memory presented them to himself! In
those grand, hot summers, he would have imprisoned the very perfume of the
flowers. To create, to live, perhaps, a little while beyond the allotted hours,
if it were but in a fragment of perfect expression:—it was thus his longing
defined itself for something to hold by amid the “perpetual flux.” With men of
his vocation, people were apt to say, words were things. Well! with him, words
should be indeed things,—the word, the phrase, valuable in exact proportion to
the transparency with which it conveyed to others the apprehension, the
emotion, the mood, so vividly real within himself. Verbaque provisam rem non
invita sequentur:+ Virile apprehension of the true nature of things, of the
true nature of one’s own impression, first of all!—words would follow that
naturally, a true understanding of one’s self being ever the first condition of
genuine style. Language delicate and measured, the delicate Attic phrase, for
instance, in which the eminent Aristeides could speak, was then a power to
which people’s hearts, and sometimes even their purses, readily responded. And
there were many points, as Marius thought, on which the heart of that age
greatly needed to be touched. He hardly knew how strong that old religious
sense of responsibility, the conscience, as we call it, still was within him—a
body of inward impressions, as real as those so highly valued outward ones—to
offend against which, brought with it a strange feeling of disloyalty, as to a
person. And the determination, adhered to with no misgiving, to add nothing,
not so much as a transient sigh, to the great total of men’s unhappiness, in
his way through the world:—that too was something to rest on, in the drift of
mere “appearances.” All this would involve a life of industry, of
industrious study, only possible through healthy rule, keeping clear the eye
alike of body and soul. For the male element, the logical conscience asserted itself
now, with opening manhood—asserted itself, even in his literary style, by a
certain firmness of outline, that touch of the worker in metal, amid its
richness. Already he blamed instinctively alike in his work and in himself, as
youth so seldom does, all that had not passed a long and liberal process of
erasure. The happy phrase or sentence was really modelled upon a cleanly
finished structure of scrupulous thought. The suggestive force of the one
master of his development, who had battled so hard with imaginative prose; the
utterance, the golden utterance, of the other, so content with its living power
of persuasion that he had never written at all,—in the commixture of these two
qualities he set up his literary ideal, and this rare blending of grace with an
intellectual rigour or astringency, was the secret of a singular expressiveness
in it. He acquired at this time a certain bookish air, the somewhat
sombre habitude of the avowed scholar, which though it never interfered with
the perfect tone, “fresh and serenely disposed,” of the Roman gentleman, yet
qualified it as by an interesting oblique trait, and frightened away some of
his equals in age and rank. The sober discretion of his thoughts, his sustained
habit of meditation, the sense of those negative conclusions enabling him to
concentrate himself, with an absorption so entire, upon what is immediately
here and now, gave him a peculiar manner of intellectual confidence, as of one
who had indeed been initiated into a great secret.—Though with an air so
disengaged, he seemed to be living so intently in the visible world! And now,
in revolt against that pre-occupation with other persons, which had so often
perturbed his spirit, his wistful speculations as to what the real, the
greater, experience might be, determined in him, not as the longing for love—to
be with Cynthia, or Aspasia—but as a thirst for existence in exquisite places.
The veil that was to be lifted for him lay over the works of the old masters of
art, in places where nature also had used her mastery. And it was just at this
moment that a summons to Rome reached him. NOTES 145. +Canto
VI. 147. +Transliteration: paideia. Definition “rearing,
education.” 149. +Transliteration: theôria. Definition “a looking
at ... observing ... contemplation.” 154. +Transliteration:
monochronos hêdonê. Pater’s definition “the pleasure of the ideal present, of
the mystic now.” The definition is fitting; the unusual adjective monokhronos
means, literally, “single or unitary time.” 155. +Horace, Ars Poetica
311. +Etext editor’s translation: “The subject once foreknown, the words will
follow easily.” CHAPTER X. ON THE WAY Mirum est
ut animus agitatione motuque corporis excitetur. Pliny’s Letters.
Many points in that train of thought, its harder and more energetic
practical details especially, at first surmised but vaguely in the intervals of
his visits to the tomb of Flavian, attained the coherence of formal principle
amid the stirring incidents of the journey, which took him, still in all the buoyancy
of his nineteen years and greatly expectant, to Rome. That summons had come
from one of the former friends of his father in the capital, who had kept
himself acquainted with the lad’s progress, and, assured of his parts, his
courtly ways, above all of his beautiful penmanship, now offered him a place,
virtually that of an amanuensis, near the person of the philosophic emperor.
The old town-house of his family on the Caelian hill, so long neglected, might
well require his personal care; and Marius, relieved a little by his
preparations for travelling from a certain over-tension of spirit in which he
had lived of late, was presently on his way, to await introduction to Aurelius,
on his expected return home, after a first success, illusive enough as it was
soon to appear, against the invaders from beyond the Danube. The opening
stage of his journey, through the firm, golden weather, for which he had
lingered three days beyond the appointed time of starting—days brown with the
first rains of autumn—brought him, by the byways among the lower slopes of the
Apennines of Luna, to the town of Luca, a station on the Cassian Way;
travelling so far mainly on foot, while the baggage followed under the care of
his attendants. He wore a broad felt hat, in fashion not unlike a more modern
pilgrim’s, the neat head projecting from the collar of his gray paenula, or
travelling mantle, sewed closely together over the breast, but with its two
sides folded up upon the shoulders, to leave the arms free in walking, and was
altogether so trim and fresh, that, as he climbed the hill from Pisa, by the
long steep lane through the olive-yards, and turned to gaze where he could just
discern the cypresses of the old school garden, like two black lines down the
yellow walls, a little child took possession of his hand, and, looking up at
him with entire confidence, paced on bravely at his side, for the mere pleasure
of his company, to the spot where the road declined again into the valley
beyond. From this point, leaving the servants behind, he surrendered himself, a
willing subject, as he walked, to the impressions of the road, and was almost
surprised, both at the suddenness with which evening came on, and the distance
from his old home at which it found him. And at the little town of Luca,
he felt that indescribable sense of a welcoming in the mere outward appearance
of things, which seems to mark out certain places for the special purpose of
evening rest, and gives them always a peculiar amiability in retrospect. Under
the deepening twilight, the rough-tiled roofs seem to huddle together side by
side, like one continuous shelter over the whole township, spread low and broad
above the snug sleeping-rooms within; and the place one sees for the first
time, and must tarry in but for a night, breathes the very spirit of home. The
cottagers lingered at their doors for a few minutes as the shadows grew larger,
and went to rest early; though there was still a glow along the road through
the shorn corn-fields, and the birds were still awake about the crumbling gray
heights of an old temple. So quiet and air-swept was the place, you could
hardly tell where the country left off in it, and the field-paths became its
streets. Next morning he must needs change the manner of his journey. The light
baggage-wagon returned, and he proceeded now more quickly, travelling a stage
or two by post, along the Cassian Way, where the figures and incidents of the
great high-road seemed already to tell of the capital, the one centre to which
all were hastening, or had lately bidden adieu. That Way lay through the heart
of the old, mysterious and visionary country of Etruria; and what he knew of
its strange religion of the dead, reinforced by the actual sight of the funeral
houses scattered so plentifully among the dwelling-places of the living,
revived in him for a while, in all its strength, his old instinctive yearning
towards those inhabitants of the shadowy land he had known in life. It seemed
to him that he could half divine how time passed in those painted houses on the
hillsides, among the gold and silver ornaments, the wrought armour and
vestments, the drowsy and dead attendants; and the close consciousness of that
vast population gave him no fear, but rather a sense of companionship, as he
climbed the hills on foot behind the horses, through the genial
afternoon. The road, next day, passed below a town not less primitive, it
might seem, than its rocky perch—white rocks, that had long been glistening
before him in the distance. Down the dewy paths the people were descending from
it, to keep a holiday, high and low alike in rough, white-linen smocks. A
homely old play was just begun in an open-air theatre, with seats hollowed out
of the turf-grown slope. Marius caught the terrified expression of a child in
its mother’s arms, as it turned from the yawning mouth of a great mask, for
refuge in her bosom. The way mounted, and descended again, down the steep
street of another place, all resounding with the noise of metal under the
hammer; for every house had its brazier’s workshop, the bright objects of brass
and copper gleaming, like lights in a cave, out of their dark roofs and
corners. Around the anvils the children were watching the work, or ran to fetch
water to the hissing, red-hot metal; and Marius too watched, as he took his
hasty mid-day refreshment, a mess of chestnut-meal and cheese, while the
swelling surface of a great copper water-vessel grew flowered all over with
tiny petals under the skilful strokes. Towards dusk, a frantic woman at the
roadside, stood and cried out the words of some philter, or malison, in verse,
with weird motion of her hands, as the travellers passed, like a wild picture
drawn from Virgil. But all along, accompanying the superficial grace of
these incidents of the way, Marius noted, more and more as he drew nearer to
Rome, marks of the great plague. Under Hadrian and his successors, there had
been many enactments to improve the condition of the slave. The ergastula+ were
abolished. But no system of free labour had as yet succeeded. A whole mendicant
population, artfully exaggerating every symptom and circumstance of misery,
still hung around, or sheltered themselves within, the vast walls of their old,
half-ruined task-houses. And for the most part they had been variously stricken
by the pestilence. For once, the heroic level had been reached in rags,
squints, scars—every caricature of the human type—ravaged beyond what could
have been thought possible if it were to survive at all. Meantime, the farms
were less carefully tended than of old: here and there they were lapsing into
their natural wildness: some villas also were partly fallen into ruin. The
picturesque, romantic Italy of a later time—the Italy of Claude and Salvator
Rosa—was already forming, for the delight of the modern romantic
traveller. And again Marius was aware of a real change in things, on
crossing the Tiber, as if some magic effect lay in that; though here, in truth,
the Tiber was but a modest enough stream of turbid water. Nature, under the
richer sky, seemed readier and more affluent, and man fitter to the conditions
around him: even in people hard at work there appeared to be a less burdensome
sense of the mere business of life. How dreamily the women were passing up
through the broad light and shadow of the steep streets with the great
water-pots resting on their heads, like women of Caryae, set free from slavery
in old Greek temples. With what a fresh, primeval poetry was daily existence
here impressed—all the details of the threshing-floor and the vineyard; the common
farm-life even; the great bakers’ fires aglow upon the road in the evening. In
the presence of all this Marius felt for a moment like those old, early,
unconscious poets, who created the famousGreek myths of Dionysus, and the Great
Mother, out of the imagery of the wine-press and the ploughshare. And still the
motion of the journey was bringing his thoughts to systematic form. He seemed
to have grown to the fulness of intellectual manhood, on his way hither. The
formative and literary stimulus, so to call it, of peaceful exercise which he
had always observed in himself, doing its utmost now, the form and the matter
of thought alike detached themselves clearly and with readiness from the
healthfully excited brain.—“It is wonderful,” says Pliny, “how the mind is
stirred to activity by brisk bodily exercise.” The presentable aspects of
inmost thought and feeling became evident to him: the structure of all he
meant, its order and outline, defined itself: his general sense of a fitness
and beauty in words became effective in daintily pliant sentences, with all
sorts of felicitous linking of figure to abstraction. It seemed just then as if
the desire of the artist in him—that old longing to produce—might be satisfied
by the exact and literal transcript of what was then passing around him, in
simple prose, arresting the desirable moment as it passed, and prolonging its
life a little.—To live in the concrete! To be sure, at least, of one’s hold
upon that!—Again, his philosophic scheme was but the reflection of the data of
sense, and chiefly of sight, a reduction to the abstract, of the brilliant road
he travelled on, through the sunshine. But on the seventh evening there
came a reaction in the cheerful flow of our traveller’s thoughts, a reaction
with which mere bodily fatigue, asserting itself at last over his curiosity,
had much to do; and he fell into a mood, known to all passably sentimental
wayfarers, as night deepens again and again over their path, in which all
journeying, from the known to the unknown, comes suddenly to figure as a mere
foolish truancy—like a child’s running away from home—with the feeling that one
had best return at once, even through the darkness. He had chosen to climb on
foot, at his leisure, the long windings by which the road ascended to the place
where that day’s stage was to end, and found himself alone in the twilight, far
behind the rest of his travelling-companions. Would the last zigzag, round and
round those dark masses, half natural rock, half artificial substructure, ever
bring him within the circuit of the walls above? It was now that a startling
incident turned those misgivings almost into actual fear. From the steep slope
a heavy mass of stone was detached, after some whisperings among the trees
above his head, and rushing down through the stillness fell to pieces in a
cloud of dust across the road just behind him, so that he felt the touch upon
his heel. That was sufficient, just then, to rouse out of its hiding-place his
old vague fear of evil—of one’s “enemies”—a distress, so much a matter of
constitution with him, that at times it would seem that the best pleasures of
life could but be snatched, as it were hastily, in one moment’s forgetfulness
of its dark, besetting influence. A sudden suspicion of hatred against him, of
the nearness of “enemies,” seemed all at once to alter the visible form of
things, as with the child’s hero, when he found the footprint on the sand of
his peaceful, dreamy island. His elaborate philosophy had not put beneath his
feet the terror of mere bodily evil; much less of “inexorable fate, and the
noise of greedy Acheron.” The resting-place to which he presently came,
in the keen, wholesome air of the market-place of the little hill-town, was a
pleasant contrast to that last effort of his journey. The room in which he sat
down to supper, unlike the ordinary Roman inns at that day, was trim and sweet.
The firelight danced cheerfully upon the polished, three-wicked lucernae
burning cleanly with the best oil, upon the white-washed walls, and the bunches
of scarlet carnations set in glass goblets. The white wine of the place put
before him, of the true colour and flavour of the grape, and with a ring of
delicate foam as it mounted in the cup, had a reviving edge or freshness he had
found in no other wine. These things had relieved a little the melancholy of
the hour before; and it was just then that he heard the voice of one, newly
arrived at the inn, making his way to the upper floor—a youthful voice, with a
reassuring clearness of note, which completed his cure. He seemed to hear
that voice again in dreams, uttering his name: then, awake in the full morning
light and gazing from the window, saw the guest of the night before, a very
honourable-looking youth, in the rich habit of a military knight, standing beside
his horse, and already making preparations to depart. It happened that Marius,
too, was to take that day’s journey on horseback. Riding presently from the
inn, he overtook Cornelius—of the Twelfth Legion—advancing carefully down the
steep street; and before they had issued from the gates of Urbs-vetus, the two
young men had broken into talk together. They were passing along the street of
the goldsmiths; and Cornelius must needs enter one of the workshops for the
repair of some button or link of his knightly trappings. Standing in the
doorway, Marius watched the work, as he had watched the brazier’s business a
few days before, wondering most at the simplicity of its processes, a
simplicity, however, on which only genius in that craft could have lighted.—By
what unguessed-at stroke of hand, for instance, had the grains of precious
metal associated themselves with so daintily regular a roughness, over the
surface of the little casket yonder? And the conversation which followed, hence
arising, left the two travellers with sufficient interest in each other to
insure an easy companionship for the remainder of their journey. In time to
come, Marius was to depend very much on the preferences, the personal
judgments, of the comrade who now laid his hand so brotherly on his shoulder,
as they left the workshop. Itineris matutini gratiam capimus,+—observes
one of our scholarly travellers; and their road that day lay through a country,
well-fitted, by the peculiarity of its landscape, to ripen a first acquaintance
into intimacy; its superficial ugliness throwing the wayfarers back upon each
other’s entertainment in a real exchange of ideas, the tension of which,
however, it would relieve, ever and anon, by the unexpected assertion of
something singularly attractive. The immediate aspect of the land was, indeed,
in spite of abundant olive and ilex, unpleasing enough. A river of clay seemed,
“in some old night of time,” to have burst up over valley and hill, and
hardened there into fantastic shelves and slides and angles of cadaverous rock,
up and down among the contorted vegetation; the hoary roots and trunks seeming
to confess some weird kinship with them. But that was long ago; and these
pallid hillsides needed only the declining sun, touching the rock with purple,
and throwing deeper shadow into the immemorial foliage, to put on a peculiar,
because a very grave and austere, kind of beauty; while the graceful outlines
common to volcanic hills asserted themselves in the broader prospect. And, for
sentimental Marius, all this was associated, by some perhaps fantastic
affinity, with a peculiar trait of severity, beyond his guesses as to the
secret of it, which mingled with the blitheness of his new companion.
Concurring, indeed, with the condition of a Roman soldier, it was certainly
something far more than the expression of military hardness, or ascêsis; and
what was earnest, or even austere, in the landscape they had traversed
together, seemed to have been waiting for the passage of this figure to
interpret or inform it. Again, as in his early days with Flavian, a vivid
personal presence broke through the dreamy idealism, which had almost come to
doubt of other men’s reality: reassuringly, indeed, yet not without some sense
of a constraining tyranny over him from without. For Cornelius, returning
from the campaign, to take up his quarters on the Palatine, in the imperial
guard, seemed to carry about with him, in that privileged world of comely usage
to which he belonged, the atmosphere of some still more jealously exclusive
circle. They halted on the morrow at noon, not at an inn, but at the house of
one of the young soldier’s friends, whom they found absent, indeed, in
consequence of the plague in those parts, so that after a mid-day rest only,
they proceeded again on their journey. The great room of the villa, to which
they were admitted, had lain long untouched; and the dust rose, as they
entered, into the slanting bars of sunlight, that fell through the half-closed
shutters. It was here, to while away the time, that Cornelius bethought himself
of displaying to his new friend the various articles and ornaments of his
knightly array—the breastplate, the sandals and cuirass, lacing them on, one by
one, with the assistance of Marius, and finally the great golden bracelet on the
right arm, conferred on him by his general for an act of valour. And as he
gleamed there, amid that odd interchange of light and shade, with the staff of
a silken standard firm in his hand, Marius felt as if he were face to face, for
the first time, with some new knighthood or chivalry, just then coming into the
world. It was soon after they left this place, journeying now by
carriage, that Rome was seen at last, with much excitement on the part of our
travellers; Cornelius, and some others of whom the party then consisted,
agreeing, chiefly for the sake of Marius, to hasten forward, that it might be
reached by daylight, with a cheerful noise of rapid wheels as they passed over
the flagstones. But the highest light upon the mausoleum of Hadrian was quite gone
out, and it was dark, before they reached the Flaminian Gate. The abundant
sound of water was the one thing that impressed Marius, as they passed down a
long street, with many open spaces on either hand: Cornelius to his military
quarters, and Marius to the old dwelling-place of his fathers.
NOTES 162. +E-text editor’s note: ergastula were the Roman agrarian
equivalent of prison-workhouses. 168. +Apuleius, The Golden Ass,
I.17. CHAPTER XI. “THE MOST RELIGIOUS CITY IN THE
WORLD” Marius awoke early and passed curiously from room to room,
noting for more careful inspection by and by the rolls of manuscripts. Even
greater than his curiosity in gazing for the first time on this ancient
possession, was his eagerness to look out upon Rome itself, as he pushed back
curtain and shutter, and stepped forth in the fresh morning upon one of the
many balconies, with an oft-repeated dream realised at last. He was certainly
fortunate in the time of his coming to Rome. That old pagan world, of which
Rome was the flower, had reached its perfection in the things of poetry and
art—a perfection which indicated only too surely the eve of decline. As in some
vast intellectual museum, all its manifold products were intact and in their
places, and with custodians also still extant, duly qualified to appreciate and
explain them. And at no period of history had the material Rome itself been
better worth seeing—lying there not less consummate than that world of pagan
intellect which it represented in every phase of its darkness and light. The
various work of many ages fell here harmoniously together, as yet untouched
save by time, adding the final grace of a rich softness to its complex
expression. Much which spoke of ages earlier than Nero, the great re-builder,
lingered on, antique, quaint, immeasurably venerable, like the relics of the
medieval city in the Paris of Lewis the Fourteenth: the work of Nero’s own time
had come to have that sort of old world and picturesque interest which the work
of Lewis has for ourselves; while without stretching a parallel too far we
might perhaps liken the architectural finesses of the archaic Hadrian to the
more excellent products of our own Gothic revival. The temple of Antoninus and
Faustina was still fresh in all the majesty of its closely arrayed columns of
cipollino; but, on the whole, little had been added under the late and present
emperors, and during fifty years of public quiet, a sober brown and gray had
grown apace on things. The gilding on the roof of many a temple had lost its
garishness: cornice and capital of polished marble shone out with all the crisp
freshness of real flowers, amid the already mouldering travertine and
brickwork, though the birds had built freely among them. What Marius then saw
was in many respects, after all deduction of difference, more like the modern
Rome than the enumeration of particular losses might lead us to suppose; the
Renaissance, in its most ambitious mood and with amplest resources, having
resumed the ancient classical tradition there, with no break or obstruction, as
it had happened, in any very considerable work of the middle age. Immediately
before him, on the square, steep height, where the earliest little old Rome had
huddled itself together, arose the palace of the Caesars. Half-veiling the vast
substruction of rough, brown stone—line upon line of successive ages of
builders—the trim, old-fashioned garden walks, under their closely-woven walls
of dark glossy foliage, test of long and careful cultivation, wound gradually,
among choice trees, statues and fountains, distinct and sparkling in the full
morning sunlight, to the richly tinted mass of pavilions and corridors above,
centering in the lofty, white-marble dwelling-place of Apollo himself.
How often had Marius looked forward to that first, free wandering through Rome,
to which he now went forth with a heat in the town sunshine (like a mist of
fine gold-dust spread through the air) to the height of his desire, making the
dun coolness of the narrow streets welcome enough at intervals. He almost
feared, descending the stair hastily, lest some unforeseen accident should
snatch the little cup of enjoyment from him ere he passed the door. In such
morning rambles in places new to him, life had always seemed to come at its
fullest: it was then he could feel his youth, that youth the days of which he
had already begun to count jealously, in entire possession. So the grave,
pensive figure, a figure, be it said nevertheless, fresher far than often came
across it now, moved through the old city towards the lodgings of Cornelius,
certainly not by the most direct course, however eager to rejoin the friend of
yesterday. Bent as keenly on seeing as if his first day in Rome were to
be also his last, the two friends descended along the _Vicus Tuscus_, with its
rows of incense-stalls, into the _Via Nova_, where the fashionable people were
busy shopping; and Marius saw with much amusement the frizzled heads, then _à
la mode_. A glimpse of the _Marmorata_, the haven at the river-side, where
specimens of all the precious marbles of the world were lying amid great white
blocks from the quarries of Luna, took his thoughts for a moment to his distant
home. They visited the flower-market, lingering where the _coronarii_ pressed
on them the newest species, and purchased zinias, now in blossom (like painted
flowers, thought Marius), to decorate the folds of their togas. Loitering to
the other side of the Forum, past the great Galen’s drug-shop, after a glance
at the announcements of new poems on sale attached to the doorpost of a famous
bookseller, they entered the curious library of the Temple of Peace, then a
favourite resort of literary men, and read, fixed there for all to see, the
_Diurnal_ or Gazette of the day, which announced, together with births and
deaths, prodigies and accidents, and much mere matter of business, the date and
manner of the philosophic emperor’s joyful return to his people; and,
thereafter, with eminent names faintly disguised, what would carry that day’s
news, in many copies, over the provinces—a certain matter concerning the great
lady, known to be dear to him, whom he had left at home. It was a story, with
the development of which “society” had indeed for some time past edified or
amused itself, rallying sufficiently from the panic of a year ago, not only to
welcome back its ruler, but also to relish a _chronique scandaleuse;_ and thus,
when soon after Marius saw the world’s wonder, he was already acquainted with
the suspicions which have ever since hung about her name. Twelve o’clock was come
before they left the Forum, waiting in a little crowd to hear the _Accensus_,
according to old custom, proclaim the hour of noonday, at the moment when, from
the steps of the Senate-house, the sun could be seen standing between the
_Rostra_ and the _Græcostasis_. He exerted for this function a strength of
voice, which confirmed in Marius a judgment the modern visitor may share with
him, that Roman throats and Roman chests, namely, must, in some peculiar way,
be differently constructed from those of other people. Such judgment indeed he
had formed in part the evening before, noting, as a religious procession passed
him, how much noise a man and a boy could make, though not without a great deal
of real music, of which in truth the Romans were then as ever passionately
fond. Hence the two friends took their way through the Via Flaminia,
almost along the line of the modern Corso, already bordered with handsome
villas, turning presently to the left, into the Field-of-Mars, still the
playground of Rome. But the vast public edifices were grown to be almost
continuous over the grassy expanse, represented now only by occasional open
spaces of verdure and wild-flowers. In one of these a crowd was standing, to
watch a party of athletes stripped for exercise. Marius had been surprised at
the luxurious variety of the litters borne through Rome, where no carriage
horses were allowed; and just then one far more sumptuous than the rest, with
dainty appointments of ivory and gold, was carried by, all the town pressing
with eagerness to get a glimpse of its most beautiful woman, as she passed
rapidly. Yes! there, was the wonder of the world—the empress Faustina herself:
Marius could distinguish, could distinguish clearly, the well-known profile,
between the floating purple curtains. For indeed all Rome was ready to
burst into gaiety again, as it awaited with much real affection, hopeful and
animated, the return of its emperor, for whose ovation various adornments were
preparing along the streets through which the imperial procession would pass.
He had left Rome just twelve months before, amid immense gloom. The alarm of a
barbarian insurrection along the whole line of the Danube had happened at the
moment when Rome was panic-stricken by the great pestilence. In fifty years
of peace, broken only by that conflict in the East from which Lucius Verus,
among other curiosities, brought back the plague, war had come to seem a merely
romantic, superannuated incident of bygone history. And now it was almost upon
Italian soil. Terrible were the reports of the numbers and audacity of the
assailants. Aurelius, as yet untried in war, and understood by a few only in
the whole scope of a really great character, was known to the majority of his
subjects as but a careful administrator, though a student of philosophy,
perhaps, as we say, a dilettante. But he was also the visible centre of
government, towards whom the hearts of a whole people turned, grateful for
fifty years of public happiness—its good genius, its “Antonine”—whose fragile
person might be foreseen speedily giving way under the trials of military life,
with a disaster like that of the slaughter of the legions by Arminius.
Prophecies of the world’s impending conflagration were easily credited: “the
secular fire” would descend from heaven: superstitious fear had even demanded
the sacrifice of a human victim. Marcus Aurelius, always philosophically
considerate of the humours of other people, exercising also that devout
appreciation of every religious claim which was one of his characteristic
habits, had invoked, in aid of the commonwealth, not only all native gods, but
all foreign deities as well, however strange.—“Help! Help! in the ocean space!”
A multitude of foreign priests had been welcomed to Rome, with their various
peculiar religious rites. The sacrifices made on this occasion were remembered
for centuries; and the starving poor, at least, found some satisfaction in the
flesh of those herds of “white bulls,” which came into the city, day after day,
to yield the savour of their blood to the gods. In spite of all this, the
legions had but followed their standards despondently. But prestige, personal
prestige, the name of “Emperor,” still had its magic power over the nations.
The mere approach of the Roman army made an impression on the barbarians.
Aurelius and his colleague had scarcely reached Aquileia when a deputation
arrived to ask for peace. And now the two imperial “brothers” were returning
home at leisure; were waiting, indeed, at a villa outside the walls, till the
capital had made ready to receive them. But although Rome was thus in genial
reaction, with much relief, and hopefulness against the winter, facing itself
industriously in damask of red and gold, those two enemies were still
unmistakably extant: the barbarian army of the Danube was but over-awed for a
season; and the plague, as we saw when Marius was on his way to Rome, was not
to depart till it had done a large part in the formation of the melancholy
picturesque of modern Italy—till it had made, or prepared for the making of the
Roman Campagna. The old, unaffected, really pagan, peace or gaiety, of
Antoninus Pius—that genuine though unconscious humanist—was gone for ever. And
again and again, throughout this day of varied observation, Marius had been
reminded, above all else, that he was not merely in “the most religious city of
the world,” as one had said, but that Rome was become the romantic home of the
wildest superstition. Such superstition presented itself almost as religious
mania in many an incident of his long ramble,—incidents to which he gave his
full attention, though contending in some measure with a reluctance on the part
of his companion, the motive of which he did not understand till long
afterwards. Marius certainly did not allow this reluctance to deter his own
curiosity. Had he not come to Rome partly under poetic vocation, to receive all
those things, the very impress of life itself, upon the visual, the
imaginative, organ, as upon a mirror; to reflect them; to transmute them into
golden words? He must observe that strange medley of superstition, that
centuries’ growth, layer upon layer, of the curiosities of religion (one faith
jostling another out of place) at least for its picturesque interest, and as an
indifferent outsider might, not too deeply concerned in the question which, if
any of them, was to be the survivor. Superficially, at least, the Roman
religion, allying itself with much diplomatic economy to possible rivals, was
in possession, as a vast and complex system of usage, intertwining itself with
every detail of public and private life, attractively enough for those who had
but “the historic temper,” and a taste for the past, however much a Lucian
might depreciate it. Roman religion, as Marius knew, had, indeed, been always
something to be done, rather than something to be thought, or believed, or
loved; something to be done in minutely detailed manner, at a particular time
and place, correctness in which had long been a matter of laborious learning
with a whole school of ritualists—as also, now and again, a matter of heroic
sacrifice with certain exceptionally devout souls, as when Caius Fabius Dorso,
with his life in his hand, succeeded in passing the sentinels of the invading
Gauls to perform a sacrifice on the Quirinal, and, thanks to the divine
protection, had returned in safety. So jealous was the distinction between
sacred and profane, that, in the matter of the “regarding of days,” it had made
more than half the year a holiday. Aurelius had, indeed, ordained that there
should be no more than a hundred and thirty-five festival days in the year; but
in other respects he had followed in the steps of his predecessor, Antoninus
Pius—commended especially for his “religion,” his conspicuous devotion to its
public ceremonies—and whose coins are remarkable for their reference to the
oldest and most hieratic types of Roman mythology. Aurelius had succeeded in
more than healing the old feud between philosophy and religion, displaying
himself, in singular combination, as at once the most zealous of philosophers
and the most devout of polytheists, and lending himself, with an air of
conviction, to all the pageantries of public worship. To his pious recognition
of that one orderly spirit, which, according to the doctrine of the Stoics,
diffuses itself through the world, and animates it—a recognition taking the
form, with him, of a constant effort towards inward likeness thereto, in the
harmonious order of his own soul—he had added a warm personal devotion towards
the whole multitude of the old national gods, and a great many new foreign ones
besides, by him, at least, not ignobly conceived. If the comparison may be
reverently made, there was something here of the method by which the catholic
church has added the cultus of the saints to its worship of the one Divine
Being. And to the view of the majority, though the emperor, as the
personal centre of religion, entertained the hope of converting his people to
philosophic faith, and had even pronounced certain public discourses for their
instruction in it, that polytheistic devotion was his most striking feature.
Philosophers, indeed, had, for the most part, thought with Seneca, “that a man
need not lift his hands to heaven, nor ask the sacristan’s leave to put his
mouth to the ear of an image, that his prayers might be heard the
better.”—Marcus Aurelius, “a master in Israel,” knew all that well enough. Yet
his outward devotion was much more than a concession to popular sentiment, or a
mere result of that sense of fellow-citizenship with others, which had made him
again and again, under most difficult circumstances, an excellent comrade.
Those others, too!—amid all their ignorances, what were they but instruments in
the administration of the Divine Reason, “from end to end sweetly and strongly
disposing all things”? Meantime “Philosophy” itself had assumed much of what we
conceive to be the religious character. It had even cultivated the habit, the
power, of “spiritual direction”; the troubled soul making recourse in its hour
of destitution, or amid the distractions of the world, to this or that
director—philosopho suo—who could really best understand it. And it had
been in vain that the old, grave and discreet religion of Rome had set itself,
according to its proper genius, to prevent or subdue all trouble and
disturbance in men’s souls. In religion, as in other matters, plebeians, as
such, had a taste for movement, for revolution; and it had been ever in the
most populous quarters that religious changes began. To the apparatus of
foreign religion, above all, recourse had been made in times of public
disquietude or sudden terror; and in those great religious celebrations, before
his proceeding against the barbarians, Aurelius had even restored the
solemnities of Isis, prohibited in the capital since the time of Augustus,
making no secret of his worship of that goddess, though her temple had been
actually destroyed by authority in the reign of Tiberius. Her singular and in
many ways beautiful ritual was now popular in Rome. And then—what the
enthusiasm of the swarming plebeian quarters had initiated, was sure to be
adopted, sooner or later, by women of fashion. A blending of all the religions
of the ancient world had been accomplished. The new gods had arrived, had been
welcomed, and found their places; though, certainly, with no real security, in
any adequate ideal of the divine nature itself in the background of men’s
minds, that the presence of the new-comer should be edifying, or even refining.
High and low addressed themselves to all deities alike without scruple;
confusing them together when they prayed, and in the old, authorised, threefold
veneration of their visible images, by flowers, incense, and ceremonial
lights—those beautiful usages, which the church, in her way through the world,
ever making spoil of the world’s goods for the better uses of the human spirit,
took up and sanctified in her service. And certainly “the most religious
city in the world” took no care to veil its devotion, however fantastic. The
humblest house had its little chapel or shrine, its image and lamp; while
almost every one seemed to exercise some religious function and responsibility.
Colleges, composed for the most part of slaves and of the poor, provided for
the service of the Compitalian Lares—the gods who presided, respectively, over
the several quarters of the city. In one street, Marius witnessed an incident
of the festival of the patron deity of that neighbourhood, the way being strewn
with box, the houses tricked out gaily in such poor finery as they possessed,
while the ancient idol was borne through it in procession, arrayed in gaudy
attire the worse for wear. Numerous religious clubs had their stated
anniversaries, on which the members issued with much ceremony from their
guild-hall, or schola, and traversed the thoroughfares of Rome, preceded, like
the confraternities of the present day, by their sacred banners, to offer
sacrifice before some famous image. Black with the perpetual smoke of lamps and
incense, oftenest old and ugly, perhaps on that account the more likely to
listen to the desires of the suffering—had not those sacred effigies sometimes
given sensible tokens that they were aware? The image of the Fortune of
Women—Fortuna Muliebris, in the Latin Way, had spoken (not once only) and
declared; Bene me, Matronae! vidistis riteque dedicastis! The Apollo of Cumae
had wept during three whole nights and days. The images in the temple of Juno
Sospita had been seen to sweat. Nay! there was blood—divine blood—in the hearts
of some of them: the images in the Grove of Feronia had sweated blood!
From one and all Cornelius had turned away: like the “atheist” of whom Apuleius
tells he had never once raised hand to lip in passing image or sanctuary, and
had parted from Marius finally when the latter determined to enter the crowded
doorway of a temple, on their return into the Forum, below the Palatine hill,
where the mothers were pressing in, with a multitude of every sort of children,
to touch the lightning-struck image of the wolf-nurse of Romulus—so tender to
little ones!—just discernible in its dark shrine, amid a blaze of lights.
Marius gazed after his companion of the day, as he mounted the steps to his
lodging, singing to himself, as it seemed. Marius failed precisely to catch the
words. And, as the rich, fresh evening came on, there was heard all
over Rome, far above a whisper, the whole town seeming hushed to catch it
distinctly, the lively, reckless call to “play,” from the sons and daughters of
foolishness, to those in whom their life was still green—Donec virenti canities
abest!—Donec virenti canities abest!+ Marius could hardly doubt how Cornelius
would have taken the call. And as for himself, slight as was the burden of
positive moral obligation with which he had entered Rome, it was to no wasteful
and vagrant affections, such as these, that his Epicureanism had committed
him. NOTES 187. +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So long
as youth is fresh and age is far away.” CHAPTER XII. THE
DIVINITY THAT DOTH HEDGE A KING But ah! Maecenas is yclad in claye,
And great Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt in
lead, That matter made for poets on to playe.+ Marcus Aurelius who,
though he had little relish for them himself, had ever been willing to humour
the taste of his people for magnificent spectacles, was received back to Rome
with the lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great was
the public sense of deliverance) with even more than the laxity which had
become its habit under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in
the late achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate,
and with a crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired
walking beside him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn
procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The
victim, a goodly sheep, whose image we may still see between the pig and the ox
of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the
church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests,
clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive
gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great
choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according
as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately
amid the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul
within him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now
restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their
houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of
his country,” to await the procession, the two princes having spent the
preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius,
full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the
world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a
great part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and
punctiliously guarded from profane footsteps. The coming of the pageant
was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the
acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular
time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole
attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in
sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers,
and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was
Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the
folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete
with meaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age,
with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his candour
of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair,
clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought him, between
Chance with meek resignation, and a Providence with boundless possibilities and
hope, being for him at least distinctly defined. That outward serenity,
which he valued so highly as a point of manner or expression not unworthy the
care of a public minister—outward symbol, it might be thought, of the inward
religious serenity it had been his constant purpose to maintain—was increased
to-day by his sense of the gratitude of his people; that his life had been one
of such gifts and blessings as made his person seem in very deed divine to
them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow, passing from time to time
into an expression of fatigue and effort, of loneliness amid the shouting
multitude, might have been detected there by the more observant—as if the
sagacious hint of one of his officers, “The soldiers can’t understand you, they
don’t know Greek,” were applicable always to his relationships with other
people. The nostrils and mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius
noted in them, as in the hands, and in the spare body generally, what was new
to his experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by
which, although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the
flesh had scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the
expression of “the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice
of the body to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to
divine in this assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far
beyond the demands of their very saddest philosophy of life. Dignify
thyself with modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim
with this dainty and high-bred Stoic, who still thought manners a true part of
morals, according to the old sense of the term, and who regrets now and again
that he cannot control his thoughts equally well with his countenance. That
outward composure was deepened during the solemnities of this day by an air of
pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a sort of
humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and to his
whole proceeding, in which every minutest act was considered, the character of
a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or even
philosophic, in Aurelius, who had realised, under more trying conditions
perhaps than any one before, that no element of humanity could be alien from
him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes
discreetly fixed on the ground, veiling his head at times and muttering very
rapidly the words of the “supplications,” the rich, fresh evening
came on, there was heard all over Rome, far above a whisper, the whole town
seeming hushed to catch it distinctly, the lively, reckless call to “play,”
from the sons and daughters of foolishness , to those in whom their life
was still green—Donec virenti canities abest!—Donec virenti canities abest!+
Marius could hardly doubt how Cornelius would have taken the call. And as for
himself, slight as was the burden of positive moral obligation with which he
had entered Rome, it was to no wasteful and vagrant affections, such as these,
that his Epicureanism had committed him. NOTES 187. +Horace,
Odes I.ix.17. Translation: “So long as youth is fresh and age is far
away.” CHAPTER XII. THE DIVINITY THAT DOTH HEDGE A
KING But ah! Maecenas is yclad in claye, And great Augustus long
ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt in lead, That matter made for
poets on to playe.+ Marcus Aurelius who, though he had little
relish for them himself, had ever been willing to humour the taste of his
people for magnificent spectacles, was received back to Rome with the lesser
honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great was the public sense of
deliverance) with even more than the laxity which had become its habit under
imperial rule, for there had been no actual bloodshed in the late achievement.
Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate, and with a crown of
myrtle upon his head, his colleague similarly attired walking beside him, he
passed up to the Capitol on foot, though in solemn procession along the Sacred
Way, to offer sacrifice to the national gods. The victim, a goodly sheep, whose
image we may still see between the pig and the ox of the Suovetaurilia,
filleted and stoled almost like some ancient canon of the church, on a
sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests, clad in rich
white vestments, and bearing their sacred utensils of massive gold, immediately
behind a company of flute-players, led by the great choir-master, or conductor,
of the day, visibly tetchy or delighted, according as the instruments he ruled
with his tuning-rod, rose, more or less adequately amid the difficulties of the
way, to the dream of perfect music in the soul within him. The vast crowd,
including the soldiers of the triumphant army, now restored to wives and
children, all alike in holiday whiteness, had left their houses early in the
fine, dry morning, in a real affection for “the father of his country,” to
await the procession, the two princes having spent the preceding night outside
the walls, at the old Villa of the Republic. Marius, full of curiosity, had
taken his position with much care; and stood to see the world’s masters pass
by, at an angle from which he could command the view of a great part of the
processional route, sprinkled with fine yellow sand, and punctiliously guarded
from profane footsteps. The coming of the pageant was announced by the
clear sound of the flutes, heard at length above the acclamations of the
people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular time, over the
hills. It was on the central figure, of course, that the whole attention of
Marius was fixed from the moment when the procession came in sight, preceded by
the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers, and the pages
carrying lighted torches; a band of knights, among whom was Cornelius in
complete military, array, following. Amply swathed about in the folds of a
richly worked toga, after a manner now long since become obsolete withmeaner
persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age, with
prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this essentially
religious ceremony, were by nature broadly and benignantly observant. He was
still, in the main, as we see him in the busts which represent his gracious and
courtly youth, when Hadrian had playfully called him, not Verus, after the
name of his father, but Verissimus, for his candour of gaze, and the bland
capacity of the brow, which, below the brown hair, clustering thickly as of
old, shone out low, broad, and clear, and still without a trace of the trouble
of his lips. You saw the brow of one who, amid the blindness or perplexity of
the people about him, understood all things clearly; the dilemma, to which
his experience so far had brought him, between Chance with meek
resignation, and a Providence with boundless possibilities and hope, being for
him at least distinctly defined. That outward serenity, which he valued
so highly as a point of manner or expression not unworthy the care of a public
minister—outward symbol, it might be thought, of the inward religious serenity
it had been his constant purpose to maintain—was increased to-day by his sense
of the gratitude of his people; that his life had been one of such gifts and
blessings as made his person seem in very deed divine to them. Yet the cloud of
some reserved internal sorrow, passing from time to time into an expression of
fatigue and effort, of loneliness amid the shouting multitude, might have been
detected there by the more observant—as if the sagacious hint of one of his
officers, “The soldiers can’t understand you, they don’t know Greek,” were
applicable always to his relationships with other people. The nostrils and
mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius noted in them, as in the
hands, and in the spare body generally, what was new to his
experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by
which, although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the
flesh had scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the
expression of “the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice
of the body to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to
divine in this assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far
beyond the demands of their very saddest philosophy of life. Dignify
thyself with modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim
with this dainty and high -bred Stoic, who still thought manners a true
part of morals, according to the old sense of the term, and who regrets now and
again that he cannot control his thoughts equally well with his countenance.
That outward composure was deepened during the solemnities of this day by an
air of pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a
sort of humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and
to his whole proceeding, in which every minutest act was considered, the
character of a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or
even philosophic, in Aurelius, who had realised, under more trying conditions
perhaps than any one before, that no element of humanity could be alien from
him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes
discreetly fixed on the ground, veiling his head at times and muttering very
rapidly the words of the “supplications,” there was something many spectators
may have noted as a thing new in their experience, for Aurelius, unlike his
predecessors, took all this with absolute seriousness. The doctrine of the
sanctity of kings, that, in the words of Tacitus, Princes are as Gods—Principes
instar deorum esse—seemed to have taken a novel, because a literal, sense. For
Aurelius, indeed, the old legend of his descent from Numa, from Numa who had
talked with the gods, meant much. Attached in very early years to the service
of the altars, like many another noble youth, he was “observed to perform all
his sacerdotal functions with a constancy and exactness unusual at that age;
was soon a master of the sacred music; and had all the forms and ceremonies by
heart.” And now, as the emperor, who had not only a vague divinity about his
person, but was actually the chief religious functionary of the state, recited
from time to time the forms of invocation, he needed not the help of the
prompter, or ceremoniarius, who then approached, to assist him by whispering
the appointed words in his ear. It was that pontifical abstraction which then
impressed itself on Marius as the leading outward characteristic of Aurelius;
though to him alone, perhaps, in that vast crowd of observers, it was no
strange thing, but a matter he had understood from of old. Some fanciful
writers have assigned the origin of these triumphal processions to the mythic
pomps of Dionysus, after his conquests in the East; the very word Triumph
being, according to this supposition, only Thriambos-the Dionysiac Hymn. And
certainly the younger of the two imperial “brothers,” who, with the effect of a
strong contrast, walked beside Aurelius, and shared the honours of the day,
might well have reminded people of the delicate Greek god of flowers and wine.
This new conqueror of the East was now about thirty-six years old, but with his
scrupulous care for all the advantages of his person, and a soft curling beard
powdered with gold, looked many years younger. One result of the more genial
element in the wisdom of Aurelius had been that, amid most difficult
circumstances, he had known throughout life how to act in union with persons of
character very alien from his own; to be more than loyal to the colleague, the
younger brother in empire, he had too lightly taken to himself, five years before,
then an uncorrupt youth, “skilled in manly exercises and fitted for war.” When
Aurelius thanks the gods that a brother had fallen to his lot, whose character
was a stimulus to the proper care of his own, one sees that this could only
have happened in the way of an example, putting him on his guard against
insidious faults. But it is with sincere amiability that the imperial writer,
who was indeed little used to be ironical, adds that the lively respect and
affection of the junior had often “gladdened” him. To be able to make his use
of the flower, when the fruit perhaps was useless or poisonous:—that was one of
the practical successes of his philosophy; and his people noted, with a
blessing, “the concord of the two Augusti.” The younger, certainly, possessed
in full measure that charm of a constitutional freshness of aspect which may
defy for a long time extravagant or erring habits of life; a physiognomy,
healthy-looking, cleanly, and firm, which seemed unassociable with any form of
self-torment, and made one think of the muzzle of some young hound or roe, such
as human beings invariably like to stroke—a physiognomy, in effect, with all
the goodliness of animalism of the finer sort, though still wholly animal. The
charm was that of the blond head, the unshrinking gaze, the warm tints: neither
more nor less than one may see every English summer, in youth, manly enough,
and with the stuff which makes brave soldiers, in spite of the natural kinship
it seems to have with playthings and gay flowers. But innate in Lucius Verus
there was that more than womanly fondness for fond things, which had made the
atmosphere of the old city of Antioch, heavy with centuries of voluptuousness,
a poison to him: he had come to love his delicacies best out of season, and would
have gilded the very flowers. But with a wonderful power of self-obliteration,
the elder brother at the capital had directed his procedure successfully, and
allowed him, become now also the husband of his daughter Lucilla, the credit of
a “Conquest,” though Verus had certainly not returned a conqueror over himself.
He had returned, as we know, with the plague in his company, along with many
another strange creature of his folly; and when the people saw him publicly
feeding his favourite horse Fleet with almonds and sweet grapes, wearing the
animal’s image in gold, and finally building it a tomb, they felt, with some
un-sentimental misgiving, that he might revive the manners of Nero.—What if, in
the chances of war, he should survive the protecting genius of that elder
brother? He was all himself to-day: and it was with much wistful
curiosity that Marius regarded him. For Lucius Verus was, indeed, but the
highly expressive type of a class,—the true son of his father, adopted by
Hadrian. Lucius Verus the elder, also, had had the like strange capacity for
misusing the adornments of life, with a masterly grace; as if such misusing
were, in truth, the quite adequate occupation of an intelligence, powerful, but
distorted by cynical philosophy or some disappointment of the heart. It was
almost a sort of genius, of which there had been instances in the imperial
purple: it was to ascend the throne, a few years later, in the person of one,
now a hopeful little lad at home in the palace; and it had its following, of course,
among the wealthy youth at Rome, who concentrated no inconsiderable force of
shrewdness and tact upon minute details of attire and manner, as upon the one
thing needful. Certainly, flowers were pleasant to the eye. Such things had
even their sober use, as making the outside of human life superficially
attractive, and thereby promoting the first steps towards friendship and social
amity. But what precise place could there be for Verus and his peculiar charm,
in that Wisdom, that Order of divine Reason “reaching from end to end, strongly
and sweetly disposing all things,” from the vision of which Aurelius came down,
so tolerant of persons like him? Into such vision Marius too was certainly
well-fitted to enter, yet, noting the actual perfection of Lucius Verus after
his kind, his undeniable achievement of the select, in all minor things, felt,
though with some suspicion of himself, that he entered into, and could
understand, this other so dubious sort of character also. There was a voice in
the theory he had brought to Rome with him which whispered “nothing is either
great nor small;” as there were times when he could have thought that, as the
“grammarian’s” or the artist’s ardour of soul may be satisfied by the
perfecting of the theory of a sentence, or the adjustment of two colours, so
his own life also might have been fulfilled by an enthusiastic quest after
perfection—say, in the flowering and folding of a toga. The emperors had
burned incense before the image of Jupiter, arrayed in its most gorgeous apparel,
amid sudden shouts from the people of Salve Imperator! turned now from the
living princes to the deity, as they discerned his countenance through the
great open doors. The imperial brothers had deposited their crowns of myrtle on
the richly embroidered lapcloth of the god; and, with their chosen guests, sat
down to a public feast in the temple itself. There followed what was, after
all, the great event of the day:—an appropriate discourse, a discourse almost
wholly de contemptu mundi, delivered in the presence of the assembled Senate,
by the emperor Aurelius, who had thus, on certain rare occasions, condescended
to instruct his people, with the double authority of a chief pontiff and a
laborious student of philosophy. In those lesser honours of the ovation, there
had been no attendant slave behind the emperors, to make mock of their
effulgence as they went; and it was as if with the discretion proper to a
philosopher, and in fear of a jealous Nemesis, he had determined himself to
protest in time against the vanity of all outward success. The Senate was
assembled to hear the emperor’s discourse in the vast hall of the Curia Julia.
A crowd of high-bred youths idled around, or on the steps before the doors,
with the marvellous toilets Marius had noticed in the Via Nova; in attendance,
as usual, to learn by observation the minute points of senatorial procedure.
Marius had already some acquaintance with them, and passing on found himself
suddenly in the presence of what was still the most august assembly the world
had seen. Under Aurelius, ever full of veneration for this ancient traditional
guardian of public religion, the Senate had recovered all its old dignity and
independence. Among its members many hundreds in number, visibly the most
distinguished of them all, Marius noted the great sophists or rhetoricians of
the day, in all their magnificence. The antique character of their attire, and
the ancient mode of wearing it, still surviving with them, added to the
imposing character of their persons, while they sat, with their staves of ivory
in their hands, on their curule chairs—almost the exact pattern of the chair
still in use in the Roman church when a Bishop pontificates at the divine
offices—“tranquil and unmoved, with a majesty that seemed divine,” as Marius
thought, like the old Gaul of the Invasion. The rays of the early November
sunset slanted full upon the audience, and made it necessary for the officers
of the Court to draw the purple curtains over the windows, adding to the
solemnity of the scene. In the depth of those warm shadows, surrounded by her
ladies, the empress Faustina was seated to listen. The beautiful Greek statue
of Victory, which since the days of Augustus had presided over the assemblies
of the Senate, had been brought into the hall, and placed near the chair of the
emperor; who, after rising to perform a brief sacrificial service in its
honour, bowing reverently to the assembled fathers left and right, took his
seat and began to speak. There was a certain melancholy grandeur in the
very simplicity or triteness of the theme: as it were the very quintessence of
all the old Roman epitaphs, of all that was monumental in that city of tombs,
layer upon layer of dead things and people. As if in the very fervour of
disillusion, he seemed to be composing—Hôsper epigraphas chronôn kai holôn
ethnôn+—the sepulchral titles of ages and whole peoples; nay! the very epitaph
of the living Rome itself. The grandeur of the ruins of Rome,—heroism in ruin:
it was under the influence of an imaginative anticipation of this, that he
appeared to be speaking. And though the impression of the actual greatness of
Rome on that day was but enhanced by the strain of contempt, falling with an
accent of pathetic conviction from the emperor himself, and gaining from his
pontifical pretensions the authority of a religious intimation, yet the curious
interest of the discourse lay in this, that Marius, for one, as he listened,
seemed to forsee a grass-grown Forum, the broken ways of the Capitol, and the
Palatine hill itself in humble occupation. That impression connected itself
with what he had already noted of an actual change even then coming over
Italian scenery. Throughout, he could trace something of a humour into which
Stoicism at all times tends to fall, the tendency to cry, Abase yourselves!
There was here the almost inhuman impassibility of one who had thought too
closely on the paradoxical aspect of the love of posthumous fame. With the
ascetic pride which lurks under all Platonism, resultant from its opposition of
the seen to the unseen, as falsehood to truth—the imperial Stoic, like his true
descendant, the hermit of the middle age, was ready, in no friendly humour, to
mock, there in its narrow bed, the corpse which had made so much of itself in
life. Marius could but contrast all that with his own Cyrenaic eagerness, just
then, to taste and see and touch; reflecting on the opposite issues deducible
from the same text. “The world, within me and without, flows away like a
river,” he had said; “therefore let me make the most of what is here and
now.”—“The world and the thinker upon it, are consumed like a flame,” said
Aurelius, “therefore will I turn away my eyes from vanity: renounce: withdraw
myself alike from all affections.” He seemed tacitly to claim as a sort of
personal dignity, that he was very familiarly versed in this view of things,
and could discern a death’s-head everywhere. Now and again Marius was reminded
of the saying that “with the Stoics all people are the vulgar save themselves;”
and at times the orator seemed to have forgotten his audience, and to be
speaking only to himself. “Art thou in love with men’s praises, get thee
into the very soul of them, and see!—see what judges they be, even in those
matters which concern themselves. Wouldst thou have their praise after death,
bethink thee, that they who shall come hereafter, and with whom thou wouldst
survive by thy great name, will be but as these, whom here thou hast found so
hard to live with. For of a truth, the soul of him who is aflutter upon renown
after death, presents not this aright to itself, that of all whose memory he
would have each one will likewise very quickly depart, until memory herself be
put out, as she journeys on by means of such as are themselves on the wing but
for a while, and are extinguished in their turn.—Making so much of those thou
wilt never see! It is as if thou wouldst have had those who were before thee
discourse fair things concerning thee. “To him, indeed, whose wit hath
been whetted by true doctrine, that well-worn sentence of Homer sufficeth, to
guard him against regret and fear.—
Like the race of leaves The race of man is:—
The wind in autumn strows The earth with old leaves: then the
spring the woods with new endows.+ Leaves!
little leaves!—thy children, thy flatterers, thine enemies! Leaves in the wind,
those who would devote thee to darkness, who scorn or miscall thee here, even
as they also whose great fame shall outlast them. For all these, and the like
of them, are born indeed in the spring season—Earos epigignetai hôrê+: and soon
a wind hath scattered them, and thereafter the wood peopleth itself again with
another generation of leaves. And what is common to all of them is but the
littleness of their lives: and yet wouldst thou love and hate, as if these
things should continue for ever. In a little while thine eyes also will be
closed, and he on whom thou perchance hast leaned thyself be himself a burden
upon another. “Bethink thee often of the swiftness with which the things
that are, or are even now coming to be, are swept past thee: that the very
substance of them is but the perpetual motion of water: that there is almost
nothing which continueth: of that bottomless depth of time, so close at thy
side. Folly! to be lifted up, or sorrowful, or anxious, by reason of things
like these! Think of infinite matter, and thy portion—how tiny a particle, of
it! of infinite time, and thine own brief point there; of destiny, and the jot
thou art in it; and yield thyself readily to the wheel of Clotho, to spin of
thee what web she will. “As one casting a ball from his hand, the nature
of things hath had its aim with every man, not as to the ending only, but the
first beginning of his course, and passage thither. And hath the ball any
profit of its rising, or loss as it descendeth again, or in its fall? or the
bubble, as it groweth or breaketh on the air? or the flame of the lamp, from
the beginning to the end of its brief story? “All but at this present
that future is, in which nature, who disposeth all things in order, will
transform whatsoever thou now seest, fashioning from its substance somewhat
else, and therefrom somewhat else in its turn, lest the world grow old. We are
such stuff as dreams are made of—disturbing dreams. Awake, then! and see thy
dream as it is, in comparison with that erewhile it seemed to thee. “And
for me, especially, it were well to mind those many mutations of empire in time
past; therein peeping also upon the future, which must needs be of like species
with what hath been, continuing ever within the rhythm and number of things
which really are; so that in forty years one may note of man and of his ways
little less than in a thousand. Ah! from this higher place, look we down upon
the ship-wrecks and the calm! Consider, for example, how the world went, under
the emperor Vespasian. They are married and given in marriage, they breed
children; love hath its way with them; they heap up riches for others or for
themselves; they are murmuring at things as then they are; they are seeking for
great place; crafty, flattering, suspicious, waiting upon the death of
others:—festivals, business, war, sickness, dissolution: and now their whole
life isno longer anywhere at all. Pass on to the reign of Trajan: all things
continue the same: and that life also is no longer anywhere at all. Ah! but
look again, and consider, one after another, as it were the sepulchral
inscriptions of all peoples and times, according to one pattern.—What
multitudes, after their utmost striving—a little afterwards! were dissolved
again into their dust. “Think again of life as it was far off in the
ancient world; as it must be when we shall be gone; as it is now among the wild
heathen. How many have never heard your names and mine, or will soon forget
them! How soon may those who shout my name to-day begin to revile it, because
glory, and the memory of men, and all things beside, are but vanity—a sand-heap
under the senseless wind, the barking of dogs, the quarrelling of children,
weeping incontinently upon their laughter. “This hasteth to be; that
other to have been: of that which now cometh to be, even now somewhat hath been
extinguished. And wilt thou make thy treasure of any one of these things? It
were as if one set his love upon the swallow, as it passeth out of sight
through the air! “Bethink thee often, in all contentions public and
private, of those whom men have remembered by reason of their anger and
vehement spirit—those famous rages, and the occasions of them—the great
fortunes, and misfortunes, of men’s strife of old. What are they all now, and
the dust of their battles? Dust and ashes indeed; a fable, a mythus, or not so
much as that. Yes! keep those before thine eyes who took this or that, the like
of which happeneth to thee, so hardly; were so querulous, so agitated. And
where again are they? Wouldst thou have it not otherwise with thee?
Consider how quickly all things vanish away—their bodily structure into the
general substance; the very memory of them into that great gulf and abysm of
past thoughts. Ah! ’tis on a tiny space of earth thou art creeping through
life—a pigmy soul carrying a dead body to its grave. “Let death put thee
upon the consideration both of thy body and thy soul: what an atom of all
matter hath been distributed to thee; what a little particle of the universal
mind. Turn thy body about, and consider what thing it is, and that which old
age, and lust, and the languor of disease can make of it. Or come to its
substantial and causal qualities, its very type: contemplate that in itself,
apart from the accidents of matter, and then measure also the span of time for
which the nature of things, at the longest, will maintain that special type.
Nay! in the very principles and first constituents of things corruption hath
its part—so much dust, humour, stench , and scraps of bone! Consider that
thy marbles are but the earth’s callosities, thy gold and silver its faeces;
this silken robe but a worm’s bedding, and thy purple an unclean fish. Ah! and
thy life’s breath is not otherwise, as it passeth out of matters like these,
into the like of them again. “For the one soul in things, taking matter
like wax in the hands, moulds and remoulds—how hastily!—beast, and plant, and
the babe, in turn: and that which dieth hath not slipped out of the order of
nature, but, remaining therein, hath also its changes there, disparting into
those elements of which nature herself, and thou too, art compacted. She
changes without murmuring. The oaken chest falls to pieces with no more
complaining than when the carpenter fitted it together. If one told thee
certainly that on the morrow thou shouldst die, or at the furthest on the day
after, it would be no great matter to thee to die on the day after to-morrow,
rather than to-morrow. Strive to think it a thing no greater that thou wilt
die—not to-morrow, but a year, or two years, or ten years f rom
to-day. “I find that all things are now as they were in the days of our
buried ancestors—all things sordid in their elements, trite by long usage, and
yet ephemeral. How ridiculous, then, how like a countryman in town, is he, who
wonders at aught. Doth the sameness, the repetition of the public shows, weary
thee? Even so doth that likeness of events in the spectacle of the world. And
so must it be with thee to the end. For the wheel of the world hath ever the
same motion, upward and downward, from generation to generation. When, when,
shall time give place to eternity? “If there be things which trouble thee
thou canst put them away, inasmuch as they have their being but in thine own
notion concerning them. Consider what death is, and how, if one does but detach
from it the appearances, the notions, that hang about it, resting the eye upon
it as in itself it really is, it must be thought of but as an effect of nature,
and that man but a child whom an effect of nature shall affright. Nay! not
function and effect of nature, only; but a thing profitable also to
herself. “To cease from action—the ending of thine effort to think and
do: there is no evil in that. Turn thy thought to the ages of man’s life,
boyhood, youth, maturity, old age: the change in every one of these also is a
dying, but evil nowhere. Thou climbedst into the ship, thou hast made thy
voyage and touched the shore. Go forth now! Be it into some other life: the
divine breath is everywhere, even there. Be it into forgetfulness for ever; at
least thou wilt rest from the beating of sensible images upon thee, from the
passions which pluck thee this way and that like an unfeeling toy, from those
long marches of the intellect, from thy toilsome ministry to the flesh.
“Art thou yet more than dust and ashes and bare bone—a name only, or not so
much as that, which, also, is but whispering and a resonance, kept alive from
mouth to mouth of dying abjects who have hardly known themselves; how much less
thee, dead so long ago! “When thou lookest upon a wise man, a lawyer, a
captain of war, think upon another gone. When thou seest thine own face in the
glass, call up there before thee one of thine ancestors—one of those old
Caesars. Lo! everywhere, thy double before thee! Thereon, let the thought occur
to thee: And where are they? anywhere at all, for ever? And thou, thyself—how
long? Art thou blind to that thou art—thy matter, how temporal; and thy
function, the nature of thy business? Yet tarry, at least, till thou hast
assimilated even these things to thine own proper essence, as a quick fire
turneth into heat and light whatsoever be cast upon it. “As words once in
use are antiquated to us, so is it with the names that were once on all men’s
lips: Camillus, Volesus, Leonnatus: then, in a little while, Scipio and Cato,
and then Augustus, and then Hadrian, and then Antoninus Pius. How many great
physicians who lifted wise brows at other men’s sick-beds, have sickened and died!
Those wise Chaldeans, who foretold, as a great matter, another man’s last hour,
have themselves been taken by surprise. Ay! and all those others, in their
pleasant places: those who doated on a Capreae like Tiberius, on their gardens,
on the baths: Pythagoras and Socrates, who reasoned so closely upon
immortality: Alexander, who used the lives of others as though his own should
last for ever—he and his mule-driver alike now!—one upon another. Well-nigh the
whole court of Antoninus is extinct. Panthea and Pergamus sit no longer beside
the sepulchre of their lord. The watchers over Hadrian’s dust have slipped from
his sepulchre.—It were jesting to stay longer. Did they sit there still, would
the dead feel it? or feeling it, be glad? or glad, hold those watchers for
ever? The time must come when they too shall be aged men and aged women, and
decease, and fail from their places; and what shift were there then for
imperial service? This too is but the breath of the tomb, and a skinful of dead
men’s blood. “Think again of those inscriptions, which belong not to one
soul only, but to whole families: Eschatos tou idiou genous:+ He was the last
of his race. Nay! of the burial of whole cities: Helice, Pompeii: of others,
whose very burial place is unknown. “Thou hast been a citizen in this
wide city. Count not for how long, nor repine; since that which sends thee
hence is no unrighteous judge, no tyrant, but Nature, who brought thee hither;
as when a player leaves the stage at the bidding of the conductor who hired
him. Sayest thou, ‘I have not played five acts’? True! but in human life, three
acts only make sometimes an entire play. That is the composer’s business, not
thine. Withdraw thyself with a good will; for that too hath, perchance, a good
will which dismisseth thee from thy part.” The discourse ended almost in
darkness, the evening having set in somewhat suddenly, with a heavy fall of
snow. The torches, made ready to do him a useless honour, were of real service
now, as the emperor was solemnly conducted home; one man rapidly catching light
from another—a long stream of moving lights across the white Forum, up the
great stairs, to the palace. And, in effect, that night winter began, the
hardest that had been known for a lifetime. The wolves came from the mountains;
and, led by the carrion scent, devoured the dead bodies which had been hastily
buried during the plague, and, emboldened by their meal, crept, before the
short day was well past, over the walls of the farmyards of the Campagna. The
eagles were seen driving the flocks of smaller birds across the dusky sky.
Only, in the city itself the winter was all the brighter for the contrast,
among those who could pay for light and warmth. The habit-makers made a great
sale of the spoil of all such furry creatures as had escaped wolves and eagles,
for presents at the Saturnalia; and at no time had the winter roses from
Carthage seemed more lustrously yellow and red. NOTES 188.
+Spenser, Shepheardes Calendar, October, 61-66. 200. +Transliteration:
Hôsper epigraphas chronôn kai holôn ethnôn. Pater’s Translation: “the
sepulchral titles of ages and whole peoples.” 202. +Homer, Iliad
VI.146-48. 202. +Transliteration: Earos epigignetai hôrê.
Translation: “born in springtime.” Homer, Iliad VI.147. 210.
+Transliteration: Eschatos tou idiou genous. Translation: “He was the last of
his race.” CHAPTER XIII. THE “MISTRESS AND MOTHER” OF
PALACES After that sharp, brief winter, the sun was already at
work, softening leaf and bud, as you might feel by a faint sweetness in the
air; but he did his work behind an evenly white sky, against which the abode of
the Caesars, its cypresses and bronze roofs, seemed like a picture in beautiful
but melancholy colour, as Marius climbed the long flights of steps to be
introduced to the emperor Aurelius. Attired in the newest mode, his legs wound
in dainty fasciae of white leather, with the heavy gold ring of the ingenuus,
and in his toga of ceremony, he still retained all his country freshness of
complexion. The eyes of the “golden youth” of Rome were upon him as the chosen
friend of Cornelius, and the destined servant of the emperor; but not
jealously. In spite of, perhaps partly because of, his habitual reserve of
manner, he had become “the fashion,” even among those who felt instinctively
the irony which lay beneath that remarkable self-possession, as of one taking
all things with a difference from other people, perceptible in voice, in
expression, and even in his dress. It was, in truth, the air of one who,
entering vividly into life, and relishing to the full the delicacies of its
intercourse, yet feels all the while, from the point of view of an ideal
philosophy, that he is but conceding reality to suppositions, choosing of his
own will to walk in a day-dream, of the illusiveness of which he at least is
aware. In the house of the chief chamberlain Marius waited for the due
moment of admission to the emperor’s presence. He was admiring the peculiar
decoration of the walls, coloured like rich old red leather. In the midst of one
of them was depicted, under a trellis of fruit you might have gathered, the
figure of a woman knocking at a door with wonderful reality of perspective.
Then the summons came; and in a few minutes, the etiquette of the imperial
household being still a simple matter, he had passed the curtains which divided
the central hall of the palace into three parts—three degrees of approach to
the sacred person—and was speaking to Aurelius himself; not in Greek, in which
the emperor oftenest conversed with the learned, but, more familiarly, in
Latin, adorned however, or disfigured, by many a Greek phrase, as now and again
French phrases have made the adornment of fashionable English. It was with real
kindliness that Marcus Aurelius looked upon Marius, as a youth of great
attainments in Greek letters and philosophy; and he liked also his serious
expression, being, as we know, a believer in the doctrine of physiognomy—that,
as he puts it, not love only, but every other affection of man’s soul, looks
out very plainly from the window of the eyes. The apartment in which
Marius found himself was of ancient aspect, and richly decorated with the
favourite toys of two or three generations of imperial collectors, now finally
revised by the high connoisseurship of the Stoic emperor himself, though
destined not much longer to remain together there. It is the repeated boast of
Aurelius that he had learned from old Antoninus Pius to maintain authority
without the constant use of guards, in a robe woven by the handmaids of his own
consort, with no processional lights or images, and “that a prince may shrink
himself almost into the figure of a private gentleman.” And yet, again as at
his first sight of him, Marius was struck by the profound religiousness of the
surroundings of the imperial presence. The effect might have been due in part
to the very simplicity, the discreet and scrupulous simplicity, of the central
figure in this splendid abode; but Marius could not forget that he saw before
him not only the head of the Romanreligion, but one who might actually have
claimed something like divine worship, had he cared to do so. Though the
fantastic pretensions of Caligula had brought some contempt on that claim,
which had become almost a jest under the ungainly Claudius, yet, from Augustus downwards,
a vague divinity had seemed to surround the Caesars even in this life; and the
peculiar character of Aurelius, at once a ceremonious polytheist never
forgetful of his pontifical calling, and a philosopher whose mystic speculation
encircled him with a sort of saintly halo, had restored to his person, without
his intending it, something of that divine prerogative, or prestige. Though he
would never allow the immediate dedication of altars to himself, yet the image
of his Genius—his spirituality or celestial counterpart—was placed among those
of the deified princes of the past; and his family, including Faustina and the
young Commodus, was spoken of as the “holy” or “divine” house. Many a Roman
courtier agreed with the barbarian chief, who, after contemplating a
predecessor of Aurelius, withdrew from his presence with t he
exclamation:—“I have seen a god to-day!” The very roof of his house, rising
into a pediment or gable, like that of the sanctuary of a god, the laurels on
either side its doorway, the chaplet of oak-leaves above, seemed to designate
the place for religious veneration. And notwithstanding all this, the household
of Aurelius was singularly modest, with none of the wasteful expense of palaces
after the fashion of Lewis the Fourteenth; the palatial dignity being felt only
in a peculiar sense of order, the absence of all that was casual, of vulgarity
and discomfort. A merely official residence of his predecessors, the Palatine
had become the favourite dwelling-place of Aurelius; its many-coloured memories
suiting, perhaps, his pensive character, and the crude splendours of Nero and
Hadrian being now subdued by time. The window-less Roman abode must have had
much of what toa modern would be gloom. How did the children, one wonders,
endure houses with so little escape for the eye into the world outside?
Aurelius, who had altered little else, choosing to live there, in a genuine
homeliness, had shifted and made the most of the level lights, and broken out a
quite medieval window here and there, and the clear daylight, fully appreciated
by his youthful visitor, made pleasant shadows among the objects of the
imperial collection. Some of these, indeed, by reason of their Greek simplicity
and grace, themselves shone out like spaces of a purer, early light, amid the
splendours of the Roman manufacture. Though he looked, thought Marius,
like a man who did not sleep enough, he was abounding and bright to-day, after
one of those pitiless headaches, which since boyhood had been the “thorn in his
side,” challenging the pretensions of his philosophy to fortify one in humble
endurances. At the first moment, to Marius, remembering the spectacle of the
emperor in ceremony, it was almost bewildering to be in private conversation
with him. There was much in the philosophy of Aurelius—much consideration of
mankind at large, of great bodies, aggregates and generalities, after the Stoic
manner—which, on a nature less rich than his, might have acted as an inducement
to care for people in inverse proportion to their nearness to him. That has
sometimes been the result of the Stoic cosmopolitanism. Aurelius, however,
determined to beautify by all means, great or little, a doctrine which had in
it some potential sourness, had brought all the quickness of his intelligence, and
long years of observation, to bear on the conditions of social intercourse. He
had early determined “not to make business an excuse to decline the offices of
humanity—not to pretend to be too much occupied with important affairs to
concede what life with others may hourly demand;” and with such success, that,
in an age which made much of the finer points of that intercourse, it was felt
that the mere honesty of his conversation was more pleasing than other men’s
flattery. His agreeableness to his young visitor to-day was, in truth, a
blossom of the same wisdom which had made of Lucius Verus really a brother—the
wisdom of not being exigent with men, any more than with fruit-trees (it is his
own favourite figure) beyond their nature. And there was another person, still
nearer to him, regarding whom this wisdom became a marvel, of equity—of
charity. The centre of a group of princely children, in the same
apartment with Aurelius, amid all the refined intimacies of a modern home, sat
the empress Faustina, warming her hands over a fire. With her long fingers
lighted up red by the glowing coals of the brazier Marius looked close upon the
most beautiful woman in the world, who was also the great paradox of the age,
among her boys and girls. As has been truly said of the numerous
representations of her in art, so in life, she had the air of one curious,
restless, to enter into conversation with the first comer. She had certainly
the power of stimulating a very ambiguous sort of curiosity about herself. And
Marius found this enigmatic point in her expression, that even after seeing her
many times he could never precisely recall her features in absence. The lad of
six years, looking older, who stood beside her, impatiently plucking a rose to
pieces over the hearth, was, in outward appearance, his father—the young
Verissimus—over again; but with a certain feminine length of feature, and with
all his mother’s alertness, or license, of gaze. Yet rumour knocked at
every door and window of the imperial house regarding the adulterers who
knocked at them, or quietly left their lovers’ garlands there. Was not that
likeness of the husband, in the boy beside her, really the effect of a shameful
magic, in which the blood of the murdered gladiator, his true father, had been
an ingredient? Were the tricks for deceiving husbands which the Roman poet
describes, really hers, and her household an efficient school of all the arts
of furtive love? Or, was the husband too aware, like every one beside? Were
certain sudden deaths which happened there, really the work of apoplexy, or the
plague? The man whose ears, whose soul, those rumours were meant to
penetrate, was, however, faithful to his sanguine and optimist philosophy, to
his determination that the world should be to him simply what the higher reason
preferred to conceive it; and the life’s journey Aurelius had made so far,
though involving much moral and intellectual loneliness, had been ever in
affectionate and helpful contact with other wayfarers, very unlike himself.
Since his days of earliest childhood in the Lateran gardens, he seemed to
himself, blessing the gods for it after deliberate survey, to have been always
surrounded by kinsmen, friends, servants, of exceptional virtue. From the great
Stoic idea, that we are all fellow-citizens of one city, he had derived a
tenderer, a more equitable estimate than was common among Stoics, of the
eternal shortcomings of men and women. Considerations that might tend to the
sweetening of his temper it was his daily care to store away, with a kind of
philosophic pride in the thought that no one took more good-naturedly than he
the “oversights” of his neighbours. For had not Plato taught (it was not
paradox, but simple truth of experience) that if people sin, it is because they
know no better, and are “under the necessity of their own ignorance”? Hard to
himself, he seemed at times, doubtless, to decline too softly upon unworthy
persons. Actually, he came thereby upon many a useful instrument. The empress
Faustina he would seem at least to have kept, by a constraining affection, from
becoming altogether what most people have believed her, and won in her (we must
take him at his word in the “Thoughts,” abundantly confirmed by letters, on
both sides, in his correspondence with Cornelius Fronto) a consolation, the
more secure, perhaps, because misknown of others. Was the secret of her actual
blamelessness, after all, with him who has at least screened her name? At all
events, the one thing quite certain about her, besides her extraordinary
beauty, is her sweetness to himself. No! The wise, who had made due
observation on the trees of the garden, would not expect to gather grapes of
thorns or fig-trees: and he was the vine, putting forth his genial fruit, by
natural law, again and again, after his kind, whatever use people might make of
it. Certainly, his actual presence never lost its power, and Faustina was glad
in it to-day, the birthday of one of her children, a boy who stood at her knee
holding in his fingers tenderly a tiny silver trumpet, one of his birthday
gifts.—“For my part, unless I conceive my hurt to be such, I have no hurt at
all,”—boasts the would-be apathetic emperor:—“and how I care to conceive of the
thing rests with me.” Yet when his children fall sick or die, this pretence
breaks down, and he is broken-hearted: and one of the charms of certain of his
letters still extant, is his reference to those childish sicknesses.—“On my
return to Lorium,” he writes, “I found my little lady—domnulam meam—in a
fever;” and again, in a letter to one of the most serious of men, “You will be
glad to hear that our little one is better, and running about the room—parvolam
nostram melius valere et intra cubiculum discurrere.” The young Commodus
had departed from the chamber, anxious to witness the exercises of certain
gladiators, having a native taste for such company, inherited, according to
popular rumour, from his true father—anxious also to escape from the too
impressive company of the gravest and sweetest specimen of old age Marius had
ever seen, the tutor of the imperial children, who had arrived to offer his
birthday congratulations, and now, very familiarly and affectionately, made a
part of the group, falling on the shoulders of the emperor, kissing the empress
Faustina on the face, the little ones on the face and hands. Marcus Cornelius
Fronto, the “Orator,” favourite teacher of the emperor’s youth, afterwards his
most trusted counsellor, and now the undisputed occupant of the sophistic
throne, whose equipage, elegantly mounted with silver, Marius had seen in the
streets of Rome, had certainly turned his many personal gifts to account with a
good fortune, remarkable even in that age, so indulgent to professors or
rhetoricians. The gratitude of the emperor Aurelius, always generous to his
teachers, arranging their very quarrels sometimes, for they were not always
fair to one another, had helped him to a really great place in the world. But
his sumptuous appendages, including the villa and gardens of Maecenas, had been
borne with an air perfectly becoming, by the professor of a philosophy which,
even in its most accomplished and elegant phase, presupposed a gentle contempt
for such things. With an intimate practical knowledge of manners,
physiognomies, smiles, disguises, flatteries, and courtly tricks of every
kind—a whole accomplished rhetoric of daily life—he applied them all to the
promotion of humanity, and especially of men’s family affection. Through a long
life of now eighty years, he had been, as it were, surrounded by the gracious
and soothing air of his own eloquence—the fame, the echoes, of it—like warbling
birds, or murmuring bees. Setting forth in that fine medium the best ideas of
matured pagan philosophy, he had become the favourite “director” of noble
youth. Yes! it was the one instance Marius, always eagerly on the
look-out for such, had yet seen of a perfectly tolerable, perfectly beautiful,
old age—an old age in which there seemed, to one who perhaps habitually
over-valued the expression of youth, nothing to be regretted, nothing
really lost, in what years had taken away. The wise old man, whose blue eyes
and fair skin were so delicate, uncontaminate and clear, would seem to have
replaced carefully and consciously each natural trait of youth, as it departed
from him, by an equivalent grace of culture; and had the blitheness, the placid
cheerfulness, as he had also the infirmity, the claim on stronger people, of a
delightful child. And yet he seemed to be but awaiting his exit from life—that
moment with which the Stoics were almost as much preoccupied as the Christians,
however differently—and set Marius pondering on the contrast between a
placidity like this, at eighty years, and the sort of desperateness he was
aware of in his own manner of entertaining that thought. His infirmities nevertheless
had been painful and long-continued, with losses of children, of pet
grandchildren. What with the crowd, and the wretched streets, it was a sign of
affection which had cost him something, for the old man to leave his own house
at all that day; and he was glad of the emperor’s support, as he moved from
place to place among the children he protests so often to have loved as his
own. For a strange piece of literary good fortune, at the beginning of
the present century, has set freethe long-buried fragrance of this famous
friendship of the old world, from below a valueless later manuscript, in a
series of letters, wherein the two writers exchange, for the most part their
evening thoughts, especially at family anniversaries, and with entire intimacy,
on their children, on the art of speech, on all the various subtleties of the
“science of images”—rhetorical images—above all, of course, on sleep and
matters of health. They are full of mutual admiration of each other’s
eloquence, restless in absence till they see one another again, noting,
characteristically, their very dreams of each other, expecting the day which
will terminate the office, the business or duty, which separates them—“as
superstitious people watch for the star, at the rising of which they may break
their fast.” To one of the writers, to Aurelius, the correspondence was
sincerely of value. We see him once reading his letters with genuine delight on
going to rest. Fronto seeks to deter his pupil from writing in Greek.—Why buy,
at great cost, a foreign wine, inferior to that from one’s own vineyard?
Aurelius, on the other hand, with an extraordinary innate susceptibility to
words—la parole pour la parole, as the French say—despairs, in presence of
Fronto’s rhetorical perfection. Like the modern visitor to the Capitoline
and some other museums, Fronto had been struck, pleasantly struck, by the
family likeness among the Antonines; and it was part of his friendship to make
much of it, in the case of the children of Faustina. “Well! I have seen the little
ones,” he writes to Aurelius, then, apparently, absent from them: “I have seen
the little ones—the pleasantest sight of my life; for they are as like yourself
as could possibly be. It has well repaid me for my journey over that slippery
road, and up those steep rocks; for I beheld you, not simply face to face
before me, but, more generously, whichever way I turned, to my right and my
left. For the rest, I found them, Heaven be thanked! with healthy cheeks and
lusty voices. One was holding a slice of white bread, like a king’s son; the
other a crust of brown bread, as becomes the offspring of a philosopher. I pray
the gods to have both the sower and the seed in their keeping; to watch over
this field wherein the ears of corn are so kindly alike. Ah! I heard too their
pretty voices, so sweet that in the childish prattle of one and the other I
seemed somehow to be listening—yes! in that chirping of your pretty chickens—to
the limpid+ and harmonious notes of your own oratory. Take care! you will find
me growing independent, having those I could love in your place:—love, on the
surety of my eyes and ears.” +“Limpid” is misprinted “Limped.”
“Magistro meo salutem!” replies the Emperor, “I too have seen my little
ones in your sight of them; as, also, I saw yourself in reading your letter. It
is that charming letter forces me to write thus:” with reiterations of
affection, that is, which are continual in these letters, on both sides, and
which may strike a modern reader perhaps as fulsome; or, again, as having
something in common with the old Judaic unction of friendship. They were
certainly sincere. To one of those children Fronto had now brought the
birthday gift of the silver trumpet, upon which he ventured to blow softly now
and again, turning away with eyes delighted at the sound, when he thought the
old man was not listening. It was the well-worn, valetudinarian subject of
sleep, on which Fronto and Aurelius were talking together; Aurelius always
feeling it a burden, Fronto a thing of magic capacities, so that he had written
an encomium in its praise, and often by ingenious arguments recommends his
imperial pupil not to be sparing of it. To-day, with his younger listeners in
mind, he had a story to tell about it:— “They say that our father
Jupiter, when he ordered the world at the beginning, divided time into two
parts exactly equal: the one part he clothed with light, the other with
darkness: he called them Day and Night; and he assigned rest to the night and
to day the work of life. At that time Sleep was not yet born and men passed the
whole of their lives awake: only, the quiet of the night was ordained for them,
instead of sleep. But it came to pass, little by little, being that the minds
of men are restless, that they carried on their business alike by night as by
day, and gave no part at all to repose. And Jupiter, when he perceived that
even in the night-time they ceased not from trouble and disputation, and that
even the courts of law remained open (it was the pride of Aurelius, as Fronto
knew, to be assiduous in those courts till far into the night) resolved to
appoint one of his brothers to be the overseer of the night and have authority
over man’s rest. But Neptune pleaded in excuse the gravity of his constant
charge of the seas, and Father Dis the difficulty of keeping in subjection the
spirits below; and Jupiter, having taken counsel with the other gods, perceived
that the practice of nightly vigils was somewhat in favour. It was then, for
the most part, that Juno gave birth to her children: Minerva, the mistress of
all art and craft, loved the midnight lamp: Mars delighted in the darkness for
his plots and sallies; and the favour of Venus and Bacchus was with those who
roused by night. Then it was that Jupiter formed the design of creating Sleep;
and he added him to the number of the gods, and gave him the charge over night
and rest, putting into his hands the keys of human eyes. With his own hands he
mingled the juices wherewith Sleep should soothe the hearts of mortals—herb of
Enjoyment and herb of Safety, gathered from a grove in Heaven; and, from the
meadows of Acheron, the herb of Death; expressing from it one single drop only,
no bigger than a tear one might hide. ‘With this juice,’ he said, ‘pour slumber
upon the eyelids of mortals. So soon as it hath touched them they will lay
themselves down motionless, under thy power. But be not afraid: they shall
revive, and in a while stand up again upon their feet.’ Thereafter, Jupiter
gave wings to Sleep, attached, not, like Mercury’s, to his heels, but to his
shoulders, like the wings of Love. For he said, ‘It becomes thee not to
approach men’s eyes as with the noise of chariots, and the rushing of a swift
courser, but in placid and merciful flight, as upon the wings of a swallow—nay!
with not so much as the flutter of the dove.’ Besides all this, that he might
be yet pleasanter to men, he committed to him also a multitude of blissful
dreams, according to every man’s desire. One watched his favourite actor;
another listened to the flute, or guided a charioteer in the race: in his
dream, the soldier was victorious, the general was borne in triumph, the
wanderer returned home. Yes!—and sometimes those dreams come true! Just
then Aurelius was summoned to make the birthday offerings to his household
gods. A heavy curtain of tapestry was drawn back; and beyond it Marius gazed
for a few moments into the Lararium, or imperial chapel. A patrician youth, in
white habit, was in waiting, with a little chest in his hand containing incense
for the use of the altar. On richly carved consoles, or side boards, around
this narrow chamber, were arranged the rich apparatus of worship and the golden
or gilded images, adorned to-day with fresh flowers, among them that image of
Fortune from the apartment of Antoninus Pius, and such of the emperor’s own
teachers as were gone to their rest. A dim fresco on the wall commemorated the
ancient piety of Lucius Albinius, who in flight from Rome on the morrow of a
great disaster, overtaking certain priests on foot with their sacred utensils,
descended from the wagon in which he rode and yielded it to the ministers of
the gods. As he ascended into the chapel the emperor paused, and with a grave
but friendly look at his young visitor, delivered a parting sentence, audible
to him alone: _Imitation is the most acceptable part of worship:—the gods had
much rather mankind should resemble than flatter them. Make sure that those to
whom you come nearest be the happier by your presence!_ It was the very
spirit of the scene and the hour—the hour Marius had spent in the imperial
house. How temperate, how tranquillising! what humanity! Yet, as he left the
eminent company concerning whose ways of life at home he had been so youthfully
curious, and sought, after his manner, to determine the main trait in all this,
he had to confess that it was a sentiment of mediocrity, though of a mediocrity
for once really golden. CHAPTER XIV. MANLY AMUSEMENT
During the Eastern war there came a moment when schism in the empire had
seemed possible through the defection of Lucius Verus; when to Aurelius it had
also seemed possible to confirm his allegiance by no less a gift than his
beautiful daughter Lucilla, the eldest of his children—the domnula, probably,
of those letters. The little lady, grown now to strong and stately maidenhood,
had been ever something of the good genius, the better soul, to Lucius Verus,
by the law of contraries, her somewhat cold and apathetic modesty acting as
counterfoil to the young man’s tigrish fervour. Conducted to Ephesus, she had become
his wife by form of civil marriage, the more solemn wedding rites being
deferred till their return to Rome. The ceremony of the Confarreation, or
religious marriage, in which bride and bridegroom partook together of a certain
mystic bread, was celebrated accordingly, with due pomp, early in the spring;
Aurelius himself assisting, with much domestic feeling. A crowd of fashionable
people filled the space before the entrance to the apartments of Lucius on the
Palatine hill, richly decorated for the occasion, commenting, not always quite
delicately, on the various details of the rite, which only a favoured few
succeeded in actually witnessing. “She comes!” Marius could hear them say,
“escorted by her young brothers: it is the young Commodus who carries the torch
of white-thornwood, the little basket of work-things, the toys for the
children:”—and then, after a watchful pause, “she is winding the woollen thread
round the doorposts. Ah! I see the marriage-cake: the bridegroom presents the
fire and water.” Then, in a longer pause, was heard the chorus, Thalassie!
Thalassie! and for just a few moments, in the strange light of many wax tapers
at noonday, Marius could see them both, side by side, while the bride was
lifted over the doorstep: Lucius Verus heated and handsome—the pale, impassive
Lucilla looking very long and slender, in her closely folded yellow veil, and
high nuptial crown. As Marius turned away, glad to escape from the
pressure of the crowd, he found himself face to face with Cornelius, an infrequent
spectator on occasions such as this. It was a relief to depart with him—so
fresh and quiet he looked, though in all his splendid equestrian array in
honour of the ceremony—from the garish heat of the marriage scene. The reserve
which had puzzled Marius so much on his first day in Rome, was but an instance
of many, to him wholly unaccountable, avoidances alike of things and persons,
which must certainly mean that an intimate companionship would cost him
something in the way of seemingly indifferent amusements. Some inward standard
Marius seemed to detect there (though wholly unable to estimate its nature) of
distinction, selection, refusal, amid the various elements of the fervid and
corrupt life across which they were moving together:—some secret, constraining
motive, ever on the alert at eye and ear, which carried him through Rome as
under a charm, so that Marius could not but think of that figure of the white
bird in the market-place as undoubtedly made true of him. And Marius was still
full of admiration for this companion, who had known how to make himself very
pleasant to him. Here was the clear, cold corrective, which the fever of his
present life demanded. Without it, he would have felt alternately suffocated
and exhausted by an existence, at once so gaudy and overdone, and yet so
intolerably empty; in which people, even at their best, seemed only to be
brooding, like the wise emperor himself, over a world’s disillusion. For with
all the severity of Cornelius, there was such a breeze of hopefulness—freshness
and hopefulness, as of new morning, about him. For the most part, as I said,
those refusals, that reserve of his, seemed unaccountable. But there were cases
where the unknown monitor acted in a direction with which the judgment, or
instinct, of Marius himself wholly concurred; the effective decision of
Cornelius strengthening him further therein, as by a kind of outwardly embodied
conscience. And the entire drift of his education determined him, on one point
at least, to be wholly of the same mind with this peculiar friend (they two, it
might be, together, against the world!) when, alone of a whole company of
brilliant youth, he had withdrawn from his appointed place in the amphitheatre,
at a grand public show, which after an interval of many months, was presented
there, in honour of the nuptials of Lucius Verus and Lucilla. And it was
still to the eye, through visible movement and aspect, that the character, or
genius of Cornelius made itself felt by Marius; even as on that afternoon when
he had girt on his armour, among the expressive lights and shades of the dim
old villa at the roadside, and every object of his knightly array had seemed to
be but sign or symbol of some other thing far beyond it. For, consistently with
his really poetic temper, all influence reached Marius, even more exclusively
than he was aware, through th e medium of sense. From Flavian in that
brief early summer of his existence, he had derived a powerful impression of
the “perpetual flux”: he had caught there, as in cipher or symbol, or low
whispers more effective than any definite language, his own Cyrenaic
philosophy, presented thus, for the first time, in an image or person, with
much attractiveness, touched also, consequently, with a pathetic sense of
personal sorrow:—a concrete image, the abstract equivalent of which he could
recognise afterwards, when the agitating personal influence had settled down
for him, clearly enough, into a theory of practice. But of what possible
intellectual formula could this mystic Cornelius be the sensible exponent;
seeming, as he did, to live ever in close relationship with, and recognition
of, a mental view, a source of discernment, a light upon his way, which had
certainly not yet sprung up for Marius? Meantime, the discretion of Cornelius,
his energetic clearness and purity, were a charm, rather physical than moral:
his exquisite correctness of spirit, at all events, accorded so perfectly with
the regular beauty of his person, as to seem to depend upon it. And wholly
different as was this later friendship, with its exigency, its warnings, its
restraints, from the feverish attachment to Flavian, which had made him at
times like an uneasy slave, still, like that, it was a reconciliation to the
world of sense, the visible world. From the hopefulness o f this gracious
presence, all visible things around him, even the commonest objects of everyday
life—if they but stood together to warm their hands at the same fire—took for
him a new poetry, a delicate fresh bloom, and interest. It was as if his bodily
eyes had been indeed mystically washed, renewed, strengthened. And how
eagerly, with what a light heart, would Flavian have taken his placein the
amphitheatre, among the youth of his own age! with what an appetite for every
detail of the entertainment, and its various accessories:—the sunshine,
filtered into soft gold by the vela, with their serpentine patterning, spread
over the more select part of the company; the Vestal virgins, taking their
privilege of seats near the empress Faustina, who sat there in a maze of
double-coloured gems, changing, as she moved, like the waves of the sea; the
cool circle of shadow, in which the wonderful toilets of the fashionable told
so effectively around the blazing arena, covered again and again during the
many hours’ show, with clean sand for the absorption of certain great red
patches there, by troops of white-shirted boys, for whom the good-natured
audience provided a scramble of nuts and small coin, flung to them over a
trellis-work of silver-gilt and amber, precious gift of Nero, while a rain of
flowers and perfume fell over themselves, as they paused between the parts of
their long feast upon the spectacle of animal suffering. During his
sojourn at Ephesus, Lucius Verus had readily become a patron, patron or
protégé, of the great goddess of Ephesus, the goddess of hunters; and the show,
celebrated by way of a compliment to him to-day, was to present some incidents
of her story, where she figures almost as the genius of madness, in animals, or
in the humanity which comes in contact with them. The entertainment would have
an element of old Greek revival in it, welcome to the taste of a learned and
Hellenising society; and, as Lucius Verus was in some sense a lover of animals,
was to be a display of animals mainly. There would be real wild and domestic
creatures, all of rare species; and a real slaughter. On so happy an occasion,
it was hoped, the elder emperor might even concede a point, and a living
criminal fall into the jaws of the wild beasts. And the spectacle was,
certainly, to end in the destruction, by one mighty shower of arrows, of a
hundred lions, “nobly” provided by Aurelius himself for the amusement of his
people.—Tam magnanimus fuit! The arena, decked and in order for the first
scene, looked delightfully fresh, re-inforcing on the spirits of the audience
the actual freshness of the morning, which at this season still brought the
dew. Along the subterranean ways that led up to it, the sound of an advancing
chorus was heard at last, chanting the words of a sacred song, or hymn to
Diana; for the spectacle of the amphitheatre was, after all, a religious
occasion. To its grim acts of blood-shedding a kind of sacrificial character
still belonged in the view of certain religious casuists, tending conveniently
to soothe the humane sensibilities of so pious an emperor as Aurelius, who, in
his fraternal complacency, had consented to preside over the shows.
Artemis or Diana, as she may be understood in the actual development of her
worship, was, indeed, the symbolical expression of two allied yet contrasted
elements of human temper and experience—man’s amity, and also his enmity,
towards the wild creatures, when they were still, in a certain sense, his
brothers. She is the complete, and therefore highly complex, representative of
a state, in which man was still much occupied with animals, not as his flock,
or as his servants after the pastoral relationship of our later, orderly world,
but rather as his equals, on friendly terms or the reverse,—a state full of primeval
sympathies and antipathies, of rivalries and common wants—while he watched, and
could enter into, the humours of those “younger brothers,” with an intimacy,
the “survivals” of which in a later age seem often to have had a kind of
madness about them. Diana represents alike the bright and the dark side of such
relationship. But the humanities of that relationship were all forgotten to-day
in the excitement of a show, in which mere cruelty to animals, their useless
suffering and death, formed the main point of interest. People watched their
destruction, batch after batch, in a not particularly inventive fashion; though
it was expected that the animals themselves, as living creatures are apt to do
when hard put to it, would become inventive, and make up, by the fantastic
accidents of their agony, for the deficiencies of an age fallen behind in this
matter of manly amusement. It was as a Deity of Slaughter—the Taurian goddess
who demands the sacrifice of the shipwrecked sailors thrown on her coasts—the
cruel, moonstruck huntress, who brings not only sudden death, but rabies, among
the wild creatures that Diana was to be presented, in the person of a famous
courtesan. The aim at an actual theatrical illusion, after the first
introductory scene, was frankly surrendered to the display of the animals,
artificially stimulated and maddened to attack each other. And as Diana was
also a special protectress of new-born creatures, there would be a certain
curious interest in the dexterously contrived escape of the young from their
mother’s torn bosoms; as many pregnant animals as possible being carefully
selected for the purpose. The time had been, and was to come again, when
the pleasures of the amphitheatre centered in a similar practical joking upon
human beings. What more ingenious diversion had stage manager ever contrived
than that incident, itself a practical epigram never to be forgottten, when a
criminal, who, like slaves and animals, had no rights, was compelled to present
the part of Icarus; and, the wings failing him in due course, had fallen into a
pack of hungry bears? For the long shows of the amphitheatre were, so to speak,
the novel-reading of that age—a current help provided for sluggish
imaginations, in regard, for instance, to grisly accidents, such as might
happen to one’s self; but with every facility for comfortable inspection.
Scaevola might watch his own hand, consuming, crackling, in the fire, in the
person of a culprit, willing to redeem his life by an act so delightful to the
eyes, the very ears, of a curious public. If the part of Marsyas was called
for, there was a criminal condemned to lose his skin. It might be almost
edifying to study minutely the expression of his face, while the assistants
corded and pegged him to the bench, cunningly; the servant of the law waiting
by, who, after one short cut with his knife, would slip the man’s leg from his
skin, as neatly as if it were a stocking—a finesse in providing the due amount
of suffering for wrong-doers only brought to its height in Nero’s living
bonfires. But then, by making his suffering ridiculous, you enlist against the
sufferer, some real, and all would-be manliness, and do much to stifle any
false sentiment of compassion. The philosophic emperor, having no great taste
for sport, and asserting here a personal scruple, had greatly changed all that;
had provided that nets should be spread under the dancers on the tight-rope,
and buttons for the swords of the gladiators. But the gladiators were still
there. Their bloody contests had, under the form of a popular amusement, the
efficacy of a human sacrifice; as, indeed, the whole system of the public shows
was understood to possess a religious import. Just at this point, certainly,
the judgment of Lucretius on pagan religion is without reproach— Tantum
religio potuit suadere malorum. And Marius, weary and indignant,
feeling isolated in the great slaughter-house, could not but observe that, in
his habitual complaisance to Lucius Verus, who, with loud shouts of applause
from time to time, lounged beside him, Aurelius had sat impassibly through all
the hours Marius himself had remained there. For the most part indeed, the
emperor had actually averted his eyes from the show, reading, or writing on
matters of public business, but had seemed, after all, indifferent. He was
revolving, perhaps, that old Stoic paradox of the Imperceptibility of pain;
which might serve as an excuse, should those savage popular humours ever again
turn against men and women. Marius remembered well his very attitude and expression
on this day, when, a few years later, certain things came to pass in Gaul,
under his full authority; and that attitude and expression defined already,
even thus early in their so friendly intercourse, and though he was still full
of gratitude for his interest, a permanent point of difference between the
emperor and himself—between himself, with all the convictions of his life
taking centre to-day in his merciful, angry heart, and Aurelius, as
representing all the light, all the apprehensive power there might be in pagan
intellect. There was something in a tolerance such as this, in the bare fact
that he could sit patiently through a scene like this, which seemed to Marius
to mark Aurelius as his inferior now and for ever on the question of
righteousness; to set them on opposite sides, in some great conflict, of which
that difference was but a single presentment. Due, in whatever proportions, to
the abstract principles he had formulated for himself, or in spite of them,
there was the loyal conscience within him, deciding, judging himself and every
one else, with a wonderful sort of authority:—You ought, methinks, to be
something quite different from what you are; here! and here! Surely Aurelius
must be lacking in that decisive conscience at first sight, of the intimations
of which Marius could entertain no doubt—which he looked for in others. He at
least, the humble follower of the bodily eye, was aware of a crisis in life, in
this brief, obscure existence, a fierce opposition of real good and real evil
around him, the issues of which he must by no means compromise or confuse; of
the antagonisms of which the “wise” Marcus Aurelius was unaware. That
long chapter of the cruelty of the Roman public shows may, perhaps, leave with
the children of the modern world a feeling of self-complacency. Yet it might
seem well to ask ourselves—it is always well to do so, when we read of the
slave-trade, for instance, or of great religious persecutions on this side or
on that, or of anything else which raises in us the question, “Is thy servant a
dog, that he should do this thing?”—not merely, what germs of feeling we may
entertain which, under fitting circumstances, would induce us to the like; but,
even more practically, what thoughts, what sort of considerations, may be actually
present to our minds such as might have furnished us, living in another age,
and in the midst of those legal crimes, with plausible excuses for them: each
age in turn, perhaps, having its own peculiar point of blindness, with its
consequent peculiar sin—the touch-stone of an unfailing conscience in the
select few. Those cruel amusements were, certainly, the sin of blindness,
of deadness and stupidity, in the age of Marius; and his light had not failed
him regarding it. Yes! what was needed was the heart that would make it
impossible to witness all this; and the future would be with the forces that
could beget a heart like that. His chosen philosophy had said,—Trust the eye:
Strive to be right always in regard to the concrete experience: Beware of falsifying
your impressions. And its sanction had at least been effective here, in
protesting—“This, and this, is what you may not look upon!” Surely evil was a
real thing, and the wise man wanting in the sense of it, where, not to have
been, by instinctive election, on the right side, was to have failed in
life. END OF VOL. I PART THE THIRD
p. in B a CHAPTER XV STOICISM AT
COURT THE very finest flower of the same company Aurelius
with the gilded fasces borne before him, a crowd of exquisites, the
empress Faustina her- self, and all the elegant blue -stockings of
the day, who maintained, people said, their private " sophists
" to whisper philosophy into their ears winsomely as they performed
the duties of the toilet was assembled again a few months later, in
a different place and for a very different purpose. The temple of Peace,
a " modernis- ing" foundation of Hadrian, enlarged by a
library and lecture-rooms, had grown into an institution like something
between a college and a literary club ; and here Cornelius Pronto was
to pronounce a discourse on the Nature of Morals. There were some,
indeed, who had desired the emperor Aurelius himself to declare his
whole mind on this matter. Rhetoric was become almost a function of
the state : philosophy was upon the throne ; and had from time to time,
by 3 MARIUS THE EPICUREAN request,
delivered an official utterance with well- nigh divine authority. And it
was as the delegate of this authority, under the full sanction of
the philosophic emperor emperor and pontiff, that the aged Pronto
purposed to-day to expound some parts of the Stoic doctrine, with the
view of recommending morals to that refined but perhaps prejudiced
company, as being, in effect, one mode of comeliness in things as it
were music, or a kind of artistic order, in life. And he did this
earnestly, with an outlay of all his science of mind, and that eloquence
of which he was known to be a master. For Stoicism was no longer a
rude a nd unkempt thing. Received at court, it had largely decorated
itself: it was grown persuasive and insinuating, and sought not
only to convince men's intelligence but to allure their souls. Associated
with the beautiful old age of the great rhetorician, and his
winning voice, it was almost Epicurean. And the old man was at his
best on the occasion ; the last on which he ever appeared in this way.
To-day was his own birthday. Early in the morning the imperial
letter of congratulation had reached him ; and all the pleasant animation
it had caused was in his face, when assisted by his daughter Gratia
he took his place on the ivory chair, as president of the Athenaeum of
Rome, wearing with a wonderful grace the philosophic pall, in
reality neither more nor less than the loose woollen cloak of the common
soldier, but fastened 4 STOICISM AT COURT
on his right shoulder with a magnificent clasp, the emperor's
birthday gift. It was an age, as abundant evidence shows,
whose delight in rhetoric was but one result of a general susceptibility
an age not merely taking pleasure in words, but experiencing a great
moral power in them. Fronto's quaintly fashionable audience would
have wept, and also assisted with their purses, had his present purpose
been, as sometimes happened, the recommendation of an object of
charity. As it was, arranging them- selves at their ease among the images
and flowers, these amateurs of exquisite language, with their
tablets open for careful record of felicitous word or phrase, were ready
to give themselves wholly to the intellectual treat prepared for
them, applauding, blowing loud kisses through the air sometimes, at
the speaker's triumphant exit from one of his long, skilfully modulated
sentences ; while the younger of them meant to imitate everything
about him, down to the inflections of his voice and the very folds of his
mantle. Certainly there was rhetoric enough : a wealth of imagery ;
illustrations from painting, music, mythology, the experiences of love ;
a manage- ment, by which subtle, unexpected meaning was brought out
of familiar terms, like flies from morsels of amber, to use Fronto's own
figure. But with all its richness, the higher claim of his style
was rightly understood to lie in gravity and self-command, and an
especial care for the 5 MARIUS THE
EPICUREAN purities of a vocabulary which rejected every
expression unsanctioned by the authority of approved ancient
models. And it happened with Marius, as it will sometimes
happen, that this general discourse to a general audience had the effect
of an utterance adroitly designed for him. His conscience still
vibrating painfully under the shock of that scene in the amphitheatre,
and full of the ethical charm of Cornelius, he was questioning
himself with much impatience as to the possibility of an adjustment
between his own elaborately thought- / out intellectual scheme and the
" old morality." In that intellectual scheme indeed the
old morality had so far been allowed no place, as seeming to demand
from him the admission of certain first principles such as might
misdirect or retard him in his efforts towards a complete,
many-sided existence ; or distort the revelations of the experience of
life ; or curtail his natural liberty of heart and mind. But now
(his imagination being occupied for the moment with the noble and
resolute air, the gallantry, so to call it, which composed the outward
mien and presentment of his strange friend's inflexible ethics) he
felt already some nascent suspicion of his philosophic programme, in
regard, precisely, to the question of good taste. There was the
taint of a graceless " antinomianism " perceptible in it, a
dissidence, a revolt against accustomed modes, the actual impression of
which on other 6 STOICISM AT COURT
men might rebound upon himself in some loss of that personal pride
to which it was part of his theory of life to allow so much. And it
was exactly a moral situation such as this that Pronto appeared to
be contemplating. He seemed to have before his mind the case of one
Cyrenaic or Epicurean, as the courtier tends to be, by habit and
instinct, if not on principle who yet experiences, actually, a strong
tendency to moral assents, and a desire, with as little logical incon-
sistency as may be, to find a place for duty and righteousness in his
house of thought. And the Stoic professor found the key to
this problem in the purely aesthetic beauty of the old morality, as
an element in things, fascinating to the imagination, to good taste in
its most highly developed form, through association a system or
order, as a matter of fact, in possession, not only of the larger world,
but of the rare minority of elite intelligences ; from which, therefore,
least of all would the sort of Epicurean he had in view endure to
become, so to speak, an outlaw. He supposed his hearer to be, with all
sincerity, in search after some principle of conduct (and it was
here that he seemed to Marius to be speaking straight to him) which might
give unity of motive to an actual rectitude, a cleanness and
probity of life, determined partly by natural affection, partly by
enlightened self-interest or the feeling of honour, due in part even to
the mere fear of penalties ; no element of which, 7
MARIUS THE EPICUREAN however, was distinctively moral
in the agent himself as such, and providing him, therefore, no
common ground with a really moral being like Cornelius, or even like the
philosophic emperor. Performing the same offices ; actually
satisfying, even as they, the external claims of others ; rendering
to all their dues one thus circum- stanced would be wanting,
nevertheless, in the secret of inward adjustment to the moral
agents around him. How tenderly more tenderly than many stricter
souls he might yield himself to kindly instinct ! what fineness of
charity in passing judgment on others ! what an exquisite
conscience of other men's susceptibilities ! He knows for how much the
manner, because the heart itself, counts, in doing a kindness. He
goes beyond most people in his care for all weakly creatures ; judging,
instinctively, that to be but sentient is to possess rights. He
con- ceives a hundred duties, though he may not call them by that
name, of the existence of which purely duteous souls may have no
suspicion. He has a kind of pride in doing more than they, in a way
of his own. Sometimes, he may think that those men of line and rule do
not really under- stand their own business. How narrow, inflex-
ible, unintelligent ! what poor guardians (he may reason) of the inward
spirit of righteousness, are some supposed careful walkers according to
its letter and form. And yet all the while he admits, as such, no
moral world at all : no 8 STOICISM AT
COURT theoretic equivalent to so large a proportion of the
facts of life. But, over and above such practical rectitude,
thus determined by natural affection or self-love or fear, he may notice
that there is a rem- nant of right conduct, what he does, still
more what he abstains from doing, not so much through his own free
election, as from a defer- ence, an " assent," entire,
habitual, unconscious, to custom to the actual habit or fashion of
others, from whom he could not endure to break away, any more than he
would care to be out of agreement with them on questions of mere
manner, or, say, even, of dress. Yes ! there were the evils, the vices,
which he avoided as, essentially, a failure in good taste. An assent,
such as this, to the preferences of others, might seem to be the weakest
of motives, and the rectitude it could determine the least
consider- able element in a moral life. Yet here, accord- ing to
Cornelius Pronto, was in truth the revealing example, albeit operating
upon com- parative trifles, of the general principle required.
There was one great idea associated with which that determination to
conform to precedent was elevated into the clearest, the fullest,
the weightiest principle of moral action ; a principle under which
one might subsume men's most strenuous efforts after righteousness. And
he proceeded to expound the idea of Humanity of a universal
commonwealth of mind, which MARIUS THE
EPICUREAN becomes explicit, and as if incarnate, in a select
communion of just men made perfect. 'O Koo-fjios axravel 7ro\t9
<rrw the world is as it were a commonwealth, a city : and there
are observances, customs, usages, actually current in it, things
our friends and companions will expect of us, as the condition of our
living there with them at all, as really their peers or fellow-
citizens. Those observances were, indeed, the creation of a visible or
invisible aristocracy in it, whose actual manners, whose
preferences from of old, become now a weighty tradition as to the
way in which things should or should not be done, are like a music, to
which the intercourse of life proceeds such a music as no one who
had once caught its harmonies would willingly jar. In this way, the
becoming, as in Greek TO irpiirov : or T^ rj#?7, mores, manners, as
both Greeks and Romans said, would indeed be a comprehensive term for
duty. Righteous- ness would be, in the words of " Caesar "
himself, of the philosophic Aurelius, but a " following of the
reasonable will of the oldest, the most venerable, of cities, of polities
of the royal, the law-giving element, therein forasmuch as we are
citizens also in that supreme city on high, of which all other cities
beside are but as single habitations." But as the old man spoke
with animation of this supreme city, this invisible society, whose
conscience was become explicit in its inner circle of inspired souls, of
whose 10 STOICISM AT COURT common
spirit, the trusted leaders of human conscience had been but the
mouthpiece, of whose successive personal preferences in the conduct
of life, the " old morality " was the sum, Marius felt that his
own thoughts were pass- ing beyond the actual intention of the speaker
; not in the direction of any clearer theoretic or abstract
definition of that ideal commonwealth, but rather as if in search of its
visible locality and abiding-place, the walls and towers of which,
so to speak, he might really trace and tell, according to his own old,
natural habit of mind. ^ It would be the fabric, the outward fabric,
of a system reaching, certainly, far beyond the great city around
him, even if conceived in all the machinery of its visible and
invisible influences at their grandest as Augustus or Trajan might
have conceived of them however well the visible Rome might pass for a
figure of that new, unseen, Rome on high. At moments, Marius even
asked himself with surprise, whether it might be some vast secret
society the speaker had in view : that august community, to be an outlaw
from which, to be foreign to the manners of which, was a loss so
much greater than to be excluded, into the ends of the earth, from the
sovereign Roman common- wealth. Humanity, a universal order, the
great polity, its aristocracy of elect spirits, the mastery of
their example over their successors these were the ideas, stimulating
enough in their way, ii MARIUS THE
EPICUREAN by association with which the Stoic professor had attempted
to elevate, to unite under a single principle, men's moral efforts,
himself lifted up with so genuine an enthusiasm. But where might
Marius search for all this, as more than an intellectual abstraction ?
Where were those elect souls in whom the claim of Humanity became
so amiable, winning, persuasive whose footsteps through the world were so
beautiful in the actual order he saw whose faces averted from him,
would be more than he could bear ? Where was that comely order, to which
as a great fact of experience he must give its due ; to which, as
to all other beautiful " phenomena " in life, he must, for his
own peace, adjust himself ? Rome did well to be serious. The
discourse ended somewhat abruptly, as the noise of a great crowd in
motion was heard below the walls ; whereupon, the audience, following the
humour of the younger element in it, poured into the colonnade,
from the steps of which the famous procession, or transvectio y of the
military knights was to be seen passing over the Forum, from their
trysting-place at the temple of Mars, to the temple of the Dioscuri. The
ceremony took place this year, not on the day accustomed-
anniversary of the victory of Lake Regillus, with its pair of celestial
assistants and amid the heat and roses of a Roman July, but, by
12 STOICISM AT COURT anticipation, some
months earlier, the almond- trees along the way being still in leafless
flower. Through that light trellis-work, Marius watched the riders,
arrayed in all their gleaming orna- ments, and wearing wreaths of olive around
their helmets, the faces below which, what with battle and the plague,
were almost all youthful. It was a flowery scene enough, but had
to-day its fulness of war-like meaning ; the return of the army to the
North, where the enemy was again upon the move, being now imminent.
Cornelius had ridden along in his place, and, on the dismissal of the
company, passed below the steps where Marius stood, with | that new
song he had heard once before floating from his lips.
CHAPTER XVI SECOND THOUGHTS AND Marius,
for his part, was grave enough. The discourse of Cornelius Pronto, with
its wide prospect over the human, the spiritual, horizon, had set
him on a review on a review of the isolating narrowness, in particular,
of his own theoretic scheme. Long after the very latest roses were
faded, when " the town " had departed to country villas, or the
baths, or the war, he remained behind in Rome ; anxious to try the
lastingness of his own Epicurean rose- garden ; setting to work over again,
and deliberately passing from point to point of his old argument
with himself, down to its practical conclusions. That age and our own
have much in common many difficulties and hopes. Let the reader
pardon me if here and there I seem to be passing from Marius to his
modern representa- tives from Rome, to Paris or London. What
really were its claims as a theory of practice, of the sympathies that
determine 14 SECOND THOUGHTS practice
? It had been a theory, avowedly, of loss and gain (so to call it) of an
economy. If, therefore, it missed something in the commerce of
life, which some other theory of practice was able to include, if it made
a needless sacrifice, then it must be, in a manner, inconsistent with
itself, and lack theoretic completeness. Did it make such a sacrifice ?
What did it lose, or cause one to lose ? And we may note, as
Marius could hardly have done, that Cyrenaicism is ever the char-
acteristic philosophy of youth, ardent, but narrow in its survey sincere,
but apt to become one- sided, or even fanatical. It is one of those
sub- jective and partial ideals, based on vivid, because limited,
apprehension of the truth of one aspect of experience (in this case, of
the beauty of the world and the brevity of man's life there) which
it may be said to be the special vocation of the young to express. In the
school of Cyrene, in that comparatively fresh Greek world, we see
this philosophy where it is least blase^ as we say , in its most
pleasant, its blithest and yet perhaps its wisest form, youthfully bright
in the youth of European thought. But it grows young again for a
while in almost every youthful soul. It is spoken of sometimes as the
appropriate utterance of jaded men ; but in them it can hardly be
sincere, or, by the nature of the case, an enthusi- asm. " Walk in
the ways of thine heart, and in the sight of thine eyes," is,
indeed, most often, 15 MARIUS THE
EPICUREAN according to the supposition of the book from which
I quote it, the counsel of the young, who feel that the sunshine is
pleasant along their veins, and wintry weather, though in a general
sense foreseen, a long way off. The youthful enthusi- asm or
fanaticism, the self-abandonment to one favourite mode of thought or taste,
which occurs, quite naturally, at the outset of every really
vigorous intellectual career, finds its special opportunity in a theory
such as that so carefully put together by Marius, just because it seems
to call on one to make the sacrifice, accompanied by a vivid
sensation of power and will, of what others value sacrifice of some
conviction, or doctrine, or supposed first principle for the sake
of that clear-eyed intellectual consistency, which is like spotless bodily
cleanliness, or scrupulous personal honour, and has itself for the mind
of the youthful student, when he first comes to appreciate it, the
fascination of an ideal. The Cyrenaic doctrine, then, realised as
a motive of strenuousness or enthusiasm, is not so properly the utterance
of the u jaded Epicurean," as of the strong young man in all the
freshness of thought and feeling, fascinated by the notion of
raising his life to the level of a daring theory, while, in the first
genial heat of existence, the beauty of the physical world strikes
potently upon his wide-open, unwearied senses. He discovers a great
new poem every spring, with a hundred delightful things he too has felt,
but 16 SECOND THOUGHTS which have
never been expressed, or at least never so truly, before. The workshops
of the artists, who can select and set before us what is really
most distinguished in visible life, are open to him. He thinks that the
old Platonic, or the new Baconian philosophy, has been better explained
than by the authors themselves, or with some striking original
development, this very month. In the quiet heat of early summer, on
the dusty gold morning, the music comes, louder at intervals, above the
hum of voices from some neighbouring church, among the flowering trees,
valued now, perhaps, only for the poetically rapt faces among priests or
wor- shippers, or the mere skill and eloquence, it may be, of its
preachers of faith and righteousness. In his scrupulous idealism, indeed,
he too feels himself to be something of a priest, and that devotion
of his days to the contemplation of what is beautiful, a sort of
perpetual religious service. Afar off, how many fair cities and
delicate sea-coasts await him ! At that age, with minds of a certain
constitution, no very choice or exceptional circumstances are
needed to provoke an enthusiasm something like this. Life in modern
London even, in the heavy glow of summer, is stuff sufficient for the
fresh imagination of a youth to build its " palace of
art" of; and the very sense and enjoyment of an experience in which
all is new, are but en- hanced, like that glow of summer itself, by
the p. in 17 c MARIUS THE EPICUREAN
thought of its brevity, giving him something of a gambler's zest,
in the apprehension, by dex- terous act or diligently appreciative
thought, of the highly coloured moments which are to pass away so
quickly. At bottom, perhaps, in his elaborately developed
self-consciousness, his sensibilities, his almost fierce grasp upon
the things he values at all, he has, beyond all others, an inward
need of something permanent in its character, to hold by : of which
circumstance, also, he may be partly aware, and that, as with the
brilliant Claudio in Measure for Measure -, it is, in truth, but darkness
he is, " encountering, like a bride." But the inevitable
falling of the curtain is probably distant ; and in the daylight,
at least, it is not often that he really shudders at the thought of the
grave the weight above, the narrow world and its company, within.
When the thought of it does occur to him, he may say to himself: Well !
and the rude monk, for instance, who has renounced all this, on the
security of some dim world beyond it, really acquiesces in that "
fifth act," amid all the consoling ministries around him, as little
as I should at this moment ; though I may hope, that, as at the
real ending of a play, however well acted, I may already have had quite
enough of it, and find a true well-being in eternal sleep. And
precisely in this circumstance, that, consistently with the function of
youth in general, Cyrenaicism will always be more or 18
SECOND THOUGHTS less the special philosophy, or
"prophecy," of the young, when the ideal of a rich
experience comes to them in the ripeness of the receptive, if not
of the reflective, powers precisely in this circumstance, if we rightly
consider it, lies the duly prescribed corrective of that
philosophy. For it is by its exclusiveness, and by negation rather
than positively, that such theories fail to satisfy us permanently ; and
what they really need for their correction, is the complementary
influence of some greater system, in which they may find their due place.
That Sturm und Drang of the spirit, as it has been called, that
ardent and special apprehension of half-truths, in the enthusiastic, and
as it were " prophetic " advocacy of which, devotion to truth,
in the case of the young apprehending but one point at a time in the
great circumference most usually embodies itself, is levelled down,
safely enough, afterwards, as in history so in the individual, by
the weakness and mere weariness, as well as by the maturer wisdom, of our
nature. And though truth indeed, resides, as has been said, "
in the whole " in harmonisings and adjust- ments like this yet those
special apprehen- sions may still owe their full value, in this
sense of " the whole," to that earlier, one-sided but
ardent pre-occupation with them. Cynicism and Cyrenaicism : they
are the earlier Greek forms of Roman Stoicism and Epicureanism, and
in that world of old Greek 19 MARIUS THE
EPICUREAN thought, we may notice with some surprise that, in
a little while, the nobler form of Cyrenaicism -Cyrenaicism cured of its
faults met the nobler form of Cynicism half-way. Starting from
opposed points, they merged, each in its most refined form, in a single
ideal of temperance or moderation. Something of the same kind may
be noticed regarding some later phases of Cyrenaic theory. If it starts
with considerations opposed to the religious temper, which the
religious temper holds it a duty to repress, it is like it, nevertheless,
and very unlike any lower development of temper, in its stress and
earnest- ness, its serious application to the pursuit of a very
unworldly type of perfection. The saint, and the Cyrenaic lover of
beauty, it may be thought, would at least understand each other |
better than either would understand the mere 1 man of the world. Carry
their respective positions a point further, shift the terms a
little, and they might actually touch. Perhaps all theories
of practice tend, as they rise to their best, as understood by their
worthiest representatives, to identification with each other. For
the variety of men's possible reflections on their experience, as of that
experience itself, is not really so great as it seems ; and as the
highest and most disinterested ethical formula, filtering down into
men's everyday existence, reach the same poor level of vulgar egotism,
so, we may fairly suppose that all the highest spirits, from
20 SECOND THOUGHTS whatever contrasted
points they have started, would yet be found to entertain, in the moral
consciousness realised by themselves, much the same kind of mental
company ; to hold, far more than might be thought probable, at first
sight, the same personal types of character, and even the same
artistic and literary types, in esteem or aversion ; to convey, all of
them alike, the same savour of unworldliness. And Cyrenaicism or
Epicureanism too, new or old, may be noticed, in proportion to the
completeness of its develop- ment, to approach, as to the nobler form
of Cynicism, so also to the more nobly developed phases of the old,
or traditional morality. In the gravity of its conception of life, in its
pursuit after nothing less than a perfection, in its appre- hension
of the value of time the passion and the seriousness which are like a
consecration la passion et le serieux qui consacrent it may be
conceived, as regards its main drift, to be not so much opposed to the
old morality, as an exaggeration of one special motive in it.
Some cramping, narrowing, costly preference of one part of his own
nature, and of the nature of things, to another, Marius seemed to
have detected in himself, meantime, in himself, as also in those
old masters of the Cyrenaic philo- sophy. If they did realise the
povoxpovo? fiSovij, as it was called the pleasure of the " Ideal Now
" if certain moments of their lives were high- pitched,
passionately coloured, intent with sensa- 21
MARIUS THE EPICUREAN tion, and a kind of knowledge which, in
its vivid clearness, was like sensation if, now and then, they
apprehended the world in its fulness, and had a vision, almost "
beatific," of ideal person- alities in life and art, yet these
moments were a very costly matter: they paid a great price for
them, in the sacrifice of a thousand possible sympathies, of things only
to be enjoyed through sympathy, from which they detached
themselves, in intellectual pride, in loyalty to a mere theory that
would take nothing for granted, and assent to no approximate or
hypothetical truths. In their unfriendly, repellent attitude towards the
Greek religion, and the old Greek morality, surely, they had been but
faulty economists. The Greek religion was then alive : then, still
more than in its later day of dissolution, the higher view of it was
possible, even for the philosopher. Its story made little or no demand
for a reasoned or formal acceptance. A religion, which had grown through
and through man's life, with so much natural strength ; had meant
so much for so many generations ; which ex- pressed so much of their
hopes, in forms so familiar and so winning ; linked by associations
so manifold to man as he had been and was a religion like this, one would
think, might have had its uses, even for a philosophic sceptic. Yet
those beautiful gods, with the whole round of their poetic worship, the
school of Cyrene definitely renounced. 22
SECOND THOUGHTS The old Greek morality, again, with all
its imperfections, was certainly a comely thing. Yes ! a harmony, a
music, in men's ways, one might well hesitate to jar. The merely
aesthetic sense might have had a legitimate satisfaction in the
spectacle of that fair order of choice manners, in those attractive
conventions, enveloping, so gracefully, the whole of life, insuring
some sweetness, some security at least against offence, in the
intercourse of the world. Beyond an obvious utility, it could claim,
indeed but custom use -and -wont, as we say for its sanction. But
then, one of the advantages of that liberty of spirit among the Cyrenaics
(in which, through theory, they had become dead to theory, so that
all theory, as such, was really indifferent to them, and indeed nothing
valuable but in its tangible ministration to life) was precisely this,
that it gave them free play in using as their ministers or servants,
things which, to the uninitiated, must be masters or nothing. Yet, how
little the followers of Aristippus made of that whole comely system
of manners or morals, then actually in possession of life, is shown by
the bold practical consequence, which one of them main- tained
(with a hard, self-opinionated adherence to his peculiar theory of
values) in the not very amiable paradox that friendship and
patriotism were things one could do without ; while another
Deaths-advocate^ as he was called helped so many to self-destruction, by
his 23 MARIUS THE EPICUREAN
pessimistic eloquence on the evils of life, that his lecture-room
was closed. That this was in the range of their consequences that this
was a possible, if remote, deduction from the premisses of the discreet
Aristippus was surely an incon- sistency in a thinker who professed above
all things an economy of the moments of life. And yet those old
Cyrenaics felt their way, as if in the dark, we may be sure, like other
men in the ordinary transactions of life, beyond the narrow limits
they drew of clear and absolutely legitimate knowledge, admitting what
was not of immediate sensation, and drawing upon that " fantastic
" future which might never come. A little more of such
"walking by faith/' a little more of such not unreasonable "
assent," and they might have profited by a hundred services to their
culture, from Greek religion and Greek morality, as they actually
were. The spectacle of their fierce, exclusive, tenacious hold on their
own narrow apprehension, makes one think of a picture with no
relief, no soft shadows nor breadth of space, or of a drama without
proportionate repose. Yet it was of perfection that Marius (to
return to him again from his masters, his intellectual heirs) had been
really thinking all the time : a narrow perfection it might be objected,
the perfection of but one part of his nature his capacities of
feeling, of exquisite physical im- pressions, of an imaginative sympathy
but still, a true perfection of those capacities, wrought out
24 SECOND THOUGHTS to their utmost degree,
admirable enough in its way. He too is an economist : he hopes, by
that " insight " of which the old Cyrenaics made so much, by
skilful apprehension of the condi- tions of spiritual success as they
really are, the special circumstances of the occasion with which he
has to deal, the special felicities of his own nature, to make the most,
in no mean or vulgar sense, of the few years of life ; few, indeed, for
the attainment of anything like general perfec- tion ! With the brevity
of that sum of years his mind is exceptionally impressed ; and this
purpose makes him no frivolous dilettante^ but graver than other men :
his scheme is not that of a trifler, but rather of one who gives a
meaning of his own, yet a very real one, to those old words Let us work
while it is day ! He has a strong apprehension, also, of the beauty
of the visible things around him ; their fading, momentary, graces
and attractions. His natural susceptibility in this direction, enlarged
by experience, seems to demand of him an almost exclusive pre-
occupation with the aspects of things ; with their aesthetic character,
as it is called their revelations to the eye and the imagination :
not so much because those aspects of them yield him the largest amount of
enjoy- ment, as because to be occupied, in this way, with the
aesthetic or imaginative side of things, is to be in real contact with
those elements of his own nature, and of theirs, which, for him at
25 MARIUS THE EPICUREAN least, are matter
of the most real kind of appre- hension. As other men are concentrated
upon truths of number, for instance, or on business, or it may be on
the pleasures of appetite, so he is wholly bent on living in that full
stream of refined sensation. And in the prosecution of this love of
beauty, he claims an entire personal liberty, liberty of heart and mind,
liberty, above all, from what may seem conventional answers to
first questions. But, without him there is a venerable system
of sentiment and idea, widely extended in time and place, in a kind of
impregnable possession of human life a system, which, like some
other great products of the conjoint efforts of human mind through
many generations, is rich in the world's experience ; so that, in
attaching oneself to it, one lets in a great tide of that
experience, and makes, as it were with a single step, a great
experience of one's own, and with great con- sequent increase to one's
sense of colour, variety, and relief, in the spectacle of men and
things. The mere sense that one belongs to a system an imperial
system or organisation has, in itself, the expanding power of a great
experience ; as some have felt who have been admitted from narrower
sects into the communion of the catholic church ; or as the old Roman
citizen felt. It is, we might fancy, what the coming into
possession of a very widely spoken language might be, with a great
literature, which is alsc 26 SECOND THOUGHTS
the speech of the people we have to live among. A
wonderful order, actually in possession of / human life ! grown
inextricably through and { 7 f through it ; penetrating into its laws,
its very language, its mere habits of decorum, in a thousand
half-conscious ways ; yet still felt to be, in part, an unfulfilled ideal
; and, as such, awaken- ing hope, and an aim, identical with the
one only consistent aspiration of mankind ! In the apprehension of
that, just then, Marius seemed to have joined company once more with his
own old self; to have overtaken on the road the pilgrim who had
come to Rome, with absolute sincerity, on the search fo r
perfection. It defined not so much a change of practice, as of sympathy
a new departure, an expansion, of sympathy. It in- volved,
certainly, some curtailment of his liberty, in concession to the actual
manner, the distinc- tions, the enactments of that great crowd of
admirable spirits, who have elected so, and not otherwise, in their
conduct of life, and are not here to give one, so to term it, an "
indulgence." But then, under the supposition of their dis-
approval, no roses would ever seem worth plucking again. The authority
they exercised was like that of classic taste an influence so
subtle, yet so real, as defining the loyalty of the scholar ; or of some
beautiful and venerable ritual, in which every observance is become
spontaneous and almost mechanical, yet is found, 27
MARIUS THE EPICUREAN the more carefully one considers it, to
have a reasonable significance and a natural history. And
Marius saw that he would be but an inconsistent Cyrenaic, mistaken in his
estimate of values, of loss and gain, and untrue to the well-
considered economy of life which he had brought with him to Rome that
some drops of the great cup would fall to the ground if he did not
make that concession, if he did but remain just there.
CHAPTER XVII BEATA URBS " Many prophets and
kings have desired to see the things which ye see." THE
enemy on the Danube was, indeed, but the vanguard of the mighty invading
hosts of the fifth century. Illusively repressed just now, those
confused movements along the northern boundary of the Empire were
destined to unite triumphantly at last, in the barbarism, which,
powerless to destroy the Christian church, was yet to suppress for a time
the achieved culture of the pagan world. The kingdom of Christ was
to grow up in a somewhat false alienation from the light and beauty of
the kingdom of nature, of the natural man, with a partly mistaken
tradition concerning it, and an incapacity, as it might almost seem at
times, for eventual re- conciliation thereto. Meantime Italy had
armed itself once more, in haste, and the imperial brothers set forth
for the Alps. Whatever misgiving the Roman people may
29 MARIUS THE EPICUREAN have felt as to
the leadership of the younger was unexpectedly set at rest ; though with
some temporary regret for the loss of what had been, after all, a
popular figure on the world's stage. Travelling fraternally in the same
litter with Aurelius, Lucius Verus was struck with sudden and
mysterious disease, and died as he hastened back to Rome. His death awoke
a swarm of sinister rumours, to settle on Lucilla, jealous, it was
said, of Fabia her sister, perhaps of Faustina on Faustina herself, who
had accompanied the imperial progress, and was anxious now to hide
a crime of her own even on the elder brother, who, beforehand with the
treasonable designs of his colleague, should have helped him at
supper to a favourite morsel, cut with a knife poisoned ingeniously
on one side only. Aurelius, certainly, with sincere distress, his long
irritations, so duti- fully concealed or repressed, turning now into a
single feeling of regret for the human creature, carried the remains back
to Rome, and demanded of the Senate a public funeral, with a decree
for the apotheosis^ or canonisation, of the dead. For three
days the body lay in state in the Forum, enclosed in an open coffin of
cedar-wood, on a bed of ivory and gold, in the centre of a sort of
temporary chapel, representing the temple of his patroness Venus
Genetrix. Armed soldiers kept watch around it, while choirs of select
voices relieved one another in the chanting of hymns or monologues from
the great tragedians. 30 BEATA URBS
At the head of the couch were displayed the various personal
decorations which had belonged to Verus in life. Like all the rest of
Rome, Marius went to gaze on the face he had seen last scarcely
disguised under the hood of a travelling-dress, as the wearer hurried, at
night- fall, along one of the streets below the palace, to some
amorous appointment. Unfamiliar as he still was with dead faces, he was
taken by surprise, and touched far beyond what he had reckoned on,
by the piteous change there ; even the skill of Galen having been not
wholly successful in the process of embalming. It was as if a
brother of his own were lying low before him, with that meek and helpless
expression it would have been a sacrilege to treat rudely.
Meantime, in the centre of the Campus Martins^ within the grove of
poplars which enclosed the space where the body of Augustus had
been burnt, the great funeral pyre, stuffed with shavings of various
aromatic woods, was built up in many stages, separated from each
other by a light entablature of woodwork, and adorned abundantly with
carved and tapestried images. Upon this pyramidal or flame-shaped
structure lay the corpse, hidden now under a mountain of flowers and
incense brought by the women, who from the first had had their
fond- ness for the wanton graces of the deceased. The dead body was
surmounted by a waxen effigy of great size, arrayed in the triumphal orna-
MARIUS THE EPICUREAN ments. At last the Centurions to
whom that office belonged, drew near, torch in hand, to ignite the
pile at its four corners, while the soldiers, in wild excitement, flung
themselves around it, casting into the flames the decorations they
had received for acts of valour under the dead emperor's command.
It had been a really heroic order, spoiled a little, at the last
moment, through the some- what tawdry artifice, by which an eagle not
a very noble or youthful specimen of its kind was caused to take flight
amid the real or affected awe of the spectators, above the
perishing remains; a court chamberlain, according to ancient
etiquette, subsequently making official declaration before the Senate,
that the imperial " genius " had been seen in this way,
escaping from the fire. And Marius was present when the Fathers,
duly certified of the fact, by "acclamation," muttering their
judgment all together, in a kind of low, rhythmical chant, decreed
Gcelum the privilege of divine rank to the departed. The
actual gathering of the ashes in a white cere-cloth by the widowed
Lucilla, when the last flicker had been extinguished by drops of
wine ; and the conveyance of them to the little cell, already populous,
in the central mass of the sepulchre of Hadrian, still in all the
splen- dour of its statued colonnades, were a matter of private or
domestic duty ; after the due accomplishment of which Aurelius was
at 32 BEATA URBS liberty to retire
for a time into the privacy of his beloved apartments of the Palatine.
And hither, not long afterwards, Marius was sum- moned a second
time, to receive from the imperial hands the great pile of manuscripts
it would be his business to revise and arrange. One year had passed
since his first visit to the palace ; and as he climbed the stairs
to-day, the great cypresses rocked against the sunless sky, like
living creatures in pain. He had to traverse a long subterranean gallery,
once a secret entrance to the imperial apartments, and in our own
day, amid the ruin of all around it, as smooth and fresh as if the
carpets were but just removed from its floor after the return of
the emperor from the shows. It was here, on such an occasion, that
the emperor Caligula, at the age of twenty-nine, had come by his end,
the assassins gliding along it as he lingered a few moments longer
to watch the movements of a party of noble youths at their exercise in
the courtyard below. As Marius waited, a second time, in that little
red room in the house of the chief chamberlain, curious to look
once more upon its painted walls the very place whither the
assassins were said to have turned for refuge after the murder he could
all but see the figure, which in its surrounding light and darkness
seemed to him the most melancholy in the entire history of Rome. He
called to mind the greatness of that popularity and early p.
in 33 D MARIUS THE EPICUREAN promise the stupefying
height of irresponsible power, from which, after all, only men's
viler side had been clearly visible the overthrow of reason the
seemingly irredeemable memory ; and still, above all, the beautiful head
in which the noble lines of the race of Augustus were united to, he
knew not what expression of sensibility and fineness, not theirs, and for
the like of which one must pass onward to the Antonines. Popular
hatred had been careful to destroy its semblance wherever it was to
be found ; but one bust, in dark bronze-like basalt of a wonderful
perfection of finish, preserved in the museum of the Capitol, may have
seemed to some visitors there perhaps the finest extant relic of
Roman art. Had the very seal of empire upon those sombre brows,
reflected from his mirror, suggested his insane attempt upon the
liberties, the dignity of men ? " O humanity ! " he seems to
ask, " what hast thou done to me that I should so despise thee
? " And might not this be indeed the true meaning of kingship, if
the world would have one man to reign over it ? The like of this :
or, some incredible, surely never to be realised, height of
disinterestedness, in a king who should be the servant of all, quite at
the other extreme of the practical dilemma involved in such a
position. Not till some while after his death had the body been decently
interred by the piety of the sisters he had driven into exile.
Fraternity 34 BEATA URBS of feeling
had been no invariable feature in the incidents of Roman story. One long
Vicus Sceleratus^ from its first dim foundation in fraternal
quarrel on the morrow of a common deliverance so touching had not almost
every step in it some gloomy memory of unnatural violence ? Romans
did well to fancy the traitress Tarpeia still " green in earth,"
crowned, enthroned, at the roots of the Capitoline rock. If in
truth the religion of Rome was every- where in it, like that perfume of
the funeral incense still upon the air, so also was the memory of
crime prompted by a hypocritical cruelty, down to the erring, or not erring,
Vesta calmly buried alive there, only eighty years ago, under
Domitian. It was with a sense of relief that Marius found
himself in the presence of Aurelius, whose gesture of friendly
intelligence, as he entered, raised a smile at the gloomy train of
his own thoughts just then, although since his first visit to the palace
a great change had passed over it. The clear daylight found its way
now into empty rooms. To raise funds for the war, Aurelius, his luxurious
brother being no more, had determined to sell by auction the
accumulated treasures of the im- perial household. The works of art, the
dainty furniture, had been removed, and were now " on view
" in the Forum, to be the delight or dismay, for many weeks to come,
of the 35 MARIUS THE EPICUREAN large
public of those who were curious in these things. In such wise had
Aurelius come to the condition of philosophic detachment he had
affected as a boy, hardly persuaded to wear warm clothing, or to sleep in
more luxurious manner than on the bare floor. But, in his empty
house, the man of mind, who had always made so much of the pleasures
of philosophic contemplation, felt freer in thought than ever. He
had been reading, with less self-reproach than usual, in the Republic of
Plato, those passages which describe the life of the philosopher-kings
like that of hired servants in their own house who, possessed of
the " gold undefiled " of intellectual vision, forgo so
cheerfully all other riches. It was one of his happy days : one of those
rare days, when, almost with none of the effort, otherwise so
constant with him, his thoughts came rich and full, and converged in a
mental view, as exhilarating to him as the prospect of some wide
expanse of landscape to another man's bodily eye. He seemed to lie
readier than was his wont to the imaginative influence of the
philosophic reason to its suggestions of a possible open country,
commencing just where all actual experience leaves off, but which
experience, one's own and not another's, may one day occupy. In fact, he
was seeking strength for himself, in his own way, before he started
for that ambiguous earthly warfare 36 BEATA
URBS which was to occupy the remainder of his life. "
Ever remember this," he writes, " that a happy life depends,
not on many things & o\iyi(TTot,<i tceiTai." And to-day,
committing himself with a steady effort of volition to the mere
silence of the great empty apartments, he might be said to have escaped,
according to Plato's promise to those who live closely with
philosophy, from the evils of the world. In his "conversations
with himself" Marcus Aurelius speaks often of that City on high^
of which all other cities are but single habitations. From him in
fact Cornelius Pronto, in his late discourse, had borrowed the expression
; and he certainly meant by it more than the whole commonwealth of
Rome, in any idealisation of it, however sublime. Incorporate
somehow with the actual city whose goodly stones were lying beneath
his gaze, it was also implicate in that reasonable constitution of
nature, by devout contemplation of which it is possible for man to
associate himself to the consciousness of God. In that New Rome he had
taken up his rest for awhile on this day, deliberately feeding his
thoughts on the better air of it, as another might have gone for mental
renewal to a favourite villa. " Men seek retirement in
country-houses," he writes, " on the sea-coast, on the mountains
; and you have yourself as much fondness for such places as
another. But there is little proof of culture therein ; since the
privilege is yours of 37 MARIUS THE
EPICUREAN retiring into yourself whensoever you please, into
that little farm of one's own mind, where a silence so profound may be
enjoyed." That it could make these retreats, was a plain con-
sequence of the kingly prerogative of the mind, its dominion over
circumstance, its inherent liberty. " It is in thy power to think as
thou wilt : The essence of things is in thy thoughts about them :
All is opinion, conception : No man can be hindered by another : What is
out- side thy circle of thought is nothing at all to it ; hold to
this, and you are safe : One thing is needful to live close to the divine
genius with- in thee, and minister thereto worthily." And the
first point in this true ministry, this culture, was to maintain one's
soul in a condition of indifference and calm. How continually had
public claims, the claims of other persons, with their rough angularities
of character, broken in upon him, the shepherd of the flock.
But after all he had at least this privilege he could not part
with, of thinking as he would ; and it was well, now and then, by a
conscious effort of will, to indulge it for a while, under systematic
direc- tion. The duty of thus making discreet, systematic use of
the power of imaginative vision for purposes of spiritual culture, "
since the soul takes colour from its fantasies," is a point he has
frequently insisted on. The influence of these seasonable
meditations a symbol, or sacrament, because an intensified
38 BEATA URBS condition, of the soul's own
ordinary and natural life would remain upon it, perhaps for many
days. There were experiences he could not for- get, intuitions beyond
price, he had come by in this way, which were almost like the
breaking of a physical light upon his mind ; as the great Augustus
was said to have seen a mysterious physical splendour, yonder, upon the
summit of the Capitol, where the altar of the Sibyl now stood. With
a prayer, therefore, for inward quiet, for conformity to the divine
reason, he read some select passages of Plato, which bear upon the
harmony of the reason, in all its forms, with itself. "Could there
be Cosmos, that wonderful, reasonable order, in him, and nothing
but disorder in the world without ? " It was from this question he
had passed on to the vision of a reasonable, a divine, order, not in
nature, but in the condition of human affairs that unseen Celestial
City, Uranopolis, Callipolis, Urbs Eeata in which, a consciousness of the
divine will being everywhere realised, there would be, among other
felicitous differences from this lower visible world, no more quite hopeless
death, of men, or children, or of their affections. He had tried
to-day, as never before, to make the most of this vision of a New Rome,
to realise it as distinctly as he could, and, as it were, find his
way along its streets, ere he went down into a world so irksomely different,
to make his practical effort towards it, with a soul full of
39 MARIUS THE EPICUREAN compassion for men
as they were. However distinct the mental image might have been to
him, with the descent of but one flight of steps into the market-place
below, it must have retreated again, as if at touch of some malign
magic wand, beyond the utmost verge of the horizon. But it had been
actually, in his clearest vision of it, a confused place, with but
a recognisable entry, a tower or fountain, here or there, and
haunted by strange faces, whose novel expression he, the great
physiognomist, could by no means read. Plato, indeed, had been able
to articulate, to see, at least in thought, his ideal city. But
just because Aurelius had passed beyond Plato, in the scope of the
gracious charities he pre-supposed there, he had been unable really
to track his way about it. Ah ! after all, according to Plato himself,
all vision was but reminiscence, and this, his heart's desire, no
place his soul could ever have visited in any region of the old world's
achievements. He had but divined, by a kind of generosity of
spirit, the void place, which another experience than his must
fill. Yet Marius noted the wonderful expression of peace, of
quiet pleasure, on the countenance of Aurelius, as he received from him
the rolls of fine clear manuscript, fancying the thoughts of the
emperor occupied at the moment with the famous prospect towards the Alban
hills, from those lofty windows. 40 CHAPTER
XVIII "THE CEREMONY OF THE DART" THE ideas of
Stoicism, so precious to Marcus Aurelius, ideas of large generalisation,
have sometimes induced, in those over whose in- tellects they have
had real power, a coldness of heart. It was the distinction of
Aurelius that he was able to harmonise them with the kindness, one
might almost say the amenities, of a humourist, as also with the popular
religion and its many gods. Those vasty conceptions of the later
Greek philosophy had in them, in truth, the germ of a sort of austerely
opinion- ative "natural theology," and how often has that
led to religious dryness a hard contempt of everything in religion, which
touches the senses, or charms the fancy, or really concerns the
affections. Aurelius had made his own the secret of passing, naturally,
and with no violence to his thought, to and fro, between the richly
coloured and romantic religion of those old gods who had still been human
beings, and a very abstract speculation upon the impassive,
MARIUS THE EPICUREAN I universal soul that circle
whose centre everywhere, the circumference nowhere of which a
series of purely logical necessities had evolved the formula. As in many
another instance, those traditional pieties of the place and the
hour had been derived by him from his mother : frapci rrfc Mrpbs TO
Oeoo-eftes. Puri- fied, as all such religion of concrete time and
place needs to be, by frequent confronting with the ideal of godhead as
revealed to that innate religious sense in the possession of which
Aurelius differed from the people around him, it was the ground of many a
sociability with their simpler souls, and for himself, certainly, a
consolation, whenever the wings of his own soul flagged in the trying
atmosphere of purely intellectual vision. A host of companions,
guides, helpers, about him from of old time, " the very court and
company of heaven," objects for him of personal reverence and
affection the supposed presence of the ancient popular gods determined
the character of much of his daily life, and might prove the last
stay of human nature at its weakest. " In every time and
place," he had said, " it rests with thyself to use the event
of the hour religiously : , at all seasons worship the gods." And
when he said " Worship the gods ! " he did it, as
strenuously as everything else. Yet here again, how often must he
have experienced disillusion, or even some revolt of 42
"THE CEREMONY OF THE DART' feeling, at that
contact with coarser natures to which his religious conclusions exposed
him. At the beginning of the year one hundred and seventy -three
public anxiety was as great as ever ; and as before it brought people's
supersti- tion into unreserved play. For seven days the images of
the old gods, and some of the graver new ones, lay solemnly exposed in
the open air, arrayed in all their ornaments, each in his separate
resting-place, amid lights and burning incense, while the crowd,
following the imperial example, daily visited them, with offerings
of flowers to this or that particular divinity, according to the
devotion of each. But supplementing these older official
observ- ances, the very wildest gods had their share of worship,
strange creatures with strange secrets startled abroad into open
daylight. The deliri- ous sort of religion of which Marius was a
spectator in the streets of Rome, during the seven days of the
Lectisternium, reminded him now and again of an observation of Apuleius
: it was " as if the presence of the gods did not do men good,
but disordered or weakened them." Some jaded women of fashion,
especi- ally, found in certain oriental devotions, at once relief
for their religiously tearful souls and an opportunity for personal
display ; preferring this or that "mystery," chiefly because
the attire required in it was suitable to their peculiar manner of
beauty. And one morning Marius 43 MARIUS THE
EPICUREAN encountered an extraordinary crimson object, borne
in a litter through an excited crowd -the famous courtesan Benedicta,
still fresh from the bath of blood, to which she had submitted
herself, sitting below the scaffold where the victims provided for that
purpose were slaughtered by the priests. Even on the last day of
the solemnity, when the emperor himself performed one of the oldest
ceremonies of the Roman religion, this fantastic piety had asserted
itself. There were victims enough certainly, brought from the choice
pastures of the Sabine mountains, and conducted around the city
they were to die for, in almost con- tinuous procession, covered with
flowers and well-nigh worried to death before the time by the
crowds of people superstitiously pressing to touch them. But certain
old-fashioned Romans, in these exceptional circumstances, demanded
something more than this, in the way of a human sacrifice after the
ancient pattern ; as when, not so long since, some Greeks or Gauls
had been buried alive in the Forum. At least, human blood should be
shed ; and it was through a wild multitude of fanatics, cutting their
flesh with knives and whips and licking up ardently the crimson
stream, that the emperor repaired to the temple of Bellona, and in solemn
symbolic act cast the bloodstained spear, or " dart," carefully
pre- served there, towards the enemy's country 44
"THE CEREMONY OF THE DART' towards that unknown
world of German homes, still warm, as some believed under the faint
northern twilight, with those innocent affections of which Romans had
lost the sense. And this at least was clear, amid all doubts of
abstract right or wrong on either side, that the ruin of those
homes was involved in what Aurelius was then preparing for, with, Yes !
the gods be thanked for that achievement of an invigorat- ing
philosophy ! almost with a light heart. For, in truth, that
departure, really so difficult to him, for which Marcus Aurelius
had needed to brace himself so strenuously, came to test the power of a
long-studied theory of practice ; and it was the development of
this theory a theoria^ literally a view, an intuition, of the most
important facts, and still more im- portant possibilities, concerning man
in the world, that Marius now discovered, almost as if by accident,
below the dry surface of the manuscripts entrusted to him. The great
purple rolls contained, first of all, statistics, a general
historical account of the writer's own time, and an exact diary ; all
alike, though in three different degrees of nearness to the writer's
own personal experience, laborious, formal, self- suppressing. This
was for the instruction of the public ; and part of it has, perhaps,
found its way into the Augustan Histories. But it was for the
especial guidance of his son Commodus that he had permitted himself to
break out, here 45 MARIUS THE EPICUREAN
and there, into reflections upon what was pass- ing,
into conversations with the reader. And then, as though he were put off
his guard in this way, there had escaped into the heavy matter-of-fact,
of which the main portion was composed, morsels of his conversation with
him- self. It was the romance of a soul (to be traced only in
hints, wayside notes, quotations from older masters), as it were in
lifelong, and often baffled search after some vanished or elusive
golden fleece, or Hesperidean fruit-trees, or some mysterious light of
doctrine, ever retreat- ing before him. A man, he had seemed to
Marius from the first, of two lives, as we say. Of what nature, he had
sometimes wondered, on the day, for instance, when he had inter-
rupted the emperor's musings in the empty palace, might be that placid
inward guest or inhabitant, who from amid the pre-occupations of
the man of practical affairs looked out, as if surprised, at the things
and faces around. Here, then, under the tame surface of what was
meant for a life of business, Marius dis- covered, welcoming a brother,
the spontaneous self-revelation of a soul as delicate as his own, a
soul for which conversation with itself was a necessity of existence.
Marius, indeed, had always suspected that the sense of such
necessity was a peculiarity of his. But here, certainly, was
another, in this respect like himself; and again he seemed to detect the
advent of some 46 "THE CEREMONY OF THE
DART' new or changed spirit into the world, mystic, inward,
hardly to be satisfied with that wholly external and objective habit of
life, which had been sufficient for the old classic soul. His
purely literary curiosity was greatly stimulated by this example of a
book of self-portraiture. It was in fact the position of the modern
essayist, creature of efforts rather than of achievements, in the matter
of apprehending truth, but at least conscious of lights by the way,
which he must needs record, acknowledge. What seemed to underlie that
position was the desire to make the most of every experience that
might come, outwardly or from within : to perpetuate, to display, what
was so fleeting, f in a kind of instinctive, pathetic protest
against the imperial writer's own theory that theory of the "
perpetual flux " of all things to Marius himself, so plausible from
of old. There was, besides, a special moral or doctrinal
significance in the making of such conversation with one's self at all.
The Logos, the reasonable spark, in man, is common to him with the
gods KOWO? at 77/309 roi>$ 0eov9 cum diis communis. That might seem
but the truism of a certain school of philosophy ; but in Aurelius
was clearly an original and lively ap- prehension. There could be no
inward conver- sation with one's self such as this, unless there
were indeed some one else, aware of our actual thoughts and feelings,
pleased or displeased at 47 MARIUS THE
EPICUREAN one's disposition of one's self. Cornelius Front*
too could enounce that theory of the reasonable community between men and
God, in many different ways. But then, he was a cheerful man, and
Aurelius a singularly sad one ; and what to Pronto was but a doctrine, or
a motive of mere rhetoric, was to the other a consolation. He walks
and talks, for a spiritual refreshment lacking which he would faint by
the way, with what to the learned professor is but matter of
philosophic eloquence. In performing his public religious functions
Marcus Aurelius had ever seemed like one who took part in some great
process, a great thing really done, with more than the actually
visible assistants about him. Here, in these manu- scripts, in a
hundred marginal flowers of thought or language, in happy new phrases of
his own like the impromptus of an actual conversation, in
quotations from other older masters of the inward life, taking new
significance from the chances of such intercourse, was the record
of his communion with that eternal reason, which was also his own
proper self, with the divine companion, whose tabernacle was in the
intelli- gence of men the journal of his daily commerce with
that. Chance : or Providence ! Chance : or Wis- dom, one with
nature and man, reaching from end to end, through all time and all
exist- ence, orderly disposing all things, according to
48 "THE CEREMONY OF THE DART' fixed
periods, as he describes it, in terms very like certain well-known words
of the book of Wisdom: those are the "fenced opposites "
of the speculative dilemma, the tragic embarras^ of which Aurelius
cannot too often remind himself as the summary of man's situation in the
world. If there be, however, a provident soul like this "
behind the veil," truly, even to him, even in the most intimate of
those conversations, it has never yet spoken with any quite
irresistible assertion of its presence. Yet one's choice in that
speculative dilemma, as he has found it, is on the whole a matter of
will. "'Tis in thy power," here too, again, "to think as
thou wilt." For his part he has asserted his will, and has the
courage of his opinion. " To the better of two things, if thou
findest that, turn with thy whole heart : eat and drink ever of the
best before thee." "Wisdom," says that other
disciple of the Sapiential philosophy, " hath mingled Her wine, she
hath also prepared Herself a table." ToO apurTov aTroXaue :
"Partake ever of Her best ! " And what Marius, peeping
now very closely upon the intimacies of that singular mind, found a thing
actually * pathetic and affecting, was the manner of the writer's
bearing as in the presence of this supposed guest ; so elusive, so
jealous of any palpable manifestation of himself, so taxing to
one's faith, never allowing one to lean frankly upon him and feel wholly
at rest. Only, he p. in 49 E MARIUS THE
EPICUREAN would do his part, at least, in maintaining the
constant fitness, the sweetness and quiet, of the guest-chamber. Seeming
to vary with the in- tellectual fortune of the hour, from the
plainest account of experience, to a sheer fantasy, only
"believed because it was impossible/' that one hope was, at all
events, sufficient to make men's common pleasures and their common
ambition, above all their commonest vices, seem very petty indeed,
too petty to know of. It bred in him a kind of magnificence of character,
in the old Greek sense of the term ; a temper incompatible with any
merely plausible advocacy of his convic- tions, or merely superficial
thoughts about any- thing whatever, or talk about other people, or
speculation as to what was passing in their so visibly little souls, or
much talking of any kind, however clever or graceful. A soul thus
disposed had " already entered into the better life": was
indeed in some sort "a priest, a minister of the gods." Hence
his constant " re- collection " ; a close watching of his soul,
of a kind almost unique in the ancient world. Before all things
examine into thyself: strive to be at home 'with thyself ! Marius, a
sympathetic witness of all this, might almost seem to have had a
foresight of monasticism itself in the prophetic future. With this mystic
companion he had gone a step onward out of the merely objective
pagan existence. Here was already a master in that craft of
self-direction, which was about to So "THE
CEREMONY OF THE DART' play so large a part in the forming of
human mind, under the sanction of the Christian church. Yet it was
in truth a somewhat melancholy service, a service on which one must
needs move about, solemn, serious, depressed, with the hushed
footsteps of those who move about the house where a dead body is lying.
Such was the impression which occurred to Marius again and again as
he read, with a growing sense of some profound dissidence from his
author. By certain quite traceable links of association he was
reminded, in spite of the moral beauty of the philosophic emperor's
ideas, how he had sat, essentially unconcerned, at the public
shows. For, actually, his contemplations had made him of a sad
heart, inducing in him that melancholy Tristitia which even the monastic
moralists have held to be of the nature of deadly sin, akin to the
sin of Desidia or Inactivity. Resignation, a sombre resignation, a sad
heart, patient bearing of the burden of a sad heart : Yes ! this
be- longed doubtless to the situation of an honest thinker upon the
world. Only, in this case there seemed to be too much of a
complacent acquiescence in the world as it is. And there could be
no true Theodicee in that ; no real accommodation of the world as it is,
to the divine pattern of the Logos y the eternal reason, over
against it. It amounted to a tolerance of evil. The soul of good,
though it moveth upon a way thou canst but little understand, yet
prospereth on the journey: 51 :ARIUS THE
EPICUREAN If thou sufferest nothing contrary to nature,
there can be nought of evil with thee therein : If thou hast
done aught in harmony with that reason in which men are communicant
with the gods, there also can be nothing of evil with thee nothing
to be afraid of : Whatever is, is right ; as from the hand of one
dispensing to every man according to his desert : If
reason fulfil its part in things, what more dost thou require ? Dost thou
take it ill that thy stature is but of four cubits ? That which happeneth
to each of us is for the profit of the whole : The profit of
the whole, that was sufficient ! Links, in a train of thought
really generous ! of which, nevertheless, the forced and yet facile
optimism, refusing to see evil anywhere, might lack, after all, the
secret of genuine cheerfulness. It left in truth a weight upon the
spirits ; and with that weight unlifted, there could be no real
justification of the ways of Heaven to man. " Let thine air be
cheerful," he had said ; and, with an effort, did himself at times
attain to that serenity of aspect, which surely ought to accompany,
as their outward flower and favour, hopeful assumptions like those.
Still, what in Aurelius was but a passing expression, was with
Cornelius (Marius could but note the contrast) nature, and a veritable
physiognomy. With Cornelius, in fact, it was nothing less than the
joy which Dante apprehended in the blessed spirits of the perfect, the
outward semblance of which, like a reflex of physical light upon
human faces from " the land which is very far off," we
may trace from Giotto onward to its consumma- tion in the work of Raphael
the serenity, the 52 "THE CEREMONY OF THE
DART' durable cheerfulness, of those who have been indeed
delivered from death, and of which the utmost degree of that famed "
blitheness " of the Greeks had been but a transitory gleam, as
in careless and wholly superficial youth. And yet, in Cornelius, it
was certainly united with the bold recognition of evil as a fact in the
world ; real as an aching in the head or heart, which one
instinctively desires to have cured ; an enemy with whom no terms could
be made, visible, hatefully visible, in a thousand forms the ap-
parent waste of men's gifts in an early, or even in a late grave ; the
death, as such, of men, and even of animals ; the disease and pain of the
body. And there was another point of dissidence between Aurelius
and his reader. The philo- sophic emperor was a despiser of the
body. Since it is " the peculiar privilege of reason to move
within herself, and to be proof against corporeal impressions, suffering
neither sensation nor passion to break in upon her," it follows
that the true interest of the spirit must ever be to treat the body
Well ! as a corpse attached thereto, rather than as a living companion
nay, actually to promote its dissolution. In counter- poise to the
inhumanity of this, presenting itself to the young reader as nothing less
than a sin against nature, the very person of Cornelius was nothing
less than a sanction of that reverent delight Marius had always had in
the visible body of man. Such delight indeed had been but 53
MARIUS THE EPICUREAN a natural consequence of the
sensuous or material- istic character of the philosophy of his
choice. } Now to Cornelius the body of man was unmis-
takeably, as a later seer terms it, the one true I temple in the
world ; or rather itself the proper object of worship, of a sacred
service, in which the very finest gold might have its seemliness
and due symbolic use : Ah ! and of what awe- stricken pity also, in its
dejection, in the perish- ing gray bones of a poor man's grave !
Some flaw of vision, thought Marius, must be involved in the
philosopher's contempt for it- some diseased point of thought, or moral
dulness, leading logically to what seemed to him the strangest of
all the emperor's inhumanities, the temper of the suicide ; for which
there was just then, indeed, a sort of mania in the world. "
'Tis part of the business of life," he read, " to lose it
handsomely." On due occasion, " one might give life the slip."
The moral or mental powers might fail one ; and then it were a fair
question, precisely, whether the time for taking leave was not come :
" Thou canst leave this prison when thou wilt. Go forth boldly !
" Just there, in the bare capacity to entertain such question
at all, there was what Marius, with a soul which must always leap up in
loyal gratitude for mere physical sunshine, touching him as it
touched the flies in the air, could not away with. There, surely, was a
sign of some crookedness in the natural power of apprehension. It was
the 54 "THE CEREMONY OF THE DART 1
attitude, the melancholy intellectual attitude, of one who might be
greatly mistaken in things who might make the greatest of mistakes.
A heart that could forget itself in the mis- fortune, or even in
the weakness of others : of this Marius had certainly found the trace, as
a confidant of the emperor's conversations with himself, in spite
of those jarring inhumanities, of that pretension to a stoical
indifference, and the many difficulties of his manner of writing.
He found it again not long afterwards, in still stronger evidence,
in this way. As he read one morning early, there slipped from the rolls
of manuscript a sealed letter with the emperor's superscription,
which might well be of importance, and he felt bound to deliver it at
once in person ; Aurelius being then absent from Rome in one of his
favourite retreats, at Praeneste, taking a few days of quiet with his
young children, before his departure for the war. A whole day passed
as Marius crossed the Gampagna on horseback, pleased by the random
autumn lights bringing out in the distance the sheep at pasture,
the shepherds in their picturesque dress, the golden elms, tower
and villa ; and it was after dark that he mounted the steep street of the
little hill-town to the imperial residence. He was struck by an odd
mixture of stillness and excitement about the place. Lights burned at the
windows. It seemed that numerous visitors were within, for the
courtyard was crowded with litters and horses 55
MARIUS THE EPICUREAN in waiting. For the moment, indeed, all
larger cares, even the cares of war, of late so heavy a pressure,
had been forgotten in what was passing with the little Annius Verus ; who
for his part had forgotten his toys, lying all day across the knees
of his mother, as a mere child's ear-ache grew rapidly to alarming
sickness with great and manifest agony, only suspended a little,
from time to time, when from very weariness he passed into a few
moments of unconsciousness. The country surgeon called in, had removed
the imposthume with the knife. There had been a great effort to
bear this operation, for the terrified child, hardly persuaded to submit
him- self, when his pain was at its worst, and even more for the
parents. At length, amid a company of pupils pressing in with him, as
the custom was, to watch the proceedings in the sick-room, the
eminent Galen had arrived, only to pronounce the thing done visibly
useless, the patient falling now into longer intervals of delirium.
And thus, thrust on one side by the crowd of departing visitors, Marius
was forced into the privacy of a grief, the desolate face of which
went deep into his memory, as he saw the emperor carry the child away
quite conscious at last, but with a touching expression upon it of
weakness and defeat pressed close to his bosom, as if he yearned just
then for one thing only, to be united, to be absolutely one with it, in
its obscure distress. 56 CHAPTER XIX
THE WILL AS VISION Paratum cor meum deus ! paratum cor meum !
THE emperor demanded a senatorial decree for the erection of images
in memory of the dead prince ; that a golden one should be carried,
together with the other images, in the great procession of the Circus,
and the addition of the child's name to the Hymn of the Salian Priests
: and so, stifling private grief, without further delay set forth
for the war. True kingship, as Plato, the old master of
Aurelius, had understood it, was essentially of the nature of a service.
If so be, you can discover a mode of life more desirable than the being
a king, for those who shall be kings ; then, the true Ideal of the
State will become a possibility; but not otherwise. And if the life of
Beatific Vision be indeed possible, if philosophy really "
concludes in an ecstasy/' affording full fruition to the entire nature of
man ; then, for certain elect souls at least, a mode of life will have
been 57 MAR1US THE EPICUREAN
discovered more desirable than to be a king. By love or fear you
might induce such persons to forgo their privilege ; to take upon them
the distasteful task of governing other men, or even of leading
them to victory in battle. But, by the very conditions of its tenure,
their dominion would be wholly a ministry to others : they would
have taken upon them " the form of a servant ": they would be
reigning for the well- being of others rather than their own. The
true king, the righteous king, would be Saint Lewis, exiling himself
from the better land and its perfected company so real a thing to
him, definite and real as the pictured scenes of his psalter to
take part in or to arbitrate men's quarrels, about the transitory
appearances of things. In a lower degree (lower, in proportion as
the highest Platonic dream is lower than any Christian vision) the true
king would be Marcus Aurelius, drawn from the meditation of books,
to be the ruler of the Roman people in peace, and still more, in war.
To Aurelius, certainly, the philosophic mood, the visions, however
dim, which this mood brought with it, were sufficiently pleasant to
him, together with the endearments of his home, to make public rule
nothing less than a sacrifice of himself according to Plato's
requirement, now consummated in his setting forth for the cam-
paign on the Danube. That it was such a sacrifice was to Marius visible
fact, as he saw hirn 53 THE WILL AS VISION
ceremoniously lifted into the saddle amid all the pageantry of an
imperial departure, yet with the air less of a sanguine and self-reliant
leader than of one in some way or other already defeated. Through
the fortune of the subsequent years, passing and repassing so
inexplicably from side to side, the rumour of which reached him amid
his own quiet studies, Marius seemed always to see that central
figure, with its habitually dejected hue grown now to an expression of
positive suffering, all the stranger from its contrast with the
magnificent armour worn by the emperor on this occasion, as it had been
worn by his pre- decessor Hadrian. Totus et argento contextus
et auro : clothed in its gold and silver, dainty as that old
divinely constructed armour of which Homer tells, but without its
miraculous lightsomeness he looked out baffled, labouring, moribund ;
a mere comfortless shadow taking part in some shadowy reproduction
of the labours of Hercules, through those northern, mist-laden confines
of the civilised world. It was as if the familiar soul which had
been so friendly disposed towards him were actually departed to Hades ;
and when he read the Conversations afterwards, though his judgment
of them underwent no material change, it was nevertheless with the
allowance we make for the dead. The memory of that suffering image,
while it certainly strengthened his adhe- 59
MARIUS THE EPICUREAN sion to what he could accept at all in
the philo- sophy of Aurelius, added a strange pathos to what must
seem the writer's mistakes. What, after all, had been the meaning of that
incident, observed as so fortunate an omen long since, when the
prince, then a little child much younger than was usual, had stood in
ceremony among the priests of Mars and flung his crown of flowers
with the rest at the sacred image reclin- ing on the Pulvinar ? The other
crowns lodged themselves here or there ; when, Lo ! the crown
thrown by Aurelius, the youngest of them all, alighted upon the very
brows of the god, as if placed there by a careful hand ! He was
still young, also, when on the day of his adoption by Antoninus
Pius he saw himself in a dream, with as it were shoulders of ivory, like
the images of the gods, and found them more capable than shoulders
of flesh. Yet he was now well-nigh fifty years of age, setting out with
two-thirds of life behind him, upon a labour which would fill the
remainder of it with anxious cares a labour for which he had perhaps no
capacity, and certainly no taste. That ancient suit of armour
was almost the only object Aurelius now possessed from all those
much cherished articles of vertu collected by the Caesars, making the
imperial residence like a magnificent museum. Not men alone were
needed for the war, so that it became necessary, to the great disgust
alike of timid persons and of 60 THE WILL AS
VISION thelovers of sport, to arm the gladiators, but money
also was lacking. Accordingly, at the sole motion of Aurelius himself,
unwilling that the public burden should be further increased,
especially on the part of the poor, the whole of the imperial ornaments
and furniture, a sump- tuous collection of gems formed by Hadrian,
with many works of the most famous painters and sculptors, even the
precious ornaments of the emperor's chapel or Lararium, and the
ward- robe of the empress Faustina, who seems to have borne the
loss without a murmur, were exposed for public auction. u These
treasures," said Aurelius, " like all else that I possess,
belong by right to the Senate and People." Was it not a
characteristic of the true kings in Plato that they had in their houses
nothing they could call their own ? Connoisseurs had a keen delight
in the mere reading of the Prtetor's list of the property for sale.
For two months the learned in these matters were daily occupied in
the appraising of the embroidered hangings, the choice articles of
personal use selected for pre- servation by each succeeding age, the
great out- landish pearls from Hadrian's favourite cabinet, the
marvellous plate lying safe behind the pretty iron wicker-work of the
shops in the goldsmiths' quarter. Meantime ordinary persons might
have an interest in the inspection of objects which had been as
daily companions to people so far above and remote from them things so
fine also 61 MARIUS THE EPICUREAN in
workmanship and material as to seem, with their antique and delicate air,
a worthy survival of the grand bygone eras, like select thoughts or
utterances embodying the very spirit of the vanished past. The town
became more pensive than ever over old fashions. The welcome
amusement of this last act of preparation for the great war being now
over, all Rome seemed to settle down into a singular quiet, likely
to last long, as though bent only on watching from afar the languid, somewhat
un- eventful course of the contest itself. Marius took advantage of
it as an opportunity for still closer study than of old, only now and
then going out to one of his favourite spots on the Sabine or Alban
hills for a quiet even greater than that of Rome in the country air. On
one of these occasions, as if by favour of an invisible power
withdrawing some unknown cause of dejection from around him, he enjoyed a
quite unusual sense of self-possession the possession of his own
best and happiest self. After some gloomy thoughts over-night, he awoke
under the full tide of the rising sun, himself full, in his entire
refreshment, of that almost religious appreciation of sleep, the
graciousness of its influence on men's spirits, which had made the old
Greeks conceive of it as a god. It was like one of those old joyful
wakings of childhood, now becoming rarer and rarer with him, and looked
back upon with much regret as a measure of advancing age. In fact,
62 THE WILL AS VISION the last bequest of
this serene sleep had been a dream, in which, as once before, he
overheard those he loved best pronouncing his name very pleasantly,
as they passed through the rich light and shadow of a summer morning,
along the pavement of a city Ah ! fairer far than Rome ! In a
moment, as he arose, a certain oppression of late setting very heavily
upon him was lifted away, as though by some physical motion in the
air. That flawless serenity, better than the most pleasurable
excitement, yet so easily ruffled by chance collision even with the
things and persons he had come to value as the greatest treasure in
life, was to be wholly his to-day, he thought, as he rode towards Tibur,
under the early sunshine ; the marble of its villas glistening all the
way before him on the hillside. And why could he not hold such
serenity of spirit ever at command ? he asked, expert as he was at last
become in the art of setting the house of his thoughts in order.
" 'Tis in thy power to think as thou wilt : " he repeated to
himself : it was the most serviceable of all the lessons enforced on him
by those imperial conversations. " 'Tis in thy power to think
as thou wilt." And were the cheerful, sociable, restorative beliefs,
of which he had there read so much, that bold adhesion, for
instance, to the hypothesis of an eternal friend to man, just hidden
behind the veil of a mechanical and material order, but only just behind
it, 63 MARIUS THE EPICUREAN ready
perhaps even now to break through : were they, after all, really a matter
of choice, dependent on some deliberate act of volition on his part
? Were they doctrines one might take for granted, generously take for
granted, and led on by them, at first as but well-defined objects
of hope, come at last into the region of a corre- sponding
certitude of the intellect ? " It is the truth I seek," he had
read, " the truth, by which no one," gray and depressing though
it might seem, "was ever really injured." And yet, on the
other hand, the imperial wayfarer, he had been able to go along with so
far on his intel- lectual pilgrimage, let fall many things con-
cerning the practicability of a methodical and self-forced assent to
certain principles or pre- suppositions " one could not do without."
Were there, as the expression " one could not do 'without
" seemed to hint, beliefs, without which life itself must be
almost impossible, principles which had their sufficient ground of
evidence in that very fact? Experience certainly taught that, as
regarding the sensible world he could attend or not, almost at will, to
this or that colour, this or that train of sounds, in the whole
tumultuous concourse of colour and sound, so it was also, for the
well-trained intelligence, in regard to that hum of voices which besiege
the inward no less than the outward ear. Might it be not otherwise
with those various and competing hypotheses, the permissible hypotheses,
which, 64 THE WILL AS VISION in that
open field for hypothesis one's own actual ignorance of the origin and
tendency of our being present themselves so importunately, some of
them with so emphatic a reiteration, through all the mental changes of
successive ages ? Might the will itself be an org an of
knowledge, of vision ? On this day truly no mysterious light,
no irresistibly leading hand from afar reached him ; only the
peculiarly tranquil influence of its first hour increased steadily upon
him, in a manner with which, as he conceived, the aspects of the
place he was then visiting hadsomething to do. The air there, air
supposed to possess the singular property of restoring the whiteness of
ivory, was pure and thin. An even veil of lawn-like white cloud had
now drawn over the sky; and under its broad, shadowless light every hue
and tone of time came out upon the yellow old temples, the elegant
pillared circle of the shrine of the patronal Sibyl, the houses seemingly
of a piece with the ancient fundamental rock. Some half- conscious
motive of poetic grace would appear to have determined their grouping ;
in part resisting, partly going along with the natural wildness and
harshness of the place, its floods and precipices. An air of immense
age possessed, above all, the vegetation around a world of evergreen
trees the olives especially, older than how many generations of men's
lives ! fretted and twisted by the combining forces of p. in
65 F MARIUS THE EPICUREAN life and death,
intoevery conceivable caprice of form. In the windless weather all seemed
to be listening to the roar of the immemorial waterfall, plunging
down so unassociably among these human habitations, and with a motion so
un- changing from age to age as to count, even in this time-worn
place, as an image of unalterable rest. Yet the clear sky all but broke
to let through the ray which was silently quickening everything in
the late February afternoon, and the unseen violet refined itself through
the air. / It was as if the spirit of life in nature were but
withholding any too precipitate revelation of itself, in its slow, wise,
maturing work. Through some accident to the trappings of his
horse at the inn where he rested, Marius had an unexpected delay. He sat
down in an olive- garden, and, all around him and within still
turning to reverie, the course of his own life hitherto seemed to
withdraw itself into some other world, disparted from this spectacular
point where he was now placed to survey it, like that distant road
below, along which he had travelled this morning across the Campagna.
Through a dreamy land he could see himself moving, as if in another
life, and like another person, through all his fortunes and misfortunes,
passing from point to point, weeping, delighted, escaping from
various dangers. That prospect brought him, first of all, an impulse of
lively gratitude : it was as if he must look round for some one
66 THE WILL AS VISION else to share his
joy with : for some one to whom he might tell the thing, for his
own relief. Companionship, indeed, familiarity with others, gifted
in this way or that, or at least pleasant to him, had been, through one
or another long span of it, the chief delight of the journey. And
was it only the resultant general sense of such familiarity, diffused
through his memory, that in a while suggested the question whether
there had not been besides Flavian, besides Cornelius even, and amid the
solitude which in spite of ardent friendship he had perhaps loved
best of all things some other companion, an unfailing companion, ever at
his side throughout ; doubling his pleasure in the roses by the
way, patient of his peevishness or depression, sympathetic above all with
his grate- ful recognition, onward from his earliest days, of the
fact that he was there at all ? Must not the whole world around have
faded away for him altogether, had he been left for one moment
really alone in it f In his deepest apparent solitude there had been rich
entertainment. It was as if there were not one only, but two way-
farers, side by side, visible there across the plain, as he indulged his
fancy. A bird came and sang among the wattled hedge-roses : an animal
feed- ing crept nearer : the child who kept it was gazing quietly :
and the scene and the hours still conspiring, he passed from that mere
fantasy of a self not himself, beside him in his coming and
67 MARIUS THE EPICUREAN going, to those
divinations of a living and com- panionable spirit at work in all things,
of which he had become aware from time to time in his old
philosophic readings in Plato and others, , last but not least, in
Aurelius. Through one reflection upon another, he passed from such
instinctive divinations, to the thoughts which give them logical
consistency, formulating at last, as the necessary exponent of our own
and the world's life, that reasonable Ideal to which the Old
Testament gives the name of Creator, which for the philosophers of Greece
is the Eternal Reason, and in the New Testament the Father of Men
even as one builds up from act and word and expression of the friend
actually visible at one's side, an ideal of the spirit within
him. In this peculiar and privileged hour, his bodily frame,
as he could recognise, although just then, in the whole sum of its
capacities, so entirely possessed by him Nay ! actually his very
self was yet determined by a far-reaching system of material forces
external to it, a thousand combining currents from earth and sky.
Its seemingly active powers of appre- hension were, in fact, but
susceptibilities to , influence. The perfection of its capacity
might be said to depend on its passive surrender, as of a leaf on
the wind, to the motions of the great stream of physical energy without it.
And might not the intellectual frame also, still 68
THE WILL AS VISION more intimately himself as in truth it
was, after the analogy of the bodily life, be a moment only, an
impulse or series of impulses, a single process, in an intellectual or
spiritual system external to it, diffused through all time and place
that great stream of spiritual energy, of which his own imperfect
thoughts, yesterday or to-day, would be but the remote, and therefore
im- perfect pulsations ? It was the hypothesis (boldest, though in
reality the most conceivable of all hypotheses) which had dawned on
the contemplations of the two opposed great masters of the old
Greek thought, alike: the "World of Ideas," existent only
because, and in so far as, they are known, as Plato conceived ; the
" creative, incorruptible, informing mind, " sup- posed by
Aristotle, so sober-minded, yet as regards this matter left something of
a mystic after all. Might not this entire material world," the
very scene around him, the immemorial rocks, the firm marble, the
olive-gardens, the falling water, be themselves but reflections in,
or a creation of, that one indefectible mind, wherein he too became
conscious, for an hour, a day, for so many years ? Upon what other
hypothesis could he so well understand the persistency of all these
things for his own intermittent consciousness of them, for the
intermittent consciousness of so many generations, fleeting away one
after another ? It was easier to conceive of the material fabric of
things as 69 MARIUS THE EPICUREAN
but an element in a world of thought as a thought in a mind, than
of mind as an element, or accident, or passing condition in a world
of matter, because mind was really nearer to him- self : it was an
explanation of what was less known by what was known better. The
purely material world, that close, impassable prison- wall, seemed
just then the unreal thing, to be actually dissolving away all around him
: and he felt a quiet hope, a quiet joy dawning faintly, in the
dawning of this doctrine upon him as a really credible opinion. It was
like the break of day over some vast prospect with the " new
city," as it were some celestial New Rome, in the midst of it. That
divine companion figured no longer as but an occasional wayfarer
beside him ; but rather as the unfailing " assist- ant,"
without whose inspiration and concurrence he could not breathe or see,
instrumenting his bodily senses, rounding, supporting his imperfect
thoughts. How often had the thought of their brevity spoiled for him the
most natural pleasures of life, confusing even his present sense of
them by the suggestion of disease, of death, of a coming end, in
everything ! How had he longed, sometimes, that there were indeed
one to whose boundless power of memory he could commit his own most
fortunate moments, his admiration, his love, Ay ! the very sorrows
of which he could not bear quite to lose the sense : one strong to retain
them even though THE WILL AS VISION he forgot,
in whose more vigorous consciousness they might subsist for ever, beyond
that mere quickening of capacity which was all that remained of
them in himself ! " Oh ! that they might live before Thee "
To-day at least, in the peculiar clearness of one privileged hour,
he seemed to have apprehended that in which the experiences he valued
most might find, one by one, an abiding-place. And again, the
result- ant sense of companionship, of a person beside him, evoked
the faculty of conscience of conscience, as of old and when he had
been at his best, in the form, not of fear, nor of ] self-reproach
even, but of a certain lively gratitude. Himself his
sensations and ideas never fell again precisely into focus as on that
day, | yet he was the richer by its experience. But for once only
to have come under the power of that peculiar mood, to have felt the
train of reflections which belong to it really forcible and
conclusive, to have been led by them to a conclusion, to have apprehended
the Great \ Ideal) so palpably that it defined personal * gratitude
and the sense of a friendly hand laid upon him amid the shadows of the
world, left this one particular hour a marked point in life never
to be forgotten. It gave him a definitely ascertained measure of his moral
or intellectual need, of the demand his soul must make upon the
powers, whatsoever they might be, which MARIUS THE
EPICUREAN had brought him, as he was, into the world at all.
And again, would he be faithful to himself, to his own habits of mind,
his leading suppositions, if he did but remain just there ? Must
not all that remained of life be but a search for the equivalent of that
Ideal, among so-called actual things a gathering together of every
trace or token of it, which his actual experience might present ?
72 PART THE FOURTH 73
CHAPTER XX TWO CURIOUS HOUSES I.
GUESTS " Your old men shall dream dreams." A
NATURE like that of Marius, composed, in about equal parts, of instincts
almost physical, and of slowly accumulated intellectual judg-
ments, was perhaps even less susceptible than other men's characters of
essential change. And yet the experience of that fortunate hour,
seeming to gather into one central act of vision ; all the deeper
impressions his mind had ever, received, did not leave him quite as he
had been. For his mental view, at least, it changed measurably the
world about him, of which he was still indeed a curious spectator, but
which looked further off, was weaker in its hold, and, in a sense,
less real to him than ever. It was as if he viewed it through a
diminishing glass. And the permanency of this change he could note,
some years later, when it 75 MARIUS THE
EPICUREAN happened that he was a guest at a feast, in which the
various exciting elements of Roman life, its physical and intellectual
accomplish- ments, its frivolity and far-fetched elegances, its
strange, mystic essays after the unseen, were elaborately combined. The
great Apuleius> the literary ideal of his boyhood, had arrived
in Rome, was now visiting Tusculum, at the house of their common friend,
a certain aristo- cratic poet who loved every sort of superiorities
; and Marius was favoured with an invitation to a supper given in
his honour. It was with a feeling of half-humorous concession
to his own early boyish hero-worship, yet with some sense of superiority
in himself, seeing his old curiosity grown now almost to
indifference when on the point of satisfaction at last, and upon a juster
estimate of its object, that he mounted to the little town on the
hillside, the foot -ways of which were so many flights of
easy-going steps gathered round a single great house under shadow of the
"haunted" ruins of Cicero's villa on the wooded heights.
He found a touch of weirdness in the cir- cumstance that in so romantic a
place he had been bidden to meet the writer who was come to seem
almost like one of the personages in his own fiction. As he turned now
and then to gaze at the evening scene through the tall narrow
openings of the street, up which the cattle were going home slowly from
the 76 TWO CURIOUS HOUSES pastures
below, the Alban mountains, stretched between the great walls of the
ancient houses, seemed close at hand a screen of vaporous dun
purple against the setting sun with those waves of surpassing softness in
the boundary lines which indicate volcanic formation. The cool-
ness of the little brown market-place, for profit of which even the working-people,
in long file through the olive- gardens, were leaving the plain for
the night, was grateful, after the heats of Rome. Those wild country
figures, clad in every kind of fantastic patchwork, stained by wind
and weather fortunately enough for the eye, under that significant light
inclined him to poetry. And it was a very delicate poetry of its
kind that seemed to enfold him, \ as passing into the poet's house he
paused for; a moment to glance back towards the heights above ;
whereupon, the numerous cascades of the precipitous garden of the villa,
framed in the doorway of the hall, fell into a harmless picture, in
its place among the pictures within, and scarcely more real than they a
landscape- piece, in which the power of water (plunging into what
unseen depths !) done to the life, was pleasant, and without its natural
terrors. At the further end of this bland apartment, fragrant
with the rare woods of the old inlaid panelling, the falling of aromatic
oil from the ready-lighted lamps, the iris-root clinging to the
dresses of the guests, as with odours from the 77
MARIUS THE EPICUREAN altars of the gods, the supper-table was
spread, in all the daintiness characteristic of the agree- able
petit-maitrC) who entertained. He was already most carefully dressed,
but, like Martial's Stella, perhaps consciously, meant to change
his attire once and again during the banquet ; in the last
instance, for an ancient vesture (object of much rivalry among the young
men of fashion, at that great sale of the imperial wardrobes) a
toga, of altogether lost hue and texture. He wore it with a grace which
became the leader of a thrilling movement then on foot for the
restora- tion of that disused garment, in which, laying aside the
customary evening dress, all the visitors were requested to appear,
setting off the delicate sinuosities and well-disposed " golden
ways" of its folds, with harmoniously tinted flowers. The
opulent sunset, blending pleasan tly with artificial light, fell
across the quiet ancestral effigies of old consular dignitaries, along
the wide floor strewn with sawdust of sandal -wood, and lost itself
in the heap of cool coronals, lying ready for the foreheads of the guests
on a sideboard of old citron. The crystal vessels darkened with old
wine, the hues of the early autumn fruit mulberries, pomegranates, and
grapes that had long been hanging under careful protection upon the
vines, were almost as much a feast for the eye, as the dusky fires of the
rare twelve-petalled roses. A favourite animal, white as snow,
brought by one of the visitors, purred its way 78
TWO CURIOUS HOUSES gracefully among the wine-cups, coaxed
onward from place to place by those at table, as they reclined
easily on their cushions of German eider-down, spread over the
long-legged, carved couches. A highly refined modification of
the acroama a musical performance during supper for the diversion
of the guests was presently heard hovering round the place, soothingly,
and so unobtrusively that the company could not guess, and did not
like to ask, whether or not it had been designed by their entertainer.
They inclined on the whole to think it some wonderful peasant-
music peculiar to that wild neighbourhood, turn- ing, as it did now and
then, to a solitary reed- note, like a bird's, while it wandered into
the distance. It wandered quite away at last, as darkness with a
bolder lamplight came on, and made way for another sort of
entertainment. An odd, rapid, phantasmal glitter, advancing from
the garden by torchlight, defined itself, as it came nearer, into a dance
of young men in armour. Arrived at length in a portico, open to the
supper-chamber, they contrived that their mechanical march-movement
should fall out into a kind of highly expressive dramatic action ;
and with the utmost possible emphasis of dumb motion, their long
swords weaving a silvery network in the air, they danced the Death
of Paris. The young Commodus, already an adept in these matters,
who had condescended to 79 MARIUS THE
EPICUREAN welcome the eminent Apuleius at the banquet, had
mysteriously dropped from his place to take his share in the performance
; and at its con- clusion reappeared, still wearing the dainty
accoutrements of Paris, including a breastplate, composed entirely of
overlapping tigers' claws, skilfully gilt. The youthful prince had
lately assumed the dress of manhood, on the return of the emperor
for a brief visit from the North ; putting up his hair, in imitation of
Nero, in a golden box dedicated to Capitoline Jupiter. His likeness
to Aurelius, his father, was become, in consequence, more striking than
ever ; and he had one source of genuine interest in the great
literary guest of the occasion, in that the latter was the fortunate
possessor of a monopoly for the exhibition of wild beasts and
gladiatorial shows in the province of Carthage, where he resided.
Still, after all complaisance to the perhaps somewhat crude tastes
of the emperor's son, it was felt that with a guest like Apuleius
whom they had come prepared to entertain as veritable connoisseurs,
the conversation should be learned and superior, and the host at last
deftly led his company round to literature, by the way of bind-
ings. Elegant rolls of manuscript from his fine library of ancient Greek
books passed from hand to hand about the table. It was a sign for
the visitors themselves to draw their own choicest literary
curiosities from their bags, as their con- tribution to the banquet ; and
one of them, a 80 TWO CURIOUS HOUSES
famous reader, choosing his lucky moment, delivered in tenor voice
the piece which follows, with a preliminary query as to whether it
could indeed be the composition of Lucian of Samosata, understood
to be the great mocker of that day : " What sound was
that, Socrates ? " asked Chaerephon. " It came from the beach
under the cliff yonder, and seemed a long way off. And how
melodious it was ! Was it a bird, I wonder. I thought all sea-birds were
songless." "Aye! a sea-bird," answered Socrates,
"a bird called the Halcyon, and has a note full of plaining
and tears. There is an old story people tell of it. It was a mortal woman
once, daughter of ^Eolus, god of the winds. Ceyx, the son of the
morning-star, wedded her in her early maidenhood. The son was not less
fair than the father; and when it came to pass that he died, the
crying of the girl as she lamented his sweet usage, was, Just that ! And
some while after, as Heaven willed, she was changed into a bird.
Floating now on bird's wings over the sea she seeks her lost Ceyx there ;
since she was not able to find him after long wandering over the
land." " That then is the Halcyon the kingfisher,"
said Chaerephon. " I never heard a bird like it before. It has truly
a plaintive note. What kind of a bird is it, Socrates f "
" Not a large bird, though she has received p. in 81
G MARIUS THE EPICUREAN large honour from the
gods on account of her singular conjugal affection. For whensoever she
makes her nest, a law of nature brings round what is called Halcyon's
weather, days distinguish- able among all others for their serenity,
though they come sometimes amid the storms of winter days like
to-day ! See how transparent is the sky above us, and how motionless the
sea ! like a smooth mirror." " True ! A Halcyon
day, indeed ! and yester- day was the same. But tell me, Socrates,
what is one to think of those stories which have been told from the
beginning, of birds changed into mortals and mortals into birds ? To me
nothing seems more incredible." "Dear
Chaerephon," said Socrates, "methinks we are but half-blind
judges of the impossible and the possible. We try the question by the
standard of our human faculty, which avails neither for true knowledge,
nor for faith, nor vision. Therefore many things seem to us
impossible which are really easy, many things unattainable which are
within our reach ; partly through inexperience, partly through the child-
ishness of our minds. For in truth, every man, even the oldest of us, is
like a little child, so brief and babyish are the years of our life
in comparison of eternity. Then, how can we, who comprehend not the
faculties of gods and of the heavenly host, tell whether aught of that
kind be possible or no f What a tempest you saw 82
TWO CURIOUS HOUSES three days ago ! One trembles but
to think of the lightning, the thunderclaps, the violence of the
wind ! You might have thought the whole world was going to ruin. And
then, after a little, came this wonderful serenity of weather,
which has continued till to-day. Which do you think the greater and more
difficult thing to do : to exchange the disorder of that
irresistible whirlwind to a clarity like this, and becalm the whole
world again, or to refashion the form of a woman into that of a bird ? We
can teach even little children to do something of that sort, to
take wax or clay, and mould out of the same material many kinds of form,
one after another, without difficulty. And it may be that to the
Deity, whose power is too vast for comparison with ours, all processes of
that kind are manage- able and easy. How much wider is the whole
circle of heaven than thyself? Wider than thou canst express.
"Among ourselves also, how vast the differ- ence we may
observe in men's degrees of power ! To you and me, and many another
like us, many things are impossible which are quite easy to others. For
those who are un- musical, to play on the flute ; to read or write,
for those who have not yet learned ; is no easier than to make birds of
women, or women of birds. From the dumb and lifeless egg Nature
moulds her swarms of winged creatures, aided, as some will have it, by a
divine and secret 83 MARIUS THE EPICUREAN
art in the wide air around us. She takes from the honeycomb a
little memberless live thing ; she brings it wings and feet, brightens
and beautifies it with quaint variety of colour : and Lo ! the bee
in her wisdom, making honey worthy of the gods. "It
follows, that we mortals, being alto- gether of little account, able
wholly to discern no great matter, sometimes not even a little one,
for the most part at a loss regarding what happens even with ourselves,
may hardly speak with security as to what may be the powers of the
immortal gods concerning Kingfisher, or Nightingale. Yet the glory of thy
mythus, as my fathers bequeathed it to me, O tearful songstress !
that will I too hand on to my children, and tell it often to my
wives, Xanthippe and Myrto : the story of thy pious love to Ceyx,
and of thy melodious hymns ; and, above all, of the honour thou hast
with the gods ! " The reader's well-turned periods
seemed to stimulate, almost uncontrollably, the eloquent stirrings
of the eminent man of letters then present. The impulse to speak
masterfully was visible, before the recital was well over, in the
moving lines about his mouth, by no means designed, as detractors were
wont to say, simply to display the beauty of his teeth. One of the
company, expert in his humours, made ready to transcribe what he would
say, the sort of 84 TWO CURIOUS HOUSES
things of which a collection was then forming, the " Florida "
or Flowers, so to call them, he was apt to let fall by the way no
impromptu ventures at random ; but rather elaborate, carved
ivories of speech, drawn, at length, out of the rich treasure-house of a
memory stored with such, and as with a fine savour of old musk
about them. Certainly in this case, as Marius thought, it was worth while
to hear a charming writer speak. Discussing, quite in our modern
way, the peculiarities of those sub- urban views, especially the
sea-views, of which he was a professed lover, he was also every inch
a priest of Aesculapius, patronal god of Carthage. There was a piquancy
in his rococo^ very African, and as it were perfumed person- ality,
though he was now well-nigh sixty years old, a mixture there of that sort
of Platonic spiritualism which can speak of the soul of man as but
a sojourner in the prison of the body a blending of that with such a
relish for merely bodily graces as availed to set the fashion in
matters of dress, deportment, accent, and the like, nay ! with something
also which reminded Marius of the vein of coarseness he had found
in the "Golden Book/' All this made the total impression he conveyed
a very uncommon one. Marius did not wonder, as he watched him
speaking, that people freely attributed to him many of the marvellous
adven- tures he had recounted in that famous romance,
85 MARIUS THE EPICUREAN over and above the
wildest version of his own actual story his extraordinary marriage,
his religious initiations, his acts of mad generosity, his trial as
a sorcerer. But a sign came from the imperial prince that it
was time for the company to separate. He was entertaining his immediate
neighbours at the table with a trick from the streets ; tossing his
olives in rapid succession into the air, and catching them, as they fell,
between his lips. His dexterity in this performance made the mirth
around him noisy, disturbing the sleep of the furry visitor : the learned
party broke up ; and Marius withdrew, glad to escape into the open
air. The courtesans in their large wigs of false blond hair, were lurking
for the guests, with groups of curious idlers. A great con-
flagration was visible in the distance. Was it in Rome ; or in one of the
villages of the country ? Pausing for a few minutes on the terrace to
watch it, Marius was for the first time able to converse intimately with
Apuleius ; and in this moment of confidence the " illuminist,"
himself with locks so carefully arranged, and seemingly so full of
affectations, almost like one of those light women there, dropped a veil
as it were, and appeared, though still permitting the play of a
certain element of theatrical interest in hi s bizarre tenets, to be
ready to explain and defend his position reasonably. For a moment
his fantastic foppishness and his pretensions to ideal
86 TWO CURIOUS HOUSES vision seemed to
fall into some intelligible con- gruity with each other. In truth, it was
the Platonic Idealism, as he conceived it, which for him literally
animated, and gave him so livelyan interest in, this world of the purely
outward aspects of men and things. Did material things, such things
as they had had around them all that evening, really need apology for
being there, to interest one, at all ? Were not all visible objects
the whole material world indeed, according to the consistent testimony of
philosophy in many forms "full of souls"? embarrassed
perhaps, partly imprisoned, but still eloquent souls ? Certainly,
the contemplative philosophy of Plato, with its figurative imagery and
apologue, its mani- fold aesthetic colouring, its measured
eloquence, its music for the outward ear, had been, like Plato's
old master himself, a two-sided or two- coloured thing. Apuleius was a
Platonist : only, for him, the Ideas of Plato were no creatures of
logical abstraction, but in very truth informing souls, in every type and
variety of sensible things. Those noises in the house all supper-
time, sounding through the tables and along the walls : were they only
startings in the old rafters, at the impact of the music and laughter
; or rather importunities of the secondary selves, the true unseen
selves, of the persons, nay ! of the very things around, essaying to
break through their frivolous, merely transitory surfaces, to
remind one of abiding essentials beyond them, 87
MARIUS THE EPICUREAN which might have their say, their
judgment to give, by and by, when the shifting of the meats and
drinks at life's table would be over ? And was not this the true
significance of the Platonic doctrine ? a hierarchy of divine beings,
associ- ating themselves with particular things and places, for the
purpose of mediating between God and man man, who does but need due
attention on his part to become aware of his celestial company, filling
the air about him, thick as motes in the sunbeam, for the glance of
sympathetic intelligence he casts through it. " Two kinds
there are, of animated beings," he exclaimed : " Gods, entirely
differing from men in the infinite distance of their abode, since
one part of them only is seen by our blunted vision those mysterious
stars! in the eternity of their existence, in the perfection of
their nature, infected by no contact with ourselves : and men,
dwelling on the earth, with frivolous and anxious minds, with infirm and
mortal members, with variable fortunes ; labouring in vain ; taken
altogether and in their whole species perhaps, eternal ; but, severally,
quitting the scene in irresistible succession. " What
then ? Has nature connected itself together by no bond, allowed itself to
be thus crippled, and split into the divine and human elements ?
And you will say to me : If so it be, that man is thus entirely exiled
from the immortal gods, that all communication is denied
88 TWO CURIOUS HOUSES him, that not one of
them occasionally visits us, as a shepherd his sheep to whom shall I
address my prayers ? Whom, shall I invoke as the helper of the
unfortunate, the protector of the good ? " Well ! there
are certain divine powers of a middle nature, through whom our
aspirations are conveyed to the gods, and theirs to us. Passing
between the inhabitants of earth and heaven, they carry from one to the
other prayers and bounties, supplication and assistance, being a
kind of interpreters. This interval of the air is full of them ! Through
them, all revelations, miracles, magic processes, are effected.
For, specially appointed members of this order have their special
provinces, with a ministry according to the disposition of each. They go
to and fro without fixed habitation : or dwell in men's houses
" Just then a companion's hand laid in the dark- ness on
the shoulder of the speaker carried him away, and the discourse broke off
suddenly. Its singular intimations, however, were sufficient to
throw back on this strange evening, in all its detail the dance, the
readings, the distant fire a kind of allegoric expression : gave it
the character of one of those famous Platonic figures or apologues
which had then been in fact under discussion. When Marius recalled its
circum- stances he seemed to hear once more that voice of genuine
conviction, pleading, from amidst a 89 MARIUS
THE EPICUREAN scene at best of elegant frivolity, for so
boldly mystical a view of man and his position in the world. For a
moment, but only for a moment, as he listened, the trees had seemed, as
of old, to be growing " close against the sky." Yes ! the
reception of theory, of hypothesis, of beliefs, did depend a great deal
on temperament. They were, so to speak, mere equivalents of
tempera- ment. A celestial ladder, a ladder from heaven to earth:
that was the assumption which the experience of Apuleius had suggested to
him : it was what, in different forms, certain persons in every age
had instinctively supposed : they would be glad to find their supposition
accredited by the authority of a grave philosophy. Marius, however,
yearning not less than they, in that hard world of Rome, and below its
unpeopled sky, for the trace of some celestial wing across it, must
still object that they assumed the thing with too much facility, too much
of self-com- placency. And his second thought was, that to indulge
but for an hour fantasies, fantastic visions of that sort, only left the
actual world more lonely than ever. For him certainly, and for his
solace, the little godship for whom the rude countryman, an unconscious
Platonist, trimmed his twinkling lamp, would never slip from the
bark of these immemorial olive-trees. No ! not even in the wildest
moonlight. For himself, it was clear, he must still hold by what his
eyes really saw. Only, he had to concede also, that 90
TWO CURIOUS HOUSES the very boldness of such theory
bore witness, at least, to a variety of human disposition and a
consequent variety of mental view, which might who can tell ? be
correspondent to, be defined by and define, varieties of facts, of
truths, just " behind the veil," regarding the world all
alike had actually before them as their original premiss or
starting-point ; a world, wider, perhaps, in its possibilities than all
possible fancies concern- ing it. CHAPTER XXI
TWO CURIOUS HOUSES II. THE CHURCH IN CECILIA'S
HOUSE " Your old men shall dream dreams, and your young men
shall see visions." CORNELIUS had certain friends in or
near Rome, whose household, to Marius, as he pondered now and again
what might be the determining influ- ences of that peculiar character,
presented itself as possibly its main secret the hidden source from
which the beauty and strength of a nature, so persistently fresh in the
midst of a somewhat jaded world, might be derived. But Marius had
never yet seen these friends; and it was almost by accident that the veil
of reserve was at last lifted, and, with strange contrast to his visit
to the poet's villa at Tusculum, he entered another curious
house. "The house in which she lives," says that
mystical German writer quoted once before, " is for the orderly
soul, which does not live on 92 TWO CURIOUS
HOUSES blindly before her, but is ever, out of her passing
experiences, building and adorning the parts of a many-roomed abode for
herself, only an expansion of the body ; as the body, according to
the philosophy of Swedenborg, is but a process, an expansion, of
the soul. For such an orderly soul, as life proceeds, all sorts of
delicate affinities establish themselves, between herself and the
doors and passage-ways, the lights and shadows, of her outward dwelling-place,
until she may seem incorporate with it until at last, in the entire
expressiveness of what is outward, there is for her, to speak properly,
between outward and inward, no longer any distinction at all ; and
the light which creeps at a particular hour on a particular picture or
space upon the wall, the scent of flowers in the air at a particular
window, become to her, not so much apprehended objects, as
themselves powers of apprehension and door- ways to things beyond the
germ or rudiment of certain new faculties, by which she, dimly yet
surely, apprehends a matter lying beyond her actually attained capacities
of spirit and sense." So it must needs be in a world which is
itself, we may think, together with that bodily " tent "
or " tabernacle," only one of many vestures for the clothing of
the pilgrim soul, to be left by her, surely, as if on the wayside,
worn-out one by one, as it was from her, indeed, they borrowed what
momentary value or significance they had. 93
MARIUS THE EPICUREAN The two friends were returning to
Rome from a visit to a country-house, where again a mixed company
of guests had been assembled ; Marius, for his part, a little weary of
gossip, and those sparks of ill-tempered rivalry, which would seem
sometimes to be the only sort of fire the intercourse of people in
general society can strike out of them. A mere reaction upon this, as
they started in the clear morning, made their com- panionship, at
least for one of them, hardly less tranquillising than the solitude he so
much valued. Something in the south-west wind, combining with their
own intention, favoured increasingly, as the hours wore on, a serenity
like that Marius had felt once before in journeying over the great
plain towards Tibur a serenity that was to-day brotherly amity also, and
seemed to draw into its own charmed circle whatever was then
present to eye or ear, while they talked or were silent together, and all
petty irritations, and the like, shrank out of existence, or kept
certainly beyond its limits. The natural fatigue of the long journey
overcame them quite suddenly at last, when they were still about
two miles distant from Rome. The seemingly end- less line of tombs
and cypresses had been visible for hours against the sky towards the west
; and it was just where a cross-road from the Latin Way fell into
the Appian, that Cornelius halted at a doorway in a long, low wall the
outer wall of some villa courtyard, it might be supposed
94 TWO CURIOUS HOUSES as if at liberty to
enter, and rest there awhile. He held the door open for his companion
to enter also, if he would ; with an expression, as he lifted the
latch, which seemed to ask Marius, apparently shrinking from a possible
intrusion : " Would you like to see it ? " Was he willing
to look upon that, the seeing of which might define yes ! define the
critical turning-point in his days ? The little doorway in
this long, low wall admitted them, in fact, into the court or
garden of a villa, disposed in one of those abrupt natural hollows,
which give its character to the country in this place ; the house itself,
with all its dependent buildings, the spaciousness of which
surprised Marius as he entered, being thus wholly concealed from passengers
along the road. All around, in those well-ordered precincts, were
the quiet signs of wealth, and of a noble taste a taste, indeed, chiefly
evidenced in the selection and juxtaposition of the material it had to
deal with, consisting almost exclusively of the remains of older
art, here arranged and harmonised, with effects, both as regards colour
and form, so delicate as to seem really derivative from some finer
intelligence in these matters than lay within the resources of the
ancient world. It was the \ old way of true Renaissance being indeed
the way of nature with her roses, the divine way with the body of
man, perhaps with his soul conceiving the new organism by no sudden
and 95 MARIUS THE EPICUREAN I abrupt
creation, but rather by the action of a new I principle upon elements,
all of which had in truth already lived and died many times. The
fragments of older architecture, the mosaics, the spiral columns, the
precious corner-stones of im- memorial building, had put on, by such
juxta- position, a new and singular expressiveness, an air of grave
thought, of an intellectual purpose, in itself, aesthetically, very
seductive. Lastly, herb and tree had taken possession, spreading
their seed-bells and light branches, just astir in the trembling air, above
the ancient garden-wall, against the wide realms of sunset. And
from the first they could hear singing, the singing of children
mainly, it would seem, and of a new kind ; so novel indeed in its effect,
as to bring suddenly to the recollection of Marius, Flavian's early
essays towards a new world of poetic sound. It was the expression not
altogether of mirth, yet of some wonderful sort of happiness the
blithe self-expansion of a joyful soul in people upon whom some all-subduing
experience had wrought heroically, and who still remembered, on
this bland afternoon, the hour of a great deliverance. His old
native susceptibility to the spirit, the special sympathies, of places,
above all, to any hieratic or religious significance they might have,
was at its liveliest, as Marius, still encompassed by that peculiar
singing, and still amid the evidences of a grave discretion all around
him, passed into the house. That intelligent serious-
96 TWO CURIOUS HOUSES ness about life, the
absence of which had ever seemed to remove those who lacked it into
some strange species wholly alien from himself, ac- cumulating all
the lessons of his experience since those first days at White-nights, was
as it were translated here, as if in designed congruity with his
favourite precepts of the power of physical vision, into an actual
picture. If the true value of souls is in proportion to what they can
admire, Marius was just then an acceptable soul. As he passed
through the various chambers, great and small, one dominant thought
increased upon him, the thought of chaste women and their children
of all the various affections of family life under its most natural
conditions, yet developed, as if in devout imitation of some sublime new
type of it, into large controlling passions. There reigned
throughout, an order and purity, an orderly dis- position, as if by way
of making ready for some gracious spousals. The place itself was like
a bride adorned for her husband ; and its singular cheerfulness,
the abundant light everywhere, the sense of peaceful industry, of which
he received a deep impression though without precisely reckoning
wherein it resided, as he moved on rapidly, were in forcible contrast
just at first to the place to which he was next conducted by
Cornelius still with a sort of eager, hurried, half- troubled reluctance,
and as if he forbore the explanation which might well be looked for
by his companion. P. in 97 H MARIUS THE
EPICUREAN An old flower-garden in the rear of the house, set
here and there with a venerable olive-tree a picture in pensive shade and
fiery blossom, as transparent, under that afternoon light, as the
old miniature-painters' work on the walls of the chambers within was
bounded towards the west by a low, grass-grown hill. A narrow
opening cut in its steep side, like a solid black- ness there, admitted
Marius and his gleaming leader into a hollow cavern or crypt,
neither more nor less in fact than the family burial- place of the
Cecilii, to whom this residence belonged, brought thus, after an
arrangement then becoming not unusual, into immediate connexion
with the abode of the living, in bold assertion of that instinct of
family life, which the sanction of the Holy Family was, hereafter,
more and more to reinforce. Here, in truth, was the centre of the
peculiar religious expres- siveness, of the sanctity, of the entire
scene. That "any person may, at his own election, constitute
the place which belongs to him a religious place, by the carrying of his
dead into it": had been a maxim of old Roman law, which it was
reserved for the early Christian societies, like that established here by
the piety of a wealthy Roman matron, to realise in all its
consequences. Yet this was certainly unlike any cemetery Marius had ever
before seen ; most obviously in this, that these people had
returned to the older fashion of disposing of 98
TWO CURIOUS HOUSES their dead by burial instead of burning.
Origin- ally a family sepulchre, it was growing to a vast
necropolis^ a whole township of the deceased, by means of some free
expansion of the family interest beyond its amplest natural limits.
That air of venerable beauty which characterised the house and its
precincts above, was maintained also here. It was certainly with a great
outlay of labour that these long, apparently endless, yet
elaborately designed galleries, were increasing so rapidly, with their
layers of beds or berths, one above another, cut, on either side the path-
way, in the porous tufa^ through which all the moisture filters
downwards, leaving the parts above dry and wholesome. All alike were
care- fully closed, and with all the delicate costliness at command
; some with simple tiles of baked clay, many with slabs of marble,
enriched by fair inscriptions : marble taken, in some cases, from
older pagan tombs the inscription some- times a palimpsest^ the new
epitaph being woven into the faded letters of an earlier one.
As in an ordinary Roman cemetery, an abundance of utensils for the
worship or com memoration of the
departed was disposed around incense, lights, flowers, their flame or
their freshness being relieved to the utmost by contrast with the
coal-like blackness of the soil itself, a volcanic sandstone, cinder of
burnt- out fires. Would they ever kindle again ? possess,
transform, the place ? Turning to an 99 MARIUS
THE EPICUREAN ashen pallor where, at regular intervals, an
air-hole or luminare let in a hard beam of clear but sunless light, with
the heavy sleepers, row upon row within, leaving a passage so
narrow that only one visitor at a time could move along, cheek to
cheek with them, the high walls seemed to shut one in into the
great company of the dead. Only the long straight pathway lay
before him ; opening, however, here and there, into a small chamber,
around a broad, table-like coffin or " altar-tomb,"
adorned even more profusely than the rest as if for some
anniversary observance. Clearly, these people, concurring in this with
the special sympathies of Marius himself, had adopted the practice
of burial from some peculiar feeling of hope they entertained
concerning the body ; a feeling which, in no irreverent curiosity, he
would fain have penetrated. The complete and irreparable
disappearance of the dead in the funeral fire, so crushing to the
spirits, as he for one had found it, had long since induced in him a
preference for that other mode of settlement to the last sleep, as
having something about it more home- like and hopeful, at least in
outward seeming. But whence the strange confidence that these
"handfuls of white dust" would hereafter re- compose themselves
once more into exulting human creatures ? By what heavenly alchemy,
what reviving dew from above, such as was certainly never again to reach
the dead violets ? 100 TWO CURIOUS HOUSES
Januarius, Agapetus^ Felicitas ; Martyrs ! refresh, I pray you, the
soul of Cecil, of Cornelius ! said an inscription, one of many,
scratched, like a passing sigh, when it was still fresh in the
mortar that had closed up the prison-door. All critical estimate of this
bold hope, as sincere apparently as it was audacious in its claim,
being set aside, here at least, carried further than ever before, was
that pious, systematic commemoration of the dead, which, in its
chivalrous refusal to forget or finally desert the helpless, had ever
counted with Marius as the central exponent or symbol of all natural
duty. The stern soul of the excellent Jonathan Edwards,
applying the faulty theology of John Calvin, afforded him, we know, the
vision of infants not a span long, on the floor of hell. Every
visitor to the Catacombs must have observed, in a very different theological
con- nexion, the numerous children's graves there beds of infants,
but a span long indeed, lowly "prisoners of hope," on these
sacred floors. It was with great curiosity, certainly, that Marius
considered them, decked in some in- stances with the favourite toys of
their tiny occupants toy-soldiers, little chariot-wheels, the
entire paraphernalia of a baby-house ; and when he saw afterwards the
living children, who sang and were busy above sang their psalm
Laudate Pueri Dominumf their very faces caught for him a sort of
quaint unreality from the memory 101 MARIUS THE
EPICUREAN of those others, the children of the Catacombs, but
a little way below them. Here and there, mingling with the
record of merely natural decease, and sometimes even at these
children's graves, were the signs of violent death or "
martyrdom," proofs that some " had loved not their lives unto
the death " in the little red phial of blood, the palm-branch,
the red flowers for their heavenly " birthday." About one
sepulchre in particular, distinguished in this way, and devoutly
arrayed for what, by a bold paradox, was thus treated as, natalitia
a birthday, the peculiar arrangements of the whole place visibly
centered. And it was with a singular novelty of feeling, like the dawn-
ing of a fresh order of experiences upon him, that, standing beside those
mournful relics, snatched in haste from the common place of
execution not many years before, Marius be- came, as by some gleam of
foresight, aware of the whole force of evidence for a certain
strange, new hope, defining in its turn some new and weighty motive of
action, which lay in deaths so tragic for the " Christian
superstition." Something of them he had heard indeed already.
They had seemed to him but one savagery the more, savagery self-
provoked, in a cruel and stupid world. And yet these poignant
memorials seemed also to draw him onwards to-day, as if towards an
image of some still more pathetic suffering, 102
TWO CURIOUS HOUSES in the remote background. Yes ! the
interest, the expression, of the entire neighbourhood was instinct
with it, as with the savour of some priceless incense. Penetrating the
whole atmosphere, touching everything around with its peculiar
sentiment, it seemed to make all this visible mortality, death's very
self Ah ! lovelier than any fable of old mythology had ever thought
to render it, in the utmost limits i of fantasy ; and this, in simple
candour of feeling about a supposed fact. Peace! Pax! Pax tecuml
the word, the thought was put forth everywhere, with images of hope,
snatched sometimes from that jaded pagan world which had really
afforded men so little of it from first to last ; the various consoling
images it had thrown off, of succour, of regeneration, of escape
from the grave Hercules wrestling with Death for possession of Alcestis,
Orpheus taming the wild beasts, the Shepherd with his sheep, the
Shepherd carrying the sick lamb upon his shoulders. Yet these imageries
after all, it must be confessed, formed but a slight contribution
to the dominant effect of tranquil hope there a kind of heroic
cheerfulness and grateful ex- i pansion of heart, as with the sense,
again, of some real deliverance, which seemed to deepen the longer
one lingered through these strange and awful passages. A figure, partly
pagan in character, yet most frequently repeated of all these
visible parables the figure of one just 103
MARIUS THE EPICUREAN escaped from the sea, still clinging as
for life to the shore in surprised joy, together with the
inscription beneath it, seemed best to express the prevailing sentiment
of the place. And it was just as he had puzzled out this
inscription / went down to the bottom of the mountains. The
earth with her bars was about me for ever : Yet hast Thou brought up my
life from corruption ! that with no feeling of suddenness or
change Marius found himself emerging again, like a later mystic
traveller through similar dark places " quieted by hope," into
the daylight. They were still within the precincts of the
house, still in possession of that wonderful sing- ing, although almost
in the open country, with a great view of the Campagna before them,
and the hills beyond. The orchard or meadow, through which their
path lay, was already gray with twilight, though the western sky,
where the greater stars were visible, was still afloat in crimson
splendour. The colour of all earthly things seemed repressed by the
contrast, yet with a sense of great richness lingering in their
shadows. At that moment the voice of the singers, a " voice of joy
and health," concen- trated itself with solemn antistrophic
movement, into an evening, or " candle " hymn.
" Hail ! Heavenly Light, from his pure glory poured, Who is
the Almighty Father, heavenly, blest : Worthiest art Thou, at all times
to be sung With undefiled tongue." 104 TWO
CURIOUS HOUSES It was like the evening itself made audible,
its hopes and fears, with the stars shining in the midst of it.
Half above, half below the level white mist, dividing the light from the
dark- ness, came now the mistress of this place, the wealthy Roman
matron, left early a widow a,i few years before, by Cecilius "
Confessor and [ Saint." With a certain antique severity in the
I gathering of the long mantle, and with coif or veil folded
decorously below the chin, " gray within gray," to the mind of
Marius her temperate beauty brought reminiscences of the serious
and virile character of the best female statuary of Greece. Quite
foreign, however, to any Greek statuary was the expression of
pathetic care, with which she carried a little child at rest in her arms.
Another, a year or two older, walked beside, the fingers of one
hand within her girdle. She paused for a moment with a greeting for
Cornelius. That visionary scene was the close, the fit- ting
close, of the afternoon's strange experiences. A few minutes later,
passing forward on his way along the public road, he could have fancied
it a dream. The house of Cecilia grouped itself beside that other
curious house he had lately visited at Tusculum. And what a contrast
was presented by the former, in its suggestions of hopeful
industry, of immaculate cleanness, of responsive affection ! all alike
determined by that transporting discovery of some fact, or series
105 MARIUS THE EPICUREAN of facts, in
which the old puzzle of life had found its solution. In truth, one of his
most characteristic and constant traits had ever been a certain
longing for escape for some sudden, relieving interchange, across the
very spaces of life, it might be, along which he had lingered most
pleasantly for a lifting, from time to time, of the actual horizon. It
was like the necessity under which the painter finds himself, to
set a window or open doorway in the back- ground of his picture ; or like
a sick man's longing for northern coolness, and the whisper- ing
willow-trees, amid the breathless evergreen forests of the south. To some
such effect had this visit occurred to him, and through so slight
an accident. Rome and Roman life, just then, were come to seem like some
stifling forest of bronze -work, transformed, as if by malign en-
chantment, out of the generations of living trees, yet with roots in a deep,
down-trodden soil of poignant human susceptibilities. In the midst
of its suffocation, that old longing for escape had been satisfied by
this vision of the church in Cecilia's house, as never before. It was
still, indeed, according to the unchangeable law of his
temperament, to the eye, to the visual faculty of mind, that those
experiences appealed the peaceful light and shade, the boys whose
very faces seemed to sing, the virginal beauty of the mother and her children.
But, in his case, what was thus visible constituted a moral
106 TWO CURIOUS HOUSES or spiritual
influence, of a somewhat exigent and controlling character, added anew to
life, a new element therein, with which, consistently with his own
chosen maxim, he must make terms. The thirst for every kind
of experience, encouraged by a philosophy which taught that nothing
was intrinsically great or small, good or evil, had ever been at strife
in him with a hieratic refinement, in which the boy -priest
survived, prompting always the selection of what was perfect of its kind,
with subsequent loyal adherence of his soul thereto. This had
carried him along in a continuous communion with ideals, certainly
realised in part, either in the conditions of his own being, or in the
actual company about him, above all, in Cornelius. Surely, in this
strange new society he had touched upon for the first time to-day in
this strange family, like "a garden enclosed " was the
fulfilment of all trie preferences, the judg- ments, of that
half-understood friend, which of late years had been his protection so
often amid the perplexities of life. Here, it might be, was, if not
the cure, yet the solace or anodyne of his great sorrows of that
constitutional sorrowfulness, not peculiar to himself perhaps, but
which had made his life certainly like one long " disease of the
spirit." Merciful intention made itself known remedially here, in
the mere contact of the air, like a soft touch upon aching
107 MARIUS THE EPICUREAN flesh. On the
other hand, he was aware that new responsibilities also might be
awakened new and untried responsibilities a demand for something
from him in return. Might this new vision, like the malignant beauty of
pagan Medusa, be exclusive of any admiring gaze upon anything but
itself? At least he suspected that, after the beholding of it, he could
never again be altogether as he had been before.
108 CHAPTER XXII "THE MINOR PEACE OF
THE CHURCH" FAITHFUL to the spirit of his early Epicurean
philosophy and the impulse to surrender himself, in perfectly liberal
inquiry about it, to anything that, as a matter of fact, attracted or
impressed him strongly, Marius informed himself with much pains
concerning the church in Cecilia's house ; inclining at first to explain
the peculi- arities of that place by the establishment there of the
schola or common hall of one of those burial- guilds, which then covered
so much of the unofficial, and, as it might be called, subterranean
enterprise of Roman society. And what he found, thus looking,
literally, for the dead among the living, was the vision of a
natural, a scrupulously natural, love, transform- ing, by some new gift
of insight into the truth of human relationships, and under the urgency
of some new motive by him so far unfathomable, all the conditions
of life. He saw, in all its primi- tive freshness and amid the lively
facts of its! actual coming into the world, as a reality of.
109 iY^ * MARIUS THE
EPICUREAN experience, that regenerate type of humanity,
which, centuries later, Giotto and his successors, down to the best and
purest days of the young Raphael, working under conditions very
friendly to the imagination, were to conceive as an artistic ideal.
He felt there, felt amid the stirring of some wonderful new hope within
himself, the genius, the unique power of Christianity; in exercise
then, as it has been exercised ever since, in spite of many hindrances,
and under the most inopportune circumstances. Chastity, as he
seemed to understand the chastity of men and women, amid all the
conditions, and with the results, proper to such chastity, is the
most beautiful thing in the world and the truest con- servation of
that creative energy by which men and women were first brought into it.
The nature of the family, for which the better genius of old Rome
itself had sincerely cared, of the family and its appropriate affections
all that love of one's kindred by which obviously one does triumph
in some degree over death had never been so felt before. Here, surely! in
its genial warmth, its jealous exclusion of all that was opposed to
it, to its own immaculate naturalness, in the hedge set around the sacred
thing on every side, this development of the family did but carry
forward, and give effect to, the purposes, the kindness, of nature
itself, friendly to man. As if by way of a due recognition of some
im- measurable divine condescension manifest in a 1
10 "MINOR PEACE OF THE CHURCH" certain
historic fact, its influence was felt more especially at those points
which demanded some sacrifice of one's self, for the weak, for the
aged, for little children, and even for the dead. And % then, for
its constant outward token, its significant manner or index, it issued in
a certain debonair grace, and a certain mystic attractiveness, a
courtesy, which made Marius doubt whether that famed Greek "
blitheness," or gaiety, or grace, in the handling of life, had been,
after all, an unrivalled success. Contrasting with the in- curable
insipidity even of what was most exquisite in the higher Roman life, of
what was still truest to the primitive soul of goodness amid its
evil, the new creation he now looked on as it were a picture beyond
the craft of any master of old pagan beauty had indeed all the
appropriate freshness of a " bride adorned for her
husband." Things new and old seemed to be coming as if out of
some goodly treasure-house, the brain full of science, the heart rich
with various sentiment, possessing withal this surprising
healthfulness, this reality of heart. " You would hardly
believe," writes Pliny to his own wife ! "what a longing for
you possesses me. Habit that we have not been used to be apart adds
herein to the primary force of affection. It is this keeps me awake
at night fancying I see you beside me. That is why my feet take me
unconsciously to your sitting-room at those hours when I was wont
to n i MARIUS THE EPICUREAN visit
you there. That is why I turn from the door of the empty chamber, sad and
ill-at-ease, like an excluded lover." There, is a real
idyll from that family life, the protection of which had been the motive
of so large a part of the religion of the Romans, still surviving among
them ; as it survived also in Aurelius, his disposition and aims, and,
spite of slanderous tongues, in the attained sweetness of his
interior life. What Marius had been per- mitted to see was a realisation
of such life higher still : and with Yes ! with a more effective
sanction and motive than it had ever possessed before, in that fact, or
series of facts, to be ascer- tained by those who would. The
central glory of the reign of the Anto- nines was that society had
attained in it, though very imperfectly, and for the most part by
cumbrous effort of law, many of those ends to which Christianity went
straight, with the sufficiency, the success, of a direct and appro-
priate instinct. Pagan Rome, too, had its touch- ing charity-sermons on
occasions of great public distress ; its charity-children in long file,
in memory of the elder empress Faustina ; its prototype, under
patronage of Aesculapius, of the modern hospital for the sick on the
island of Saint Bartholomew. But what pagan charity was doing
tardily, and as if with the painful cal- culation of old age, the church
was doing, almost without thinking about it, with all the liberal
> 12 "MINOR PEACE OF THE CHURCH 1
enterprise of youth, because it was her very being thus to do.
" You fail to realise your own good intentions," she seems to
say, to pagan virtue, pagan kindness. She identified herself with
those intentions and advanced them with an un- paralleled freedom and
largeness. The gentle Seneca would have reverent burial provided
even for the dead body of a criminal. Yet when a certain woman
collected for interment the insulted remains of Nero, the pagan world
surmised that she must be a Christian: only a Christian would have
been likely to conceive so chivalrous a devotion towards mere
wretchedness. "We refuse to be witnesses even of a homicide
com- manded by the law," boasts the dainty consciena of a
Christian apologist, " we take no part ii your cruel sports nor in
the spectacles of the amphitheatre, and we hold that to witness a
murder is the same thing as to commit one." And there was another
duty almost forgotten, the sense of which Rousseau brought back to
the degenerate society of a later age. In an im- passioned
discourse the sophist Favorinus counsels mothers to suckle their own
infants ; and there are Roman epitaphs erected to mothers, which
gratefully record this proof of natural affection as a thing then
unusual. In this matter too, what a sanction, what a provocative to
natural duty, lay in that image discovered to Augustus by the
Tiburtine Sibyl, amid the aurora of a new age, the image of the Divine
Mother and the p. in 113 i V MARIUS THE
EPICUREAN Child, just then rising upon the world like the
dawn ! Christian belief, again, had presented itself as a
great inspirer of chastity. Chastity, in turn, realised in the whole
scope of its conditions, fortified that rehabilitation of peaceful
labour, after the mind, the pattern, of the workman of Galilee,
which was another of the natural in- stincts of the catholic church, as
being indeed the long-desired initiator of a religion of
cheerfulness, as a true lover of the industry so to term it the
labour, the creation, of God. And this severe yet genial assertion
of the ideal of woman, of the family, of industry, of man's work in
life, so close to the truth of nature, was also, in that charmed hour of
the minor " Peace of the church," realised as an
influence tending to beauty, to the adornment of life and the
world. The sword in the world, the right eye plucked out, the right hand
cut off*, the spirit of reproach which those images express, and of
which monasticism is the fulfilment, reflect one side only of the nature
of the divine missionary of the New Testament. Opposed to, yet
blent with, this ascetic or militant character, is the function of
the Good Shepherd, serene, blithe and debonair, beyond the gentlest
shepherd of Greek mythology; of a king under whom the beatific
vision is realised of a reign of peace-- peace of heart among men. Such
aspect of the divine character of Christ, rightly understood,
114 "MINOR PEACE OF THE CHURCH "
is indeed the final consummation of that bold and brilliant
hopefulness in man's nature, which had sustained him so far through his
immense labours, his immense sorrows, and of which pagan gaiety in
the handling of life, is but a minor achieve- ment. Sometimes one,
sometimes the other, of those two contrasted aspects of its Founder,
have, in different ages and under the urgency of different human
needs, been at work also in the Christian Church. Certainly, in that
brief " Peace of the church " under the Antonines, the spirit
of a pastoral security and happiness seems to have been largely
expanded. There, in the early church of Rome, was to be seen, and
on sufficiently reasonable grounds, that satisfaction and serenity
on a dispassionate survey of the facts of life, which all hearts had
desired, though for the most part in vain, contrasting itself for
Marius, in particular, very forcibly, with the imperial philosopher's so
heavy burden of un- relieved melancholy. It was Christianity in its
humanity, or even its humanism, in its generous hopes for man, its common
sense and alacrity of cheerful service, its sympathy with all
creatures, its appreciation of beauty and daylight. "
The angel of righteousness," says the Shep- herd of Hermas, the most
characteristic religious book of that age, its Pilgrim's Progress
"the angel of righteousness is modest and delicate and meek
and quiet. Take from thyself grief, for (as Hamlet will one day discover)
'tis the sister MARIUS THE EPICUREAN of doubt
and ill-temper. Grief is more evil than any other spirit of evil, and is
most dread- ful to the servants of God, and beyond all spirits
destroyeth man. For, as when good news is come to one in grief,
straightway he forgetteth his former grief, and no longer attendeth to
any- thing except the good news which he hath heard, so do ye, also
! having received a renewal of your soul through the beholding of these
good things. Put on therefore gladness that hath always favour
before God, and is acceptable unto Him, and delight thyself in it ; for
every man that is glad doeth the things that are good, and thinketh
good thoughts, despising grief." Such were the commonplaces of this
new people, among whom so much of what Marius had valued most in
the old world seemed to be under renewal and further promotion. Some
trans- forming spirit was at work to harmonise con- trasts, to
deepen expression a spirit which, in its dealing with the elements of
ancient life, was guided by a wonderful tact of selection, exclu-
sion, juxtaposition, begetting thereby a unique effect of freshness, a
grave yet wholesome beauty, because the world of sense, the whole
outward world was understood to set forth the veritable unction and
royalty of a certain priesthood and kingship of the soul within, among
the preroga- tives of which was a delightful sense of freedom. The
reader may think perhaps, that Marius, who, Epicurean as he was, had his
visionary 116 "MINOR PEACE OF THE
CHURCH" aptitudes, by an inversion of one of Plato's
peculiarities with which he was of course familiar, must have descended, \>j
foresight, upon a later age than his own, and anticipated Chris-
tian poetry and art as they came to be under the influence of Saint
Francis of Assisi. But if he dreamed on one of those nights of the
beautiful house of Cecilia, its lights and flowers, of Cecilia
herself moving among the lilies, with an en- hanced grace as happens
sometimes in healthy dreams, it was indeed hardly an anticipation.
He had lighted, by one of the peculiar in- ) tellectual good-fortunes of
his life, upon a period when, even more than in the days of austere
ascesis which had preceded and were to follow it, the church was true for
a moment, truer perhaps than she would ever be again, to that
element of profound serenity in the soul of her Founder, which reflected
the eternal goodwill of God to man, " in whom," according to
the oldest version of the angelic message, " He is well-
pleased." For what Christianity did many centuries
afterwards in the way of informing an art, a poetry, of graver and higher
beauty, we may think, than that of Greek art and poetry at their
best, was in truth conformable to the original tendency of its genius.
The genuine capacity of the catholic church in this direction,
discover- able from the first in the New Testament, was also really
at work, in that earlier " Peace," under 117
MARIUS THE EPICUREAN the Antonines the minor "Peace of
the church," as we might call it, in distinction from the
final " Peace of the church," commonly so called, under
Constantine. Saint Francis, with his following in the sphere of poetry
and of the arts the voice of Dante, the hand of Giotto giving
visible feature and colour, and a palpable place among men, to the
regenerate race, did but re-establish a continuity, only suspended in part
by those troublous intervening centuries the "dark ages,"
properly thus named with the gracious spirit of the primitive church, as
manifested in that first early springtide of her success. The
greater " Peace " of Constantine, on the other hand, in many
ways, does but establish the ex- clusiveness, the puritanism, the ascetic
gloom which, in the period between Aurelius and the first Christian
emperor, characterised a church under misunderstanding or oppression,
driven back, in a world of tasteless controversy, inwards upon
herself. Already, in the reign of Antoninus Pius, the time
was gone by when men became Christians under some sudden and overpowering
impression, and with all the disturbing results of such a crisis.
At this period the larger number, perhaps, had been born Christians, had
been ever with peaceful hearts in their " Father's house."
That earlier belief in the speedy coming of judgment and of the end
of the world, with the con- sequences it so naturally involved in the
temper 118 " MINOR PEACE OF THE CHURCH
" of men's minds, was dying out. Every day the contrast
between the church and the world was becoming less pronounced. And now
also, as the church rested awhile from opposition, that rapid
self-development outward from within, proper to times of peace, was in
progress. Antoninus Pius, it might seem, more truly even than
Marcus Aurelius himself, was of that group of pagan saints for whom
Dante, like Augustine, has provided in his scheme of the house with
many mansions. A sincere old Roman piety had urged his fortunately
constituted nature to no mistakes, no offences against humanity.
And of his entire freedom from guile one reward had been this
singular happiness, that under his rule there was no shedding of
Christian blood. To him belonged that half-humorous placidity of
soul, of a kind illustrated later very effectively by Montaigne, which,
starting with an instinct of mere fairness towards human nature and
the world, seems at last actually to qualify its possessor to be
almost the friend of the people of Christ. Amiable, in its own nature,
and full of a reasonable gaiety, Christianity has often had its
advantage of characters such as that. The geni- ality of Antoninus Pius,
like the geniality of the earth itself, had permitted the church, as
being in truth no alien from that old mother earth, to expand and
thrive for a season as by natural process. And that charmed period under
the Antonines, extending to the later years of the 119
MARIUS THE EPICUREAN reign of Aurelius (beautiful,
brief, chapter of ecclesiastical history !), contains, as one of
its motives of interest, the earliest development of Christian
ritual under the presidence of the church of Rome. Again as
in one of those mystical, quaint visions of the Shepherd of Hernias,
"the aged woman was become by degrees more and more youthful.
And in the third vision she was quite young, and radiant with beauty :
only her hair was that of an aged woman. And at the last she was
joyous, and seated upon a throne seated upon a throne, because her
position is a strong one." The subterranean worship of the
church belonged properly to those years of her early history in
which it was illegal for her to worship at all. But, hiding herself for
awhile as con- flict grew violent, she resumed, when there was felt
to be no more than ordinary risk, her natural freedom. And the kind of
outward prosperity she was enjoying in those moments of her first
" Peace," her modes of worship now blossoming freely
above-ground, was re-inforced by the deci- sion at this point of a crisis
in her internal history. In the history of the church, as
throughout the moral history of mankind, there are two distinct
ideals, either of which it is possible to maintain two conceptions, under
one or the other of which we may represent to ourselves men's
efforts towards a better life corresponding to those two contrasted
aspects, noted above, as 120 " MINOR PEACE
OF THE CHURCH ' discernible in the picture afforded by the
New Testament itself of the character of Christ. The ideal of
asceticism represents moral effort as essentially a sacrifice, the
sacrifice of one part of human nature to another, that it may live
the more completely in what survives of it ; while the ideal of
culture represents it as a harmonious development of all the parts of
human nature, in just proportion to each other. It was to the
latter order of ideas that the church, and' especially the church of Rome
in the age of the Antonines, freely lent herself. In that earlier
" Peace " she had set up for herself the ideal of spiritual
development, under the guidance of an instinct by which, in those serene
moments, she was absolutely true to the peaceful soul of her
Founder. " Goodwill to men," she said, " in whom God
Himself is well -pleased ! " For a little while, at least, there was
no forced opposi- tion between the soul and the body, the world and
the spirit, and the grace of graciousness itself was pre-eminently with
the people of Christ. Tact, good sense, ever the note of a true
ortho- doxy, the merciful compromises of the church, indicative of
her imperial vocation in regard to all the varieties of human kind, with
a universal- ity of which the old Roman pastorship she was
superseding is but a prototype, was already become conspicuous, in spite
of a discredited, irritating, vindictive society, all around her.
Against that divine urbanity and moderation 121
MARIUS THE EPICUREAN the old error of Montanus we read
of dimly, was a fanatical revolt sour, falsely anti-mun- dane, ever
with an air of ascetic affectation, and a bigoted distaste in particular
for all the peculiar graces of womanhood. By it the desire to
please was understood to come of the author of evil. In this interval of
quietness, it was perhaps inevitable, by the law of reaction, that
some such extravagances of the religious temper should arise. But again
the church of Rome, now becoming every day more and more com-
pletely the capital of the Christian world, checked the nascent
Montanism, or puritanism of the moment, vindicating for all
Christian people a cheerful liberty of heart, against many a narrow
group of sectaries, all alike, in their different ways, accusers of the
genial creation of God. With her full, fresh faith in the Evange/e
in a veritable regeneration of the earth and the body, in the dignity of
man's entire personal being for a season, at least, at that critical
period in the development of Christianity, she was for reason, for common
sense, for fairness to human nature, and generally for what may be
called the naturalness of Christianity. As also for its comely order: she
would be "brought to her king in raiment of needlework." It was
by the bishops of Rome, diligently transforming themselves, in the
true catholic sense, into universal pastors, that the path of what we
must call humanism was thus defined. 122 "
MINOR PEACE OF THE CHURCH " And then, in this hour of
expansion, as if now at last the catholic church might venture to
show her outward lineaments as they really were, worship "the beauty
of holiness," nay! the elegance of sanctity was developed, with
a bold and confident gladness, the like of which has hardly been
the ideal of worship in any later age. The tables in fact were turned :
the prize of a cheerful temper on a candid survey of life was no
longer with the pagan world. The aesthetic charm of the catholic church,
her evoca- tive power over all that is eloquent and expres- sive in
the better mind of man, her outward comeliness, her dignifying
convictions about human nature : all this, as abundantly realised
centuries later by Dante and Giotto, by the great medieval
church-builders, by the great ritualists like Saint Gregory, and the
masters of sacred music in the middle age we may see already, in
dim anticipation, in those charmed moments towards the end of the second
century. Dissi- pated or turned aside, partly through the fatal
mistake of Marcus Aurelius himself, for a brief space of time we may
discern that influence clearly predominant there. What might seem
harsh as dogma was already justifying itself as worship ; according to
the sound rule : Lex orandi^ lex credendi Our Creeds are but the
brief abstract of our prayer and song. The wonderful liturgical
spirit of the church, her wholly unparalleled genius for worship,
123 MARIUS THE EPICUREAN
being thus awake, she was rapidly re-organising both pagan and Jewish
elements of ritual, for the expanding therein of her own new heart
of devotion. Like the institutions of monasticism, like the Gothic
style of architecture, the ritual system of the church, as we see it in
historic retrospect, ranks as one of the great, conjoint, and (so
to term them) necessary, products of human mind. Destined for ages to
come, to direct with so deep a fascination men's religious
instincts, it was then already recognisable as a new and precious fact in
the sum of things. What has been on the whole the method of the
church, as " a power of sweetness and patience," in dealing
with matters like pagan art, pagan literature was even then manifest ;
and has the character of the moderation, the divine modera- tion of
Christ himself. It was only among the ignorant, indeed, only in the
" villages," that Christianity, even in conscious triumph
over paganism, was really betrayed into iconoclasm. In the final
" Peace " of the Church under Constantine, while there was plenty
of destruc- tive fanaticism in the country, the revolution was
accomplished in the larger towns, in a manner more orderly and discreet
in the Roman manner. The faithful were bent less on the destruction
of the old pagan temples than on their conversion to a new and higher use
; and, with much beautiful furniture ready to hand, they became
Christian sanctuaries. 124 " MINOR PEACE OF
THE CHURCH ' Already, in accordance with such maturer wisdom,
the church of the " Minor Peace " had adopted many of the
graces of pagan feeling and pagan custom ; as being indeed a living
creature, taking up, transforming, accommodating still more closely
to the human heart what of right belonged to it. In this way an obscure
syna- gogue was expanded into the catholic church. Gathering, from
a richer and more varied field of sound than had remained for him, those
old Roman harmonies, some notes of which Gregory the Great,
centuries later, and after generations of interrupted development, formed
into the Gregorian music, she was already, as we have heard, the
house of song of a wonderful new music and poesy. As if in anticipation
of the sixteenth century, the church was becoming!
"humanistic," in an earlier, and unimpeachable/ Renaissance.
Singing there had been in abund-j ance from the first ; though often it
dared only be " of the heart." And it burst forth, when
it might, into the beginnings of a true ecclesiastical music; the
Jewish psalter, inherited from the synagogue, turning now, gradually,
from Greek into Latin broken Latin, into Italian, as the ritual use
of the rich, fresh, expressive vernacular superseded the earlier
authorised language of the Church. Through certain surviving
remnants of Greek in the later Latin liturgies, we may still
discern a highly interesting intermediate phase of ritual development,
when the Greek 125 MARIUS THE EPICUREAN
and the Latin were in combination; the poor, surely ! the poor and
the children of that liberal Roman church responding already in
their own " vulgar tongue," to an office said in the original,
liturgical Greek. That hymn sung in the early morning, of which Pliny had
heard, was kindling into the service of the Mass. The Mass,
indeed, would appear to have been said continuously from the Apostolic
age. Its details, as one by one they become visible in later
history, have already the character of what is ancient and venerable.
"We are very old, and ye are young ! " they seem to protest, to
those who fail to understand them. Ritual, in fact, like all other
elements of religion, must grow and cannot be made grow by the same
law of development which prevails everywhere else, in the moral as in the
physical world. As regards this special phase of the religious
life, however, such development seems to have been unusually rapid
in the subterranean age which preceded Constantine ; and in the very
first days j of the final triumph of the church the Mass emerges to
general view already substantially complete. " Wisdom " was
dealing, as with the dust of creeds and philosophies, so also with
the dust of outworn religious usage, like the very spirit of life
itself, organising soul and body out of the lime and clay of the earth.
In a generous eclecticism, within the bounds of her liberty, and as
by some providential power within her, 126
" MINOR PEACE OF THE CHURCH " she gathers and
serviceably adopts, as in other matters so in ritual, one thing here, another
there, from various sources Gnostic, Jewish, Pagan to adorn and beautify
the greatest act of worship the world has seen. It was thus the
liturgy of the church came to be full of con- solations for the human
soul, and destined, surely ! one day, under the sanction of so many ages
of human experience, to take exclusive possession of the religious
consciousness. TANTUM ERGO SACRAMENTUM VENEREMUR
CERNUI : ET ANTIQUUM DOCUMENTUM NOVO CEDAT RITUI.
CHAPTER XXIII DIVINE SERVICE "
Wisdom hath builded herselt a house : she hath mingled hex wine : she
hath also prepared for herself a table." THE more highly
favoured ages of imaginative art present instances of the summing up of
an entire world of complex associations under some single form,
like the Zeus of Olympia, or the series of frescoes which commemorate The
Acts of Saint Francis, at Assisi, or like the play of Hamlet or
Faust. It was not in an image, or series of images, yet still in a sort
of dramatic action, and with the unity of a single appeal to eye
and ear, that Marius about this time found all his new impressions set
forth, regarding what he had already recognised, intellectually, as
for him at least the most beautiful thing in the world.
To understand the influence upon him of what follows the reader
must remember that it was an experience which came amid a deep
sense of vacuity in life. The fairest products of 128
DIVINE SERVICE the earth seemed to be dropping to pieces, as
if in men's very hands, around him. How real was their sorrow, and
his ! " His observation of life " had come to be like the
constant telling of a sorrowful rosary, day after day ; till, as if
taking infection from the cloudy sorrow of the mind, the eye also, the
very senses, were grown faint and sick. And now it happened as with
the actual morning on which he found himself a spectator of this new
thing. The long winter had been a season of unvarying sullenness.
At last, on this day he awoke with a sharp flash of lightning in
the earliest twilight : in a little while the heavy rain had filtered the
air: the clear light was abroad ; and, as though the spring had set
in with a sudden leap in the heart of things, the whole scene around him
lay like some untarnished picture beneath a sky of delicate blue.
Under the spell of his late de- pression, Marius had suddenly determined
to leave Rome for a while. But desiring first to advertise
Cornelius of his movements, and failing to find him in his lodgings, he
had ventured, still early in the day, to seek him in the Cecilian
villa. Passing through its silent and empty court-yard he loitered for a
moment, to admire. Under the clear but immature light of winter
morning after a storm, all the details of form and colour in the old
marbles were dis- tinctly visible, and with a kind of severity or
sadness so it struck him amid their beauty : p in 129 K
MARIUS THE EPICUREAN in them, and in all other details of the
scene the cypresses, the bunches of pale daffodils in the grass,
the curves of the purple hills of Tusculum, with the drifts of virgin
snow still lying in their hollows. The little open door,
through which he passed from the court-yard, admitted him into what
was plainly the vast Lararium^ or domestic sanctuary, of the Cecilian
family, transformed in many particulars, but still richly decorated,
and retaining much of its ancient furniture in metal- work and
costly stone. The peculiar half-light of dawn seemed to be lingering
beyond its hour upon the solemn marble walls ; and here, though at
that moment in absolute silence, a great company of people was assembled.
In that brief period of peace, during which the church emerged for
awhile from her jealously- guarded subterranean life, the rigour of an
earlier rule of exclusion had been relaxed. And so it came to pass
that, on this morning Marius saw for the first time the wonderful
spectacle - wonderful, especially, in its evidential power over
himself, over his own thoughts of those who believe. There
were noticeable, among those present, great varieties of rank, of age, of
personal type. The Roman ingenuus^ with the white toga and gold
ring, stood side by side with his slave ; and the air of the whole
company was, above all, a grave one, an air of recollection. Coming
130 DIVINE SERVICE thus unexpectedly upon
this large assembly, so entirely united, in a silence so profound,
for purposes unknown to him, Marius felt for a moment as if he had
stumbled by chance upon some great conspiracy. Yet that could
scarcely be, for the peoplehere collected might have figured as the
earliest handsel, or pattern, of a new world, from the very face of which
dis- content had passed away. Corresponding to the variety of human
type there present, was the various expression of every form of human
sorrow assuaged. What desire, what fulfilment of desire, had
wrought so pathetically on the features of these ranks of aged men and
women of humble condition ? Those young men, bent down so j
discreetly on the details of their sacred service, had faced life and
were glad, by some science, or light of knowledge they had, to which
there had certainly been no parallel in the older world. Was some
credible message from beyond " the flaming rampart of the world
" a message of hope, regarding the place of men's souls and
theirinterest in the sum of things already moulding anew their very
bodies, and looks, and voices, now and here ? At least, there was a
cleansing and kindling flame at work in them, which seemed to make
everything else Marius had ever known look comparatively vulgar and
mean. There were the children, above all troops of children reminding him
of those pathetic children's graves, like cradles or garden-
MARIUS THE EPICUREAN beds, he had noticed in his first visit to
these places; and they more than satisfied the odd curiosity he had
then conceived about them, wondering in what quaintly expressive
forms they might come forth into the daylight, if awakened from
sleep. Children of the Cata- combs, some but "a span long,"
with features not so much beautiful as heroic (that world of new,
refining sentiment having set its seal even on phildhood), they retained
certainly no stain or trace of anything subterranean this morning,
in the alacrity of their worship as ready as if they had been at
play stretching forth their hands, crying, chanting in a resonant voice,
and with boldly upturned faces, Christe Eleison ! For the
silence silence, amid those lights of early morning to which Marius had
always been constitutionally impressible, as having in them a
certain reproachful austerity was broken suddenly by resounding cries of
Kyrie Eleison ! Christe Eleison! repeated alternately, again and
again, until the bishop, rising from his chair, made sign that this
prayer should cease. But the voices burst out once more presently,
in richer and more varied melody, though still of an antiphonal
character ; the men, the women and children, the deacons, the people,
answering one another, somewhat after the manner of a Greek chorus.
But again with what a novelty of poetic accent ; what a genuine
expansion of heart ; what profound intimations for the
132 DIVINE SERVICE intellect, as the
meaning of the words grew upon him ! Cum grandi affectu et compunctione
dicatur says an ancient eucharistic order ; and certainly, the
mystic tone of this praying and singing was one with the expression of
deliverance, of grate- ful assurance and sincerity, upon the faces
of those assembled. As if some searching correc- tion, a
regeneration of the body by the spirit, \ had begun, and was already gone
a great way, the countenances of men, women, and children alike had
a brightness on them which he could fancy reflected upon himself an amenity,
a mystic amiability and unction, which found its way most readily
of all to the hearts of children themselves. The religious poetry of
those Hebrew psalms Benedixisti Domine terram tuam: Dixit Dominus
Domino meo^ sede a dextris meis was certainly in marvellous accord with
the lyrical instinct of his own character. Those august hymns, he
thought, must thereafter ever remain by him as among the well-tested
powers in things to soothe and fortify the soul. One could never
grow tired of them ! In the old pagan worship there had been
little to call the understanding into play. Here, on the other hand, the
utterance, the eloquence, the music of worship conveyed, as Marius
readily understood, a fact or series of facts, for intellectual reception.
That became evident, more especially, in those lessons, or sacred
readings, which, like the singing, in broken MARIUS THE
EPICUREAN vernacular Latin, occurred at certain intervals,
amid the silence of the assembly. There were readings, again with bursts
of chanted invocation between for fuller light on a difficult path,
in which many a vagrant voice of human philo- sophy, haunting men's
minds from of old, recurred with clearer accent than had ever
belonged to it before, as if lifted, above its first intention, into the
harmonies of some supreme system of knowledge or doctrine, at
length complete. And last of all came a narrative which, with a
thousand tender memories, every one appeared to know by heart,
displaying, in all the vividness of a picture for the eye, the
mournful figure of him towards whom this whole act of worship still
consistently turned a figure which seemed to have absorbed, like
some rich tincture in his garment, all that was deep-felt and impassioned
in the experiences of the past. It was the anniversary of his
birth as a little child they celebrated to-day. Astiterunt reges
terra : so the Gradual, the " Song of Degrees," proceeded, the
young men on the steps of the altar responding in deep, clear, antiphon
or chorus Astiterunt reges terrae Adversus
sanctum puerum tuum, Jesum : Nunc, Domine, da servis tuis loqui
verbum tuum Et signa fieri, per nomen sancti pueri Jesu.
And the proper action of the rite itself, like a DIVINE
SERVICE half-opened book to be read by the duly initi- ated
mind took up those suggestions, and carried them forward into the
present, as having refer- ence to a power still efficacious, still after
some mystic sense even now in action among the people there
assembled. The entire office, in- deed, with its interchange of lessons,
hymns, prayer, silence, was itself like a single piece j of highly
composite, dramatic music ; a " song j of degrees," rising
steadily to a climax. Not- | withstanding the absence of any central
image visible to the eye, the entire ceremonial process, / like the
place in which it was enacted, was weighty with symbolic significance,
seemed to express a single leading motive. The mystery, if such in
fact it was, centered indeed in the actions of one visible person,
distinguished among the assistants, who stood ranged in semicircle
around him, by the extreme fineness of his white vestments, and the
pointed cap with the golden ornaments upon his head. Nor had
Marius ever seen the pontifical character, as he conceived it sicut
unguentum in capite^ descendens in oram vestimenti so fully real-
ised, as in the expression, the manner and voice, of this novel pontiff,
as he took his seat on the white chair placed for him by the young men,
and received his long staff into his hand, or moved his hands hands which
seemed endowed in very deed with some mysterious power at the
Lavabo, or at the various benedictions, or MARIUS THE
EPICUREAN to bless certain objects on the table before him,
chanting in cadence of a grave sweetness the leading parts of the rite.
What profound unction and mysticity ! The solemn character of the
singing was at its height when he opened his lips. Like some new sort of
rhapsodos, it was for the moment as if he alone possessed the words
of the office, and they flowed anew from some permanent source of
inspiration within him. The table or altar at which he presided,
below a canopy on delicate spiral columns, was in fact the tomb of a
youthful " witness," of the family of the Cecilii, who had shed
his blood not many years before, and whose relics were still in
this place. It was for his sake the bishop put his lips so often to the
surface before him ; the regretful memory of that death entwining itself,
though not without certain notes of triumph, as a matter of special
inward significance, throughout a service, which was, before all
else, from first to last, a commemoration of the dead. A
sacrifice also, a sacrifice, it might seem, like the most primitive, the
most natural and enduringly significant of old pagan sacrifices, of
the simplest fruits of the earth. And in con- nexion with this
circumstance again, as in the actual stones of the building so in the
rite itself, what Marius observed was not so much new matter as a
new spirit, moulding, informing, with a new intention, many observances
not 136 DIVINE SERVICE witnessed for
the first time to-day. Men and women came to the altar successively, in
perfect order, and deposited below the lattice-work 01 pierced
white marble, their baskets of wheat and grapes, incense, oil for the
sanctuary lamps ; bread and wine especially pure wheaten bread, the
pure white wine of the Tusculan vineyards. There was here a veritable consecration,
hopeful and animating, of the earth's gifts, of old dead and dark
matter itself, now in some way re- deemed at last, of all that we can
touch or see, in the midst of a jaded world that had lost the true
sense of such things, and in strong contrast to the wise emperor's
renunciant and impassive attitude towards them. Certain portions of
that bread and wine were taken into the bishop's hands ; and
thereafter, with an increasing mysti- city and effusion the rite
proceeded. Still in a strain of inspired supplication, the
antiphonal singing developed, from this point, into a kind of
dialogue between the chief minister and the whole assisting company
SURSUM CORDA ! HABEMUS AD DOMINUM. GRATIAS AGAMUS
DOMINO DEO NOSTRO ! It might have been thought the business,
the duty or service of young men more particularly, as they stood
there in long ranks, and in severe and simple vesture of the purest white
a service in which they would seem to be flying MARIUS
THE EPICUREAN for refuge, as with their precious, their
treacher- ous and critical youth in their hands, to one- Yes ! one
like themselves, who yet claimed their worship, a worship, above all, in
the way of Aurelius, in the way of imitation. Adoramus te Christe^
quia per crucem tuam redemisti mundum ! they cry together. So deep is the
emotion that at moments it seems to Marius as if some there present
apprehend that prayer prevails, that the very object of this pathetic
crying him- self draws near. From the first there had been the
sense, an increasing assurance, of one coming : actually with them now,
according to the oft- repeated affirmation or petition, e Dominus
vobis- cum ! Some at least were quite sure of it ; and the
confidence of this remnant fired the hearts, and gave meaning to the
bold, ecstatic worship, of all the rest about them. Prompted
especially by the suggestions of that mysterious old Jewish psalmody, so
new to him lesson and hymn and catching there- with a portion of
the enthusiasm of those beside him, Marius could discern dimly, behind
the solemn recitation which now followed, at once a narrative and a
prayer, the most touching image truly that had ever come within the
scope of his mental or physical gaze. It was the image of a young man
giving up voluntarily, one by one, for the greatest of ends, the
greatest gifts ; actually parting with himself, above all, with the
serenity, the divine serenity, of his 138 DIVINE
SERVICE own soul ; yet from the midst of his desolation
crying out upon the greatness of his success, as if foreseeing this very
worship. 1 As centre of the supposed facts which for these people
were become so constraining a motive of hopefulness, of activity,
that image seemed to display itself with an overwhelming claim on human
grati- tude. What Saint Lewis of France discerned, and found so
irresistibly touching, across the dimness of many centuries, as a painful
thing done for love of him by one he had never seen, was to them
almost as a thing of yesterday ; and their hearts were whole with it. It
had the force, among their interests, of an almost recent event in
the career of one whom their fathers' fathers might have known. From
memories so sublime, yet so close at hand, had the narra- tive
descended in which these acts of worship centered ; though again the
names of some more recently dead were mingled in it. And it seemed
as if the very dead were aware; to be stirring beneath the slabs of the
sepulchres which lay so near, that they might associate themselves to
this enthusiasm to this exalted worship of Jesus. One by one,
at last, the faithful approach to receive from the chief minister morsels
of the great, white, wheaten cake, he had taken into his hands
Perducat vos ad vitarn ceternam ! he prays, half-silently, as they depart
again, after 1 Psalm xxii. 22-31. 139
MARIUS THE EPICUREAN discreet embraces. The Eucharist of
those early days was, even more entirely than at any later or
happier time, an act of thanksgiving ; and while the remnants of the
feast are borne away for the reception of the sick, the sustained
gladness of the rite reaches its highest point in the sing- ing of
a hymn : a hymn like the spontaneous product of two opposed militant
companies, contending accordantly together, heightening,
accumulating, their witness, provoking one an- other's worship, in a kind
of sacred rivalry. Ite ! Missa esf ! cried the young deacons
: and Marius departed from that strange scene along with the rest.
What was it ? Was it this made the way of Cornelius so pleasant
through the world ? As for Marius himself, the natural soul of worship in
him had at last been satisfied as never before. He felt, as he left
that place, that he must hereafter experience often a longing memory, a
kind of thirst, for all this, over again. And it seemed moreover to
define what he must require of the powers, whatsoever they might be, that
had brought him into the world at all, to make him not unhappy in
it. 140 CHAPTER XXIV A
CONVERSATION NOT IMAGINARY IN cheerfulness is the success of our
studies, says Pliny studia hilaritate proveniunt. It was still the
habit of Marius, encouraged by his experi- ence that sleep is not only a
sedative but the best of stimulants, to seize the morning hours for
creation, making profit when he might of the wholesome serenity which
followed a dreamless night. " The morning for creation," he
would say; "the afternoon for the perfecting labour of the
file ; the evening for reception the reception of matter from without
one, of other men's words and thoughts matter for our own dreams,
or the merely mechanic exercise of the brain, brooding thereon silently,
in its dark chambers." To leave home early in the day was therefore
a rare thing for him. He was induced so to do on the occasion of a
visit to Rome of the famous writer Lucian, whom he had been bidden
to meet. The breakfast over, he walked away with the learned guest,
having offered to be his guide 141 MARIUS THE
EPICUREAN to the lecture-room of a well-known Greek
rhetorician and expositor of the Stoic philosophy, a teacher then much in
fashion among the studious youth of Rome. On reaching the place,
however, they found the doors closed, with a slip of writing attached,
which proclaimed " a holiday " ; and the morning being a fine
one, they walked further, along the Appian Way. Mortality, with
which the Queen of Ways in reality the favourite cemetery of Rome was
so closely crowded, in every imaginable form of sepulchre, from the
tiniest baby-house, to the massive monument out of which the Middle
Age would adapt a fortress-tower, might seem, on a morning like
this, to be " smiling through tears." The flower-stalls just
beyond the city gates pre- sented to view an array of posies and
garlands, fresh enough for a wedding. At one and another of them
groups of persons, gravely clad, were making their bargains before
starting for some perhaps distant spot on the highway, to keep a
dies rosationis, this being the time of roses, at the grave of a deceased
relation. Here and there, a funeral procession was slowly on its way,
in weird contrast to the gaiety of the hour. The two
companions, of course, read the epitaphs as they strolled along. In one,
remind- ing them of the poet's Si lacrima prosunt, visis te ostende
videri ! a woman prayed that her lost husband might visit her dreams.
Their charac- teristic note, indeed, was an imploring cry, still
142 A CONVERSATION NOT IMAGINARY to be
sought after by the living. "While I live," such was the
promise of a lover to his dead mistress, " you will receive this
homage : after my death, who can tell ? " post mortem nescio.
" If ghosts, my sons, do feel anything after death, my sorrow will
be lessened by your frequent coming to me here ! " " This is a
privileged tomb ; to my family and descendants has been conceded
the right of visiting this place as often as they please."
-"This is an eternal habita- tion ; here lie I ; here I shall lie
for ever." " Reader ! if you doubt that the soul
survives, make your oblation and a prayer for me; and you shall
understand ! " The elder of the two readers, certainly,
was little affected by those pathetic suggestions. It was long ago
that after visiting the banks of the Padus, where he had sought in vain
for the poplars (sisters of Phaethon erewhile) whose tears became
amber, he had once for all arranged for himself a view of the world
exclusive of all reference to what might lie beyond its "
flaming barriers." And at the age of sixty he had no
misgivings. His elegant and self-complacent but far fromunamiable
scepticism, long since brought to perfection, never failed him. It
sur- rounded him, as some are surrounded by a magic ring of fine
aristocratic manners, with " a ram- part," through which he
himself never broke, nor permitted any thing or person to break
upon him. Gay, animated, content with his old age
MARIUS THE EPICUREAN as it was, the aged student still took a
lively interest in studious youth. Could Marius inform him of any
such, now known to him in Rome ? What did the young men learn, just then?
and how? In answer, Marius became fluent concerning the
promise of one young student, the son, as it presently appeared, of
parents of whom Lucian himself knew something: and soon afterwards
the lad was seen coming along briskly a lad with gait and figure well
enough expressive of the sane mind in the healthy body, though a
little slim and worn of feature, and with a pair of eyes expressly
designed, it might seem, for fine glancings at the stars. At the sight of
Marius he paused suddenly, and with a modest blush on recognising
his companion, who straightway took with the youth, so prettily
enthusiastic, the freedom of an old friend. In a few moments
the three were seated together, immediately above the fragrant
borders of a rose-farm, on the marble bench of one of the exhedra
for the use of foot-passengers at the roadside, from which they could
overlook the grand, earnest prospect of the Campagna^ and enjoy the
air. Fancying that the lad's plainly written enthusiasm had induced in
the elder speaker somewhat more fervour than was usual with him,
Marius listened to the conversation which follows. " Ah
! Hermotimus ! Hurrying to lecture ! 144 A
CONVERSATION NOT IMAGINARY if I may judge by your pace, and that
volume in your hand. You were thinking hard as you came along,
moving your lips and waving your arms. Some fine speech you were
pondering, some knotty question, some viewy doctrine not to be idle
for a moment, to be making progress in philosophy, even on your way to
the schools. To-day, however, you need go no further. We read a
notice at the schools that there would be no lecture. Stay therefore, and
talk awhile with us. -With pleasure, Lucian. Yes ! I was
rumin- ating yesterday's conference. One must not lose a moment.
Life is short and art is long ! And it was of the art of medicine, that
was first said a thing so much easier than divine philo- sophy, to
which one can hardly attain in a life- time, unless one be ever wakeful,
ever on the watch. And here the hazard is no little one : By the
attainment of a true philosophy to attain happiness ; or, having missed
both, to perish, as one of the vulgar herd. The prize is a
great one, Hermotimus ! and you must needs be near it, after these months
of toil, and with that scholarly pallor of yours. Unless, indeed,
you have already laid hold upon it, and kept us in the dark.
How could that be, Lucian? Happiness, as Hesiod says, abides very
far hence; and the way to it is long and steep and rough. I see
myself still at the beginning of my journey ; still P. in 145
L MARIUS THE EPICUREAN but at the mountain's
foot. I am trying with all my might to get forward. What I need is
a hand, stretched out to help me. And is not the master
sufficient for that ? Could he not, like Zeus in Homer, let down to
you, from that high place, a golden cord, to draw you up thither, to
himself and to that Happiness, to which he ascended so long ago ?
The very point, Lucian ! Had it depended on him I should long ago
have been caught up. 'Tis I, am wanting. Well ! keep your eye
fixed on the journey's end, and that happiness there above, with
con- fidence in his goodwill. Ah ! there are many who start
cheerfully on the journey and proceed a certain distance, but lose
heart when they light on the obstacles of the way. Only, those who endure
to the end do come to the mountain's top, and thereafter live in
Happiness : live a wonderful manner of life, seeing all other people from
that great height no bigger than tiny ants. What little
fellows you make of us less than the pygmies down in the dust here.
Well ! we, * the vulgar herd,' as we creep along, will not forget you in
our prayers, when you are seated up there above the clouds, whither
you have been so long hastening. But tell me, Hermotimus ! when do
you expect to arrive there ? Ah ! that I know not. In twenty
years, 146 A CONVERSATION NOT IMAGINARY
perhaps, I shall be really on the summit. A great while ! you
think. But then, again, the prize I contend for is a great one.
Perhaps ! But as to those twenty years that you will live so long.
Has the master assured you of that ? Is he a prophet as well as a
philosopher? For I suppose you would not endure all this, upon a mere
chance toiling day and night, though it might happen that just ere
the last step, Destiny seized you by the foot and plucked you thence,
with your hope still unfulfilled. Hence, with these
ill-omened words, Lucian ! Were I to survive but for a day, I
should be happy, having once attained wisdom. Howf Satisfied with a
single day, after all those labours ? Yes ! one blessed
moment were enough ! But again, as you have never been, how
know you that happiness is to be had up there, at all the happiness that
is to make all this worth while ? I believe what the master
tells me. Of a certainty he knows, being now far above all
others. And what was it he told you about it ? Is it riches,
or glory, or some indescribable pleasure ? Hush ! my friend !
All those are nothing in comparison of the life there. What,
then, shall those who come to the V
MARIUS THE EPICUREAN end of this discipline what excellent
thing shall they receive, if not these ? Wisdom, the absolute
goodness and the absolute beauty, with the sure and certain
knowledge of all things how they are. Riches and glory and pleasure
whatsoever belongs to the body they have cast from them : stripped
bare of all that, they mount up, even as Hercules, consumed in the fire,
became a god. He too cast aside all that he had of his earthly
mother, and bearing with him the divine element, pure and undefiled,
winged his way to heaven from the discerning flame. Even so do
they, detached from all that others prize, by the burning fire of a true
philosophy, ascend to the highest degree of happiness.
Strange ! And do they never come down again from the heights to help
those whom they left below ? Must they, when they be once come
thither, there remain for ever, laughing, as you say, at what other men
prize ? More than that ! They whose initiation is entire are
subject no longer to anger, fear, desire, regret. Nay ! They scarcely
feel at all. -Well ! as you have leisure to-day, why not tell
an old friend in what way you first started on your philosophic journey ?
For, if I might, I should like to join company with you from this
very day. If you be really willing, Lucian ! you will learn
in no long time your advantage over all 148 A
CONVERSATION NOT IMAGINARY other people. They will seem but as
children, so far above them will be your thoughts. Well ! Be
you my guide ! It is but fair. But tell me Do you allow learners to
contra- dict, if anything is said which they don't think right
? No, indeed ! Still, if you wish, oppose your questions. In
that way you will learn more easily. Let me know, then Is
there one only way which leads to a true philosophy your own way
the way of the Stoics : or is it true, as I have heard, that there are
many ways of approaching it ? -Yes ! Many ways ! There are
the Stoics, and the Peripatetics, and those who call them- selves
after Plato : there are the enthusiasts for Diogenes, and Antisthenes,
and the followers of Pythagoras, besides others. It was true,
then. But again, is what they say the same or different ? Very
different. -Yet the truth, I conceive, would be one and the
same, from all of them. Answer me then In what, or in whom, did you
confide when you first betook yourself to philosophy, and seeing so
many doors open to you, passed them all by and went in to the Stoics, as
if there alone lay the way of truth ? What token had you ? Forget,
please, all you are to-day- half-way, or more, on the philosophic journey
: 149 MARIUS THE EPICUREAN answer me
as you would have done then, a mere outsider as I am now.
Willingly ! It was there the great ma- jority went ! 'Twas by that
I judged it to be the better way. A majority how much greater
than the Epicureans, the Platonists, the Peripatetics f You,
doubtless, counted them respectively, as with the votes in a
scrutiny. No ! But this was not my only motive. I heard it said
by every one that the Epicureans were soft and voluptuous, the
Peripatetics ava- ricious and quarrelsome, and Plato's followers
puffed up with pride. But of the Stoics, not a few pronounced that they
were true men, that they knew everything, that theirs was the royal
road, the one road, to wealth, to wisdom, to all that can be
desired. Of course those who said this were not themselves
Stoics : you would not have believed them still less their opponents.
They were the vulgar, therefore. True ! But you must know
that I did not trust to others exclusively. I trusted also to
myself to what I saw. I saw the Stoics going through the world after a
seemly manner, neatly clad, never in excess, always collected, ever
faithful to the mean which all pronounce ' golden.' You are
trying an experiment on me. You would fain see how far you can
mislead 150 A CONVERSATION NOT IMAGINARY
me as to your real ground. The kind of pro- bation you describe is
applicable, indeed, to works of art, which are rightly judged by
their appearance to the eye. There is something in the comely form,
the graceful drapery, which tells surely of the hand of Pheidias or
Alcamenes. But if philosophy is to be judged by outward appearances,
what would become of the blind man, for instance, unable to observe the
attire and gait of your friends the Stoics ? It was not of
the blind I was thinking. -Yet there must needs be some
common criterion in a matter so important to all. Put the blind, if
you will, beyond the privileges of philosophy ; though they perhaps need
that inward vision more than all others. But can those who are not
blind, be they as keen-sighted as you will, collect a single fact of mind
from a man's attire, from anything outward ? Under- stand me ! You
attached yourself to these men did you not ? because of a certain love
you had for the mind in them, the thoughts they possessed desiring
the mind in you to be im- proved thereby ? Assuredly ! How,
then, did you find it possible, by the sort of signs you just now spoke
of, to distinguish the true philosopher from the false ? Matters of
that kind are not wont so to reveal themselves. They are but hidden
mysteries, hardly to be guessed at through the words and acts which
MARIUS THE EPICUREAN may in some sort be conformable
to them. You, however, it would seem, can look straight into the
heart in men's bosoms, and acquaint yourself with what really passes
there. You are making sport of me, Lucian ! In truth, it was
with God's help I made my choice, and I don't repent it. And
still you refuse to tell me, to save me from perishing in that ' vulgar
herd.' Because nothing I can tell you would satisfy
you. You are mistaken, my friend ! But since you deliberately
conceal the thing, grudging me, as I suppose, that true philosophy which
would make me equal to you, I will try, if it may be, to find out
for myself the exact criterion in these matters how to make a perfectly
safe choice. And, do you listen. I will ; there may be
something worth knowing in what you will say. Well ! only
don't laugh if I seem a little fumbling in my efforts. The fault is
yours, in refusing to share your lights with me. Let Philosophy,
then, be like a city --a city whose citizens within it are a happy
people, as your master would tell you, having lately come thence,
as we suppose. All the virtues are theirs, and they are little less than
gods. Those acts of violence which happen among us are not to be
seen in their streets. They live together in one mind, very seemly ; the
things which beyond 152 A CONVERSATION NOT
IMAGINARY everything else cause men to contend against each
other, having no place upon them. Gold and silver, pleasure, vainglory,
they have long since banished, as being unprofitable to the
commonwealth ; and their life is an unbroken calm, in liberty, equality,
an equal happiness. And is it not reasonable that all men
should desire to be of a city such as that, and take no account of
the length and difficulty of the way thither, so only they may one day
become its freemen ? It might well be the business of life
: leaving all else, forgetting one's native country here, unmoved
by the tears, the restraining hands, of parents or children, if one had
them only bidding them follow the same road ; and if they would not
or could not, shaking them off, leaving one's very garment in their
hands if they took hold on us, to start off straightway for that
happy place ! For there is no fear, I suppose, of being shut out if one
came thither naked. I remember, indeed, long ago an aged man
related to me how things passed there, offering himself to be my leader,
and enrol me on my arrival in the number of the citizens. I was but
fifteen certainly very foolish: and it may be that I was then actually
within the suburbs, or at the very gates, of the city. Well, this
aged man told me, among other things, that all the citizens were
wayfarers from afar. Among them were barbarians and slaves, poor
153 MARIUS THE EPICUREAN men aye ! and
cripples all indeed who truly desired that citizenship. For the only
legal conditions of enrolment were not wealth, nor bodily beauty,
nor noble ancestry things not named among them but intelligence, and
the desire for moral beauty, and earnest labour. The last comer,
thus qualified, was made equal to the rest : master and slave, patrician,
plebe- ian, were words they had not in that blissful place. And
believe me, if that blissful, that beautiful place, were set on a hill
visible to all the world, I should long ago have journeyed thither.
But, as you say, it is far off: and one must needs find out for oneself
the road to it, and the best possible guide. And I find a multi-
tude of guides, who press on me their services, and protest, all alike,
that they have themselves come thence. Only, the roads they propose
are many, and towards adverse quarters. And one of them is steep
and stony, and through the beating sun ; and the other is through
green meadows, and under grateful shade, and by many a fountain of
water. But howsoever the road may be, at each one of them stands a
credible guide ; he puts out his hand and would have you come his way.
All other ways are wrong, all other guides false. Hence my diffi-
culty ! The number and variety of the ways ! For you know, There is but
one road that leads to Corinth. Well ! If you go the whole
round, you A CONVERSATION NOT IMAGINARY will find
no better guides than those. If you wish to get to Corinth, you will
follow the traces of Zeno and Chrysippus. It is impossible
otherwise. Yes ! The old, familiar language ! Were one of
Plato's fellow-pilgrims here, or a follower of Epicurus or fifty others
each would tell me that I should never get to Corinth except in his
company. One must therefore credit all alike, which would be absurd ; or,
what is far safer, distrust all alike, until one has discovered the
truth. Suppose now, that, being as I am, ignorant which of all
philosophers is really in possession of truth, I choose your sect,
relying on yourself my friend, indeed, yet still ac- quainted only
with the way of the Stoics ; and that then some divine power brought
Plato, and Aristotle, and Pythagoras, and the others, back to life
again. Well ! They would come round about me, and put me on my trial
for my presumption, and say : c In whom was it you confided when
you preferred Zeno and Chrysippus to me? and me? masters of far
more venerable age than those, who are but of yesterday ; and though you
have never held any discussion with us, nor made trial of our
doctrine ? It is not thus that the law would have judges do listen to one
party and refuse to let the other speak for himself. If judges act
thus, there may be an appeal to another tribunal.' What should I answer?
Would it MARIUS THE EPICUREAN be enough to say :
' I trusted my friend Her- motimus ? ' c We know not Hermotimus,
nor he us/ they would tell me ; adding, with a smile, 'your friend
thinks he may believe all our adversaries say of us whether in
ignorance or in malice. Yet if he were umpire in the games, and if
he happened to see one of our wrestlers, by way of a preliminary
exercise, knock to pieces an antagonist of mere empty air, he would
not thereupon pronounce him a victor. Well ! don't let your friend
Hermotimus sup- pose, in like manner, that his teachers have really
prevailed over us in those battles of theirs, fought with our mere
shadows. That, again, were to be like children, lightly
overthrowing their own card-castles ; or like boy-archers, who cry
out when they hit the target of straw. The Persian and Scythian bowmen,
as they speed along, can pierce a bird on the wing.' Let us
leave Plato and the others at rest. It is not for me to contend against
them. Let us rather search out together if the truth of Philosophy
be as I say. Why summon the athletes, and archers from Persia ?
Yes ! let them go, if you think them in the way. And now do you
speak ! You really look as if you had something wonderful to
deliver. -Well then, Lucian ! to me it seems quite possible
for one who has learned the doctrines of the Stoics only, to attain from
those a know- 156 A CONVERSATION NOT
IMAGINARY ledge of the truth, without proceeding to inquire
into all the various tenets of the others. Look at the question in this
way. If one told you that twice two make four, would it be
necessary for you to go the whole round of the arithme- ticians, to
see whether any one of them will say that twice two make five, or seven ?
Would you not see at once that the man tells the truth ? At
once. Why then do you find it impossible that one who has
fallen in with the Stoics only, in their enunciation of what is true,
should adhere to them, and seek after no others ; assured that four
could never be five, even if fifty Platos, fifty Aristotles said so
? f-You are beside the point, Hermotimus ! You are likening
open questions to principles universally received. Have you ever met any
one who said that twice two make five, or seven ? No ! only a
madman would say that. And have you ever met, on the other hand, a
Stoic and an Epicurean who were agreed upon the beginning and the end,
the principle and the final cause, of things ? Never ! Then your
parallel is false. We are inquiring to which of the sects philosophic
truth belongs, and you seize on it by anticipation, and assign it
to the Stoics, alleging, what is by no means clear, that itis they for
whom twice two make four. But the Epicureans, or the Platonists,
MARIUS THE EPICUREAN might say that it is they, in
truth, who make two and two equal four, while you make them five or
seven. Is it not so, when you think virtue the only good, and the
Epicureans plea- sure; when you hold all things to be material^
while the Platonists admit something immaterial? As I said, you resolve
offhand, in favour of the Stoics, the very point which needs a
critical decision. If it is clear beforehand that the Stoics alone
make two and two equal four, then the others must hold their peace.
But so long as that is the very point of debate, we must listen to
all sects alike, or be well- assured that we shall seem but partial in
our judgment. I think, Lucian ! that you do not alto- gether
understand my meaning. To make it clear, then, let us suppose that two
men had entered a temple, of Aesculapius, say ! or Bacchus : and
that afterwards one of the sacred vessels is found to be missing. And the
two men must be searched to see which of them has hidden it under
his garment. For it is certainly in the possession of one or the other of
them. Well ! if it be found on the first there will be no need to
search the second ; if it is not found on the first, then the other must have
it ; and again, there will be no need to search him. Yes ! So
let it be. And we too, Lucian ! if we have found the holy
vessel in possession of the Stoics, shall no longer have need to search
other philosophers, 158 A CONVERSATION NOT IMAGINARY
having attained that we were seeking. Why trouble ourselves further
? No need, if something had indeed been found, and you knew
it to be that lost thing : if, at the least, you could recognise the
sacred object when you saw it. But truly, as the matter now stands,
not two persons only have entered the temple, one or the other of
whom must needs have taken the golden cup, but a whole crowd of
persons. And then, it is not clear what the lost object really is cup,
or flagon, or diadem ; for one of the priests avers this, another
that ; they are not even in agree- ment as to its material : some will
have it to be of brass, others of silver, or gold. It thus becomes
necessary to search the garments of all persons who have entered the temple,
if the lost vessel is to be recovered. And if you find a golden cup
on the first of them, it will still be necessary to proceed in searching
the garments of the others ; for it is not certain that this cup
really belonged to the temple. Might there not be many such golden
vessels ? No ! we must go on to every one of them, placing all that
we find in the midst together, and then make our guess which of all
those things may fairly be supposed to be the property of the god.
For, again, this circumstance adds greatly to our difficulty, that
without exception every one searched is found to have something upon
him cup, or flagon, or diadem, of brass, of silver.
MARIUS THE EPICUREAN of gold : and still, all the while, it
is not ascer- tained which of all these is the sacred thing. And
you must still hesitate to pronounce any one of them guilty of the
sacrilege those objects may be their own lawful property: one cause
of all this obscurity being, as I think, that there was no inscription on
the lost cup, if cup it was. Had the name of the god, or even that
of the donor, been upon it, at least we should have had less trouble, and
having detected the inscription, should have ceased to trouble any
one else by our search. I have nothing to reply to
that. Hardly anything plausible. So that if we wish to find
who it is has the sacred vessel, or who will be our best guide to
Corinth, we must needs proceed to every one and examinehim with the
utmost care, stripping off his garment and considering him closely.
Scarcely, even so, shall we come at the truth. And if we are to
have a credible adviser regarding this question of philosophy which of
all philosophies one ought to follow he alone who is acquainted with
the dicta of every one of them can be such a guide : all others
must be inadequate. I would give no credence to them if they lacked
information as to one only. If somebody introduced a fair person
and told us he was the fairest of all men, we should not believe that, unless
we knew that he had seen all the people in the world. Fair he might
be; but, fairest of all none could 160 A
CONVERSATION NOT IMAGINARY know, unless he had seen all. And we
too desire, not a fair one, but the fairest of all. Unless we find
him, we shall think we have failed. It is no casual beauty that will
content us; what we are seeking after is that supreme beauty which
must of necessity be unique. -What then is one to do, if the matter
be really thus ? Perhaps you know better than I. All I see is that
very few of us would have time to examine all the various sects of
philosophy in turn, even if we began in early life. I know not how
it is ; but though you seem to me to speak reasonably, yet (I must confess
it) you have distressed me not a little by this exact ex- position
of yours. I was unlucky in coming out to-day, and in my falling in with
you, who have thrown me into utter perplexity by your proof that
the discovery of truth is impossible, just as I seemed to be on the point
of attaining my hope. Blame your parents, my child, not me
! Or rather, blame mother Nature herself, for giving us but seventy
or eighty years instead of making us as long-lived as Tithonus. For
my part, I have but led you from premise to conclusion.
Nay ! you are a mocker ! I know not wherefore, but you have a
grudge against philosophy ; and it is your entertainment to make a
jest of her lovers. Ah ! Hermotimus ! what the Truth may p.
in 161 M MARIUS THE EPICUREAN be, you philosophers
may be able to tell better than I. But so much at least I know of
her, that she is one by no means pleasant to those who hear her
speak : in the matter of pleasant- ness , she is far surpassed by
Falsehood : and Falsehood has the pleasanter countenance. She,
nevertheless, being conscious of no alloy within, discourses with
boldness to all men, who there- fore have little love for her. See how
angry you are now because I have stated the truth about certain
things of which we are both alike enamoured that they are hard to come
by. It is as if you had fallen in love with a statue and hoped to
win its favour, thinking it a human creature; and I, understanding it to
be but an image of brass or stone, had shown you, as a friend, that
your love was impossible, and there- upon you had conceived that I bore
you some ill-will. But still, does it not follow from what
you said, that we must renounce philosophy and pass our days in
idleness? When did you hear me say that? I did but assert
that if we are to seek after philo- sophy, whereas there are many ways
professing to lead thereto, we must with much exactness distinguish
them. Well, Lucian ! that we must go to all the schools in
turn, and test what they say, if we are to choose the right one, is
perhaps reasonable; but surely ridiculous, unless we are to live as
162 A CONVERSATION NOT IMAGINARY many
years as the Phoenix, to be so lengthy in the trial of each ; as if it
were not possible to learn the whole by the part! They say that
Pheidias, when he was shown one of the talons of a lion, computed the
stature and age of the animal it belonged to, modelling a complete
lion upon the standard of a single part of it. You too would
recognise a human hand were the rest of the body concealed. Even so with
the schools of philosophy : the leading doctrines of each might be
learned in an afternoon. That over-exactness of yours, which required so
long a time, is by no means necessary for making the better
choice. -You are forcible, Hermotimus ! with this theory of
The Whole by the Part. Yet, methinks, I heard you but now propound the
contrary. But tell me; would Pheidias when he saw the lion's talon
have known that it was a lion's, if he had never seen the animal ? Surely,
the cause of his recognising the part was his knowledge of the whole.
There is a way of choosing one's philosophy even less troublesome
than yours. Put the names of all the philo- sophers into an urn. Then
call a little child, and let him draw the name of the philosopher
you shall follow all the rest of your days. Nay ! be serious with
me. Tell me ; did you ever buy wine ? Surely. And
did you first go the whole round of 163 MARIUS THE
EPICUREAN the wine-merchants, tasting and comparing their
wines ? By no means. No ! You were contented to order
the first good wine you found at your price. By tasting a little
you were ascertained of the quality of the whole cask. How if you had
gone to each of the merchants in turn, and said, ' I wish to buy a cotyle
of wine. Let me drink out the whole cask. Then I shall be able to
tell which is best, and where I ought to buy.' Yet this is what you would
do with the philo- sophies. Why drain the cask when you might
taste, and see ? How slippery you are; how you escape from
one's fingers ! Still, you have given me an advantage, and are in your
own trap. How so ? Thus ! You take a common object
known to every one, and make wine the figure of a thing which
presents the greatest variety in itself, and about which all men are at
variance, because it is an unseen and difficult thing. I hardly
know wherein philosophy and wine are alike unless it be in this, that the
philosophers exchange their ware for money, like the wine- merchants;
some of them with a mixture of water or worse, or giving short measure.
How- ever, let us consider your parallel. The wine in the cask, you
say, is of one kind through- out. But have the philosophers has your
own 164 A CONVERSATION NOT IMAGINARY
master even but one and the same thing only to tell you, every day
and all days, on a subject so manifold? Otherwise, how can you know
the whole by the tasting of one part? The whole is not the same Ah ! and
it may be that God has hidden the good wine of philosophy at the
bottom of the cask. You must drain it to the end if you are to find those
drops of divine sweetness you seem so much to thirst for !
Yourself, after drinking so deeply, are still but at the beginning, as
you said. But is not philosophy rather like this? Keep the figure
of the merchant and the cask : but let it be filled, not with wine, but
with every sort of grain. You come to buy. The merchant hands you a
little of the wheat which lies at the top. Could you tell by looking at
that, whether the chick-peas were clean, the lentils tender, the
beans full ? And then, whereas in selecting our wine we risk only our
money ; in selecting our philosophy we risk ourselves, as you told
me might ourselves sink into the dregs of * the vulgar herd.'
Moreover, while you may not drain the whole cask of wine by way of
tasting, Wisdom grows no less by the depth of your drinking. Nay !
if you take of her, she is in- creased thereby. And then I
have another similitude to pro- pose, as regards this tasting of
philosophy. Don't think I blaspheme her if I say that it may be
with her as with some deadly poison, 165 MARIUS
THE EPICUREAN hemlock or aconite. These too, though they
cause death, yet kill not if one tastes but a minute portion. You would
suppose that the tiniest particle must be sufficient. Be it
as you will, Lucian! One must live a hundred years : one must sustain all
this labour ; otherwise philosophy is unattainable. Not so !
Though there were nothing strange in that, if it be true, as you said at
first, that Life is short and art is long. But now you take it hard
that we are not to see you this very day, before the sun goes down, a
Chrysippus, a Pythagoras, a Plato. You overtake me, Lucian !
and drive me into a corner; in jealousy of heart, I believe,
because I have made some progress in doctrine whereas you have neglected
yourself. Well ! Don't attend to me ! Treat me as a Corybant,
a fanatic : and do you go forward on this road of yours. Finish the
journey in accordance with the view you had of these matters at the
beginning of it. Only, be assured that my judgment on it will remain
unchanged. Reason still says, that without criticism, with- out a
clear, exact, unbiassed intelligence to try them, all those theories all
things will have been seen but in vain. c To that end,' she tells
us, 'much time is necessary, many delays of judgment, a cautious gait;
repeated inspection.' And we are not to regard the outward appear-
ance, or the reputation of wisdom, in any of the 1 66
A CONVERSATION NOT IMAGINARY speakers; but like the judges of
Areopagus, who try their causes in the darkness of the night, look
only to what they say. Philosophy, then, is impossible, or possible
only in another life ! Hermotimus ! I grieve to tell you that
all this even, may be in truth insufficient. After all, we may
deceive ourselves in the belief that we have found something : like the
fishermen ! Again and again they let down the net. At last they
feel something heavy, and with vast labour draw up, not a load of fish,
but only a pot full of sand, or a great stone. I don't
understand what you mean by the net. It is plain that you have caught me
in it. Try to get out ! You can swim as well as another. We
may go to all philosophers in turn and make trial of them. Still, I, for
my part, hold it by no mean certain that any one of them really
possesses what we seek. The truth may be a thing that not one of them has
yet found. You have twenty beans in your hand, and you bid ten
persons guess how many : one says five, another fifteen ; it is possible
that one of them may tell the true number ; but it is not im-
possible that all may be wrong. So it is with the philosophers. All alike
are in search of Happiness what kind of thing it is. One says one
thing, one another : it is pleasure ; it is virtue ; what not ? And
Happiness may indeed be one of those things. But it is possible
167 MARIUS THE EPICUREAN also that it may
be still something else, different and distinct from them all.
What is this? There is something, I know not how, very sad and
disheartening in what you say. We seem to have come round in a
circle to the spot whence we started, and to our first incertitude. Ah !
Lucian, what have you done to me ? You have proved my priceless
pearl to be but ashes, and all my past labour to have been in vain.
Reflect, my friend, that you are not the first person who has thus failed
of the good thing he hoped for. All philosophers, so to speak, are
but fighting about the c ass's shadow.' To me you seem like one who
should weep, and reproach fortune because he is not able to climb
up into heaven, or go down into the sea by Sicily and come up at Cyprus,
or sail on wings in one day from Greece to India. And the true
cause of his trouble is that he has based his hope on what he has seen in
a dream, or his own fancy has put together ; without previous
thought whether what he desires is in itself attainable and within the
compass of human nature. Even so, methinks, has it happened with
you. As you dreamed, so largely, of those wonderful things, came Reason,
and woke you up from sleep, a little roughly : and then you are angry
with Reason, your eyes being still but half open, and find it hard to
shake off sleep for the pleasure of what you saw therein. Only,
168 A CONVERSATION NOT IMAGINARY don't be
angry with me, because, as a friend, I would not suffer you to pass your
life in a dream, pleasant perhaps, but still only a dream because I
wake you up and demand that you should busy yourself with the proper
business of life, and send you to it possessed of common sense.
What your soul was full of just now is not very different from those Gorgons
and Chimaeras and the like, which the poets and the painters con-
struct for us, fancy-free: things which never were, and never will be,
though many believe in them, and all like to see and hear of them,
just because they are so strange and odd. And you too,
methinks, having heard from some such maker of marvels of a certain
woman of a fairness beyond nature beyond the Graces, beyond Venus
Urania herself asked not if he spoke truth, and whether this woman be
really alive in the world, but straightway fell in love with her ;
as they say that Medea was en- amoured of Jason in a dream. And what
more than anything else seduced you, and others like you, into that
passion, for a vain idol of the fancy, is, that he who told you about
that fair woman, from the very moment when you first believed that
what he said was true, brought for- ward all the rest in consequent
order. Upon her alone your eyes were fixed ; by her he led you
along, when once you had given him a hold upon you led you along the
straight road, as he said, to the beloved one. All was easy after
that. 169 MARIUS THE EPICUREAN None
of you asked again whether it was the true way ; following one after
another, like sheep led by the green bough in the hand of the shepherd.
He moved you hither and thither with his finger, as easily as water spilt
on a table ! My friend ! Be not so lengthy in preparing the
banquet, lest you die of hunger ! I saw one who poured water into a
mortar, and ground it with all his might with a pestle of iron,
fancy- ing he did a thing useful and necessary; but it remained
water only, none the less." Just there the conversation broke
off suddenly, and the disputants parted. The horses were come for
Lucian. The boy went on his way, and Marius onward, to visit a friend
whose abode lay further. As he returned to Rome towards evening the
melancholy aspect, natural to a city of the dead, had triumphed over
the superficial gaudiness of the early day. He could almost have
fancied Canidia there, picking her way among the rickety lamps, to rifle
some neglected or ruined tomb ; for these tombs were not all
equally well cared for (Post mortem nescio /) and it had been one of the
pieties of Aurelius to frame a severe law to prevent the defacing
of such monuments. To Marius there seemed to be some new meaning in
that terror of isolation, of being left alone in these places, of which
the sepulchral inscriptions were so full. A blood- red sunset was
dying angrily, and its wild glare upon the shadowy objects around helped
to com- 170 A CONVERSATION NOT IMAGINARY
bine the associations of this famous way, its deeply graven marks
of immemorial travel, together with the earnest questions of the morning
as to the true way of that other sort of travelling, around an
image, almost ghastly in the traces of its great sorrows bearing along
for ever, on bleeding feet, the instrument of its punishment which
was all Marius could recall distinctly of a certain Christian legend he
had heard. The legend told of an encounter at this very spot, of
two wayfarers on the Appian Way, as also upon some very dimly
discerned mental journey, altogether different from himself and his
late companions an encounter between Love, liter- ally fainting by
the road, and Love "travelling in the greatness of his
strength," Love itself, suddenly appearing to sustain that other.
A strange contrast to anything actually presented in that morning's
conversation, it seemed neverthe- less to echo its very words " Do
they never come down again," he heard once more the well-
modulated voice : " Do they never come down again from the heights,
to help those whom they left here below?" "And we too desire,
not a fair one, but the fairest of all. Unless we find him, we shall
think we have failed." 171 CHAPTER
XXV SUNT LACRIM^E RERUM IT was become a habit
with Marius one of his modernisms developed by his assistance at the
Emperor's "conversations with himself," to keep a register of
the movements of his own private thoughts and humours ; not
continuously indeed, yet sometimes for lengthy intervals, dur- ing
which it was no idle self-indulgence, but a necessity of his intellectual
life, to " confess himself," with an intimacy, seemingly
rare among the ancients ; ancient writers, at all evtiits, having
been jealous, for the most part, of affording us so much as a glimpse of
that interior self, which in many cases would have actually doubled
the interest of their objective informations. " If a
particular tutelary or genius" writes Marius, " according to
old belief, walks through life beside each one of us, mine is very
certainly a capricious creature. He fills one with wayward, unaccountable,
yet quite irresistible humours, 172 SUNT
LACRIM^E RERUM and seems always to be in collusion with some
outward circumstance, often trivial enough in itself the condition of the
weather, forsooth ! the people one meets by chance the things one
happens to overhear them say, veritable evofaoi, o-vfjL@o\oi 9 or omens
by the wayside, as the old Greeks fancied to push on the unreason-
able prepossessions of the moment into weighty motives. It was doubtless
a quite explicable, physical fatigue that presented me to myself,
on awaking this morning, so lack-lustre and trite. But I must needs
take my petulance, contrasting it with my accustomed morning hopefulness,
as a sign of the ageing of appetite, of a decay in the very
capacity of enjoyment. We need some imaginative stimulus, some not
impossible ideal such as may shape vague hope, and transform it
into effective desire, to carry us year after year, without disgust,
through the routine-work which is so large a part of life.
"Then, how if appetite, be it for real or ideal, should itself
fail one after awhile ? /^h, yes ! is it of cold always that men die ;
and on some of us it creeps very gradually. In truth, I can
remember just such a lack-lustre condition of feeling once or twice
before. But I note, that it was accompanied then by an odd indifference,
as the thought of them occurred to me, in regard to the sufferings
of others a kind of callousness, so unusual with me, as at once to mark
the humour it accompanied as a palpably morbid one
MARIUS THE EPICUREAN that could not last. Were those
sufferings, great or little, I asked myself then, of more real
conse- quence to them than mine to me, as I remind myself that
'nothing that will end is really long '--long enough to be thought of
import- ance f But to-day, my own sense of fatigue, the pity I
conceive for myself, disposed me strongly to a tenderness for others. For
a moment the whole world seemed to present itself as a hospital of
sick persons ; many of them sick in mind; all of whom it would be a brutality
not to humour, not to indulge. "Why, when I went out to
walk off my wayward fancies, did I confront the very sort of
incident (my unfortunate genius had surely beckoned it from afar to vex
me) likely to irritate them further ? A party of men were coming
down the street. They were leading a fine race-horse; a handsome beast,
but badly hurt somewhere, in the circus, and useless. They were
taking him to slaughter ; and I think the animal knew it : he cast such
looks, as if of mad appeal, to those who passed him, as he went
among the strangers to whom his former owner had committed him, to die,
in his beauty and pride, for just that one mischance or fault ;
although the morning air was still so animating, and pleasant to snuff. I
could have fancied a human soul in the creature, swelling against
its luck. And I had come across the incident just when it would
figure to me as the very symbol 174 SUNT
LACRIM^E RERUM of our poor humanity, in its capacities for
pain, its wretched accidents, and those imperfect sym- pathies,
which can never quite identify us with one another ; the very power of
utterance and appeal to others seeming to fail us, in propor- tion
as our sorrows come home to ourselves, are really our own. We are constructed
for suffer- ing ! What proofs of it does but one day afford, if we
care to note them, as we go a whole long chaplet of sorrowful mysteries !
Sunt lacrimtf rerum et mentem mortalia tangunt. " Men's
fortunes touch us ! The little chil- dren of one of those institutions
for the support of orphans, now become fashionable among us by way
of memorial of eminent persons deceased, are going, in long file, along
the street, on their way to a holiday in the country. They halt,
and count themselves with an air of triumph, to show that they are all
there. Their gay chatter has disturbed a little group of peasants ; a
young woman and her husband, who have brought the old mother, now
past work and witless, to place her in a house provided for such
afflicted people. They are fairly affectionate, but anxious how the
thing they have to do may go hope only she may permit them to leave her
there behind quietly. And the poor old soul is excited by the noise
made by the children, and partly aware of what is going to happen with
her. She too begins to count one, two, three, five on her trembling
fingers, misshapen by a life of toil. 175 MARIUS
THE EPICUREAN ' Yes ! yes ! and twice five make ten ' they
say, to pacify her. It is her last appeal to be taken home again ;
her proof that all is not yet up with her ; that she is, at all events,
still as capable as those joyous children. "At the
baths, a party of labourers are at work upon one of the great brick
furnaces, in a cloud of black dust. A frail young child has brought
food for one of them, and sits apart, waiting till his father comes
watching the labour, but with a sorrowful distaste for the din and
dirt. He is regarding wistfully his own place in the world, there before
him. His mind, as he watches, is grown up for a moment ; and he
foresees, as it were, in that moment, all the long tale of days, of early
awakings, of his own coming life of drudgery at work like this.
" A man comes along carrying a boy whose rough work has
already begun the only child whose presence beside him sweetened
the father's toil a little. The boy has been badly injured by a
fall of brick-work, yet, with an effort, he rides boldly on his father's
shoulders. It will be the way of natural affection to keep him
alive as long as possible, though with that miserably shattered body ' Ah
! with us still, and feeling our care beside him ! ' and yet surely
not without a heartbreaking sigh of relief, alike from him and them, when
the end comes. " On the alert for incidents like these, yet
of necessity passing them by on the other side, I find
176 SUNT LACRIM/E RERUM it hard to get rid
of a sense that I, for one, have failed in love. I could yield to the
humour till I seemed to have had my share in those great public
cruelties, the shocking legal crimes which are on record, like that
cold-blooded slaughter, according to law, of the four hundred slaves
in the reign of Nero, because one of their number was thought to
have murdered his master. The reproach of that, together with the kind of
facile apologies those who had no share in the deed may have made
for it, as they went about quietly on their own affairs that day, seems
to come very close to me, as I think upon it. And to how many of
those now actually around me, whose life is a sore one, must I be
indifferent, if I ever become aware of their soreness at all ? To
some, perhaps, the necessary conditions of my own life may cause me
to be opposed, in a kind of natural conflict, regarding those interests
which actually determine the happiness of theirs. I \ would that a
stronger love might arise in my \ heart ! " Yet there is
plenty of charity in the world. My patron, the Stoic emperor, has made
it even fashionable. To celebrate one of his brief returns to Rome
lately from the war, over and above a largess of gold pieces to all who
would, the public debts were forgiven. He made a nice show of it :
for once, the Romans enter- tained themselves with a good-natured spectacle,
and the whole town came to see the great bon- p. in 177 N
MARIUS THE EPICUREAN fire in the Forum, into which all
bonds and evidence of debt were thrown on delivery, by the emperor
himself; many private creditors following his example. That was done
well enough ! But still the feeling returns to me, that no charity
of ours can get at a certain natural unkindness which I find in things
them- selves. "When I first came to Rome, eager to
observe its religion, especially its antiquities of religious usage, I
assisted at the most curious, perhaps, of them all, the most distinctly
marked with that immobility which is a sort of ideal in the Roman
religion. The ceremony took place at a singular spot some miles distant
from the city, among the low hills on the bank of the Tiber, beyond
the Aurelian Gate. There, in a little wood of venerable trees, piously
allowed their own way, age after age ilex and cypress remaining
where they fell at last, one over the other, and all caught, in that
early May-time, under a riotous tangle of wild clematis was to be
found a magnificent sanctuary, in which the members of the Arval College
assembled them- selves on certain days. The axe never touched those
trees Nay ! it was forbidden to introduce any iron thing whatsoever
within the precincts ; not only because the deities of these quiet
places hate to be disturbed by the harsh noise of metal, but also
in memory of that better age the lost Golden Age the homely age of the
potters, of 178 SUNT LACRIM^E RERUM
which the central act of the festival was a com- memoration.
" The preliminary ceremonies were long and fe complicated, but
of a character familiar enough. Peculiar to the time and place was the
solemn exposition, after lavation of hands, processions backwards
and forwards, and certain changes of vestments, of the identical earthen
vessels veritable relics of the old religion of Numa ! the vessels
from which the holy Numa himself had eaten and drunk, set forth above a
kind of altar, amid a cloud of flowers and incense, and many
lights, for the veneration of the credulous or the faithful.
" They were, in fact, cups or vases of burnt clay, rude in
form : and the religious veneration thus offered to them expressed men's
desire to give honour to a simpler age, before iron had found place
in human life : the persuasion that that age was worth remembering : a
hope that it might come again. " That a Numa, and his
age of gold, would return, has been the hope or the dream of some,
in every period. Yet if he did come back, or any equivalent of his
presence, he could but weaken, and by no means smite through, that
root of evil, certainly of sorrow, of outraged human sense, in things, which
one must care- fully distinguish from all preventible accidents.
Death, and the little perpetual daily dyings, which have something of its
sting, he must 179 MARIUS THE EPICUREAN
necessarily leave untouched. And, methinks, that were all the rest
of man's life framed entirely to his liking, he would straightway
begin to sadden himself, over the fate say, of the flowers ! For there
is, there has come to be since Numa lived perhaps, a capacity for
sorrow in his heart, which grows with all the growth, alike of the
individual and of the race, in intel- lectual delicacy and power, and
which 'will find its aliment. " Of that sort of golden
age, indeed, one discerns even now a trace, here and there. Often
have I maintained that, in this generous southern country at least,
Epicureanism is the special philosophy of the poor. How little I
myself really need, when people leave me alone, with the intellectual
powers at work serenely. The drops of falling water, a few wild
flowers with their priceless fragrance, a few tufts even of
half-dead leaves, changing colour in the quiet of a room that has but
light and shadow in it; these, for a susceptible mind, might well do
duty for all the glory of Augustus. I notice some- times what I
conceive to be the precise character of the fondness of the roughest
working-people for their young children, a fine appreciation, not
only of their serviceable affection, but of their visible graces : and
indeed, in this country, the children are almost always worth looking at.
I see daily, in fine weather, a child like a delicate nosegay,
running to meet the rudest of brick- 180 SUNT
LACRIJVLE RERUM makers as he comes from work. She is not at
all afraid to hang upon his rough hand : and through her, he reaches out
to, he makes his own, something from that strange region, so dis-
tant from him yet so real, of the world's refine- ment. What is of finer
soul, or of finer stuff in things, and demands delicate touching to
him the delicacy of the little child represents that : it initiates
him into that. There, surely, is a touch of the secular gold, of a
perpetual age of gold. But then again, think for a moment, with
what a hard humour at the nature of things, his struggle for bare life will
go on, if the child should happen to die. I observed to-day, under
one of the archways of the baths, two children at play, a little
seriously a fair girl and her crippled younger brother. Two toy
chairs and a little table, and sprigs of fir set upright in the sand for
a garden ! They played at housekeeping. Well ! the girl thinks her
life a perfectly good thing in the service of this crippled brother. But
she will have a jealous lover in time: and the boy, though his face
is not altogether unpleasant, is after all a hopeless
cripple. " For there is a certain grief in things as
they are, in man as he has come to be, as he certainly is, over and
above those griefs of circumstance which are in a measure removable some
inex- plicable shortcoming, or misadventure, on the part of nature
itself death, and old age as it 181 MARIUS THE
EPICUREAN must needs be, and that watching for their ap-
proach, which makes every stage of life like a dying over and over again.
Almost all death is painful, and in every thing that comes to an
end a touch of death, and therefore of wretched coldness struck home to
one, of remorse, of loss and parting, of outraged attachments.
Given faultless men and women, given a perfect state of society
which should have no need to practise on men's susceptibilities for its
own selfish ends, adding one turn more to the wheel of the great
rack for its own interest or amusement, there would still be this evil in
the world, of a certain necessary sorrow and desolation, felt, just in
pro- portion to the moral, or nervous perfection men have attained
to. And what we need in the world, over against that, is a certain
permanent and general power of compassion humanity's standing force
of self-pity as an elementary ingredient of our social atmosphere, if we
are to live in it at all. I wonder, sometimes, in what way man has
cajoled himself into the bearing of his burden thus far, seeing how every
step in the capacity of apprehension his labour has won for him,
from age to age, must needs increase his dejection. It is as if the
increase of know- ledge were but an increasing revelation of the
radical hopelessness of his position : and I would that there were one
even as I, behind this vain show of things ! " At all
events, the actual conditions of our 182 SUNT LACRIM^E
RERUM life being as they are, and the capacity for suffering
so large a principle in things since the only principle, perhaps, to
which we may always safely trust is a ready sympathy with the pain
one actually sees it follows that the ' practical and effective
difference between men will lie in their power of insight into those
con- ditions, their power of sympathy. The future 1 will be with
those who have most of it ; while for the present, as I persuade myself,
those who have much of it, have something to hold by, even in the
dissolution of a world, or in that dissolution of self, which is, for
every one, no less than the dissolution of the world it repre-
sents for him. Nearly all of us, I suppose, have had our moments, in
which any effective sym- pathy for us on the part of others has
seemed impossible ; in which our pain has seemed a stupid outrage
upon us, like some overwhelming physical violence, from which we could
take refuge, at best, only in some mere general sense of goodwill
somewhere in the world perhaps. And then, to one's surprise, the
discovery of that goodwill, if it were only in a not unfriendly
animal, may seem to have explained, to have actually justified to us, the
fact of our pain. There have been occasions, certainly, when I have
felt that if others cared for me as I cared for them, it would be, not so
much a consola- tion, as an equivalent, for what one has lost or
suffered : a realised profit on the summing up 183
MARIUS THE EPICUREAN of one's accounts : a touching of that
absolute ground amid all the changes of phenomena, such as our
philosophers have of late confessed them- selves quite unable to discover.
In the mere clinging of human creatures to each other, nay ! in
one's own solitary self-pity, amid the effects even of what might appear
irredeemable loss, I seem to touch the eternal. Something in that
pitiful contact, something new and true, fact or apprehension of fact, is
educed, which, on a review of all the perplexities of life, satisfies
our moral sense, and removes that appearance of unkindness in the
soul of things themselves, and assures us that not everything has been
in vain. " And I know not how, but in the thought
thus suggested, I seem to take up, and re-knit 'myself to, a
well-remembered hour, when by some gracious accident it was on a
journey- all things about me fell into a more perfect har- mony
than is their wont. Everything seemed to be, for a moment, after all,
almost for the best. Through the train of my thoughts, one against
another, it was as if I became aware of the dominant power of another
person in contro- versy, wrestling with me. I seem to be come round
to the point at which I left off then. The antagonist has closed with me
again. A protest comes, out of the very depths of man's radically
hopeless condition in the world, with the energy of one of those
suffering yet prevail- 184 SUNT LACRI1VLE RERUM
ing deities, of which old poetry tells. Dared one hope that
there is a heart, even as ours, in that divine e Assistant ' of one's
thoughts a heart even as mine, behind this vain show of
things!" 185 CHAPTER XXVI
THE MARTYRS " Ah ! voila les ames qu'il falloit a la
miennc ! " Rousseau. THE charm of its poetry, a
poetry of the affec- tions, wonderfully fresh in the midst of a
thread- bare world, would have led Marius, if nothing else had done
so, again and again, to Cecilia's house. He found a range of intellectual
plea- sures, altogether new to him, in the sympathy of that pure
and elevated soul. Elevation of soul, generosity, humanity little by
little it came to seem to him as if these existed nowhere else. The
sentiment of maternity, above all, as it might be understood there, its
claims, with the claims of all natural feeling everywhere, down to
the sheep bleating on the hills, nay ! even to the mother-wolf, in her
hungry cave seemed to have been vindicated, to have been enforced
anew, by the sanction of some divine pattern thereof. He saw its
legitimate place in the world given at last to the bare capacity
for 186 THE MARTYRS suffering in any
creature, however feeble or apparently useless. In this chivalry, seeming
to leave the world's heroism a mere property of the stage, in this
so scrupulous fidelity to what could not help itself, could scarcely
claim not to be forgotten, what a contrast to the hard contempt of
one's own or other's pain, of death, of glory even, in those discourses
of Aurelius ! But if Marius thought at times that some
long - cherished desires were now about to blossom for him, in the sort
of home he had sometimes pictured to himself, the very charm of
which would lie in its contrast to any random affections : that in this
woman, to whom children instinctively clung, he might find such a
sister, at least, as he had always longed for ; there were also
circumstances which reminded him that a certain rule forbidding
second marriages, was among these people still in force ; ominous
incidents, moreover, warning a suscep- tible conscience not to mix
together the spirit and the flesh, nor make the matter of a
heavenly banquet serve for earthly meat and drink. One day he
found Cecilia occupied with the burial of one of the children of her
household. It was from the tiny brow of such a child, as he now
heard, that the new light had first shone forth upon them through the
light of mere physical life, glowing there again, when the child
was dead, or supposed to be dead. The 187 MARIUS
THE EPICUREAN aged servant of Christ had arrived in the midst
of their noisy grief; and mounting to the little chamber where it lay,
had returned, not long afterwards, with the child stirring in his arms
as he descended the stair rapidly ; bursting open the closely-wound
folds of the shroud and scattering the funeral flowers from them, as
the soul kindled once more through its limbs. Old Roman
common-sense had taught people to occupy their thoughts as little as might
be with children who died young. Here, to-day, however, in this
curious house, all thoughts were tenderly bent on the little waxen
figure, yet with a kind of exultation and joy, notwith- standing
the loud weeping of the mother. The other children, its late companions,
broke with it, suddenly, into the place where the deep black bed
lay open to receive it. Pushing away the grim fossores, the
grave-diggers, they ranged themselves around it in order, and chanted
that old psalm of theirs Laudate pueri dominum ! Dead children,
children's graves Marius had been always half aware of an old
superstitious fancy in his mind concerning them; as if in coming
near them he came near the failure of some lately-born hope or purpose of
his own. And now, perusing intently the expression with which
Cecilia assisted, directed, returned after- wards to her house, he felt
that he too had had to-day his funeral of a little child. But it
had always been his policy, through all his pursuit 188
THE MARTYRS of " experience/' to take flight in
time from any too disturbing passion, from any sort of affection
likely to quicken his pulses beyond the point at which the quiet work of
life was practicable. Had he, after all, been taken unawares, so
that it was no longer possible for him to fly ? At least, during
the journey he took, by way of test- ing the existence of any chain about
him, he found a certain disappointment at his heart, greater than
he could have anticipated; and as he passed over the crisp leaves, nipped
off in multitudes by the first sudden cold of winter, he felt that
the mental atmosphere within himself was perceptibly colder.
Yet it was, finally, a quite successful resigna- tion which he achieved,
on a review, after his manner, during that absence, of loss or
gain. The image of Cecilia, it would seem, was already become for
him like some matter of poetry, or of another man's story, or a picture
on the wall. And on his return to Rome there had been a rumour in
that singular company, of things which spoke certainly not of any
merely tranquil loving : hinted rather that he had come across a
world, the lightest contact with which might make appropriate to himself
also the precept that " They which have wives be as they that
have none." This was brought home to him, when, in early
spring, he ventured once more to listen to the sweet singing of the
Eucharist. It breathed 189 MARIUS THE
EPICUREAN more than ever the spirit of a wonderful hop* of
hopes more daring than poor, labouring humanity had ever seriously
entertained before, though it was plain that a great calamity was
befallen. Amid stifled sobbing, even as the pathetic words of the psalter
relieved the tension of their hearts, the people around him still
wore upon their faces their habitual gleam of joy, of placid
satisfaction. They were still under the influence of an immense gratitude
in thinking. even amid their present distress, of the hour or a
great deliverance. As he followed again that mystical dialogue, he felt
also again, like a mighty spirit about him, the potency, the half-
realised presence, of a great multitude, as if thronging along those
awful passages, to hear the sentence of its release from prison; a
company which represented nothing less than orbis ter- rarum the
whole company of mankind. And the special note of the day expressed that
relief a sound new to him, drawn deep from some old Hebrew source,
as he conjectured, Alleluia! repeated over and over again, Alleluia!
Alleluia! at every pause and movement of the long Easter
ceremonies. And then, in its place, by way of sacred lection,
although in shocking contrast with the peaceful dignity of all around,
came the Epistle of the churches of Lyons and Vienne^ to "
their sister,'' the church of Rome. For the "Peace" of
the church had been broken broken, as 190 THE
MARTYRS Marius could not but acknowledge, on the
responsibility of the emperor Aurelius himself, following tamely, and as
a matter of course, the traces of his predecessors, gratuitously
enlisting, against the good as well as the evil of that great pagan
world, the strange new heroism of which this singular message was full.
The greatness of it certainly lifted away all merely private regret,
inclining one, at last, actually to draw sword for the oppressed, as if
in some new order of knighthood " The pains which our
brethren have endured we have no power fully to tell, for the enemy
came upon us with his whole strength. But the grace of God fought for us,
set free the weak, and made ready those who, like pillars, were
able to bear the weight. These, coming now into close strife with the
foe, bore every kind of pang and shame. At the time of the fair which
is held here with a great crowd, the governor led forth the Martyrs as a
show. Holding what was thought great but little, and that the pains
of to-day are not deserving to be measured against the glory that shall
be made known, these worthy wrestlers went joyfully on their way;
their delight and the sweet favour of God mingling in their faces, so
that their bonds seemed but a goodly array, or like the golden
bracelets of a bride. Filled with the fragrance of Christ, to some they
seemed to have been touched with earthly perfumes. 191
MARIUS THE EPICUREAN " Vettius Epagathus, though
he was vei young, because he would not endure to see unjust
judgment given against us, vented his anger, and sought to be heard for
the brethren, for he was a youth of high place. Whereupon the
governor asked him whether he also were a Christian. He confessed in a
clear voice, and was added to the number of the Martyrs. But he had
the Paraclete within him ; as, in truth, he showed by the fulness of his
love; glorying in the defence of his brethren, and to give his life
for theirs. " Then was fulfilled the saying of the Lord
that the day should come, When he that slayeth you 'will think that he
doeth God service. Most madly did the mob, the governor and the
soldiers, rage against the handmaiden Blandina, in whom Christ showed
that what seems mean among men is of price with Him. For whilst we
all, and her earthly mistress, who was herself one of the contending
Martyrs, were fearful lest through the weakness of the flesh she should
be unable to profess the faith, Blandina was filled with such power
that her tormentors, following upon each other from morning until
night, owned that they were overcome, and had no more that they
could do to her ; admiring that she still breathed after her whole body
was torn asunder. " But this blessed one, in the very
midst of her c witness,' renewed her strength ; and to
192 THE MARTYRS repeat, / am Christ's !
was to her rest, refresh- ment, and relief from pain. As for
Alexander, he neither uttered a groan nor any sound at all, but in
his heart talked with God. Sanctus, the deacon, also, having borne beyond
all measure pains devised by them, hoping that they would get
something from him, did not so much as tell his name ; but to all
questions answered only, / am Chrises ! For this he confessed instead
of his name, his race, and everything beside. Whence also a strife
in torturing him arose between the governor and those tormentors, so
that when they had nothing else they could do they set red-hot plates of
brass to the most tender parts of his body. But he stood firm in
his profession, cooled and fortified by that stream of living water which
flows from Christ. His corpse, a single wound, having wholly lost
the form of man, was the measure of his pain. But Christ, paining in him,
set forth an en- sample to the rest that there is nothing fearful,
nothing painful, where the love of the Father overcomes. And as all those
cruelties were made null through the patience of the Martyrs, they
bethought them of other things ; among which was their imprisonment in a
dark and most sorrowful place, where many were privily strangled.
But destitute of man's aid, they were filled with power from the Lord,
both in body and mind, and strengthened their brethren. Also, much
joy was in our virgin mother, the p. in 193 o MARIUS
THE EPICUREAN Church ; for, by means of these, such as were
fallen away retraced their steps were again con- ceived, were filled again
with lively heat, and hastened to make the profession of their
faith. "The holy bishop Pothinus, who was now past
ninety years old and weak in body, yet in his heat of soul and longing
for martyrdom, roused what strength he had, and was also cruelly
dragged to judgment, and gave witness. Thereupon he suffered many
stripes, all thinking it would be a wickedness if they fell short
in cruelty towards him, for that thus their own gods would be
avenged. Hardly drawing breath, he was thrown into prison, and after two
days there died. "After these things their martyrdom
was parted into divers manners. Plaiting as it were one crown of
many colours and every sort of flowers, they offered it to God. Maturus,
there- fore, Sanctus and Blandina, were led to the wild beasts. And
Maturus and Sanctus passed through all the pains of the amphitheatre, as
if they had suffered nothing before : or rather, as having in many
trials overcome, and now contending for the prize itself, were at last
dismissed. " But Blandina was bound and hung upon a
stake, and set forth as food for the assault of the wild beasts. And as
she thus seemed to be hung upon the Cross, by her fiery prayers she
imparted much alacrity to those contending Witnesses. For as they looked
upon her with the eye of 194 THE MARTYRS
flesh, through her, they saw Him that was cruci- fied. But as none
of the beasts would then touch her, she was taken down from the Cross,
and sent back to prison for another day : that, though weak and
mean, yet clothed with the mighty wrestler, Christ Jesus, she might by
many con- quests give heart to her brethren. " On the
last day, therefore, of the shows, she was brought forth again, together
with Ponticus, a lad of about fifteen years old. They were brought
in day by day to behold the pains of the rest. And when they wavered not,
the mob was full of rage ; pitying neither the youth of the lad,
nor the sex of the maiden. Hence, they drave them through the whole round
of pain. And Ponticus, taking heart from Blandina, hav- ing borne
well the whole of those torments, gave up his life. Last of all, the
blessed Blandina herself, as a mother that had given life to her
children, and sent them like conquerors to the great King, hastened to
them, with joy at the end, as to a marriage-feast; the enemy
himself confessing that no woman had ever borne pain so manifold
and great as hers. " Nor even so was their anger appeased ;
some among them seeking for us pains, if it might be, yet greater;
that the saying might be fulfilled, He that is unjust, let him be unjust
still. And their rage against the Martyrs took a new form, insomuch
that we were in great sorrow for lack of freedom to entrust their bodies
to the earth, 195 MARIUS THE EPICUREAN
Neither did the night-time, nor the offer of money, avail us for
this matter; but they set watch with much carefulness, as though it
were a great gain to hinder their burial. Therefore, after the
bodies had been displayed to view for many days, they were at last burned
to ashes, and cast into the river Rhone, which flows by this place,
that not a vestige of them might be left upon the earth. For they said,
Now shall we see whether they will rise again, and whether their
God can save them out of our hands" 196
CHAPTER XXVII THE TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS NOT
many months after the date of that epistle, Marius, then expecting to
leave Rome for a long time, and in fact about to leave it for ever,
stood to witness the triumphal entry of Marcus Aurelius, almost at the
exact spot from which he had watched the emperor's solemn return to
the capital on his own first coming thither. His triumph was now a "
full " one Justus Triumphus justified, by far more than the
due amount of bloodshed in those Northern wars, at length, it might
seem, happily at an end. Among the captives, amid the laughter of
the crowds at his blowsy upper garment, his trousered legs and
conical wolf-skin cap, walked our own ancestor, representative of subject
Germany, under a figure very familiar in later Roman sculpture;
and, though certainly with none of the grace of the Dying Gau/, yet with
plenty of uncouth pathos in his misshapen features, and the pale,
servile, yet angry eyes. His children, 197
MARIUS THE EPICUREAN white-skinned and golden-haired
" as angels," trudged beside him. His brothers, of the
animal world, the ibex, the wild-cat, and the reindeer, stalking
and trumpeting grandly, found their due place in the procession; and
among the spoil, set forth on a portable frame that it might be
distinctly seen (no mere model, but the very house he had lived in), a
wattled cottage, in all the simplicity of its snug contrivances
against the cold, and well-calculated to give a moment's delight to
his new, sophisticated masters. Andrea Mantegna, working at the end
of the fifteenth century, for a society full of antiquarian fervour
at the sight of the earthy relics of the old Roman people, day by day
returning to light out of the clay childish still, moreover, and
with no more suspicion of pasteboard than the old Romans themselves, in
its unabashed love of open-air pageantries, has invested this, the
great- est, and alas ! the most characteristic, of the splendours of
imperial Rome, with a reality livelier than any description. The homely
senti- ments for which he has found place in his learned paintings
are hardly more lifelike than the great public incidents of the show,
there depicted. And then, with all that vivid realism, how refined,
how dignified, how select in type, is this reflection of the old Roman
world ! now especially, in its time-mellowed red and gold, for the
modern visitor to the old English palace. 198
TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS It was under no such selected
types that the great procession presented itself to Marius ;
though, in effect, he found something there pro- phetic, so to speak, and
evocative of ghosts, as susceptible minds will do, upon a repetition
after long interval of some notable incident, which may yet perhaps
have no direct concern for themselves. In truth, he had been so
closely bent of late on certain very personal interests that the
broad current of the world's doings seemed to have withdrawn into the
distance, but now, as he witnessed this procession, to return once
more into evidence for him. The world, certainly, had been holding on its
old way, and was all its old self, as it thus passed by dramatic-
ally, accentuating, in this favourite spectacle, its mode of viewing
things. And even apart from the contrast of a very different scene, he
would have found it, just now, a somewhat vulgar spectacle. The
temples, wide open, with their ropes of roses flapping in the wind against
the rich, reflecting marble, their startling draperies and heavy
cloud of incense, were but the centres of a great banquet spread through
all the gaudily coloured streets of Rome, for which the carnivo-
rous appetite of those who thronged them in the glare of the mid -day sun
was frankly enough asserted. At best, they were but calling their
gods to share with them the cooked, sacrificial, and other meats, reeking
to the sky. The child, who was concerned for the sorrows of one of
199 MARIUS THE EPICUREAN those Northern
captives as he passed by, and explained to his comrade "There's
feeling in that hand, you know ! " benumbed and lifeless as it
looked in the chain, seemed, in a moment, to transform the entire show
into its own proper tinsel. Yes ! these Romans were a coarse, a
vulgar people; and their vulgarities of soul in full evidence here. And
Aurelius himself seemed to have undergone the world's coinage, and
fallen to the level of his reward, in a medi- ocrity no longer golden.
Yet if, as he passed by, almost filling the quaint old circular
chariot with his magnificent golden-flowered attire, he presented himself
to Marius, chiefly as one who had made the great mistake ; to the
multitude he came as a more than magnanimous conqueror. That he had
" forgiven " the innocent wife and children of the dashing and
almost successful rebel Avidius Cassius, now no more, was a recent
circumstance still in memory. As the children went past not among
those who, ere the emperor ascended the steps of the Capitol, would be
detached from the great progress for execution, happy rather, and
radiant, as adopted members of the imperial family the crowd actually
enjoyed an exhibi- tion of the moral order, such as might become
perhaps the fashion. And it was in considera- tion of some possible touch
of a heroism herein that might really have cost him something, that
Marius resolved to seek the emperor once more, 200
TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS with an appeal for common-sense,
for reason and justice. He had set out at last to revisit his
old home ; and knowing that Aurelius was then in retreat at a
favourite villa, which lay almost on his way thither, determined there to
present himself. Although the great plain was dying steadily, a new
race of wild birds establishing itself there, as he knew enough of their
habits to understand, and the idle contadino^ with his never-ending
ditty of decay and death, replacing the lusty Roman labourer, never had
that poetic region between Rome and the sea more deeply im- pressed
him than on this sunless day of early autumn, under which all that fell
within the immense horizon was presented in one uniform tone of a
clear, penitential blue. Stimulating to the fancy as was that range of
low hills to the northwards, already troubled with the upbreak- ing
of the Apennines, yet a want of quiet in their outline, the record of
wild fracture there, of sudden upheaval and depression, marked them
as but the ruins of nature ; while at every little descent and ascent of
the road might be noted traces of the abandoned work of man. From
time to time, the way was still redolent of the floral relics of summer,
daphne and myrtle- blossom, sheltered in the little hollows and
ravines. At last, amid rocks here and there piercing the soil, as those
descents became steeper, and the main line of the Apennines,
201 MARIUS THE EPICUREAN now visible, gave
a higher accent to the scene, he espied over the plateau^ almost like one
of those broken hills, cutting the horizon towards the sea, the old
brown villa itself, rich in memories of one after another of the family
of the Antonines. As he approached it, such remi- niscences crowded
upon him, above all of the life there of the aged Antoninus Pius, in its
wonderful mansuetude and calm. Death had overtaken him here at the
precise moment when the tribune of the watch had received from his
lips the word Aequanimitas! as the watchword of the night. To see their
emperor living there like one of his simplest subjects, his hands red
at vintage-time with the juice of the grapes, hunt- ing, teaching
his children, starting betimes, with all who cared to join him, for long
days of anti- quarian research in the country around : this, and
the like of this, had seemed to mean the peace of mankind.
Upon that had come like a stain ! it seemed to Marius just then the
more intimate life of Faustina, the life of Faustina at home.
Surely, that marvellous but malign beauty must still haunt those
rooms, like an unquiet, dead goddess, who might have perhaps, after all,
something reassuring to tell surviving mortals about her ambiguous
self. When, two years since, the news had reached Rome that those eyes,
always so persistently turned to vanity, had suddenly closed for
ever, a strong desire to pray had come 202
TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS over Marius, as he followed in
fancy on its wild way the soul of one he had spoken with now and
again, and whose presence in it for a time the world of art could so ill
have spared. Certainly, the honours freely accorded to embalm her
memory were poetic enough the rich temple left among those wild villagers
at the spot, now it was hoped sacred for ever, where she had
breathed her last ; the golden image, in her old place at the
amphitheatre ; the altar at which the newly married might make their
sacrifice ; above all, the great foundation for orphan girls, to be
called after her name. The latter, precisely, was the cause why
Marius failed in fact to see Aurelius again, and make the chivalrous
effort at enlightenment he had proposed to himself. Entering the
villa, he learned from an usher, at the door of the long gallery,
famous still for its grand prospect in the memory of many a visitor, and
then lead- ing to the imperial apartments, that the emperor was
already in audience : Marius must wait his turn he knew not how long it
might be. An odd audience it seemed ; for at that moment, through
the closed door, came shouts of laughter, the laughter of a great crowd
of children the " Faustinian Children " themselves, as he
after- wards learned happy and at their ease, in the imperial
presence. Uncertain, then, of the time for which so pleasant a reception
might last, so pleasant that he would hardly have wished to
203 MARIUS THE EPICUREAN shorten it,
Marius finally determined to proceed, as it was necessary that he should
accomplish the first stage of his journey on this day. The thing was
not to be Vale ! anima infelicissima ! He might at least carry away that
sound of the laughing orphan children, as a not unamiable last
impression of kings and their houses. The place he was now about to
visit, especi- ally as the resting-place of his dead, had never
been forgotten. Only, the first eager period of his life in Rome had
slipped on rapidly ; and, almost on a sudden, that old time had come
to seem very long ago. An almost burdensome solemnity had grown
about his memory of the place, so that to revisit it seemed a thing
that needed preparation : it was what he could not have done
hastily. He half feared to lessen, or disturb, its value for himself. And
then, as he travelled leisurely towards it, and so far with quite
tranquil mind, interested also in many another place by the way, he
discovered a shorter road to the end of his journey, and found
himself indeed approaching the spot that was to him like no other.
Dreaming now only of the dead before him, he journeyed on rapidly
through the night ; the thought of them increasing on him, in the
darkness. It was as if they had been waiting for him there through all
those years, and felt his footsteps approaching now, and understood
his devotion, quite gratefully, in that lowliness of theirs, in spite of
its tardy 204 TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS
fulfilment. As morning came, his late tran- quillity of mind had
given way to a grief which surprised him by its freshness. He was
moved more than he could have thought possible by so distant a
sorrow. " To-day ! " they seemed to be saying as the hard dawn
broke, " To-day, he will come ! " At last, amid all his
distractions, they were become the main purpose of what he was then
doing. The world around it, when he actually reached the place later in
the day, was in a mood very different from his : so work- a-day, it
seemed, on that fine afternoon, and the villages he passed through so
silent ; the inhabitants being, for the most part, at their labour
in the country. Then, at length, above the tiled outbuildings, were the
walls of the old villa itself, with the tower for the pigeons ;
and, not among cypresses, but half-hidden by aged poplar-trees,
their leaves like golden fruit, the birds floating around it, the conical
roof of the tomb itself. In the presence of an old servant who
remembered him, the great seals were broken, the rusty key turned at last
in the lock, the door was forced out among the weeds grown thickly
about it, and Marius was actually in the place which had been so often in
his thoughts. He was struck, not however without a touch of
remorse thereupon, chiefly by an odd air of neglect, the neglect of a
place allowed to remain as when it was last used, and left in a hurry,
till long years had covered all alike with thick dust
205 MARIUS THE EPICUREAN the faded
flowers, the burnt-out lamps, the tools and hardened mortar of the
workmen who had had something to do there. A heavy fragment of
woodwork had fallen and chipped open one of the oldest of the mortuary
urns, many hundreds in number ranged around the walls. It was not
properly an urn, but a minute coffin of stone, and the fracture had
revealed a piteous spectacle of the mouldering, unburned remains
within ; the bones of a child, as he understood, which might have died,
in ripe age, three times over, since it slipped away from among his
great-grandfathers, so far up in the line. Yet the protruding baby hand
seemed to stir up in him feelings vivid enough, bringing him
intimately within the scope of dead people's grievances. He noticed, side
by side with the urn of his mother, that of a boy of about his own
age one of the serving-boys of the household who had descended hither,
from the lightsome world of childhood, almost at the same time with
her. It seemed as if this boy of his own age had taken filial place
beside her there, in his stead. That hard feeling, again, which had
always lingered in his mind with the thought of the father he had
scarcely known, melted wholly away, as he read the precise number of
his years, and reflected suddenly He was of my own present age ; no hard
old man, but with interests, as he looked round him on the world
for the last time, even as mine to-day ! 206
TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS And with that came a blinding rush
of kindness, as if two alienated friends had come to under- stand
each other at last. There was weakness in all this ; as there is in all
care for dead persons, to which nevertheless people will always
yield in proportion as they really care for one another. With a
vain yearning, as he stood there, still to be able to do something for
them, he reflected that such doing must be, after all, in the
nature of things, mainly for himself. His own epitaph might be that
old one "Eo-^aTo? TOV ISlov yevov? He was the last of his race ! Of
those who might come hither after himself probably no one would
ever again come quite as he had done to-day ; and it was under the
influence of this thought that he determined to bury all that, deep
below the surface, to be remembered only by him, and in a way which would
claim no sentiment from the indifferent. That took many days was
like a renewal of lengthy old burial rites as he himself watched the
work, early and late ; coming on the last day very early, and
anticipating, by stealth, the last touches, while the workmen were absent
; one young lad only, finally smoothing down the earthy bed,
greatly surprised at the seriousness with which Marius flung in his
flowers, one by one, to mingle with the dark mould.
207 CHAPTER XXVIII ANIMA
NATURALITER CHRISTIANA THOSE eight days at his old home, so
mournfully occupied, had been for Marius in some sort a forcible
disruption from the world and the roots of his life in it. He had been
carried out of himself as never before ; and when the time was
over, it was as if the claim over him of the earth below had been
vindicated, over against the interests of that living world around.
Dead, yet sentient and caressing hands seemed to reach out of the
ground and to be clinging about him. Looking back sometimes now, from
about the midway of life the age, as he conceived, at which one
begins to re-descend one's life though antedating it a little, in his sad
humour, he would note, almost with surprise, the un- broken
placidity of the contemplation in which it had been passed. His own
temper, his early theoretic scheme of things, would have pushed him
on to movement and adventure. Actually, as circumstances had determined,
all its move- 208 ANIMA NATURALITER
CHRISTIANA ment had been inward ; movement of observa- tion
only, or even of pure meditation ; in part, perhaps, because throughout
it had been some- thing of a meditatio mortis^ ever facing towards
the act of final detachment. Death, however, as he reflected, must be for
every one nothing ( less than the fifth or last act of a drama, and, as
1 such, was likely to have something of the stirring ! character of
a denouement. And, in fact, it was in form tragic enough that his end not
long after- ' wards came to him. In the midst of the extreme
weariness and depression which had followed those last days,
Cornelius, then, as it happened, on a journey and travelling near the
place, finding traces of him, had become his guest at Whitenights. It
was just then that Marius felt, as he had never done before, the
value to himself, the overpowering charm, of his friendship. " More
than brother ! " he felt " like a son also ! " contrasting
the fatigue of soul which made himself in effect an older man, with
the irrepressible youth of his companion. For it was still the
marvellous hopefulness of Cornelius, his seeming prerogative over
the future, that determined, and kept alive, all other sentiment concerning
him. A new hope had sprung up in the world of which he, Cornelius,
was a depositary, which he was to bear onward in it. Identifying himself
with Cornelius in so dear a friendship, through him, Marius seemed
to touch, to ally himself to, p. in 209 p MARIUS THE
EPICUREAN actually to become a possessor of the coming world
; even as happy parents reach out, and take possession of it, in and
through the survival of their children. For in these days their
intimacy had grown very close, as they moved hither and thither,
leisurely, among the country- places thereabout, Cornelius being on his
way back to Rome, till they came one evening to a little town
(Marius remembered that he had been there on his first journey to Rome)
which had even then its church and legend the legend and holy
relics of the martyr Hyacinthus, a young Roman soldier, whose blood had
stained the soil of this place in the reign of the emperor
Trajan. The thought of that so recent death, haunted Marius
through the night, as if with audible crying and sighs above the restless
wind, which came and went around their lodging. But towards dawn he
slept heavily ; and awaking in broad daylight, and finding Cornelius
absent, set forth to seek him. The plague was still in the place
had indeed just broken out afresh ; with an outbreak also of cruel
superstition among its wild and miserable inhabitants. Surely, the
old gods were wroth at the presence of this new enemy among them !
And it was no ordinary morning into which Marius stepped forth.
There was a menace in the dark masses of hill, and motionless wood,
against the gray, although apparently unclouded sky. Under this
sunless 210 ANIMA NATURALITER CHRISTIANA
heaven the earth itself seemed to fret and fume with a heat of its
own, in spite of the strong night-wind. And now the wind had
fallen. Marius felt that he breathed some strange heavy fluid,
denser than any common air. He could have fancied that the world had
sunken in the night, far below its proper level, into some close,
thick abysm of its own atmosphere. The Christian people of the town,
hardly less terrified and overwrought by the haunting sick- ness
about them than their pagan neighbours, were at prayer before the tomb of
the martyr ; and even as Marius pressed among them to a place
beside Cornelius, on a sudden the hills seemed to roll like a sea in
motion, around the whole compass of the horizon. For a moment
Marius supposed himself attacked with some sudden sickness of brain, till
the fall of a great mass of building convinced him that not himself
but the earth under his feet was giddy. A few moments later the little
market- place was alive with the rush of the distracted inhabitants
from their tottering houses ; and as they waited anxiously for the second
shock of earthquake, a long -smouldering suspicion leapt
precipitately into well-defined purpose, and the whole body of people was
carried forward towards the band of worshippers below. An hour
later, in the wild tumult which followed, the earth had been stained
afresh with the blood of the martyrs Felix and Faustinus F lores
21 I MARIUS THE EPICUREAN apparuerunt in
terra nostra ! and their brethren, together with Cornelius and Marius,
thus, as it had happened, taken among them, were prisoners,
reserved for the action of the law. Marius and his friend, with certain
others, exercising the privilege of their rank, made claim to be
tried in Rome, or at least in the chief town of the district; where,
indeed, in the troublous days that had now begun, a legal process had
been already instituted. Under the care of a military guard the
captives were removed on the same day, one stage of their journey ;
sleeping, for security, during the night, side by side with their
keepers, in the rooms of a shepherd's deserted house by the
wayside. It was surmised that one of the prisoners was not a
Christian : the guards were forward to make the utmost pecuniary profit
of this circum- stance, and in the night, Marius, taking advan-
tage of the loose charge kept over them, and by means partly of a large
bribe, had contrived that Cornelius, as the really innocent person,
should be dismissed in safety on his way, to procure, as Marius
explained, the proper means of defence for himself, when the time of
trial came. And in the morning Cornelius in fact set forth
alone, from their miserable place of deten- tion. Marius believed that
Cornelius was to be the husband of Cecilia; and that, perhaps strangely,
had but added to the desire to get him away safely. We wait for the great
crisis which 212 ANIMA NATURALITER
CHRISTIANA is to try what is in us : we can hardly bear the
pressure of our hearts, as we think of it : the lonely wrestler, or
victim, which imagination foreshadows to us, can hardly be one's self;
it seems an outrage of our destiny that we should be led along so
gently and imperceptibly, to so terrible a leaping-place in the dark, for
more perhaps than life or death. At last, the great act, the
critical moment itself comes, easily, almost unconsciously. Another
motion of the clock, and our fatal line the " great
climacteric point " has been passed, which changes our- selves
or our lives. In one quarter of an hour, under a sudden, uncontrollable
impulse, hardly weighing what he did, almost as a matter of course
and as lightly as one hires a bed for one's ; night's rest on a journey,
Marius had taken upon himself all the heavy risk of the position in
which Cornelius had then been the long and wearisome delays of judgment,
which were possible ; the danger and wretchedness of a long journey
in this manner ; possibly the danger of death. He had delivered his
brother, after the \ manner he had sometimes vaguely anticipated as
a kind of distinction in his destiny; though indeed always with wistful
calculation as to what it might cost him : and in the first moment
after the thing was actually done, he felt only satisfac- tion at
his courage, at the discovery of his possession of "
nerve." Yet he was, as we know, no hero, no heroic
213 MARIUS THE EPICUREAN martyr had indeed no
right to be ; and when he had seen Cornelius depart, on his blithe
and hopeful way, as he believed, to become the husband of Cecilia ;
actually, as it had hap- pened, without a word of farewell,
supposing Marius was almost immediately afterwards to follow
(Marius indeed having avoided the moment of leave-taking with its
possible call for an explanation of the circumstances), the re-
action came. He could only guess, of course, at what might really happen.
So far, he had but taken upon himself, in the stead of Cornelius, a
certain amount of personal risk ; though he hardly supposed himself to be
facing the danger of death. Still, especially for one such as he,
with all the sensibilities of which his whole manner of life had been but
a promotion, the situation of a person under trial on a criminal
charge was actually full of distress. To him, in truth, a death such as
the recent death of those saintly brothers, seemed no glorious end. In
his case, at least, the Martyrdom, as it was called the
overpowering act of testimony that Heaven had come down among men would
be but a common execution : from the drops of his blood there would
spring no miraculous, poetic flowers ; no eternal aroma would indicate
the place of his burial ; no plenary grace, overflowing for ever
upon those who might stand around it. Had there been one to listen just
then, there would have come, from the very depth of his desolation,
214 ANIMA NATURALITER CHRISTIANA an
eloquent utterance at last, on the irony of men's fates, on the singular
accidents of life and death. The guards, now safely in possession of
what- ever money and other valuables the prisoners had had on them,
pressed them forward, over the rough mountain paths, altogether careless
of their sufferings. The great autumn rains were falling. At night
the soldiers lighted a fire ; but it was impossible to keep warm. From
time to time they stopped to roast portions of the meat they
carried with them, making their captives sit round the fire, and pressing
it upon them. But weariness and depression of spirits had deprived
Marius of appetite, even if the food had been more attractive, and for
some days he partook of nothing but bad bread and water. All
through the dark mornings they dragged over boggy plains, up and
down hills, wet through some- times with the heavy rain. Even in those
de- plorable circumstances, he could but notice the wild, dark
beauty of those regions the stormy sunrise, and placid spaces of evening.
One of the keepers, a very young soldier, won him at times, by his
simple kindness, to talk a little, with wonder at the lad's
half-conscious, poetic delight in the adventures of the journey. At
times, the whole company would lie down for rest at the roadside, hardly
sheltered from the storm ; and in the deep fatigue of his spirit,
his old longing for inopportune sleep overpowered him. Sleep anywhere,
and under any conditions, 215 MARIUS THE
EPICUREAN seemed just then a thing one might well ex- change
the remnants of one's life for. It must have been about the fifth
night, as he afterwards conjectured, that the soldiers, believing
him likely to die, had finally left him unable to proceed further, under
the care of some country people, who to the extent of their power
certainly treated him kindly in his sickness. He awoke to
consciousness after a severe attack of fever, lying alone on a rough bed,
in a kind of hut. It seemed a remote, mysterious place, as he
looked around in the silence ; but so fresh lying, in fact, in a
high pasture-land among the mountains that he felt he should recover, if
he might but just lie there in quiet long enough. Even during those
nights of delirium he had felt the scent of the new-mown hay pleasantly,
with a dim sense for a moment that he was lying safe in his old
home. The sunlight lay clear beyond the open door ; and the sounds of the
cattle reached him softly from the green places around. Recalling
confusedly the torturing hurry of his late journeys, he dreaded, as his
consciousness of the whole situation returned, the coming of the
guards. But the place remained in absolute stillness. He was, in fact, at
liberty, but for his own disabled condition. And it was certainly a
genuine clinging to life that he felt just then, at the very bottom of
his mind. So it had been, obscurely, even through all the wild fancies
of his delirium, from the moment which fol- 216
ANIMA NATURALITER CHRISTIANA lowed his decision against
himself, in favour of Cornelius. The occupants of the place
were to be heard presently, coming and going about him on their business
: and it was as if the approach of death brought out in all their force
the merely human sentiments. There is that in death which certainly
makes indifferent persons anxious to forget the dead : to put them those
aliens away out of their thoughts altogether, as soon as may be.
Conversely, in the deep isolation of spirit which was now creeping upon
Marius, the faces of these people, casually visible, took a strange
hold on his affections ; the link of general brotherhood, the feeling of
human kin- ship, asserting itself most strongly when it was about
to be severed for ever. At nights he would find this face or that
impressed deeply on his fancy ; and, in a troubled sort of manner,
his mind would follow them onwards, on the ways of their simple,
humdrum, everyday life, with a peculiar yearning to share it with them,
envying the calm, earthy cheerfulness of all their days to be,
still under the sun, though so indifferent, of course, to him ! as if
these rude people had been suddenly lifted into some height of earthly
good-fortune, which must needs isolate them from himself.
Tristem neminem fecit he repeated to himself; his old prayer
shaping itself now almost as his epitaph. Yes ! so much the very hardest
judge 217 MARIUS THE EPICUREAN
must concede to him. And the sense of satis- faction which that
thought left with him dis- posed him to a conscious effort of
recollection, while he lay there, unable now even to raise his
head, as he discovered on attempting to reach a .pitcher of water which
stood near. Revelation, vision, the discovery of a vision, the seeing of
a perfect humanity, in a perfect world through all his alternations
of mind, by some dominant instinct, determined by the original
necessities of his own nature and character, he had always set that
above the having, or even the doing, of any- thing. For, such vision, if
received with due attitude on his part, was, in reality, the being
something, and as such was surely a pleasant offering or sacrifice to
whatever gods there might be, observant of him. And how goodly had
the vision been ! one long unfolding of beauty and energy in things, upon
the closing of which he might gratefully utter his " Vixi ! '
Even then, just ere his eyes were to be shut for ever, the things they
had seen seemed a veritable possession in hand ; the persons, the places,
above all, the touching image of Jesus, apprehended dimly through
the expressive faces, the crying of the children, in that mysterious
drama, with a sudden sense of peace and satisfaction now, which he could
not explain to himself. Surely, he had prospered in life ! And again, as
of old, the sense of gratitude seemed to bring with it the sense
also of a living person at his side. 218 ANIMA
NATURALITER CHRISTIANA For still, in a shadowy world, his
deeper wisdom had ever been, with a sense of economy, with a
jealous estimate of gain and loss, to use life, not as the means to some
problematic end, but, as far as might be, from dying hour to dying
hour, an end in itself a kind of music, all- sufficing to the duly
trained ear, even as it died out on the air. Yet now, aware still in
that suffering body of such vivid powers of mind and sense, as he
anticipated from time to time how his sickness, practically without aid as
he must be in this rude place, was likely to end, and that the
moment of taking final account was drawing very near, a consciousness of
waste would come, with half-angry tears of self-pity, in his great
weakness a blind, outraged, angry feeling of wasted power, such as he
might have experienced himself standing by the deathbed of another,
in condition like his own. And yet it was the fact, again,
that the vision of men and things, actually revealed to him on his
way through the world, had developed, with a wonderful largeness, the
faculties to which it addressed itself, his general capacity of vision
; and in that too was a success, in the view of certain, very
definite, well-considered, undeni- able possibilities. Throughout that
elaborate and lifelong education of his receptive powers, he had
ever kept in view the purpose of pre- paring himself towards possible
further revelation some day towards some ampler vision, which
219 MARIUS THE EPICUREAN should take up
into itself and explain this world's delightful shows, as the scattered
frag- / ments of a poetry, till then but half-understood, might be
taken up into the text of a lost epic, recovered at last. At this moment,
his un- clouded receptivity of soul, grown so steadily through all
those years, from experience to ex- perience, was at its height ; the
house ready for the possible guest ; the tablet of the mind white
and smooth, for whatsoever divine fingers might choose to write there.
And was not this pre- cisely the condition, the attitude of mind,
to which something higher than he, yet akin to him, would be likely
to reveal itself ; to which that influence he had felt now and again like
a friendly hand upon his shoulder, amid the actual obscurities of the
world, would be likely to make a further explanation ? Surely, the aim of
a true philosophy must lie, not in futile efforts towards the
complete accommodation of man to the circumstances in which he chances to
find himself, but in the maintenance of a kind of candid discontent,
in the face of the very highest achievement; the unclouded and receptive
soul quitting the world finally, with the same fresh wonder with
which it had entered the world still unimpaired, and going on its blind
way at last with the consciousness of some profound enigma in
things, as but a pledge of something further to come. Marius seemed to
understand how one might look back upon life here, and its
220 ANIMA NATURALITER CHRISTIANA excellent
visions, as but the portion of a race- course left behind him by a runner
still swift of foot : for a moment he experienced a singular
curiosity, almost an ardent desire to enter upon a future, the
possibilities of which seemed so large. And just then, again
amid the memory of certain touching actual words and images, came
the thought of the great hope, that hope against hope, which, as he
conceived, had arisen Lux sedentibus in tenebris upon the aged world ;
the hope Cornelius had seemed to bear away upon him in his
strength, with a buoyancy which had caused Marius to feel, not so much
that by a caprice of destiny, he had been left to die in his place,
as that Cornelius was gone on a mission to deliver him also from death.
There had been a permanent protest established in the world, a
plea, a perpetual after-thought, which humanity henceforth would ever
possess in reserve, against any wholly mechanical and disheartening
theory of itself and its conditions. That was a thought which
relieved for him the iron outline of the horizon about him, touching it
as if with soft light from beyond ; filling the shadowy, hollow
places to which he was on his way with the warmth of definite affections
; confirming also certain considerations by which he seemed to link
himself to the generations to come in the world he was leaving. Yes !
through the sur- vival of their children, happy parents are able to
221 MARIUS THE EPICUREAN think calmly, and
with a very practical affection, of a world in which they are to have no
direct share; planting with a cheerful good-humour, the acorns they
carry about with them, that their grand-children may be shaded from the
sun by the broad oak-trees of the future. That is nature's way of
easing death to us. It was thus too, surprised, delighted, that Marius,
under the power of that new hope among men, could think of the
generations to come after him. Without it, dim in truth as it was, he
could hardly have dared to ponder the world which limited all he
really knew, as it would be when he should have departed from it. A
strange lonesomeness, like physical darkness, seemed to settle upon
the thought of it ; as if its business hereafter must be, as far as
he was concerned, carried on in some inhabited, but distant and alien,
star. Contrari- wise, with the sense of that hope warm about him,
he seemed to anticipate some kindly care for himself, never to fail even
on earth, a care for his very body that dear sister and companion
of his soul, outworn, suffering, and in the very article of death,
as it was now. For the weariness came back tenfold ; and he
had finally to abstain from thoughts like these, as from what caused
physical pain. And then, as before in the wretched, sleepless nights of
those forced marches, he would try to fix his mind, as it were
impassively, and like a child thinking over the toys it loves, one after
another, that it 222 ANIMA NATURALITER
CHRISTIANA may fall asleep thus, and forget all about them the
sooner, on all the persons he had loved in life on his love for them,
dead or living, grate- ful for his love or not, rather than on theirs
for him letting their images pass away again, or rest with him, as
they would. In the bare sense of having loved he seemed to find, even
amid this foundering of the ship, that on which his soul might
"assuredly rest and depend." One after another, he suffered
those faces and voices to come and go, as in some mechanical
exercise, as he might have repeated all the verses he knew by heart, or
like the telling of beads one by one, with many a sleepy nod
between- whiles. For there remained also, for the old
earthy creature still within him, that great blessedness of
physical slumber. To sleep, to lose one's self in sleep that, as he had
always recognised, was a good thing. And it was after a space of
deep sleep that he awoke amid the murmuring voices of the people
who had kept and tended him so carefully through his sickness, now
kneeling around his bed : and what he heard confirmed, in the then
perfect clearness of his soul, the in- evitable suggestion of his own
bodily feelings. He had often dreamt he was condemned to die, that
the hour, with wild thoughts of escape, was arrived; and waking, with the
sun all around him, in complete liberty of life, had been full of
gratitude for his place there, alive still, in the 223
MARIUS THE EPICUREAN land of the living. He read surely, now,
in the manner, the doings, of these people, some of whom were
passing out through the doorway, where the heavy sunlight in very deed
lay, that his last morning was come, and turned to think once more
of the beloved. Often had he fancied of old that not to die on a dark or
rainy day might itself have a little alleviating grace or favour
about it. The people around his bed were praying fervently Abi! Abi!
Anima Christiana! In the moments of his extreme helplessness their
mystic bread had been placed, had descended like a snow-flake from the
sky, between his lips. Gentle fingers had applied to hands and
feet, to all those old passage-ways of the senses, through which the
world had come and gone for him, now so dim and obstructed, a
medicinable oil. It was the same people who, in the gray, austere evening
of that day, took up his remains, and buried them secretly, with
their accustomed prayers ; but with joy also, holding his death,
according to their generous view in this matter, to have been of the
nature of a martyrdom ; and martyrdom, as the church had always
said, a kind of sacrament with plenary grace.
1881-1884. THE END Printed by R.
& R. CLARK LIMITED, Edinburgh. PR Corrado Curcio. Curcio. Keywords: esistenti -- Lucrezio,
Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian philosophy. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51768264130/in/dateposted-public/
Grice e Curi – I figli di Marte -- passione
e compassione, senso e consenso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona).
Filosofo. Grice: “I like Curi; unlike me, we would call him a prolific
philosopher; my favourite are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and bello, but
he has also written on various topics related to maleness -- Si laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro
dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra
Cacciari. A partire da quel topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e
fecondo, all'insegna di una comune ricerca del nuovo, e di un impegno
teoretico rigoroso, che va oltre il piano strettamente della speculazione, in direzione
di una pratica civile. Filosofa sul nesso politica-civilita e guerra e sul
concetto di ‘polemos’ – cf. Grice epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --,
lungo la linea che congiunge Eraclito a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia
intesa come mythos, sia concepita come opera cinematografica. Medita su alcuni
temi fondamentali dell'interrogazione filosofica, quali l'amore e la morte, il
dolore e il destino. Altre opere: “Endiadi: figure della dualità”
(Feltrinelli, Milano); “La filosofia come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri,
Torino); “La forza dello sguardo” – Lat. vereor – warten: to see --; “Meglio
non essere nati: la condizione umana” – cf. la condition humaine”, Malraux);
“Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Un filosofo al cinema,
Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo, ma ha soltanto una verniciatura di
casi umani, come il maschio abbronzato dal sole, vedendo quante cose si devono
imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale
studio, la vita regolata di ogni giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile
per lui. A questo maschio bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e
quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera
settima). La libertà non è soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto
l'esser-divenuti-liberi PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è
essere-liberatori DA il buio. La ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo
che il presunto "libero" possa concedersi così per svago, magari per
curiosita. E esser-ci dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico del
divenire liberi. Heidegger, L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne “La
brama dell'avere” si ha un attento e puntuale riesame sia storico-filosofico
che critico-filologico della fondamentale categoria esistenziale dell'”avere” –
“the have and have-nots” -- alla luce
dell'odierno assetto socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H
y” Curi focuses on ‘ekhein’ which would
then correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare,
manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità
del sapere nel comportamentismo” (MILANI, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo”
(MILANI, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli,
Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (MILANI, Padova); “Anti-conformismo
e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) –
cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani,
Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del
mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa.
Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De
Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) –
cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex
bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein”
(Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo,
Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano,
Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco
Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra
nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli,
Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica
che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza,
Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale”
(Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo,
Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo,
Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra
della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei»,
Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito
moderno, Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici
della politica, Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati
Boringhieri, Torino); “Skenos. Il Don Giovanni nella società dello spettacolo”
(Milano); “Libidine” (Milano). Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio
non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati
Boringhieri, Torino); Miti d'amore. Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare
con la propria testa” (Mimesis, Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore,
Milano); “Passione” (Raffaello Cortina Editore, Milano. La porta stretta. Come
diventare maggiorenni” (Bollati Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra
infinita e terrorismo, Castelvecchi, Roma. La brama dell'avere; Il Margine,
Trento); “Il mito di Narciso sul Wikipedia
Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui
Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il
dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del
tuono, della pioggia e della fertilità[3]. Simile alla divinità greca Ares, col
tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente
identificato con esso. Statua colossale di Marte: "Pirro"
nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. Culto Modifica
Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia
etrusca[4] che italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione
romana (dove era considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero
per eccellenza, in parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il
fulmine. Assieme a Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade
arcaica", che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece
costituita da Giove, Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco
Ares, venne detto figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto
mitologico ellenizzato. Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher,
Hermann Usner, e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte
anche nei termini di divinità "agraria", legata all'agricoltura,
soprattutto sulla scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri
cultura di Catone, che lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di
sciagura e malattia. Secondo Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte
e l'ambito campestre non farebbe di lui una divinità legata alla terra, in
quanto il suo ruolo sarebbe esclusivamente di difensore armato dei campi da
mali umani e soprannaturali, senza diversificazione dalla sua natura
intrinsecamente guerresca. Il dio, inoltre, rappresentava la virtù e la
forza della natura e della gioventù, che nei tempi antichi era dedita alla
pratica militare. In questo senso era posto in relazione con l'antica pratica
italica del uer sacrum, la Primavera Sacra: in una situazione difficile, i
cittadini prendevano la decisione sacra di allontanare dal territorio la nuova
generazione, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte prendeva
sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e li
proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria espellendo
o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a
Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva
guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano
il loro nome direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la
legio sacrata, cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era
bianca.[senza fonte] Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto
più importante della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché
considerato il padre del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte,
accoppiatosi con la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono
Roma.[6] Di conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i
romani si chiamavano tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti
discendenti, oltre a Romolo e Remo, furono Pico e Fauno. Marte comparve
spesso sulla monetazione romana, sia repubblicana che imperiale, con vari
titoli: Marti conservatori (protettore), Marti patri (padre), Mars ultor
(vendicatore), Marti pacifero (portatore di pace), Marti propugnatori (difensore),
Mars victor (vincitore). Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi
Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsie il loro
territorio Martia Antica (la contemporanea Marsica) devono a lui il loro
nome. Leggenda sulla nascita di Marte Modifica
Secondo il mito, Giunone era invidiosa del fatto che Giove avesse concepito da
solo Minerva senza la sua partecipazione. Chiese quindi aiuto a Flora che le
indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etoliache permetteva di concepire
al solo contatto. Così diventò madre di Marte, che fece allevare da Priapo, il
quale gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di tradizione tarda come
dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca il mito greco. Flora,
al contrario, testimonia una tradizione più antica: l'equivalente norreno Thor
nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità elleniche. Nomi Modifica
Statua di Marte nudo in un affrescodi Pompei. Marte era venerato con numerosi
nomi dagli stessi latini, dagli Etruschi e da altri popoli italici:
Maris, nome Etrusco da cui deriva il nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano;
Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui era venerato dai popoli italicidi stirpe
osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors. Epiteti Modifica
Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel Carmen Saliare.
Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in battaglia', ma
può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che guida, che va'.
Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente', 'dio della
luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua caratteristica di dio
del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De agri cultura, 83 Marte
viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi aspetti legati alla natura
e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato da Augusto in onore della
vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris: vendicatore). Rappresentazioni Modifica Gli antichi monumenti
rappresentano il dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è
raffigurato con indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con
uno scettro talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un
mantello sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior
parte dei casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due
cavalli imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo. Gli antichi
Sabini lo adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris"
da cui si racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con
Romolo. Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da
*co-uiria, cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di
cittadini, da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che
indica il popolo in armi. Il ruolo di Marte a Roma Modifica Venere e Marte, affresco romano da Pompei,
1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo particolare. A partire dal
regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di sacerdoti, scelti tra i
patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su dodici scudi sacri, gli
Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Questi sacerdoti erano
riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica purpurea. I sacerdoti
Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di Numa Pompilio,
risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di Marte,
costituendo così i primi culti iniziatici latini. Nella capitale
dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai
cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto
che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia
popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di salute,
secondo la gente dovuta alla vendetta del dio. Festività Modifica Era venerato
fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario romano, che
segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che portava il suo
nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale, Quinquatrus e
tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e in
ottobre. Gli Equirria si tenevano il 27 febbraio e il 14 marzo. Erano
giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano molta
enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti
tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel
Campo Marzio. Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo.
Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in
processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e
fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii
eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico
e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il
quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium,
dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione
delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti
nel sacrario della Regia. L'October Equus si teneva alle idi di ottobre
(15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il
cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine
marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della
Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che
volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che
la volevano per la Regia. Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium,
dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per
l'inverno. Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia,
dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da
un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una
pecora. Luoghi di culto Modifica
Marte e Venere, copia settecentesca da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le
popolazioni italiche, si sa di un antico tempio dedicato al dio Marte a
Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e di un oracolo del dio, nella città
aborigena di Tiora.[9] Animali e oggetti sacri Modifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il
lupo per eccellenza è la lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il
picchio è l'uccello del tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e
Remo insieme alla lupa Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli
Equirria) Toro: altro animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i
popoli italici Hastae Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso
di gravi pericoli, tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra
della pioggia, in quanto dio della pioggia Offerte Modifica A Marte si offrivano
come vittime sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle
pecore e, più raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali
gli erano consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo
giorno del mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era
anche il primo dell'anno. Identificazioni con dei celtici Modifica Mars Alator: Fusione con il
dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates: Fusione con il
dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico Barrex, di cui si
ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus: Fusione con il
dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in cinque iscrizioni
nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il dio celtico
Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione con il dio
della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio celtico
gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars Cocidius:
Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio celtico
Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius: Fusione
con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico Mullo Mars
Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con il dio
celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars Segomo:
Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio celtico
Visucio Marte nell'arte Modifica
Pittura Modifica
Marte, di Diego Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane,
di Paolo Veronese Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher
(1754) Minerva protegge la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630)
Venere e Marte, di Sandro Botticelli Note Modifica
^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su
Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30; Hendrik Wagenvoort,
"The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies in Roman Literature,
Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John F. Hall III,
"The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan Antecedents,"
Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986), p. 2574. ^ MARTE su
Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^ Nota sul dio Mamerte
(o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.3. ^ Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5. Bibliografia Modifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino,
Einaudi, 1997, ISBN 88-06-14494-4. (L'archeologo Andrea Carandini dà la
definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del Ponte, Dei e miti italici,
Genova, ECIG, 1985, ISBN 88-7545-805-7. Georges Dumézil, La religione romana
arcaica, Milano, Rizzoli, 1977, ISBN 88-17-86637-7. (Libro del grande storico
delle religioni, che per primo rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a
divinità più originale e importante). James Hillman, Un terribile amore per la
guerra, Milano, Adelphi, 2005, ISBN 978-88-459-1954-1.(Un libro che dimostra
come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee). Jacqueline Champeux,
La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, 2002, ISBN 978-88-15-08464-4. Voci
correlate Modifica
Ares Divinità della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte
Pico (mitologia) Hachiman Altri progetti Modifica
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CORRELATE Salii collegio sacerdotale romano per il culto di Marte
Mamuralia festività Triade arcaica Wikipedia Il contenuto Umberto Curi.
Keywords: passione, have, habere, habitus, comportamentismo, behaviourism. La
brama dell’avere, anticonformismo, guerra e pace – Eirene – cosmologia
anthropologia – l’orto di Zenone – lo scudo d’Achille – I figli di Marte -- il mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Curi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51768019629/in/dateposted-public/
Grice
e Cusani – il primo hegelista – lo stato italiano -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Solopaca). Filosofo. Grice: “I love Cusani; for one,
I was born at Harborne, but nobody cares; Cuasani was born in Solopaca, and
there’s a ‘corso Cusani’, and a ‘Biblioteca Cusani’.” Grice: “Cusani would have
been friend with Bosanquet; both are Hegelians – Italians, after SOME Germans,
were the first to endorse the philosophy of the absolute spirit inmanent to
dialectic – Cusani does attempt to respond to a criticism on the ‘assoluto’
brought up by Hamilton (of all people), and consdtantly refers to the
‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’ he humply titles it!” Figlio di
Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo distrettuale e di comprensorio
del Regno delle Due Sicilie. Membro dei Pontaniani. Frequenta il circolo del
marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis e Gatti. Punto di partenza della sua filosofia, comune
a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli, dei quali e un
esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia filosofica”. Insegna a
Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu affiancato da Spaventa,
chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel proprio studio privato.
I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso delle scienze, delle lettere
e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda fu da lui stesso fondata. Molti
dei saggi di filosofia più impegnati furono pubblicati in L’Antologia, di
Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel periodico l'Omnibus e nella
Rivista napolitana. Molte delle sue
opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano Cusani" di
Solopaca. Idealista hegeliano ed
esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della fenomenologia,
il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”; “Storia dei
sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo procedimento a poterlo
raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia drammatica”; “L’assoluto –
l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica trascendentale”;
“Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata nel suo
svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di poesia”; “Economia
politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli esseri: disegno di una
metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di Solapaca è stato
indetto nel un anno di celebrazione in occasione
del centenario della nascita nel comune di Solopaca. Il corso Stefano Cusani
gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita nella autobiografia. Cusani
dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del superbissimo Gatti, ed e
mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori con tale fervore
dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G. Giucci, Degli
scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli nell'autunno del
1845: notizie biografiche, Napoli. L'amico
coetaneo Cesare Correnti, patriota milanese legato ai circoli Napoli,
insegnante nella Scuola di lingua italiana da lui fondata, gli dedicò un
necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita speranza di questa nostra
Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi a un tratto, poiché la
sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La filosofia specialmente
nol sedussero, in modo che a più severi studi non volgesse l'acuto e
fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero nell'anima sua. Rivista
europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani, Roma). «Rivista europea»,
ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani, Roma, Dizionario
biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso", "Il Lucifero","Omnibus";
"Rivista napolitana", Sanctis, La letteratura ital. nel sec. XIX, II,
La scuola liberale e la scuola democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli
hegeliani di Napoli. A. Vera e la corrente "ortodossa" (Milano); F.
Zerella, Filosofia italiana meridionale”; “Dall'eclettismo all'hegelismo in
Italia”. Cusani e la filosofia italiana: Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini.
Nasceva in Solopaca, una volta Distretto di Caserta,
oggi Circondario di Cerreto Sannite (Benevento) il 23 dicembre 1816, Stefano
Cusani da Filippo e Caterina Cardillo. Suo padre, insigne avvocato, fu
sollecito della educazione di questo come di altri quattro suoi figliuoli, che,
affidati alle cure di un suo fratello germano a nome Matteo, sacerdote,
mandolli in tenera età a imcominciare e compiere i loro studî in Napoli. Ivi
Stefano, ch'era il secondogenito di cinque fratelli, frequentava i più rinomati
Istituti privati di quel tempo (che allora l'insegnamento pubblico esisteva sol
di nome), si distingueva fra gli altri condiscepoli in ognuno di questi,
così che in breve, compiuti gli studi letterarî fu giocoforza mettersi a
studiare le scienze della facoltà che doveva seguire. Fu questo il solo brutto
periodo di sua vita. Suo padre voleva fare di lui un Avvocato civile, come suol
dirsi, e quindi fu obbligato a studiare leggi e pandette, per le quali
discipline non si sentiva la benchè minima inclinazione, anzi, a dir vero,
sentiva per esse la più marcata avversiono; ma buon figlio e docile essendo,
per non dispiacere al padre, che tanti sacrifizî avea fatti e faceva per lui,
come per gli altri fratelli, a malincuore sempre, ma sempre tacendo, giunse
fino ad esser Avvocato, ed a fare la pratica presso uno de'luminari del Foro
Napoletano. Da questo momento incomincia il suo grande sviluppo intellettuale.
Non potendone più, la rompe col padre, dicendosi avverso ai processi, ed allo
studio di essi, e ad ogni altro artifizio da causidico. La rompe con quella
pratica noiosa, che tralascia ed abbandona; ed ottiene dal padre stesso, che
ragionevole e savio uomo era, di poter attendere a quegli studi che più alla
sua indole si affacevano. Fioriva in quel tempo, a Napoli, la scuola del
Marchese Basilio Puoti, ed egli, incontratosi con Stanislao Gatti che fu poi
indivisibile amico e compagno, vi si getto a capofitto, e fu in poco tempo il
più caro e pregiato discepolo del Marchese, come l'amico e compagno del De
Sanctis, del Mirabelli, e di tutta quella pleiade che in quel tempo
arricchirono Napoli di filosofi insigni. Ma a quell'ingegno che s'andava
ogni giorno più sviluppando e fortificando di sani e severi studî, parve
angusto oramai quest'orizzonte, o volse l'ala, e la di instese con intensità ed
ardore allo studio della filosofia. Ben cinque anni decorsero di
volontaria prigionia nel suo studiolo, ovo ridottosi, o giorno e notte
indefessa mente attendeva a' prediletti studî, e si beava di leggere Platone
nel testo, chè familiare la lingua gli era; come pure si fece a studiare la
lingua alemanna per mettersi al corrente dei progressi della filosofia, e
per meditare e studiare le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo filosofo
tedesco di quella epoca. Uscito dopo questa epoca a nuova vita incominciò
a scrivere sul Progresso, una Rivista di scienze e letteratura, diretta dal
Baldacchini, articoli su questioni filosofiche; e, dopo un anno, era già
conosciuto in tutta la Napoli pensante. In questo torno di tempo si apri un
concorso per la Cattedra di filosofia e matematica, nel Collegio Tulliano di
Arpino, e lui fu prescelto per titoli ad occuparla. Vi andò e vi trovò il suo
amico Emmanuele Rocco, che v'insegnava letteratura. Vi stette un anno e
vedendosi in una cerchia troppo angusta alla sua attività, si dimise, e fece
ritorno in Napoli, conducendo con sè anche l'amico Rocco. Quivi apri studio
privato unitamente al Gatti di filosofia, e dal bel principio quello studio
fioriva per numerosa gioventù, che accorreva a udire le sue lezioni. In breve
fu lo studio più affollato di Napoli. Le ore che aveva libere dallo
insegnamento le occupava a scrivere articoli di filosofia che si pubblicavano
sulle Riviste Napoletane di quel tempo, il Progresso che usciva in fascicoli
voluminosi, la Rivista Napoletana di Scienze, Lettere ed Arti, il Museo di
Scienza e Letteratura, ove collaboravano per la lor parte Antonio Tari, Francesco
Trinchera, ed altri; e sul Progresso il Colecchi ed altri. Non andò
guari e s'incontrò col Mamiani in quistioni di alta Metafisica, o ne usci
onorato dell'amicizia e della riverenza dell'insigno filosofo. Il suo
intelletto altamente speculativo destava ammirazione perchè si elevava ad
altezze tali filosofiche che non gli si potevano contrastare. In quel
tempo si agitò una polemica tra V. Cousin, filosofo francese, ed un insigne
filosofo inglese, il cui nome ora non mi sovviene; dopo varî articoli scambiatisi
parea che l'inglese avesse preso il di sopra, ed il Cousin, che lui credeva più
dell'altro stare nel vero, avesse dovuto soccomberé. Allora senza frapporre
tempo in mezzo egli entrò terzo nella quistione e scrisse epubblico una serie
di articoli che costrinse l'inglese a desistere dalla polemica, ed il Cousin a
scrivergli una lettera di ringraziamenti e di felicitazioni, e con la quale lo
chiamava, e si firmava suo cugino. Si radunava il Congresso dei Filosofi
in Napoli nell'ottobre del 1845, o lui ne dovea far parte; ma non sapendosi se
il Borbone lo avesse permesso, o meno, erasi ridotto in patria a villeggiare
con la moglie e due piccini, l'uno lattante e l'altro di due anni. Il Congresso
fu permesso, i filosofi si riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente
a farvi ritorno; che anzi il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a
cui egli apparteneva, non volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato.
Cosi corse in Napoli solo, lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe
andato a rilevare, dopo finito e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della
sua morte! Arrivato in Napoli vede gli amici - con essi si intrattiene
passeggiando -- suda; è l'ora già che s'apre la Sessione -- essi ve lo
accompagnano a piedi per goderselo di più -- vi si arriva. Egli era sudatissimo
-- entra e n'esce dopo quattro lunghe ore di discussione; quel sudore lo avea
già colpito a morte. Si riduce a casa, si ricambia le mutande - la
camicia era troppo tardi! Incomincia dopo poco tempo una tosse secca,
stizzosa, ch'egli non cura, perchè forte e robusto era; e questo fu il peggiore
dei divisamenti. Ritorna in patria per ripigliare la famiglia e ridursi in
Napoli, poiché si era alla vigilia del novembre. Si riapre lo studio, si
riprendono le lezioni; il maggior numero degli alunni affluito gli rinfocola
l'ardore, ch'ei metteva in esse, e parla dalla cattedra per lunghe ore, e poi
agli alunni più provetti che gli propongono dubbi o problemi a risolvere, parla
pure ad alta voce, e quella tosse insidiosa non lo lascia, anzi invida della
sua noncuranza lo avverte spesso del suo malefico potere, interrompendogli il
discorso, e forzandolo per poco a tacere. Le cose durarono ancora così per
altri 10, o 12 giorni, e finalmente la emottisi tenne dietro a quella tosse
funesta, e fu giuocoforza sottomettersi a quanto l'arte salutare poteva e
sapeva consigliare, ma invano tutto! Chè una tisi florida si svolse, ed in meno
di due mesi si spense la robusta complessione di S. Cusani! Tale fu quest'uomo,
che a 30 anni la morte rapiva a'suoi, alla scienza, alla patria. Nato a 23
dicembre 1816, moriva a 2 gennaio 1816. Dissi rapito alla patria, e
giustamente, poichè egli da giovanissimo appartenne alla Giovine Italia, e in
Napoli fu sempre il più ardente fra i patrioti. Egli con altri preparò e
cooperò con ardore al movimento del '18 che poi non potė vedere! La sua casa
era il convegno di Carlo Poerio, L. Settembrini, S. Spaventa, P. Mancini, e di
tutti gli altri illustri compromessi politici di quel tempo, con i quali si
congiurava, si faceva propaganda, e si organizzava la rivoluzione. Fu cosi caro
a questi tutti che se un giorno solo nol vedeano, si tenea por certo la visita
loro in sua casa; ed il Poerio, addoloratissimo della sua malattia, volle ed
ottenne che fosse stato medicato, curato ed assistito infino all'ultimo istante
di sua vita dal fido o dotto medico Alessandro Lo Piccolo. L'esequie furono
imponenti pel concorso di amici, che formavano tutte le notabilità
scientifiche, patriottiche e letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito
generalmente per Napoli, che in lui salutava la giovine scienza, e che per lui
si metteva a paro di altre città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni
ed insigni filosofi, come il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se
quella vita non si fosse spenta nel mezzo del cammino! La cura della
filosofia di Cusani d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una
figura di rilievo della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché
scomparso in giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815,
o forse del 1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda,
testimoniata dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da
Sanctis, o dalla valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può
essere inserito - come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione
nell'ambito dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale
dell'eclettismo alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel costituisce
per Cusani un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo fondamentale. In
realtà si può forse con fondamento aggiungere, pur senza ricorrere ad una
indagine falsamente sottile, che resta in ombra, nellepur autorevoli e acute
analisi dedicate alle ascendenze cousiniane ed hegeliane di Cusani, un filosofo
fondamentale che sicuramente ispira la filosofia piú significativa di Cusani:
Vico. La costruzione del sistema eclettico cui Cusani dichiara di dedicarsi
segna una fase già tarda dell'eclettismo napoletano e giungeva al termine di un
decennio assai ricco di suggestioni in questa direzione negli ambienti
culturali napoletani. È sicuramente da condividere l'affermazione del curatore
secondo il quale il sincretismo avvertibile in Cusani non impedisce però
l'emergere di un nucleo speculativo che deborda dalla semplice trama delle
affermazioni altrui. In questo senso il problema del metodo filosofico e il
connesso problema della storia italiana segnano sin dall’inizio lo sforzo
speculativo di Cusani, la cui originalità trova subito sulla sua strada Vico.
Collaboratore della Temi napoletana, dell'Omnibus letterario, scrive
prevalentemente sul “Progresso.” Sin dalprimo scritto, Filosofia in Italia, il
tema della storia italiana appare questione teorica centrale. Non a caso una
ricerca storica da l'occasione a Cusani di porre il problema che gli sta
acuore, sin dalla citazione tratta da Guizot che apre la nota. I fatti sonomeme
affermazioni al problema della storia trova subito sumanibus letterario ma are
i grandiuti al fatto che risguardato, en per il pensiero, ciò che le regole
della morale sono per la volontà. Egli è tenuto di conoscerli, e di portarne il
peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a questo dovere, e ne ha misurato e
percorso tutta l’estensione, che gliè permesso di montare verso i risultamenti
razional. Il rinnovato interesseper la storia italiana che si registra-- che né
l'Antichità, né i tempi di poco anteriori a questi che viviamo avevano mai
risguardato -- non sembrano a Cusani casuali, ma dovuti al fatto che
l'intendimento si rivolge a indagare i grandi ordini di fenomeni per scoprire e
prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni, una storia ed una filosofia. Il
bisogno di comprendere e giudicare il fatto, piuttosto che esserne solo spettatore
(e dunque di verificare una diversa attitudine della storia italiana), esalta
questa parte immortale della Storia, cioè il conoscere il legamento fatalista
della causa e dell’effetto, le ragioni, i fatti generali, le idee da ultimo
ch'essi celano sotto il manto della loro esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo
sceverar con chiarezza e con precisione la differenza di queste due parti della
storia italiana che sono per cosí dire il corpo e l'anima, la parte materiale,
e la parte spirituale di tutti gli avvenimenti esterni e visibili, che
compongono la nazione italiana, secondo che dice Vico. Il rifiuto, che Cusani
trae dalla lezione vichiana, di affidarsi a pre-mature generalità, e con
formole metafisiche per soddisfare il mero bisogno intellettivo, è una traccia
decisiva per comprendere il suo pensiero. L'annotazione di Gentile, secondo il
quale l'osservazione storica non è piú l'integrazione della psicologia, bensí
la costruzione stessa della filosofia, può commentare l'intero itinerario
filosofico di Cusani, che si consuma nell'arco di pochissimi anni. Il discorso
sul metodo che Cusani compie si basas in dall'inizio su una acquisizione
precisa: un sistema o una filosofia consistono nel loro stesso metodo. Nel
primo saggio veramente organico (Del metodo filosofico e d'una sua storia
infino agli ultimi sistemi di filosofia che sono si veduri uscir fuori in
Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin) Cusani parla addirittura di un
metodo generale, il quale presiede all'investigazione dell'unica e universal verità.
La filosofia è dunque la regina scientiarum che consente di ricondurre ad
“unità” il sapere, e a tal pro-posito l'assimilazione dei termini è dichiarata
apertamente, a proposito dell’analisi psicologica, la quale segna il punto di
partenza della riflessione, ed è la base unica dell'immenso edificio
filosofico, il solo solido fondamento, il suo atrio e il suo vestibolo. E nel
saggio, “Del reale obbietto di ogni filosofia” (Il Progresso) ribadisce e
chiarisce che lo studio de’ fatti della natura umana, o de’ fenomeni
psicologici, vuoto del tutto riuscirebbe, se invece di tenerlo come base d'ogni
ulteriore investigazione, si volesse considerare come il termine stesso della
filosofia. Il secolo decimottavo si è trovato dunque di fronte al centrale
problema del metodo filosofico. Se è vero che nella storia italiana è tutta
quanta la filosofia italiana, occorre riconoscere il merito insuperabile di
quella mente divinatrice e profonda che avea posta nel mondo la nazione
italiana. Vico, definito – nella nota sul Nuovo Dizionario de sinonimi della
lingua italiana di Niccolò Tommaseo, quell'altissimo lume d'Italia, con una
locuzione che introduce un discorso, ingiustamente trascurato, sulla tradizione
filosofica meridionale, piú volte ripreso dal Cusani. Lo studio di Vico qui
esaminato è appunto il “De antiquissima Italorum sapientia”; nel quale
potentemente convinto della relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il
segnato) e la parola (il segno), fecesi ad investigar quello degli antichi
romani e italici nostri maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua
italiana ch'era nelle bocche volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità
e riflessione, che tanta parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno
di Vico. Si ponga mente alle affermazioni che seguono il passo già citato,
allorché Cusani insiste sul fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto
l'antico (antichissimo) pensiero o sapienza italiana era in quella lingua
italiana ch'egli disamina, e dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se
la lingua italiana non e opera di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo
delle facoltà nell'uomo italiano, se innanzi che venissero adoperate nella
costruzione e nel concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il
necessario strumento espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’
popolo italiano. Insomma, quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del
Cusani, va valutata alla luce di una ispirazione legittimamente riferibile a
Vico. Si veda il Saggio su la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il
Progresso), già sul crinale della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta
all'inizio ritorna sul problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina
l'originale ricerca. Ci ha due spezie di filosofie. La prima spezie di
filosofia studia il fatto, lo disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le
loro differenze o somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia
“elementare” o immanente. L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la
prima, investigando la *natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro
ragione, la loro origine, il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia
trascendente, o filosofia prima. La citazione dai Frammenti filosofici serve in
realtà a Cusani pergiungere alla fondamentale affermazione secondo cui,
esaurita nel secolo precedente la filosofia elementare, e necessario che si
cominciasse asentire il bisogno di nuovi problemi, e che l'ontologia
ricomparisse nel dominio della speculazione filosofica. Insomma la disamina del
fatto immanente elementare (il segno) deve servire a rintracciarne la natura,
le origini, le relazioni, che è il vero fine supremo della filosofia prima. Ma
questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani si dimostra non mero sincretismo,
ma sapiente innesto di elementi concorrenti a rafforzare le personali ipotesi
speculative) soprattutto all’italiano, chi può vantare una tradizione
filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate supremo. Il bisogno
dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la filosofia trova terreno
fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione ontologica de’ filosofi
italiani, e il predominio costante della filosofia prima o trascendente in
Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi che era cagione
universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché fortemente altrove
ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri e quell'indole
elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque quell'indole speculativa
che si è sempre accordata in genere al filosofo italiano, anche quando
discendevano alla pratica ed all'applicazione de’ principi. É di vero se si pon
mente alla Storia, e si consideri che dalla scuola italica di Crotone o da
Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi di Velia (Senone), arrivando fino
all’apparizione di quella meraviglia del Vico, si troverà che la verità da noi
accennata apparisce luminosa e in tutta la sua pienezza. Dunque continuità
della tradizione, rivendicazione della propria originalità speculativa, e
soprattutto applicazione esemplare del metodo storico come proprio della storia
della filosofia. Già affrontando il problema della fenomenologia semiotica,
Cusani non manca di annotare, con una affermazione che resta sostanzialmente
immutata nella sua produzione, a riprova del vichismo naturale della sua
ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente incluso intutta la morale che ne
forma il subbietto perenne, e non si può farne astrazione senza far crollare
tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio Del reale obbietto d'ogni
filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De constantia Philosophiae”
fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana intelligenza, di cui si
ricerca e scopre una storia naturale, una volta esaurita l’investigazione della
natura, ripiega progressivamente verso il subbietto stesso di quelle
investigazioni, e rientrando dall'esterno nell'interno, fa se stessa obbietto
della sua conoscenza. La morale nasconode questo percorso, allorché il filosofo
ritorna sopra se stesso dopo indagare il mondo esterno. La svolta hegeliana può
a questo punto arrivare, ma a sua volta innestandosi su questa ricerca di una
legge onde si regge il mondo. Il dilemma su un oggetto immutabile della
conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso del fatto che il pensiero trascendente
va indagando, diventatra la questione centrale. Spesso Cusani torna nella sua
opera, che riesce difficile in questa sede indagare in dettaglio, sulle
permanenze della storia italiana e sulle variazioni. Nel Saggio analitico sul
diritto e sulla scienza ed istruzione politico-legale d’Albini,
significativamente impostato il tema, e sempre ricorrendo a Vico. In Italia fu
primo tra tutti Vico che intende ala ricerca d'un principio universale ed
immutabile del diritto e che questo ponesse nella ragione, unica fonte
dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il diritto universale, o
filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della cultura filosofica
italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il cui esempio non
frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue teorie
accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori all'intelligenza
comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua particolare
fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di Hegel con la
sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente diciamo fu molto
piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che perfettissimi seguitatori
dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto all'ipotesi del Contratto sociale,
che in il vichismo dunque, se accolto, avrebbe garantito la continuità e
originalità della filosofia italiana. Infatti la cultura napoletana da in
questo senso testimonianza della continuità speculativa della filosofia proprio
attraverso la tradizione vichiana. Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero
l'elemento tradizionale italiano, che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche
quando nel Museo di letteratura e filosofia soprattutto, e la Rivista
napoletana, piú evidente si coglie la lettura di Hegel, Cusani testimonia la
persistenza sicura della lezione vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le
tematiche e gli interessi, nel saggio Della lirica considerata nel suo
svolgimento storico, ove – come ha notato Oldrinisi incontra un esplicito
richiamo alle lezioni hegeliane di filosofia della storia, Cusani riprende con
vigore la questione fondamentale. Ora poiché l'uomo è il subbietto storico per
eccellenza a volere istabilire lal egge che governa tutte le accidentalità
variabili delle vicende umane, la filosofia non puo che cercarla nelle
modificazioni della stessa umanita. Questo punto di partenza, che il Vico, per
il primo, prescrisse alla filosofia della storia, facendo che le sue ricerche
rientrassero nella coscienza psicologica dell’italiano, e si cercasse di
spiegar questo per mezzo della sua propria natura, ma eziandio tutti i fatti di
cui egli è causa, ingenera tanto vantaggio, che da un lato tolse la specie
umana dall'esser considerata come mezzo da servire ad altri fini, e dall'altro
la rialza sopra la natura, di cui vuole sene fare prodotto o artificio. In che
misura l'hegelismo, rintracciabile nella preoccupazione di garantire l'unità
del sistema attraverso l'unità della filosofia, deve tener con toda un lato
della matrice vichiana del pensiero di Cusani e dall'altro dello sforzo di
costruire l'edificio eclettico della filosofia in modo originale? Andrebbe qui
indagato, con cura e minuziosità che questa sede non consente, il tema del
senso comune in piú luoghi richiamato da Cusani. Sipensi al saggio apparso sul
« Museo », Idea d'una storia compendiata della filosofia, proprio dove il tema
della filosofia assume intonazioni sicuramente hegeliane. Purtuttavia, sebbene
l'uomo sia conscio nell'intimo della sua coscienza della sua libertà, e
riconosca in sé stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli è
causa; ciò nondimeno non può non iscorgere eziandio, che la sua volontà è posta
sotto il dominio e la soggezione d'una legge, che diversamente vien denominata
secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica,
contrassegnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora comesenso
comune. L'indipendenza speculativa che Cusani manifesta nel rimeditare tutti i
contributi all'interno della sua riflessione è evidente, e su questo tema
operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando la questione del fatalism
e della libertà (giustamente si ricorda come sia questa la questione piú
importante che si possa scontrare nella filosofia della storia, dai primi agli
ultimi scritti presente inche di sua volone causar in Cusani), nell'Idea d'una
storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa da rimproverare a Vico
stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli storici fatalisti --
cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e sebbene Livio da maggiore
influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano nella storia; ciò nondimeno
non si è data che ai secondi, a cominciar da Machiavello, la nota del storico
fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca nell'italiano il principio e la
legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe però il torto di essere
esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza della natura italiana
sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi studi si affacci il
dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come condizionato: se una legge
governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia è da intendersi
fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa del pensiero? Del
resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due volumi degli Scritti,
forse perché firmata — come del resto altre note raccolte da Ottonello — con la
sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di meteorologia di M.
Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla accostabilità tra
scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della natura e
sottoposta nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana intelligenza
punto da quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue investigazioni, i
progressi rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi invisibili
dell'antichità. Il successo di queste scienze — come di ogni scienza — è nel
metodo, cosi che da meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in questa
special branca delle sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi, contanta
certezza de' suoi risultamenti, che nissun'altra scienza per avventurapuò con
questa venire al paragone. Si badi, le scienze fisiche non costituiscono altro
che una special branca delle conoscenze dello spirito umano. Dunque occorre
applicare anche alle altre branche metodi certie sicuri, come è possibile dal
momento che la storia universale dell'Umanità, che pone la Storia al centro
dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto lo svolgimento intellettivo
della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica, a proposito della legge
della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso storico, Cusani nota che
questo è di proprio particolar dominio di quella scienza, che sorta gigante in
Italia per opera di quella maraviglia del Vico, costituisce ora il centro
intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del secolo. Simili le espressioni
usate nella recensione agli Elementi di Fisica sperimentale, allorché della
storia universale dell'Umanità nota che forma a questi nostri tempi il punto di
mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto il processo del lavori del
secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia compendiata della filosofia” è a
questo punto da considerare fondamentale. La connessione che la storia ci
rivelatra libertà e necessità, ci consente di rintracciare la legge necessaria
del progresso storico. Noi sappiamo che la filosofia del popolo italiano non è
altra cosa se non lo spirito del popolo italianom non già come si manifesta nella sua religione spontanea,
nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso aveva, artea, un concertelli
avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione politica, nelle sue leggi e
costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile del pensiero puro, che
riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso elevarsi. Cusani ha, a tal
proposito, filosofato nel saggio “Della poesia drammatica” un concetto che poi
si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto la varietà degli avvenimenti del
fatto e della vita stessa della società italiana è nascosa la legge suprema e
metafisica che li governa,e che il filosofo tenta di scoprire, e ne fa
l'obbietto principale delle sue ricerche, ma all’italiano, ch'é, come dice
quell'altissimo ingegno di Vico, il senso della nazione italiana e dato tutto
al piú di sentirla, ma non deve essere suo scopo di manifestarla, dove
all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga, insinuandosi, una suggestione
hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani ribadisce l'argomento. Se la
filosofia non deve fat suo scopo, come altrove dicemmo, parlando della poesia
drammatica, la rivelazione di essa legge secondo la quale l'umanità si svolge
nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà certo cansarla nella sua
manifestazione storica, cioè nel suo progresso attraverso delle nazio ultima
recension Felice Roman son sottoposti alla legge storica in generale, la quale
le impronta quasi una seconda indole, ed è questa poi, che fa che i filosofi
sieno, come diceVico, il senso della nazione italiana. Sorprendentemente,
nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista napolitana », Liriche del
Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura, Cusani ripete. Vico innanzi
tuttia veva formolata questa solenne verità, proclamando che il filosofo e ilblematica sblata questa sojeni filosofi ne
sinnestare Hegedea d'uneinnanzi Qui l'eclettismo cusaniano ha voluto innestare
Hegel sulla tradizione italiana custodita e proclamata, specie allorché, nella
idea d'una storia, riprende il tema di una ragione fondamentale, di una idea
filosofica fondante le manifestazioni della vita umana, per cui la religione e
soprattutto la filosofia già ricordata sono riconducibili ad una legge
razionale. Un'altra citazione, non giustificata in questa sede, si rende
necessaria per la sintesi che riesce a conseguire, in specie sul tema del senso
comune. Allorché il movimento filosofico o riflessivo passa dalla fede alla
scienza,e dalle credenze popolari alle idee della ragione, e si trova d'essere
giunto a scoprire il pensiero celato dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si
traduce nell’istituzione, nella costume, nella filosofia e e nelle industria,
egli fatto quasi banditore della verità scoperta, l'annunzia per farla
conoscere alle masse, le quali non avrebbero potuto pervenire sino a quel segno
che tardi e lentamente. È in questo senso che il filosofo accelera il movimento
delle masse, e da qui nasce ancora che egli stesso e indugiato nel movimento
che è loro proprio. Dappoiché se le masse accettano la nuova luce che loro
arreca il filosofo, sono d'altra parte lente e ritenute nell'abbandonare le
vecchie opinioni, che il tempo ha rese abituali, e bisogna innanzitutto che
esse comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo comprendanoa loro modo, cioè
facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza alle
forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo comprende e spiega
nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli crede
istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del senso
comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato Vico e
Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a tuttaprima
poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo dell’istituzione, in
quanto che queste venivano considerate come cose non procedenti dall’italiano
stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none che la manifestazione
esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del popolo italiano, libertà
umana nella creazione degli avvenimenti del mondo. Come si risolve pertanto il
problema della libertà? Si pone inquesti termini l'interrogativo. La ragione è
dunque il fondamento della libertà; ma ragione e libertà sono da intendersi
esclusivamente riferitisare appunto che il problema della libertà investa
soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o collettiva) che ha per
teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia visuale che egli propone
della storia globalmente intesa, la libertà non è solo quella dell'individuo o
soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti dell'istinti -- vità, ma
anche quella che costituisce la linea intelligibile di tutto lohere nelle pella
sciente quella con il. La soluzione che si può intravedere in Cusani, concorde
ed omogenea allo sviluppo della questione della scienza e del metodo nell'intera, intensa elaborazione culturale
di Cusani è forse quella contenuta nella Idea d'una storia. Resta certo il
rammarico del mancato approfondimento delle tante tematiche che a questa
risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica e sulla estetica. Ma
la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo significativa. L'ordine adunque
degli avvenimenti, la provvidenza, o legge dell'intelligenza umana, è quella
legge che Iddio stesso ha imposta al
mondo morale, e che non differisce dalle leggi della natura, se non per questo,
cioè che la legge imposta al mondo morale non distrugge punto la libertà
individuale, essendo ché è permezzo della libertà che si compiono i destini
della intelligenza, laddovele legge della natura e compita senza il concorso
della libera volontà. SCIENZA MORALE E FILOSOFIA CIVILE. “Quando gia la
stagione eclettica andava verso il tramonto”. 1. Cusani si volgeva al metodo
storico per tracciare la via sicura che consentisse, come scrisse nel 1842,
all’idea filosofica di “elevarsi al grado di scienza che si dimostri per se
stessa” 2. Giacche se evero che “la decomposizione (...), o l’analisi
psicologica del fatto primitivo della coscienza e la condizione necessaria
d’ogni riflessione, che ritorna sul proprio pensiero; il che e dire ch’e la
condizione necessaria d’ogni filosofia”, ancor piu essenziale e comprendere che
“se l’osservazione minuta, e l’analisi profonda di tutte le singole parti di
quella sintesi primitiva della coscienza e il punto donde bisogna muovere,
perche si possa riuscire a bene nelle speculazioni filosofiche, essa non e
certo al termine; perocche dopo aver esattamente analizzato tutte quelle parti,
ed osservatele da tutti i lati, egli e mestiere procedere alla cognizione de’
riferimenti che l’une hanno colle altre, perche si possa risalire a quella
ricomposizione del tutto primitivo, che e lo scopo ultimo della filosofia” 3. E
questo il contributo essenziale che la storia fornisce e senza il quale ogni
itinerario verso la conoscenza e condannato a restare monco, e la scienza
filosofica e destinata ar estare preclusa. Infatti 1. F. Tessitore, Da Cuoco a
De Sanctis. Studi sulla filosofia napoletana nel primo Ottocento, Napoli, 1988,
p. 58. 2 Della scienza assoluta (Discorso I), in “Museo di letteratura e
filosofia”, a. II, n. 8, vol. IV, 1842, p. 116. Al Discorso I non seguirono
altre parti. 3. Del metodo filosofico ed'una sua storia infino agli ultimi
sistemi di filosofia che sonosi veduti uscir fuori in Germania ed in Francia,
in “Progresso”, XXII, 1839, p. 178. Sul pensiero
filosofico del Cusani cfr. G. G,
Storia della filosofia italiana , Firenze, 1969,
vol. II, pp. 557-563; S. Mastellone, Victor Cousin e il
Risorgimento italiano, Firenze, 1955, pp. 194-210; S. Landucci,
Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis ,
Milano, 1964, pp. 70-74; G. Oldrini, Gli
hegeliani di Napoli, Milano, 1964, pp.32ss; ID., Il primo hegelismo
italiano, Firenze, 1969, pp. 40-64 (della Introduzione) e pp.125-127; F.
Ottonello, Introduzione a S. Cusani, Scritti, Genova, 1979, voll. 2; F.
Tessitore, Op. cit., pp. 64-65.2 “ne e a dire che la psicologia potrebbe far da
se, e proseguire il suo lavoro senza punto brigarsi della storia; perciocche
oltre i danni che potrebbero scaturirne eche noi piu sopra dicemmo, si
eviterebbero i vantaggi che a lei verrebbero dalla storia, sarebbero
infiniti”4. Proprio in relazione a questa fase del pensiero del giovane
napoletano, Giovanni Gentile annota che “pel Cusani, l’osservazione psicologica
diventa la riflessione che rifa la storia dello spirito, una fenomenologia;
el’osservazione storica non e piu l’integrazione della psicologia,
bensi la costruzione stessa della filosofia” 5.
L’eclettismo non poteva piu, a questo punto, rispondere
all’orizzonte intravisto, cosicche “il Cusani, dopo il 1840, staccatosi
dall’eclettismo si diede allo studio della filosofia hegeiiana” 6. 4 Del metodo
filosofico e d'una sua storia, cit., p.183. Poche righe piu sopra Cusani
aveva annotato che “dare una ripruova e un confronto all’osservazione
psicologica, che sia capace di ritrarla dall’errore, allorche per manco
d’esperimento essa cada nell’incompleto, sarebbe per avventura il regalo piu
sicuro, e una norma certissima del metodo per ben filosofare. E questa ripruova
adunque che ci viene insegnata dal metodo storico, la cui importanza non e
certo minore dell’altro, e l’esito altrettanto giusto e sicuro. (...) Certo che
dall’aver dimenticala Storia ne son proceduti
due ordini di mali: il primo, perche si e rotta
quella legge di continuita nel progresso de’ lavori dell’intelligenza, e si e
terminato donde si sarebbe dovuto cominciare; l’altro perche lo Spirito Umano
non si e potuto correggere delle sue deviazioni nello svolgimento intellettivo,
mancandogli la cognizione de’ suoi passati travisamenti. Nella storia adunque e
tutta quanta la filosofia, e riconoscerla nella storia econdizione non
evitabile d’ogni filosofia” (pp. 182-183). 5 G. Gentile, Op. cit., vol.I,
p.639. Lo sforzo di costruire “l’edificio eclettico della scienza” e condotto
da Cusani negli scritti pubblicati tra il 1839 ed il 1840. In particolare,
oltre che nel citato Del metodo filosofico (pp. 176-215), nei saggi Del reale
obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, in
“Progresso”, XXIII, 1839, pp.27-60; Della scienza fenomenologica e
dello studio dei fatti di coscienza, in
“Progresso”, XXIV, 1839, pp. 28-83 (I), e XXV, 1840, pp.16-37(II) e
187-247 (III); D'un'obbiezione dell'Hamilton intorno alla filosofia
dell’Assoluto, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 5-31; Della logica
trascendentale, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 161-187. 6 S. Mastellone, Op.
cit., p. 210. Sulla cosiddetta “svolta hegeiiana”, oltre alle valutazioni degli
autori le cui opere sono state in precedenza indicate (nella nota 2), cfr.
ancora S. Mastellone, Op. cit., p. 202: “Cusani, che pure era stato un
divulgatore di Cousin, in un articolo apparso nella Rivista napolitana (1841)
dal titolo Del modo da trattare la scienza degli esseri (ontologia), disegno di
una metafisica, alludendo ai rapporti tra l’eclettismo francese e l’ontologismo
tedesco, ossia allapolemica tra Cousin e Schelling, poneva alcune limitazioni
al suo eclettismo (...) Si prepara quel fermento spirituale che prendera forma coll’hegelismo,
il quale, se trasse la prima radice dal pensieroco usiniano, si rivolgera poi
contro di questo”. Infine mi permetto di rinviare a G. Acocella, Vico e la
storia in Cusani, in “Bollettino del Centro di studi
vichiani”, XI, 1981, pp. 214-221, in specie pp. 217-218. Gia
nel 1839, in pieno periodo “eclettico”, Cusani aveva sottolineato il
ruoio unificante della filosofia, e aveva concluso che “la storia della
filosofia, la quale disegna come in una tela tutto lo svolgimento progressivo
dello Spirito Umano, non e che la manifestazione di quel potentissimo bisogno
che ha Cuomo di conoscere e di sapere” 7. In questa direzione, dopo che lo
Spirito Umano ha rivolto il primo scopo della sua investigazione nel “mondo
degli obbietti”, ed una volta esaurita la “investigazione della natura lo
Spirito “si viene gradatamente ripiegando inverso il subbietto stesso di quelle
investigazioni, erientrando dall’esterno nell’interno, fa se stesso obbietto
della sua conoscenza”. E cost “di qui nascono, come da una comune radice, tutte
le scienze morali” 8. La conclusione “eclettica” di Cusani si arricchisce di
motivi che preparano l’accoglimento della lezione hegeliana, la quale di sicuro
influenzera gli scritti successivi al 1840, senza liquidare gli altri elementi
che costituiscono l’originalita del filosofo. L’immenso bisogno di conoscere
che tormenta e percorre la “storia naturale dell’intelligenza” anela alla
ricomposizione unitaria che costituisce la scienza: “Questi tre grandi obbietti
adunque, Dio, l’Universo e l’Umanita; l’assoluto, il non me, e il me, che
racchiudono tutto il campo delle speculazioni, costituiscono l’obietto di tutta
la scienza umana. (...) E si potrebbe da’ tentativi diversi, e da’ diversi
risultamenti ottenuti intorno a questo problema, cercar di fare un ordinamento
compiuto di tutte le scuole filosofiche che dall’antichita insino a’ giorni
nostri sonosi succedute nella Storia dello svolgimento naturale
dell’intelligenza” 9. Rispetto a questo proponimento la lettura di Hegel - del
quale pur si doveva denunciare che fosse partito “da cid che ci ha di piu
astratto nella ragione, e di piu indeterminato, cioe dal
pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a pensiero puro, a idea” -
offriva contributi rispetto ai quali Cusani gia dichiarava il suo esplicito
interesse: “Ponendo come base del suo edificio filosofico l’identita
dell’idea e dell’essere, del pensiero e della realta, del subbiettivo e
dell’obbiettivo (...) ne procede che cid che evero del pensiero, evero
eziandio della realta, e che le leggi della logica sono le leggi
ontologiche, ed essa stessa si converte in una vera ontologia” 10. 7. Del
reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere,
cit., p. 27. 8. Ibidem, pp. 28-29. “Giunto a quest’altezza, lo Spirito Umano
tenta d’impadronirsi quasi dell’infinito, cacciarsi nel seno stesso
di Dio, e discoprire nella loro sorgente le leggi onde si regge il
mondo” (p. 29). 9. Ibidem, p. 30. 10. Del metodo filosofico, cit., pp. 210-211.
In queste pagine Cusani fornisce una 4 II principio di una idea filosofica
capace di fondare le manifestazioni della vita umana, dunque una ragione “non
dispogliata delle cose”, diviene per Cusani l’efficace punto di equilibrio del
suo itinerario tra eclettismo ed hegelismo, in grado di assicurare gli
orientamenti etici di ciascuna eta della storia. Nel 1841 Cusani, nel saggio
sulle relazioni tra economia e morale, scrive significativamente che “Ora non
ci ha e non puo esserci scienza morale senza un principio assoluto e necessario,
perche l’assoluto e il necessario e lo scopo ultimo e il termine degli sforzi
del pensiero, e1’ideale della scienza” 51. Nella stessa prospettiva spiegava,
in un corposo saggio pubblicato l’anno successive 12, il valore filosofico che
assumeva la ricerca dei fondamenti etici della societa, asserendo che “di fatto
non si puo concepire una societa che non abbia un pensro generale, cioe a dire
un insieme d’idee acquistate senza ricercare senza scopo, e che informino tutta
la sua vita; perciocche bisognerebbe allora supporre che possa esserci una
societa senza religione, senza istituzioni politiche, senza costumi e senza
industria, non essendo altra cosa le istituzioni, la religione naturale,
l’industria e i costumi, che effetti naturali delle idee e delle credenze
comuni” 53. La filosofia di un popolo, pertanto, e il pensiero di quello stesso
popolo, non nelle semplici forme nelle quali si manifesta nella religione o
nelle istituzioni o nelle stesse arti, o nel diritto e nei costumi, ma con quei
caratteri interpretazione della filosofia tedesca, in sintonia con il tentativo
di rintracciare l’unita del pensiero perseguita dall’eclettismo. E un’
interpretazione che, nata in terra di Francia, trovo piu generosa
fortuna nell’hegelismo napoletano da B. Spaventa in avanti. Ecco la pagina del
Cusani: “Dappoicche la filosofia del Fichte, che non era che la filosofia
stessa del Kant, risguardata dal punto di vista subbiettivo, e quella dello
Schelling, che nelle sue conseguenze non fu che il criticismo risguardato dal
punto di vista obbiettivo, doveano essere entrambe porzioni di quel medesimo
tutto, che Hegel abbraccio nella sua filosofia dell’idealismo assoluto. Egli
parti dalla ragione, e dal pensiero, ma da cio che ci ha di piu astratto
nella ragione, e di piu indeterminato, cioe dal pensiero dispogliato di
tutte le cose, e ridotto a pensiero puro, a idea” (p. 210). 11.
Dell'economia politica considerata nel suo principio, e nelle sue relazioni
colle scienze morale in “Museo di letteratura e filosofia”, a.I,
n.1, vol. I, settembre 1841, p. 54. Cfr. G.
Oldrini, ll primo hegelismo italiano, cit., pp.
48-49. In nota scrive l’Oldrini che “il saggio parafrasa e riadatta, per molta
parte, concetti delle lezioni sull’economia smithiana di Victor Cousin”
(p.48n.). 12. Idea d’una storia compendiata della filosofia, in “Museo di
letteratura e filosofia”, a, I, n. 2, vol.I, novembre 1841, pp.113-135 (parti
I-II); a I, n. 3, vol. II, gennaio- febbraio 1842, pp.3-8 (III); a. I. n. 4,
vol. II, marzo-aprile 1842, pp. 97-120 (IV, V.VI). 13 Ibidem, p. 119. “lo
svolgimento adunque spontaneo e istintivo; e l’altro filosofico riflesso, che
entrambi non si effettuano che sotto le leggi del pensiero umano, costituiscono
il meccanismo, se possiamo cost dire, della vita sociale dei popoli” (p.121).
general del pensiero che di quelle forme costituiscono la fonte; eppure il
“progresso” e reso possibile solo dall’incontro tra due diverse componenti
“Allorche il movimento filosofico o riflessivo passa dalla fede alla scienza,
ed alle credenze popolari alle idee della ragione, e si trova d’essere giunto a
scoprire il pensiero celato dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduceva
nelle Istituzioni, nei costumi, nelle Arti e nelle Industrie, egli fatto quasi
banditore della verita scoperta, l’annunzia per farla conoscere alle masse, le
quali non avrebbero potuto pervenire a quel segno che tardi e lentamente” 14.
Il debito nei confronti di Vico appare evidente, tanto piu che - indirizzandosi
l’interesse di Cusani verso le esperienze umane del diritto e dell’economia -
le influenze hegeliane si rivelano in realta filtrate dalla tradizione della
filosofia meridionale, da Vico a Filangieri a Pagano 15. La filosofia e la
scienza compongono insieme la trama che segna l'itinerario travagliato e non
lineare della storia verso il “vero”: “i filosofi accelerano il movimento delle
masse, ed a qui nasce ancora che essi stessi sono indugiati nel movimento che e
loro proprio. Dappoicche se le masse accettano la nuova luce che loro arrecano i
filosofi, sono d’altra parte lente e ritenute nell’abbandonare le vecchie
opinioni, che il tempo ha reso abituali, e bisogna innanzi tutto che esse
comprendano cio che loro vien rivelato, e lo comprendano a loro modo, cioe
facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza, alle
forme pratiche del senso comune” 16. Il tema del senso comune - cosi
tipicamente vichiano e tanto frequentemente richiamato in piu punti dell’opera
cusaniana - costituisce un elemento fondamentale dell’itinerario che il
filosofo napoletano svolge, rivelandosi capace di svelare la trama della
ragione nella storia. Cosi come nella vita sociale le “branche dell’attivita
umana” precedono la filosofia e la storia [14 Ibidem, p. 121. 15 Cfr. G.
Acocella, Op. cit., pp.216 e 217-218. 16 Idea d’una storia compendiata, cit.,
pp. 121-122. “Insomma non eche dalla combinazione di questi due movimenti che
progrediscono le idee umane, edal progresso delle idee umane nasce la
trasformazione e il miglioramento successivo delle leggi, dei
costumi e delle istituzioni, che sono altrettanti elementi costitutivi
della condizione umana”. Sul senso comune cfr. p. 128: “Purtuttavia, sebbene
1’uomo sia conscio nell’intimo della sua coscienza della sua liberta, e
riconosca in se stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli e
causa; cio nondimeno non puo non iscorgere eziandio, che la sua volonta e posta
sotto il dominio ela soggezione d’una legge, che diversamente vien denominata
secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica,
contrasse-gnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora come senso
comune”] ria di quelle precede la storia di questa 17, cosi “l’istoria non si
realizza che dopo un lungo proceder della scienza; perocche se prima non si sono
osser-vate molte variabilita successive, non si sente il bisogno di una storia
qualunque; ma quando non si vuol considerar altro che l’essenza stessa, ola
materia di che componesi la storia della filosofia, si puo dire che essa
comincia colla scienza” 18. Cosl per esempio, rivolgendosi l’attenzione alle
esperienze umane piu rilevanti, per quel che riguarda l’economia politica
occorre indagare le leggi oggettive dell’agire economico, giacche le azioni
umane - pur tenendo conto della liberta che le generavanno ricondotte
sempre alia ragione (o si voglia dire legge morale o senso comune).
Massimamente con l’economiala questione centrale di come si compongano liberta
dell’agire individuate e conseguimento di leggi oggettive dell’economia si pone
come un nodo centrale della scienza morale, nel quale e coinvolto lo stesso
tema della relazione tra natura e ragione. Infatti, “primieramente, e noto che
il combattimento, che l’uomo, forza libera e intelligente, sostiene contro la
natura per dominarla e trasformarla ai suoi bisogni, costituisce un ordine
distinto di fenomeni e d’idee, che rientrano nel dominio dell’Economia
politica”, la quale deve pur pervenire a individuare “leggi necessarie, che
stanno a capo della produzione, consumazione e distribuzione delle
ricchezze” 19. L’interesse mostrato da Cusani verso Adamo Smith e
motivate proprio dal legame tra la liberta umana -che si esplica nel lavoro -e
le leggi necessarie dell’economia, giacche il fondamento del valore Smith ha
posto nel lavoro 20. Ma sbaglierebbe chi si fermasse al lavoro, perche
“quantunque il 17 Cfr. Ibidem, pp. 124-125: “Perciocche aquella stessa guisa
che nella vita sociale dei popoli lo stato, le industrie, le arti e la
religione precedono la filosofia, eziandio la storia di tutte queste branche
dell’attivita umana precede quella della filosofia, ultima per avventura a
prender corpo nello svolgimento intellettuale dell’uomo”. 18 Ibidem,p.
124. 19 Dell’economia politica,cit., p. 41. 20. Mentre Quesnay, con la
sua scuola, “tenne che i prodotti del suolo fossero la sola fonte, e il vero
principio del valore”, invece “Adamo Smith elevo il principio del valore,
partendo da questo, che cio& il lavoro d’una nazione costituisce la
sorgente di tutte lc sue ricchezze”, e quindi che “i bisogni dell’uomo non sono
considerati dallo Smith che subordinatamente al lavoro; il che e molto piu
ragionevole che subordinare il lavoro ai bisogni, come eintervenuto al Say e al
Tracy, i quali cio non di meno hanno comune con esso lo stesso principio del
lavoro” (Ibidem, pp. 42 e 43). Nell’esaminare la formazione dela scienza
economica Cusani riafferma il principio della tradizione italiana (come per la
scienza della legislazione ricorda in particolare Filangieri, Pagano e
Romagnosi) asserendo: “L’Economia politica nata adunque in Italia, lavoro
nel suo lento o accelerato esercizio sia quello che ingeneri la ricchezza delle
nazioni, e misuri in un certo modo, esi no a un certo segno, il valore delle
cose in ragione delle difficolta e degli ostacoli che incontra nella sua
effettuazione; purtuttavia esso non deve essere considerato, che come l’effetto
della liberta umana, ultimo principio a cui devesi ricondurre la scienza” 21.
Attraverso questo principio Cusani ricostruisce il percorso che dalla liberta,
attraverso la proprieta, giunge alla formulazione di una scienza morale la
quale, proprio perche scienza, e la “cognizione dell’assoluto invariabile,
ultima ragione delle cose” 22. Se infatti l’osservazione si conferma
indispensabile alla “investigazione scientifica, pure resta essenziale ribadire
la ricerca di un principio morale assoluto perche si possa dare scienza in
questo ambito. Le considerazioni che Cusani - partendo dall’apprezzamento del
principio secondo il quale “senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la
possibilita d’una scienza morale” e quindi dell’imperativo categorico 23 -
riferisce all’opera di Kant, mettono a fuoco appunto il significato della
liberta per la ragione, ed i criteri per la individuazione del
principio morale assoluto: “Egli e percio, che rifermossi che il fatto della
liberta, che 1’osservazione ci rivela nel fondo della coscienza come distinto
dalla fatalita delle nostre passioni e delle nostre SENSAZION, e che eguaglia
in certez- massime per opera del Serra, non si svolse dappoi che in Francia
nella celebrata setta degli Economisti, dai quali attinse gran parte delle sue
idee lo Smith”(ivi, p. 41). Sull’interesse della cultura napoletana
per il ruolo svolto da Serra, considerato precursor dello Smith, mi permetto di
rinviare a G. Acocella, La storia degli scrittori politici italiani dopo la
“svolta” del 1830 a Napoli, in “Archivio di storia della cultura”, a. VIII,
1990, pp. 69ss. 21 Ibidem, p.45. “Togliete la liberta nell’uomo, e voi
avrete esaurito nella sua sorgente ogni lavoro possibile, essendone
essa sola la causa, e la causa vera, reale, e non immaginaria. Fare adunque
l’analisi della liberta, come produttiva del valore delle cose, sarebbe
veramente farla psicologia dell’Economia politica”(ivi, pp.
45-46). 22 Ibidem, p.54: Questa verita conosciuta dagli antichi, i quali
tenevano non potersi dare scienza del fenomenico variabile, perciocche il fatto
non e il principio ela ragione di se stesso, estata chiaramente riprodotta dai
moderni, quando hanno sostenuto che la scienza non eche la cognizione
dell’assoluto invariabile, ultima ragione delle cose. Pure, se il fatto non e
la scienza, ecertamente prima condizione e quasi materia della scienza, potendo
solo cadere sotto l’occhio dell’osservazione, e l’osservazione ela vita d’ogni
investigazione scientifica. Tutto cio essendo or amai stato messo fuor di
dubbio nel campo dell’intelligenza, ha fatto, si che nella scienza morale si e
cercato il principio morale assoluto, ed il fatto proprio che n’e la
condizione”. 23 Ibidem: “Primamente non potevasi non vedere che senza
un’obbligazione assoluta non era ammessa la possibilitad’una scienza morale, e
che senza la ragione, che sola puo comandare con un imperativo catagorico, non
poteva darsi obbligazione di sorta”. za tutti gli altri fatti, non
rimanendo punto una semplice credenza, come volevail Kant, dovesse esser solo
la condizione del principio morale, trasformato in legge dalla ragione” 24.
Poteva Cusani, in virtu di questa acquisizione, rintracciare finalmente nella
liberta gli orientamenti dell’agire morale e scoprire il principio morale della
stessa economia: “Di qui il principio: essere libero, conservati libero, cioe
resta fedele alla natura, ch’e la liberta; fu la sorgente d’ogni obbligazione e
d’ogni moralita; identificandosi colla massima degli stoici: sequere naturam.
Questo principio della morale generale stabilito, si vede apertamente che una
delle prime relazioni dell’economia colla morale, sta nell’identita del
principio stesso, o meglio, nel fatto della liberta; solo diversificando,
perche l’una lo stabilisce come trasformato dalla ragione in legge, e 1’altra
lo accetta come dato nelle applicazioni della vita”25. L’unita della
scienza, che il “fatto” della liberta - svelatosi principio unificante dell’azione
umana - realizza, e stata resa possibile dal superamento della “direzione
scettica” nella quale Cartesio getto la filosofia moderna, rendendola incapace
di fondare l’oggettivita, partendo dal soggetto 26, e dunque la comprensione
del mondo esterno. Ora, finalmente, la filosofia, rivelatasi scienza, verifica
che “lo Spirito umano e uno, identico a se stesso in tutti i tempi, in tutti I
luoghi, appo tutti gli uomini; puo esservi varieta nelle sue
determinazioni, ma l’essenza resta immutabile attraverso di tutte queste
apparenti mutazioni. La scienza non rappresenta che l’essenza, ed e percio che
l’idea filosofica, o lo spirito filosofico non e che uno e sempre identico a se
stesso” 27. Come per l’economia anche per il diritto la liberta dell’individuo
si afferma per Cusani quale principiocapace di fondarel’agire morale,
confermando l’unitarieta della scienza. Dedicando nel 1842 una lunga nota
in tre parti, benche incompiuta, all’opera
di Giovanni Manna 28, e dopo aver 24 Ibidem, “Dappoiche non
potendosi dalla sensazione trar niente che avesse forza d’obbligazione, e vice
versa la ragione scorgendo nel fatto della liberta una superiorita di principio
che procedeva dalla stessa personality umana,
potette scorgervi il dovere asso-luto di
mantenere la dignita della persona sulla
materia, e della liberta sulla fatalita” (ivi). 25
Ibidem, p. 55. “Sicche, da questo lato risguardata, l’Economia
potrebbe esser considerata come una derivazione della morale nelle sue piu
minute conseguenze” (ivi). 26 Cfr. Della scienza
assoluta (Discorso I), cit., p. 112. 27
Ibidem , p. 116. Sul punto cfr. G. Oldrini,
Gli hegeliani di Napoli, cit., pp.58-59. 28 Del
diritto amministrativo del Regno delle Due Sicilie. Saggio teoretico storico e
positivo, in “Museo di letteratura e filosofia”, a.I, n. 3,
vol.II, gennaio-febbraio 1842, pp.38-45; a.I, n.4,
vol.II, marzo-aprile 1842, pp. 167-172; a. I, n. 5, vol. Ill, maggio-
Scienzci 9 affrontato la questione della individualita nella prima parte,
dichiarando il proprio interesse per le “partizioni teoriche del diritto
amministrativo”, Cusani decisamente ritorna sul problema della scienza
avvertendo pero che “nissun problema che tocchi la scienza sociale pud
risolversi, senza aver prima risoluto l’altro della destinazione
dell’individuo, che li contiene e gl’implica, abbracciandoli tutti nel suo
seno” 29. Cosicche si puo considerare che “se la scienza divide eperche questa
e la sua condizione di esistenza, e perche l’umano intelletto ha bisogno di
successiva osservazione, e di notomia, direi quasi, della cosa che vuol
conoscere e sapere. Ma in sostanza ci ha unita fondamentale qui, come in tutto,
e la scienza umana non tende che continuamente verso questa unita, che la sola
ontologia pud promettersi” 30. II richiamo, costante in tutta la sua opera,
all’ontologia consente a Cusani di riaffermare il principio assoluto e generale
da cui discende coerentemente l’ordine morale che la scienza pud infine
conoscere. La visione unitaria perseguita - che, tanto nella fase eclettica
quanto in quella segnata dalla lettura di Hegel, pone in primo piano la
questione dei fini razionali della storia e dell’azione umana - rivela pero con
evidenza il debito comunque contratto nei confronti, oltre che di Herder, soprattutto
di Vico, rimeditato autonomamente ea contatto con le suggestioni presenti
nell’eclettismo napoletano 31. Recensendo nel 1843 la Storia della filosofia di
Pasquale Galluppi, Cusani chiarisce in apertura che “s’egli e vero che la
storia della filosofia, come noi abbiamo affermato in uno de’ fascicoli
precedenti non ese non l’idea stessa, e lo spirito dell’umanita, non quale si
rivela nelle sue isti- giugno 1842, pp. 33-37. L’ultima parte pubblicata
concludevac on le parole “sara continuato” (n.5, p.37). Non vi fu alcun
seguito. Gia concludendo la prima parte, pero, Cusani, avvertiva che “per fame
un’analisi compiuta” si era ripromesso “di venir discorrendo di ciascuna parte
in particolare, ma si perche l’opera non evenuta fuori ancor tutta per le stampe,
e si perche la parte positiva del diritto amministrativo non e in relazione coi
nostri studi, cosi ci terremo contend solo ad esaminar per ora la sola
quistione che risguarda la scienza della pubblica amministrazione, riserbandoci
di parlare della parte storica quando l’autore ne avra fatto dono al pubblico”
(n. 3, p. 45). Sul Manna e sulla sua opera cfr. F. Tessitore, Della tradizione
vichiana edello storicismo giuridico nell’Ottocento napoletano,in Aspetti del
pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta, Napoli, s. a. (1962), pp. 118
ss.; G. Rebuffa, L'opera di Giovanni Manna nella formazione del diritto
amministrativo italiano, in La formazione del dirittoamministrativo in Italia,
Bologna, 1981, pp. 33-71. 29 Del diritto amministrativo, cit., n. 4, p. 168. 30
Ibidem, p. 169. 31 Cfr. F. Tessitore, Momenti del vichismo giuridico-politico
nella cultura meridionale, in “Bollettino del Centro di studi vichiani”, a. VI,
1976, pp.101ss. Sul vichismo del Manna cfr. pp. 99-100. tuzioni, nelle arti,
nelle legislazioni, ma sibbene nell’asiio inviolabile del pensiero puro, del
pensiero in se; deve esser vero eziandio che essa non e una raccolta vana di
opinioni, nata per soddisfare la curiosita di alcuni uomini, ma viceversa,
secondo che diceva l'Herder, la catena sacra della tradizione, che opera in
massa, con leggi necessarie, e non a caso ne isolatamente” 32. Si pud pertanto
comprendere anche la radicale nettezza con la quale nella nota sul Manna Cusani
afferma che ‘l’ontologia adunque e la scienza prima, che facendoci conoscere la
determinata essenza degli esseri, ci conduce a discernere il fine a cui essi
sono destinati (che e pure un problema ontologico) e che diventa problema
morale se trattasi della destinazione dell’uomo sopra la terra, problema
religioso se trattasi di questa stessa destinazione innanzi e dopo la vita
terrena; problema di filosofia di diritto, che abbraccia il diritto individual,
il diritto pubblico, e il diritto internazionale, se trattasi della giustizia
reciproca che gl’individui, lo Stato e le nazioni, debbono somministrarsi per
raggiungere la loro destinazione. Questa e l’unita della scienza, la quale non
e che un pallido riflesso dell’unita stessa della causa prima”33. Dove Vico e
Herder servono al disegno hegelia- [32. Recensione a P. Galluppi, Storia della
filosofia, Prefazione, in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II. n. 9,
vol. IV, gennaio 1843, p.222. Su Herder e Vico
cfr. Idea d’una storia compendiata della filosofia, cit., pp. 134-135: “Ora questa
legge che governa lo svolgimento dell’umanita, e che costituisce la filosofia
della storia, non poteva che cercarsi successivamente in Dio, nell’uomo, enel
mondo, essendo questi i tre obbietti che si appalesano all’ntelligenza
(...) Di qui nasce che il Bossuet sia stato il primo filosofo della storia,
trovando nella Bibbia la soluzione del problema. A questi successe il Vico, che
cerco nell’uomo il principio e la legge dello svolgimento dell’umanita. E da
ultimo l’Herder che voile trovarlo nel mondo fisico, e nella combinazione
speciale d’influenze esterne. (...) Noi diciamo, che ognuno di essi e stato
esclusivo, in quanto che l’Herder non ha riconosciuta la parte che rappresenta
l’uomo nella evoluzione storica dell’umanita, ed il Vico, in quanto che non ha
riconosciuto l’nfluenza della natura esteriore; ed entrambi poi non
disconoscendo la parte che rappresentala Provvidenza, l’hanno subordinata
all’uomo e alla natura, mentre il Bossuet impadronendosi di questa, ha tutto
subordinate ad essa”. 33 Del dritto amministrativo, cit., p. 169. Sul
problema dello Stato cfr. p.170: “io non so concepire, come l’arte, la scienza,
la morale, e la religione debbano esser fine a loro stesse, e lo Stato debba
esser considerate come mezzo per la societa umana, quando il suo scopo non e che
uno scopo razionale, come quello che tocca in dominio alle altre sfere
dell’attivita sociale. Ne solo io dico che lo scopo e razionale ed ha gli
stessi caratteri di quelli che spettano alle altre sfere dell’attivita sociale,
ma che e identico con tutti nel fondo, e che se uno e il bene assoluto, o
l’ordine assoluto, che riferma lo scopo e la destinazione dell’uomo, non si pud
far dello stato un semplice mezzo ed una via per la conservazione dell’umanita
perfettibile”. no della scienza del’essere. Vale, pero, sottolineare
come, nel confronto con Galluppi, istituito nella nota sopra ricordata, il tema
del “vero” costituisca un interessante nodo che chiarisce il modo con il quale
Cusani interpreta Vico ed il problema della storicita dell’esperienza. Al
Galluppi che affermava che “la storia della filosofia non puo trattarsi
apriori, ma deve dedursi dall’osservazione dei fatti, perche altrimenti avremmo
dovuto trovar prima i problemi relativi alla scienza del pensiero, e poi quelii
relativi all’universo”, Cusani obietta “che la storia della filosofia e
identica colla scienza”, e pertanto “troveremo che il primo mezzo di
trattar la storia della filosofia e il metodo a priori, il quale non deve
ch’esser verificato dall’esperienza” 34. A Cusani, naturalmente, sono chiare le
novita apportate dalla modernita e le conseguenze che ne sono scaturite,
dal momento che la filosofia aveva nell’antichita la definizione di scienza
dell’universale, contrapposta a quella “ricevuta presso i moderni” della
filosofia come scienza del pensiero - per cui la “definizione degli antichi si
faceva per mezzo dell’ontologia, quella de’ moderni viceversa si fa per
mezzo della Psicologia” - ma resta pur sempre certo che in realta “l’ontologia
e la Psicologia non sonoche due determinazioni, o aspetti diversi dell’idea
filosofica, in quanto che l’una considera l’obbietto in se, e per se, l’altra
questo obbietto che divien subbietto” 35. La scienza morale che Cusani intende
definire, dunque, verifica nell’esperienza - nelle diverse “branche di attivita”
nelle quali si manifesta l’azione umana - il principio assoluto e invariabile
che da unita e senso alla scienza moderna. Cosi “l’Economia politica non
dovrebbe rappresentare che quella stessa parte, che rappresenta la Politica,
quanto alla filosofia del diritto. Perciocche laddove questa ci rivela
l’ideale a cui possono pervenire le societa umane, e la politica determina le
relazioni che passano tra l’attuale esistenza di esse, e l’ideale, poggiando
sopra queste relazioni i cangiamenti che possono patire le istituzioni sociali;
l’Economia, rispetto ai monopoli ed agli ostacoli che si frappongono al libero
esercizio del commercio, deve far ragione, prima di effettuare il suo
principio, di tutti gl’interessi attuali della societa dove questi sistemi proibitivi
sono introdotti” 36. D’altro canto la natura di scienza morale dell’economia
(come del diritto o della politica) risulta evidente nella concezione cusaniana
di una filosofia civile moderna: “come il principio morale riferma la
destinazione dell’uomo che precede sempre dalla sua natura, e questa natura non
essendo che [34. Recensione a R Galluppi, cit., p. 230. 35. Ibidem, p.227. 36.
Dell’economia politica, cit., p. 53. doppia, coesistendo in lui lo spirito e la
materia, l’anima e il corpo, la liberta e la fatalita (sebbene la materia e il
corpo non siano che l’inviluppo esterno della natura umana, stando la sua
essenza tutta nella personalita nella liberta e nell’anima); ne seguita che
l’Economia, anche ristretta nel senso di coloro che non vogliono fame che una
scienza del benessere corporate e dell’agiatezza sociale, dovrebbe serbare
alcuna relazione verso la morale” 37. La difficile relazione tra il “fatto” ed
il principio, cioe tra l’obiettivo immediato dell’azione e lo scopo razionale
che ne costituisce il fondamento, e verificata da Cusani nello sviluppo del
pensiero moderno. L’itinerario che dalla fase delle “utilita” deve condurre a
quella dei “fini” viene percorso analizzando il contratto sociale in Kant e
Rousseau 38, in riferimento al quale Cusani puo criticamente concludere: “Ma
l’obbligazione morale e giuridica non puo mai procedere da un atto volontario,
quale e quello che riferma il contratto e il CONSENSO (con-senso) universale,
perche nessuna cosa arbitraria e volontaria puo costituire un diritto, ed una
convenzione non e che la semplice manifestazione della volonta mutabile degli
uomini” 39. Colui che ha colto piu precisamente - ad avviso di Cusani - il
significato profondo del rapporto tra il fatto ed il fondamento razionale
dell’ordinamento estato, a proposito della questione della proprietya
fondamentale per l’ordine sociale, Fichte: “Piu ragionevolmente adunque
il Fichte, che fu il. 37. Ibidem,p. 55. “Ma e perche essa abbraccia
tutto il problema della destinazione dell’uomo nelle conseguenze, che serba per
avventura assai piu intime relazioni colla morale generale” (ivi). Scrive anzi
Cusani (p. 56): “La sola relazione che passa tra il lavoro destinato per il
mantenimento della vita fisica, e il riposo destinato per il compimento della
vita morale, puo esser la misura de’ differenti gradi della ricchezza
nazionale, la quale aumenta in proporzione che cresce il riposo per le
occupazioni intellettuali. Insomma, produrre nel minor tempo possibile cio ch’e
necessario per la satisfazione de’ bisogni materiali della vita, e crescere in
ricchezza e moralita” .38 Ibidem,p. 50: “Questo fatto, che l’obbligazione sia
inclusa nella proprieta fu ben vista da Kant, il quale stabili, che
sebbene la specificazione e il lavoro fossero gli atti preparativi della
proprieta cio non di meno perche questa fosse riconosciuta e rispettata
da tutti, bisognava una spezie di contratto sociale, con che si desse la
proprieta definitiva. Vero e che questa idea del contratto sociale, considerato
come base giuridica necessaria del diritto di proprieta, non fu da lui
risguardata quale base della societa stessa, come era addivenuto appo parecchi
pubblicisti, e specialmente appo il Rousseau, che l’ebbero come un precedente
storico; solo voile dire ch’era necessario, accennando ad un fine razionale
avvenire, per cio che egli significava col titolo di proprieta o possesso
intellettuale”. 39 Ibidem, p.50. seguitore del Kant e il suo discepolo
filosofico, voile rifermare, nel suo Manuale e nelle sue Lezioni di Diritto naturale,
la proprieta esser costituita sulla nozione stessa di diritto. Conciossiache la
sua teorica del diritto, procedente dal suo sistema filosofico, nel quale
stabilisce che l’attivita infinita dell’Io che si svolge come per una retta,
pone, nell’urto che incontra, il mondo degli oggetti esterni, doveva contenere
tutta la ragione filosofica della proprieta” 40. Nel 1839, in un’opera
segnatamente influenzata dall’eclettismo del Cousin 41, aveva gia sottolineato
la rilevanza dell’osservazione del mondo storico per la definizione del
principio morale. Rispetto al sistema di Locke 42, infine, la scuola scozzese
del Reid aveva fatto compiere un decisivo passo avanti al “metodo della
psicologica osservazione”, consentendo infine di “osservar le Societa” e di “distinguerne
e sceverare la parte sostanziale dall’accidentale, cio che ne costituisce
l’esistenza, la vita, il principio, da cio che non e che una semplice forma
contingente e variabile, secondo la diversita de’ tempi e de’ luoghi” 43. Ma la
questione della legittimita, “trascurata 40 Ibidem.“Di fatto, siccome la
personalita umana e dotata, secondo lui, d’una liberta infinita, cosi e che il
diritto non ista che nella limitazione della liberta di ciascuno, perche possa
coesistere la liberta di tutti. Posto cio il diritto deve garantire a ciascuno
il dominio particolare nelquale deve svolgere la sua liberta” (ivi). Nello
stesso scritto Cusani torna sul Fichte riguardo alla relazione tra lavoro
e riposo e sul tema della moralita resa possibile dal produrre nel minor tempo
possibile cio che e necessario alla soddisfazione dei bisogni umani: “Primo tra
gli scrittori moderni che rifermasse questa verita semplice per se stessa, ma
troppo spesso disconosciuta, fu il Fichte, uno de’ piu nobili ingegni di
Germania: e cio perche vide che la destinazione dell'uomo non edi essere
assorbito dal lavoro destinato alia vita fisica, ma sibbene di avere a
restargli assai tempo per lo svolgimento della sua moralita” (Ibidem,
p.56). 41. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a
poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII, 1839, pp. 27-60. Ha scritto S.
Mastellone, Op. cit., p. 194: “dichiarazione di fede eclettica puo considerarsi
l’articolo di Cusani: Del reale obbietto d'ogni filosofia e del solo procedimento
a poterlo raggiungere (Progresso, 1839). La lunga dissertazione sulla necessita
di porre a fondamento della filosofia la psicologia per poi passare
all’ontologia, e la definizione dei tre obbietti della filosofia (il mondo,
l’anima e Dio) e dei tre ordini di fenomeni nell’interiore della coscienza (i
sensitivi i volontari e gli intellettivi) sono tratte dall’opera di Cousin”.
42 Cfr. Del reale obbietto , cit., p. 57: “seguitando lo stesso principio
in morale, i suoi seguitatori non fannosi punto a ricercar quale e la
moralita nello stato attuale dell’uomo, ma invece quali sono state le prime
idee di bene e di male nell’uomo ridotto allo stato selvaggio innanzi ogni
civil comunanza”. 43. Ibidem, p.59. “Cosi questa scuola modesta e timida poneva
la quistione fondamentale di tutta la scienza psicologica; e quantunque non
facesse che circoscrivere l’osservazione, e fermarsi laddove essa cessava,
purtuttavia frutto gran bene alle scienze politiche, e morali, sollevando, per
cosi dire, l’umana natura in una piu pura ragione (...) dalle scuole
menzionate”, “richiedeva una terza scuola, che se ne fosse occupata
specialmente, e questa venne su a Konigsberg promossa da un ingegno
meraviglioso” 44. Se certamente il formalismo kantiano presentava nella
interpretazione cusaniana aspetti che attiravano le riserve del lettore di
Cousin e di Hegel, pure esso rappresentava un termine di confronto essenziale
alla definizione dell’obbligazione morale, e di conseguenza della scienza
morale e delle parti in cui questa si articola. Piuttosto il limite di Kant,
come si e poco prima ricordato, consisteva nell’aver posto il contratto a base
dell’obbligazione sociale: “se si fosse cercata nella ragione, che ci comanda
con un imperativo categorico, si avrebbe per necessita dovuto ammettere una
societa a priori del genere umano, e si sarebbe conchiuso
che ci ha un diritto, che a noi vien da natura,
indipendententemente da ogni contratto e da ogni diritto positivo” 45. La
relazione che si istituisce tra l’ideale ed il reale, tra principio ed
esperienza (ed anche tra l’apriori e l’aposteriori) comporta finalmente la
possibilita di definire una scienza sociale coerente con i principi della
scienza morale, giacche nell’unita della Filosofia tutte le parti vengono
ricomposte: “Se lasciamo la morale generale, e ci facciamo a risguardare
l’Economia nelle sue relazioni colla Filosofia del diritto, colla Legislazione,
e colla Politica, siccome queste non sono che parti della Filosofia morale in
generale, cosi non potremo che scorgervi le stesse relazioni” 46.
somigliantemente in Politica, le indagini intorno allo stato primitivo delle
Societa, de’ governi, delle leggi, e la varieta de’ sistemi che se ne
ingeneravano (perocche dove ha luogo la congettura nissuno ha il potere di
limitarla) cessarono del tutto, e cominciossi a osservar le Societa, cosi
com’esse ci si presentano dinanzi” (pp. 58-59). 44 Ibidem, p. 59. 45
Dell’economia politica, cit., p. 51: “Ne sappiamo vedere come il Kant, che
aveva cosi bene stabilito l’obbligazione morale, avesse poi dovuto ripeterla,
quanto alla proprieta, da un contratto e da una convenzione. Certo e vero, che
il non aver esaminato punto donde veniva l’obbligazione attaccata aquest’ atto,
ha fatto si che siasi incorso in due errori, il primo di negare che la
proprieta sia di diritto di natura, el’altro di ammettereuno stato primitivo e
selvaggio dell’uomo innanzi della societa; perciocche se si fosse cercata nella
ragione, che ci comanda con un imperativo categorico, si avrebbe per
necessita dovuto ammettere una societa a priori nel genere umano, esi
sarebbe conchiusoche ci ha un diritto, che a noi vien da natura,
indipendentemente da ogni contratto e da ogni diritto positivo. Ne vale
ammetter questo contratto come fatto nel passato, o come da farsi nell’avvenire,
non procedendo da cio nessun’illazione, quando si tiene esser esso la base e il
fondamento della proprieta”. 46. Sull’hegelismo italiano (ed i specie
napoletano) cfr. P. Piovani, Il pensiero idealistico, in AA. VV., Storia
d’ltalia, vol. 5, Torino 1976, I documenti, t. II, p. 1552: Cusani puo cosi
concludere il suo tentativo -non dimentico di Fichte, ma sicuramente sensibile
alla filosofia vichiana - di delineare una scienza morale rivelatrice della
missione civile della filosofia: “Ma la scienza sociale non e costituita che
dalla filosofia del diritto, la quale accenna all’ideale che devesi raggiungere
nelle societa umane, e dalla politica che appoggiandosi sui precedenti storici
delle societa medesime, ne osserva lo stato attuale e giudica di quale
avanzamento progressivo possono esser capaci” 47. Ne sono lontani gli anni nei
quali, su altri testi d’una diversa tradizione, e in cospetto d’una diversa
realta socio-economica d’una diversa regione d’ltalia, Marco Minghetti proporra
la sua Economia pubblica. coloritura hegeliana o hegelianeggiante,
l’ammirazione professata verso lo studiato (piu o meno studiato) filosofo
tedesco individua come connotato essenziale questo idealismo, pur se, in senso
tecnico, iconfini effettivi delle conoscenze hegelistiche dei nostril hegeliani
risultano imprecisi, elastici, quasi sempre vicini a uno Hegel letto
prevalentemente in chiave fichtiana o kant-fichtiana”. 47. Ibidem, pp. 56 e 57.
“E di vero, nella filosofia del diritto non si puo far astrazione dallo scopo che
ha l’uomo a raggiungere, se si deve poter determinare le condizioni esterne di
cui abbisogna, procedenti dalla volonta de’ suoi simili, nel cui insieme sta la
scienza del diritto. Ma lo scopo o la destinazione dell’uomo ingenera delle
relazioni tra la morale e l’economia; deve quindi di necessita ingenerarne
eziandio tra il Diritto e l’economia” (p.56). Stefano Cusani. Cusani. Keywords:
l’assoluto, il relativo, spirito soggetivo, spiriti soggetivi, spirito
oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita latitudinale della
filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione all’assoluto, l’essere
e la metafisica, gl’esseri e la metafisica, economia e morale, la
fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo, Vico, Galluppi,
Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cusani” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690273430/in/photolist-2mLQc9e-2mPrdWj-2mKBFeq-2mKGaqS-2mKG3XG-2mKbpiZ
PEPPINO
Grice
e Dalmasso – la giustizia nel discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo. Grice: “Dalmasso is what at Oxford we call a ‘derivative’
philosopher, and at Cambridge a ‘Derrideian’! But he’s written some original
work too, mostly as editor, as in “La passione della ragione” – he has also
explored ‘discourse’ in terms of ‘rationality’ and ‘fairness’ – In my model,
both conversationalists are symmetrical, so questions of unfairness do not
apply! I took the inspiration from Chomsky!” – Si laurea a Milano. Insegna a
Calabria, Roma, Pisa, e Bergamo. Membro della Societa Italiana di Filosofia
Teoretica. Studia Derrida, ha commentato “La voix et le phénomène” e “De la
grammatologie (Jaca Book). Comments on “L’offerta obliqua” e “Passioni” --Dai
problemi del soggetto del discorso e della genesi del segno nel dibattito sul
nichilismo i suoi interessi si sono rivolti alla ragione in rapporto all'etica
e Hegel. Pubbllica in Oltrecorrente, di Magazzino di Filosofia. Altre opere: Hegel,
probabilmente. Il movimento del vero (Milano: Jaca).Hegel e l'Aufhebung del
segno, Chi dice io. Chi dice noi (duale). L’implicatura del noi duale. Razionalità
e nichilismo, Jaca, Milano, La passione della ragione. Il pensiero in gabbia.
La politica dell’imaginario, la verita in effetti. La sovranita in legame.
Etica e ontologia: fatto, valore, soggetto, l’interosoggetivo. Il tra noi.
Di-segno – la giustizia nel discorso. – Hegel e l’Aufhebung del segno. L'implicatura del noi duale.
L’intreccio fra sapere e ragione Il tema della filosofia di Dalmasso riguarda
la domanda originaria. Domanda e origine sono problemi del pensiero
che, fin dall’inizio della filosofia, non costituiscono un approccio
di controllo e di dominio dell’esistenza, quanto piuttosto un ripiegamento
su sé stessi che si interroga sulla propria genesi. In termini meno
esistenziali e più antichi tale questione occupa il posto dell’anima.
Dalla consapevolezza dell’incombere della morte nel primo stasimo
dell’Antigone al costituirsi, per così dire, di un’interiorità nella sofistica
e in Platone, l’anima (animatum) ha funzionato come principio originario
in una forma diversa che il dominio. Principio che annoda e che manifesta,
secondo vie non solo immediate e speculari, il logos (la ragione), il
noein come conoscenza e misura di un ordine. Quando il nous, attraverso
Aristotele, acquista tutto il suo sviluppo concettuale e strategico,
nel pensiero tardo-antico, a partire da Plotino, l’ anima rimane ed
è ribadita come il luogo e il venire a coscienza del rapporto con lo
stesso “nous,” cioè con il formularsi dell’originario (uno, bene o
atto che sia). Grice e Dalmasso scelgono di leggere Bradley e Hegel.
Scelta motivata da loro interessi di ricerca, ma anche, più ampiamente,
dall’attualità di un linguaggio che è in grado di riformulare questioni
sull’assetto moderno del sapere e sul soggetto – e l’intersoggetivo --
di tale sapere. Su un ‘noi’ duale, che, nella esplicita strategia hegeliana,
articola e raddoppia il ruolo di due anime. Sapere su di un noi duale è
comunque per Hegel un sapere sulle strutture di un noi duale chi, che
sono in grado di formulare una domanda originaria. Il testo, di
cui Bradley propone alcune note essenziali di commento, riguarda i paragrafi
dal 440 al 458 della “Psicologia razionale” sezione della Filosofia
dello Spirito contenuta nella edizione dell’Enciclopedia. A differenza
dell’“antropologia”, in cui due anime sono considerate come l’aspetto
immediato della vita dello spirito (le due anime considerate come il
sonno dello spirito, problemi del rapporto delle due anime con I due corpori,
questioni del sonno, della veglia, delle sensazioni ecc.) la Psicologia
non è scienza delle due anima, ma scienza del sapere intorno alle due
anime, cioè scienza veramente tale, nella sua portata concettuale.
Per Bradley e Hegel, ‘scienza’, Wissenschaft, ogni scienza, e soprattutto
quella scienza massimamente rigorosa che è la filosofia (‘regina
scientiarum) è scienza sempre di secondo grado: scienza che controlla e
che ha come oggetto la sua stessa genesi. La filosofia e la regina
scientiarum, la scienza che misura il negativo rispetto al suo assunto
e al suo stesso metodo, scienza che è in grado di smarcarsi dal piano del
suo stesso sapere e di comprendere il rapporto dinamico, generativo
e mai astrattamente “speculare” o reflessivo delle due anime, in cui la inter-conoscenza
si costituisce. Così, nel caso del testo commentato da Bradley, i contenuti
della psicologia sono curiosamente tutti diversi da quelli che nell’assetto
della fine dell’Ottocento e del primo Novecento ci si aspetterebbe da
una psicologia del tipo elaborato a Oxford dai Wilde lecturer in ‘mental
philosophy”: Stout, -- cf. Prichard – cit. da Grice, “Intention and
dispositions”. La psicologia filosofica o razionale non è scienza delle
leggi delle anime o psichai, ma del movimento generativo delle leggi
delle anime o delle psichai. I testi che sono oggetto del commento di
Bradley sono, come Bradley nota, estremamente difficili. Prima di cominciare
Bradley fa qualche rilievo sul problema della difficoltà in generale
nella lettura del testo di Hegel. La questione si pone secondo tre punti
di vista. Innanzi tutto come questione della natura e della destinazione
del testo. Ad esempio l’ “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, nel
nostro caso, è pensata come un riassunto delle lezioni per i ‘tuttee’.
In secondo luogo il problema del significato espresso, del voler dire
del discorso hegeliano. In terzo luogo, che è quello decisivo, la questione
del metodo di composizione del testo di Hegel, metodo che riguarda,
d’un colpo solo, due anime: mittente e recipiente. Questioni, dette altrimenti,
di sintonizzarsi con il testo che, per quanto riguarda il metodo
filosofico di Hegel, non può essere altro che ripercorrere l’elemento
generativo del significato di ciò che Hegel explicitamente communica.
Senza di questo incessante ripercorrimento a livello della genesi
del testo, il suo ‘segnato’ posse appare incomprensibile o appiattito.
Appiattito come su di una superficie, in modo che il gioco delle interpretazioni
del tutee, anche nel caso si tratti di studioso molto qualificato, tende
spesso a sbizzarrirsi in grovigli di ipotesi filologiche o di carattere
ideologico-metafisico. Il minimo comun denominatore è la perdita
del nesso fra il segnato di ciò che è detto nel testo con li movimento generativo
di tale segnato. Così si può separare perfino il concetto di negativo
dal concetto di generazione sovrapponendo l’uno sull’altro e rendendo
incomprensibili entrambi. Questione che si pone in modo non infrequente,
anzi malessere spesso diffuso anche nel commento di Bradley. Iniziamo
la lettura partendo dalle prime righe del par. 440. Lo spirito si è
determinato divenendo la verità dell’anima e della coscienza, cioè
la verità di quella totalità semplice e immediata e di questo sapere.
Adesso il sapere, in quanto forma infinita, non è più limitato da
quel contenuto, non sta in rapporto con esso come con un oggetto, ma è
sapere della totalità sostanziale, né soggettiva né oggettiva, ma
intersoggetiva. ll problema del rapporto fra il sapere e la ragione
inaugura qui il dibattito sulla scienza della psiche. L’intreccio fra
sapere e ragione inizia a dipanarsi nel paragrafo seguente:
L’anima è finita nella misura in cui è determinata immediatamente,
cioè determinata per natura. La coscienza è finita nella misura
in cui ha un oggetto. Lo spirito è invece finito, “insofern ist
endlich,” nella misura in cui esso, nel suo sapere (in seinem Wissen)
non ha più un oggetto, ma una determinatezza, nel senso che è finito
per via della sua immediatezza e — che è la stessa cosa — perché è soggettivo,
è cioè come il Concetto. Lo spirito è finito nella misura in cui esso,
nel suo sapere, non ha più un oggetto, ma una determinatezza. Lo spirito
sembra essere quell’attività in grado di contenere e controllare l’intreccio
fra la ragione e il sapere, anche se ora solo nella forma dell’immediatezza.
L’intreccio si organizza su due poli: la ragione e il sapere. Essi si
implicano reciprocamente. A seconda che si consideri come concetto
la ragione o il sapere. Qui è indifferente ciò che viene determinato
come concetto dello spirito e ciò che viene invece determinato come
realità o “Realität” di questo concetto. Se infatti la ragione assolutamente
infinita, oggettiva, viene posta come concetto dello spirito, allora
la realità è il sapere, cioè l’intelligenza; se invece è il sapere a
essere considerato come il concetto, allora la realità del concetto
è questa ragione e la realizzazione (Realisierung) del sapere consiste
nell’appropriarsi della ragione. La finitezza dello spirito
pertanto consiste in ciò: il sapere non comprende l’Essere
in-sé-e-per-sé della sua ragione. In altri termini: la ragione non si
è manifestata pienamente nel sapere.4 C’è un dislivello dunque
strutturale con la ragione che funziona nel sapere. Dislivello
strutturale che per i greci era invece costituito dal rapporto fra il
sapere e la verità. Comunque la realtà, considerata come realtà del sapere
o come realtà della ragione, si costituisce e funziona per Hegel come un
farsi che è un intreccio inestricabile. Una purità e verginità dell’origine
è introvabile. La questione di un sapere dello/sullo spirito si
articola ulteriormente nel paragrafo 442: Il procedere dello
spirito è sviluppo (Entwicklung) nella misura in cui la sua esistenza,
il sapere, ha entro se stessa l’essere — determinato in sé e per sé,
cioè ha per contenuto, “Gehalte,” e per fine, “Zweck” il razionale,
“Vernunftige.” L’attività di trasposizione è dunque puramente e soltanto
il passaggio formale nella manifestazione e, in questa, è ritorno
entro sé, “Rückkehr in sich.” Nella misura in cui il sapere, affetto
dalla sua prima determinatezza, è soltanto astratto, cioè formale, la
meta dello spirito è quella di produrre il ri-empimento oggettivo, “die
objective Erfüllung hervorzubringen,” e quindi, a un tempo, la libertà
del suo sapere. In questo testo il movimento del sapere e il suo saperne
si articola come questione della conoscenza dell’originario. Tale
questione, che ha la forma del ritorno, è pensabile come libertà. L’avventura
dello spirito che è sempre un appropriarsi, un far proprio, qui, e secondo
la radicalità della sua struttura, funziona come appropriarsi del sapere
e coincide con l’avventura della libertà. Il cammino dello spirito
consiste pertanto nell’essere spirito teoretico, cioè nell’avere
a che fare con il razionale nella sua determinatezza immediata, e di
porlo adesso come il suo. Il cammino consiste innanzi tutto nel liberare
il sapere dal presupposto e, con ciò, dalla sua astrazione, e rendere
soggettiva la determinatezza. Poiché in tal modo il sapere è in sé e
per sé determinato come sapere entro sé, e poiché la determinatezza
è posta come la sua, quindi come intelligenza libera, il sapere
è volontà, spirito pratico, il quale innanzi tutto è anch’esso
formale. Il sapere a un contenuto che è soltanto il suo. Esso vuole immediatamente,
e adesso libera la sua determinazione di volontà dalla soggettività e
l’intersoggetivita che la condiziona come forma unilaterale del proprio
contenuto. In tal modo gli spiriti divieneno come spiriti liberi,
nel quale è rimossa quella doppia unilateralità. Lo scorcio teorico fornito
in questo paragrafo merita una puntualizzazione. Abbiamo in precedenza
accennato alla cornice della psicologia filosofica o razionale come progetto
scientifico: scienza delle anime che si pone come scienza dei fattori generativi
delle anime. Il percorso dei spiriti che si sforzano di conoscere
se stessi, che tentano di comprendere l’esperienza della lor libertà,
che nella Fenomenologia dello spirito prende la via della morale come
storia, in queste pagine prende la via della psicologia come scienza
della libertà. Che il sapere possa afferrare se stesso, possa appropriarsi
di sé. La strategia hegeliana implica che l’originario, per i soggetti
(l’intersoggetivo) e per il sapere, funzioni e sia conoscibile come effetto
di questo appropriarsi che è etico, pratico. Se non si pensa il significato
del sapere e di suoi soggetti come etico, pratico, i soggetti del sapere
si dibatteno «in una bi-lateralità»: la rappresentazione che i soggetti
fano di sé come suoi e l’immediatezza di tale rappresentazione. Le
libertà dell’anime è pensabile come lo spiazzamento in cui i soggetti
del sapere conosceno il loro essere fatto, nonostante e attraverso
il loro co-fare (co-operare) impossibilitato a cogliere l’identità fra
sé e le loro immagini. Questa divisione e dislivello interno che è
l’impossibilità di cogliere l’origine del proprio costituirsi è per
Hegel l’Intelligenza (cf. H. L. A. Hart, su Holloway, “Language and
Intelligence” – Signs). Nel montaggio linguistico di questo testo tale divisione
e tale dislivello vanno ad occupare il posto della classica opposizione
fra il dentro e il fuori. L’intelligenza, in quanto è questa unità
concreta dei due momenti — vale a dire, immediatamente, di essere ricordata
entro sé in questo materiale esteriormente essente, e di essere immersa
nell’essere fuori-di-sé mentre entro sé si interiorizza col proprio
ricordo —, è intuizione. Il cammino dell’Intelligenza sta proprio
nel battere in breccia l’opposizione fra il dentro e il fuori. Le
intelligenza, quando ricordano inizialmente l’intuizione, poneno
il contenuto del sentimento nella propria interiorità, nel loro proprio
spazio e nel loro proprio tempo. In tal modo il contenuto è immagine,
liberata dalla sua prima immediatezza e dalla dualità astratta rispetto
all’altro soggetto, in quanto essa è accolta nella dualità del noi. Questo
battere in breccia, visto dal punto di vista dell’intelligenza, è l’immagine.
L’intelligenza possiede dunque le immagini. L’intelligenza è il
Quando e il Dove dell’immagine. L’immagine è per sé “trans-eunte”,
nomade, da una anima ad altra anima, e
l’intelligenza stessa, in quanto attenzione, è il tempo e anche lo spazio,
il Quando e il Dove, dell’immagine. L’intelligenza però non è
soltanto la co-scienza e l’esserci delle proprie determinazioni,
bensì, in quanto tale, ne è anche i soggetti e l’In-sé. Ricordata nell’intelligenza,
perciò, l’immagine non è più esistente, ma è conservata inconsciamente.
Nell’Anmerkung dello stesso paragrafo Hegel inaugura la metafora del
pozzo notturno per definire il funzionamento dell’intelligenza
come un luogo in cui sono conservate immagini e rappresentazioni che
l’intelligenza stessa non conosce. Hegel prosegue la sua indagine
attraverso una sorta di tiro incrociato fra intuizione ed immagine,
mettendo in azione uno stile agostiniano alla “De magistro”. Anche la
nozione, classica, di “re-praesentatum” (il rappresentato) entra, ricompresa
e ripensata, come dall’interno, nel movimento produttivo dell’intelligenza.
La nozione di “memoria” (stato temporario totale) è anch’essa ripercorsa,
nella sua struttura classica, come movimento attivo e imprendibile,
funzionante nell’intelligenza e produttiva di essa, in una svolta
decisiva del paragrafo. L’intelligenza è la potenza che domina
sulla riserva di immagini e il rappresentato che le appartengono. Essa
è quindi congiunzione e sussunzione libera di questa riserva sotto
il contenuto peculiare. L’intelligenza si ricorda ed interiorizza
in modo determinato entro quella riserva, e la plasma immaginativamente
secondo questo suo contenuto. Essa è quindi fantasia, immaginazione
SIMBOLIZZANTE, allegorizzante o poetante. Questa formazione immaginativa
più o meno concrete, più o meno individualizzate, e ancora delle sintesi
nella misura in cui il materiale, in cui il contenuto intersoggettivo
conferisce un esserci al rappresentato, proviene dal Trovato, “dem
Gefundenen,” dell’intuizione. Passività, evidenza, sorpresa di fonte
al darsi originario delle cose riguarda perciò per Hegel un movimento
che ha come suo elemento lo scenario dell’intersoggetività. Il trovato
dell’intuizione, incontro, evidenza, accoglienza della realtà è pensabile
in un registro che è già una traduzione, ‘trans-latum.” È nel registro
di una traduzione (“trans-latum”) che nel percorso di questo testo di
Hegel, di una traduzione (trans-latum) del fuori nel dentro e viceversa,
che si può avvistare ciò in filosofia si chiama realtà. Quando
l’intelligenza, in quanto ragione, parte dall’appropriazione dell’immediatezza
trovata entro sé, cioè la determina come un “universale”, ecco allora
che la sua attività razionale procede dal punto attuale, “dem nunmehrigen
Punkte,” a determinare come essente ciò che in essa si è sviluppato
in auto-intuizione concreta, procede cioè a rendere se stessa Essere,
cosa, il reale. L’intelligenza stessa così si fa essente, si fa cosa, si
fa il relae. Quando è attiva in questa determinazione, l’intelligenza
si estrinseca, “aussernd,” produce, “produzierend,” intuizione: è
fantasia che si esprime in un “segno,” “Zeichen machende Phantasie,”
token-making fantasy – fantasia che fa segno, fantasia che segna. L’intelligenza
esiste in quanto fantasi. Tesi non immediatamente prevedibile nel
dispositivo, intricato, di questo percorso hegeliano. Tesi cui
pure spinge, con rigorosa necessità, questa analisi scientifica delle
anime – una anima segna, l’altra capisce. Questo testo di Hegel innesca consapevolmente
una polemica ed anche una riformulazione metodologica radicale
nei confronti della tradizione empirista, dei sensisti, di Condillac
e degli ideologues. Attraverso le scorribande dell’intelligenza
fra sapere e “segno” (Zeichen, la fantasia che fa segno, la fantasia che
segna), scienza e realtà, attraverso e al di là della dialettica fra il
positivo e il negativo, fra i soggetti e la verità ecc, Hegel afferma
che l’intelligenza è il suo atto. Esistere non è l’immediatezza di un
che rispetto a se stessi, ma è l’atto in cui, in un contenuto determinato,
l’intelligenza si rapporta a se stessa. La fantasia è il punto
centrale in cui l’universale e l’essere, il proprio e il trovato,
l’interno e l’esterno – cf. Bradley, relazione interna, relazione esterna --
sono perfettamente unificati. Le sintesi precedenti dell’intuizione,
del ricordo ecc., sono unificazioni del medesimo momento, tuttavia
si tratta pur sempre di sintesi. Solo nella fantasia l’intelligenza
non è più come il pozzo indeterminato e come l’universale, bensì è
come singolare, cioè come intersoggettività CONCRETA nella quale l’relazione
è determinata sia come essere sia come universale.L’intelligenza è
intersoggettività concreta solo nella fantasia condivisa. Tale questione
è chiarita dal seguito della stessa Anmerkung. Tutti riconoscono che
le immagini della fantasia costituiscono tali unificazioni del proprio
e dell’interno dello spirito con l’elemento intuitivo. Il loro contenuto
ulteriormente determinato appartiene ad altri ambiti, mentre qui
questa fucina interna va intesa soltanto secondo quel momento
astratto. In quanto attività di questa unione, la fantasia è ragione,
ma è ragione formale, solo nella misura in cui il contenuto in quanto
tale della fantasia è indifferente. La ragione in quanto tale, invece,
determina a verità anche il contenuto. Nell’Anmerkung successiva
nello stesso paragrafo Hegel opera la svolta decisiva nel percorso
che qui ci interessa: In particolare bisogna ancora rilevare
questo fatto. Poiché la fantasia porta il contenuto interno a immagine
e a intuizione, e ciò viene espresso dicendo che essa lo determina
come essente, non deve sembrare sorprendente l’espressione secondo
cui l’intelligenza si fa essente, si fa cosa, si fa il relae. Il contenuto
dell’intelligenza, infatti, è l’intelligenza stessa, e lo è altrettanto
la determinazione che essa gli conferisce. L’immagine prodotta
dalla fantasia è intersoggettivamente intuitiva, mentre è nel segno (Zeichen,
token) che la fantasia aggiunge a ciò l’autentica intuibilità (eigentliche
Anschaulichkeit); nella memoria meccanica, poi essa completa in sé
questa forma dell’essere. L’immagine solo nel “segno” (Zeichen,
token) è autentica intuibilità di ciò che è. L’essente è coglibile come
“segno” (Zeichen, token) non come dato, come dono. Dato e dono non sono pensabili,
ma neppure sperimentabili nella forma della presenza, cioè in un darsi
(che, in termini hegeliani, è la materia dell’intuizione). Essi sono
già trascritti nel contenuto interno dell’intelligenza, cioè come un
segno (Zeichen, token). L’elemento imprendibile, enigmatico della conoscenza
è il segno (Zeichen, token) e non il dato, il dono. Nella struttura di questo
testo Hegel afferma che il non proprio, il non nostro sovrasta e spiazza
nella forma del segno (Zeichen, token), non nella forma del dono. In questa
unità, procedente dall’intelligenza, di una rappresentazione autonoma,
“selb-ständiger Vorstellung,” e di una intuizione, la materia dell’intuizione
è certo innanzitutto un qualcosa di accolto, di immediato e di dato,
“ein aufgenommenes, etwas unmittelbares oder gegebenes,” per esempio
il colore della coccarda e affini. In questa identità però l’intuizione
non ha il valore di rappresentare positivamente e di rappresentare
se stessa, bensì di rappresentare qualcos’altro. Essa è un’immagine
che ha ricevuto entro sé una rappresentazione autonoma dell’intelligenza
come anima, che ha ricevuto, cioè, il suo segnato. Questa intuizione è
il segno (Zeichen, token). L’intuizione, rapportata scientificamente
alla sua origine, ha la forma del segno (Zeichen, token). Tale forma ha una
struttura che coinvolge i termine stessi dell’intelligenza. L’intelligenza
sembra funzionare in una deriva di cui il segno (Zeichen, token) costituisce
una sorta di cerniera, snodo in cui l’intelligenza stessa è tolta-conservata.
L’intuizione che immediatamente e inizialmente è qualcosa di dato
e di spaziale, “gegebenes und raumliches,” una volta impiegata come
segno (Zeichen, token) riceve la determinazione essenziale di essere
soltanto come intuizione rimossa. Questa sua negatività è l’intelligenza.
Perciò la figura più autentica dell’intuizione, che è un segno
(Zeichen, token), è di essere un esserci nel tempo: un dileguare, “Verschwinden,”
dell’esserci mentre l’esserci è. Inoltre, secondo la sua ulteriore
determinatezza esteriore, psichica, la figura più vera dell’intuizione
è un essere-posta dall’intelligenza, esser-posta che viene fuori dalla
naturalità propria, antropologica, dell’intelligenza stessa: è il
tono, “Ton,” cioè l’estrinsecazione riempita dell’interiorità annunciantesi.
Il “tono” che si articola ulteriormente in vista del rappresentato determinate
è il dis-corso –dis-cursus – general principles of rational discourse -- e un
sistema del discorso è la communicazione. In questo ambito il “tono” conferisce
a una sensazione, una intuizione e un rappresentato un *secondo* (duale) esserci, più elevato
dell’esserci immediato. In generale conferisce loro un’esistenza
che ha valore nel regno dell’attività rappresentativa. Questo progetto
hegeliano di una scienza della psiche tenta qui un ulteriore radicale
approccio alla genesi dell’intelligenza. L’intuizione, in quanto
funzionante come segno (Zeichen, token), riceve la determinazione essenziale
di essere soltanto come intuizione rimossa, “zu einem Zeichen gebraucht
wird, die wesentliche Bestimmung nur als aufgehobene zu sein.” In questo
esser rimosso, tolto-conservato dell’intuizione sta l’origine dell’intelligenza.
La negatività di cui essa è fatta si intreccia strutturalmente alla nozione
di tempo. L’intuizione non è dominabile da due soggetti se non nella
forma del dopo, un dileguare dell’esserci mentre esserci è. Quell’altro
intreccio che costituisce l’intuizione, l’intreccio fra il dentro e
il fuori si esprime nel “tono,” suono articolato. Il tono, visto in rapporto
ad una rappresentazione determinata, è il discorso (“Rede”) e il sistema
del discorso è la lingua (Sprache) e la communicazione. A questo punto del
suo percorso la strategia di Hegel si incontra con il privilegio greco
e platonico accordato all’espressione, la parola, al logos in quanto vivente
pronunciato, detto, dictum – cf. indice, segnalato, segnato. Come nel
Cratilo di Platone anche in Hegel l’espressione come segno è centrale nella
vita dell’intelligenza, ma di una centralità che occupa il luogo di un
movimento originario ed imprendibile. Per un commento critico
ed esplicativo dei paragrafi della «Psicologia» nella sezione sullo
«Spirito soggettivo», anche per ciò che concerne le fonti di Hegel e la
saggistica relativa, cfr. La «magia dello spirito» e il «gioco del concetto».
Considerazioni sulla filosofia dello spirito soggettivo nell’Enciclopedia
di Hegel, Milano, Guerini e Associati, 1995. ↩︎ Uso la recente traduzione di Vincenzo Cicero (Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, ed. 1830, Milano, Rusconi,
1996) che ritengo puntuale ed avvertita delle questioni poste dal
testo, nonostante la discutibilità di alcune soluzioni su cui per altro
pesa in certa misura la resistenza ad abbandonare traduzioni familiari
e consolidate. Hegel e l’Aufhebung del segno Gianfranco Dalmasso
21/11/2000 1. L’intreccio fra sapere e ragione Il tema di questo colloquio
riguarda la domanda originaria. Domanda e origine sono problemi
del pensiero che, fin dall’inizio della filosofia, non costituiscono
un approccio di controllo e di dominio dell’esistenza, quanto piuttosto
un ripiegamento su sé stessi che si interroga sulla propria genesi.
In termini meno esistenziali e più antichi tale questione occupa il
posto dell’anima. Dalla consapevolezza dell’incombere della morte
nel primo stasimo dell’Antigone al costituirsi, per così dire, di
un’«interiorità» nella Sofistica e in Platone, l’anima ha funzionato
come principio originario in una forma diversa che il dominio. Principio
che annoda e che manifesta, secondo vie non solo immediate e speculari,
il logos, il noein come conoscenza e misura di un ordine. Quando il
nous, attraverso Aristotele, acquista tutto il suo sviluppo concettuale
e strategico, nel pensiero tardo-antico, a partire da Plotino, l’
anima rimane ed è ribadita come il luogo e il venire a coscienza del
rapporto con lo stesso nous, cioè con il formularsi dell’originario
(Uno, Bene o Atto che sia). Scelgo di leggere Hegel. Scelta motivata
da miei interessi attuali di ricerca, ma anche, più ampiamente,
dall’attualità di un linguaggio che è in grado di riformulare questioni
sull’assetto moderno del sapere e sul soggetto di tale sapere. Su un
io, che, nella esplicita strategia hegeliana, articola e raddoppia
il ruolo dell’anima. Sapere su di un io è comunque per Hegel un sapere
sulle strutture di un chi, che è in grado di formulare una domanda originaria.
Il testo, di cui intendo proporre alcune note essenziali di commento,
riguarda i paragrafi dal 440 al 458 della Psicologia, sezione della
Filosofia dello Spirito contenuta nella edizione dell’Enciclopedia
del 1830.1 A differenza della Antropologia, in cui l’anima è considerata
come l’aspetto immediato della vita dello spirito (anima considerata
come il sonno dello spirito, problemi del rapporto dell’anima con il
corpo, questioni del sonno, della veglia, delle sensazioni ecc.) la Psicologia
non è scienza dell’anima, ma scienza del sapere intorno all’anima,
cioè scienza veramente tale, nella sua portata concettuale. Per Hegel
scienza, Wissenschaft, ogni scienza, e soprattutto quella scienza massimamente
rigorosa che è la filosofia, è scienza sempre di secondo grado: scienza
che controlla e che ha come oggetto la sua stessa genesi. Scienza che
misura il negativo rispetto al suo assunto e al suo stesso metodo,
scienza che è in grado di smarcarsi dal piano del suo stesso sapere e di
comprendere il rapporto dinamico, generativo e mai astrattamente
speculare, in cui la conoscenza si costituisce. Così, nel caso del
testo che stiamo per commentare, i contenuti della psicologia hegeliana
sono curiosamente tutti diversi da quelli che nell’assetto della fine
dell’Ottocento e del primo Novecento ci si aspetterebbe da una psicologia
in senso moderno e scientifico. La psicologia non è scienza delle
leggi della psiche, ma del movimento generativo delle leggi della psiche.
I testi che sono oggetto del mio commento sono, come è noto, estremamente
difficili. Prima di cominciare vorrei fare qualche rilievo sul problema
della difficoltà in generale nella lettura del testo di Hegel. La questione
si pone secondo tre punti di vista. Innanzi tutto come questione della natura
e della destinazione del testo. Ad esempio l’Enciclopedia delle scienze
filosofiche, nel nostro caso, è pensata come un riassunto delle lezioni
per gli studenti. In secondo luogo il problema del significato espresso,
del voler dire del discorso hegeliano. In terzo luogo, che è quello decisivo,
la questione del metodo di composizione del testo di Hegel, metodo
che riguarda, d’un colpo solo, autore e lettore. Questioni, dette altrimenti,
di sintonizzarsi con il testo che, per quanto riguarda il metodo di lavoro
di Hegel, non può essere altro che ripercorrere l’elemento generativo
del significato di ciò che Hegel dice. Senza di questo incessante ripercorrimento
a livello della genesi del testo, il suo significato risulta inevitabilmente
incomprensibile o appiattito. Appiattito come su di una superficie,
in modo che il gioco delle interpretazioni del lettore, anche nel caso
si tratti di studioso molto qualificato, tende spesso a sbizzarrirsi
in grovigli di ipotesi filologiche o di carattere ideologico-metafisico.
Il minimo comun denominatore è la perdita del nesso fra il significato
di ciò che è detto nel testo con li movimento generativo di tale significato..
Così si può separare perfino il concetto di negativo dal concetto
di generazione sovrapponendo l’uno sull’altro e rendendo incomprensibili
entrambi. Questione che si pone in modo non infrequente, anzi malessere
spesso diffuso anche nei commenti «professionali». Iniziamo la
lettura partendo dalle prime righe del par. 440. Lo spirito si è determinato
divenendo la verità dell’anima e della coscienza, cioè la verità di
quella totalità semplice e immediata e di questo sapere. Adesso
il sapere, in quanto forma infinita, non è più limitato da quel contenuto,
non sta in rapporto con esso come con un oggetto, ma è sapere della
totalità sostanziale, né soggettiva né oggettiva.2 ll problema
del rapporto fra il sapere e la ragione inaugura qui il dibattito
sulla scienza della psiche. L’intreccio fra sapere e ragione inizia a
dipanarsi nel paragrafo seguente: L’anima è finita nella misura
in cui è determinata immediatamente, cioè determinata per natura.
La coscienza è finita nella misura in cui ha un oggetto. Lo spirito
è invece finito (insofern ist endlich) nella misura in cui esso, nel
suo sapere (in seinem Wissen) non ha più un oggetto, ma una determinatezza,
nel senso che è finito per via della sua immediatezza e — che è la stessa
cosa — perché è soggettivo, è cioè come il Concetto.3 Lo spirito è
finito nella misura in cui esso, nel suo sapere, non ha più un oggetto,
ma una determinatezza. Lo spirito sembra essere quell’attività in
grado di contenere e controllare l’intreccio fra la ragione e il sapere,
anche se ora solo nella forma dell’immediatezza. L’intreccio si organizza
su due poli: la ragione e il sapere. Essi si implicano reciprocamente
. A seconda che si consideri come concetto la ragione o il sapere.
Qui è indifferente ciò che viene determinato come concetto dello spirito
e ciò che viene invece determinato come realità (Realität) di questo concetto.
Se infatti la ragione assolutamente infinita, oggettiva, viene
posta come concetto dello spirito, allora la realità è il sapere, cioè
l’intelligenza; se invece è il sapere a essere considerato come
il concetto, allora la realità del concetto è questa ragione e la realizzazione
(Realisierung) del sapere consiste nell’appropriarsi della ragione.
La finitezza dello spirito pertanto consiste in ciò: il sapere non
comprende l’Essere in-sé-e-per-sé della sua ragione. In altri termini:
la ragione non si è manifestata pienamente nel sapere.4 C’è un
dislivello dunque strutturale con la ragione che funziona nel sapere.
Dislivello strutturale che per i greci era invece costituito dal rapporto
fra il sapere e la verità. Comunque la realtà, considerata come realtà
del sapere o come realtà della ragione, si costituisce e funziona per
Hegel come un farsi che è un intreccio inestricabile. Una purità e
verginità dell’origine è introvabile. La questione di un sapere
dello/sullo spirito si articola ulteriormente nel paragrafo
442: Il procedere dello spirito è sviluppo (Entwicklung) nella
misura in cui la sua esistenza, il sapere, ha entro se stessa l’essere
— determinato in sé e per sé, cioè ha per contenuto (Gehalte) e per
fine (Zweck) il razionale (Vernunftige); l’attività di trasposizione
è dunque puramente e soltanto il passaggio formale nella manifestazione
e, in questa, è ritorno entro sé (Rückkehr in sich). Nella misura in
cui il sapere, affetto dalla sua prima determinatezza, è soltanto
astratto, cioè formale, la meta dello spirito è quella di produrre il
riempimento oggettivo (die objective Erfüllung hervorzubringen) e
quindi, a un tempo, la libertà del suo sapere.5 2. La via della psicologia
come scienza della libertà In questo testo il movimento del sapere e il
suo saperne si articola come questione della conoscenza dell’originario.
Tale questione, che ha la forma del ritorno, è pensabile come libertà.
L’avventura dello spirito che, hegelianamente, è sempre un appropriarsi,
un far proprio, qui, e secondo la radicalità della sua struttura, funziona
come appropriarsi del sapere e coincide con l’avventura della
libertà. Il cammino dello spirito consiste pertanto: nell’essere
spirito teoretico, cioè nell’avere a che fare con il Razionale nella
sua determinatezza immediata, e di porlo adesso come il Suo; in altre
parole: il cammino consiste innanzi tutto nel liberare il sapere
dal presupposto e, con ciò, dalla sua astrazione, e rendere soggettiva
la determinatezza. Poiché in tal modo il sapere è in sé e per sé determinato
come sapere entro sé, e poiché la determinatezza è posta come la sua,
quindi come intelligenza libera, il sapere è volontà, spirito
pratico, il quale innanzi tutto è anch’esso formale: ha un contenuto
che è soltanto il suo: esso vuole immediatamente, e adesso libera la
sua determinazione di volontà dalla soggettività che la condizionava
come forma unilaterale del proprio contenuto. In tal modo lo spirito
diviene come spirito libero, nel quale è rimossa quella doppia
unilateralità.6 Lo scorcio teorico fornito in questo paragrafo
merita una puntualizzazione. Abbiamo in precedenza accennato
alla cornice della Psicologia hegeliana come progetto scientifico:
scienza della psiche che si pone come scienza dei fattori generativi
della psiche. Il percorso dello spirito che si sforza di conoscere
se stesso, che tenta di comprendere l’esperienza della sua libertà, che
nella Fenomenologia dello spirito prende la via della morale come storia,
in queste pagine prende la via della psicologia come scienza della
libertà Che il sapere possa afferrare se stesso, possa appropriarsi di
sé: la strategia hegeliana implica che l’originario, per il soggetto
e per il sapere, funzioni e sia conoscibile come effetto di questo
appropriarsi che è etico, pratico. Se non si pensa il significato
del sapere e del suo soggetto come etico, pratico, il soggetto del sapere
si dibatte «in una doppia unilateralità»: la rappresentazione che il
soggetto fa di sé come suo e l’immediatezza di tale rappresentazione.
Anticipiamo. La libertà è pensabile come lo spiazzamento in cui il
soggetto del sapere conosce il suo essere fatto, nonostante e attraverso
il suo fare, impossibilitato a cogliere l’identità fra sé e la sua immagine.
Questa divisione e dislivello interno che è l’impossibilità di cogliere
l’origine del proprio costituirsi è per Hegel l’Intelligenza.
Nel montaggio linguistico di questo testo tale divisione e tale dislivello
vanno ad occupare il posto della classica opposizione fra il dentro e
il fuori. L’intelligenza, in quanto è questa unità concreta dei
due momenti — vale a dire, immediatamente, (1) di essere ricordata
entro sé in questo materiale esteriormente essente, e (2) di essere
immersa nell’essere fuori-di-sé mentre entro sé si interiorizza col
proprio ricordo —, è intuizione.7 3. La centralità della parola
nella vita dell’intelligenza Il cammino dell’Intelligenza sta proprio
nel battere in breccia l’opposizione fra il dentro e il fuori.
L’intelligenza, quando ricorda inizialmente l’intuizione, pone il
contenuto del sentimento nella propria interiorità, nel suo proprio spazio
e nel suo proprio tempo In tal modo il contenuto è immagine, liberata
dalla sua prima immediatezza e dalla singolarità astratta rispetto ad
altro, in quanto essa è accolta nella singolarità dell’Io in generale.8
Questo battere in breccia, visto dal punto di vista dell’intelligenza,
è ll’immagine. L’intelligenza possiede dunque le immagini. L’intelligenza
— dice Hegel — è il Quando e il Dove dell’immagine. L’immagine è
per sé transeunte, e l’intelligenza stessa, in quanto attenzione, è
il tempo e anche lo spazio — il Quando e il Dove — dell’immagine.
L’intelligenza però non è soltanto la coscienza e l’Esserci delle proprie
determinazioni, bensì, in quanto tale, ne è anche il soggetto e
l’In-sé. Ricordata nell’intelligenza, perciò, l’immagine non è più
esistente, ma è conservata inconsciamente.9 Nell’Anmerkung
dello stesso paragrafo Hegel inaugura la metafora del pozzo notturno
per definire il funzionamento dell’intelligenza come un luogo in
cui sono conservate immagini e rappresentazioni che l’intelligenza
stessa non conosce. Hegel prosegue la sua indagine attraverso una
sorta di tiro incrociato fra intuizione ed immagine, mettendo in
azione uno stile agostiniano alla De magistro. Anche la nozione, classica,
di rappresentazione entra, ricompresa e ripensata, come dall’interno,
nel movimento produttivo dell’intelligenza. La nozione di memoria
è anch’essa ripercorsa, nella sua struttura classica, come movimento
attivo e imprendibile, funzionante nell’intelligenza e produttiva
di essa, in una svolta decisiva del paragrafo 456. L’intelligenza
è la potenza che domina sulla riserva di immagini e rappresentazioni
che le appartengono; essa è quindi congiunzione e sussunzione libera
di questa riserva sotto il contenuto peculiare. L’intelligenza si
ricorda ed interiorizza in modo determinato entro quella riserva,
e la plasma immaginativamente secondo questo suo contenuto: essa
è quindi fantasia, immaginazione simbolizzante, allegorizzante
o poetante. Questa formazioni immaginative più o meno concrete,
più o meno individualizzate, sono ancora delle sintesi nella misura
in cui il materiale, in cui il contenuto soggettivo conferisce un
Esserci alla rappresentazione, proviene dal Trovato (dem Gefundenen)
dell’intuizione.10 Passività, evidenza, sorpresa di fonte al
darsi originario (?) delle cose riguarda perciò per Hegel un movimento
che ha come suo elemento lo scenario dell’interiorità. Il trovato dell’intuizione,
incontro, evidenza, accoglienza della realtà è pensabile in un registro
che è già una traduzione. È nel registro di una traduzione che nel percorso
di questo testo di Hegel, di una traduzione del fuorinel dentro e viceversa,
che si può avvistare ciò in filosofia si chiama realtà. Quando
l’intelligenza, in quanto ragione, parte dall’appropriazione dell’immediatezza
trovata entro sé (par. 445; cfr. par. 455 Anm.), cioè la determina come
Universale, ecco allora che la sua attività razionale (par. 438) procede
dal punto attuale (dem nunmehrigen Punkte) a determinare come essente
ciò che in essa si è sviluppato in autointuizione concreta, procede
cioè a rendere se stessa Essere, Cosa.11 L’intelligenza stessa
così si fa essente, si fa Cosa. Quando è attiva in questa determinazione,
l’intelligenza si estrinseca (aussernd), produce (produzierend) intuizione:
è fantasia che si esprime in segni (Zeichen machende Phantasie).12
L’intelligenza esiste in quanto fantasia… Tesi non immediatamente
prevedibile nel dispositivo, intricato, di questo percorso hegeliano.
Tesi cui pure spinge, con rigorosa necessità, questa analisi «scientifica»
della psiche. Questo testo di Hegel innesca consapevolmente una polemica
ed anche una riformulazione metodologica radicale nei confronti
della tradizione empirista, dei sensisti, di Condillac e degli ideologues.
Attraverso le scorribande dell’intelligenza fra sapere e segno,
scienza e realtà, attraverso e al di là della dialettica fra il positivo
e il negativo, fra il soggetto e la verità ecc, Hegel afferma che l’intelligenza
è il suo atto. Esistere non è l’immediatezza di un che rispetto a se
stessi, ma è l’atto in cui, in un contenuto determinato, l’intelligenza
si rapporta a se stessa. La fantasia è il punto centrale in cui
l’Universale e l’Essere, il Proprio e il Trovato, l’Interno e l’Esterno,
sono perfettamente unificati. Le sintesi precedenti dell’intuizione,
del ricordo ecc., sono unificazioni del medesimo momento, tuttavia
si tratta pur sempre di sintesi. Solo nella fantasia l’intelligenza
non è più come il pozzo indeterminato e come l’Universale, bensì è
come Singolare, cioè come soggettività concreta nella quale l’autorelazione
è determinata sia come Essere sia come Universalità.13 L’intelligenza
è intelligenza di un individuo, di un singolo, è soggettività concreta
solo nella fantasia. Tale questione è chiarita dal seguito della stessa
Anmerkung: Tutti riconoscono che le immagini della fantasia costituiscono
tali unificazioni del Proprio e dell’Interno dello spirito con l’elemento
intuitivo. Il loro contenuto ulteriormente determinato appartiene
ad altri ambiti, mentre qui questa fucina interna va intesa soltanto
secondo quel momento astratto. In quanto attività di questa unione,
la fantasia è ragione, ma è ragione formale, solo nella misura in cui
il contenuto in quanto tale della fantasia è indifferente. La ragione
in quanto tale, invece, determia a verità anche il contenuto.14
Nell’Anmerkung successiva nello stesso paragrafo Hegel opera la svolta
decisiva nel breve percorso che qui ci interessa: In particolare
bisogna ancora rilevare questo fatto. Poiché la fantasia porta il contenuto
interno a immagine e a intuizione — e ciò viene espresso dicendo che
essa lo determina come essente-, non deve sembrare sorprendente l’espressione
secondo cui l’intelligenza si farebbe essente, si farebbe Cosa. Il
contenuto dell’intelligenza, infatti, è l’intelligenza stessa, e
lo è altrettanto la determinazione che essa gli conferisce.
L’immagine prodotta dalla fantasia è solo soggettivamente intuitiva,
mentre è nel segno che la fantasia aggiunge a ciò l’autentica
intuibilità (eigentliche Anschaulichkeit); nella memoria meccanica,
poi essa completa in sé questa forma dell’Essere. L’immagine
solo nel segno è autentica intuibilità di ciò che è. L’essente è coglibile
come segno, non come dato, come dono. Dato e dono non sono pensabili, ma neppure
sperimentabili nella forma della presenza, cioè in un darsi (che, in termini
hegeliani, è la materia dell’intuizione). Essi sono già trascritti nel
contenuto interno dell’intelligenza, cioè come segni. L’elemento
imprendibile, enigmatico della conoscenza è il segno e non il dato,
.il dono. Nella struttura di questo testo Hegel afferma che il non proprio,
il non mio sovrasta e spiazza nella forma del segno, non nella forma del
dono. In questa unità, procedente dall’intelligenza, di una rappresentazione
autonoma (selbständiger Vorstellung)) e di una intuizione, la materia
dell’intuizione è certo innanzitutto un qualcosa di accolto, di immediato
e di dato (ein aufgenommenes, etwas unmittelbares oder gegebenes)
(per esempio il colore della coccarda e affini). In questa
identità però l’intuizione non ha il valore di rappresentare positivamente
e di rappresentare se stessa, bensì di rappresentare qualcos’altro.
Essa è un’immagine che ha ricevuto entro sé una rappresentazione autonoma
dell’intelligenza come anima, che ha ricevuto, cioè, il suo significato.
Questa intuizione è il segno.15 L’intuizione, rapportata «scientificamente»
alla sua origine, ha la forma del segno. Tale forma ha una struttura che
coinvolge i termine stessi dell’intelligenza. L’intelligenza sembra
funzionare in una deriva di cui il segno costituisce una sorta di cerniera,
snodo in cui l’intelligenza stessa è tolta-conservata. L’intuizione
che immediatamente e inizialmente è qualcosa di dato e di spaziale
(gegebenes und raumliches) una volta impiegata come segno riceve la
determinazione essenziale di essere soltanto come intuizione rimossa.
Questa sua negatività è l’intelligenza. Perciò la figura più autentica
dell’intuizione, che è un segno, è di essere un Esserci nel tempo: un
dileguare (Verschwinden) dell’Esserci mentre l’esserci è.
Inoltre, secondo la sua ulteriore determinatezza esteriore, psichica,
la figura più vera dell’intuizione è un essere-posta dall’intelligenza,
esser-posta che viene fuori dalla naturalità propria (antropologica) dell’intelligenza
stessa: è il tono (Ton), cioè l’estrinsecazione riempita dell’interiorità
annunciantesi. Il tono che si articola ulteriormente in vista
delle rappresentazioni determinate è il discorso, e il sistema del
discorso è la lingua. In questo ambito il tono conferisce a sensazioni,
intuizioni e rappresentazioni un secondo Esserci, più elevato dell’Esserci
immediato: in generale conferisce loro un’esistenza che ha valore
nel regno dell’attività rappresentativa.16 Questo progetto hegeliano
di una scienza della psiche tenta qui un ulteriore radicale approccio
alla genesi dell’intelligenza. L’intuizione, in quanto funzionante
come segno, «riceve la determinazione essenziale di essere soltanto
come intuizione rimossa» (zu einem Zeichen gebraucht wird, die wesentliche
Bestimmung nur als aufgehobene zu sein). In questo esser rimosso,
tolto-conservato dell’intuizione sta l’origine dell’intelligenza.
La negatività di cui essa è fatta si intreccia strutturalmente alla nozione
di tempo. L’intuizione non è dominabile da un soggetto se non nella
forma del dopo: «un dileguare dell’Esserci mentre Esserci è».
Quell’altro intreccio che costituisce l’intuizione, l’intreccio fra
il dentro e il fuori si esprime nel tono, suono articolato (Ton). Il
tono, visto in rapporto ad una rappresentazione determinata, è il discorso
(Rede) e il sistema del discorso è la lingua (Sprache). A questo
punto del suo percorso la strategia di Hegel si incontra con il privilegio
greco e platonico accordato alla parola, al logosin quanto vivente
pronunciato, detto. Come in Platone anche in Hegel la parola è centrale
nella vita dell’intelligenza, ma di una centralità che occupa il luogo
di un movimento originario ed imprendibile. Per un commento
critico ed esplicativo dei paragrafi della «Psicologia» nella sezione
sullo «Spirito soggettivo», anche per ciò che concerne le fonti di Hegel
e la saggistica relativa, cfr. Rossella Bonito Oliva, La «magia dello
spirito» e il «gioco del concetto». Considerazioni sulla filosofia
dello spirito soggettivo nell’Enciclopedia di Hegel, Milano, Guerini
e Associati, 1995. ↩︎ Uso la recente traduzione di
Vincenzo Cicero (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio,
ed. 1830, Milano, Rusconi, 1996) che ritengo puntuale ed avvertita
delle questioni poste dal testo, nonostante la discutibilità di alcune
soluzioni su cui per altro pesa in certa misura la resistenza ad abbandonare
traduzioni familiari e consolidate. ↩︎ Par. 441. ↩︎ Ibidem. ↩︎ Par. 442. ↩︎ Par. 443. ↩︎ Par. 449. ↩︎ Par. 452. ↩︎ Par. 453. ↩︎ Par. 456. ↩︎ Par. 457. ↩︎ Ibidem. ↩︎ Par. 457, Anmerkung. ↩︎ Par. 457, Anmerkung I. ↩︎ Par. 458. ↩︎ Par. 459. ↩︎ Grice: “There’s something otiose about
the ‘faciendi signum’ of the Romans, why not just ‘signare’?” – Who or what
‘makes’ the sign of a dark cloud (=> rain)?” “While it seems natural enough
to say that a dark cloud is a sign of rain,it
or better, that a dark cloud signs *that* it may rain, I wouldn’t say
that the cloud “MAKES” anything --. Grice: “It’s sad that Hegel’s Latin wasn’t
that good – the Romans used ‘signare’ (Italian ‘segnare’) much more than they
did use ‘significare’. “With all my love and kisses” “You used to sign your
letters ‘with all my love and kisses” – Sam Browne --. Horatio Nicholls – aka
as something else. Gianfranco Dalmasso. Keywords: la
giustizia nel discorso, sign-make, fare segno, fare segno a se – zeichen
Machen, to sign versus to signify -- Bradley, Hegel, io, noi, intersoggetivo,
Hegel on Zeichen, zeichen-machende fantasie” – zeichen-interpretand fantasie”
-- “l’implicatura del noi duale” “il tra noi” – la prossimita del tra noi -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Dalmasso” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51766507517/in/dateposted-public/
Grice
e Dandolo – Roma pagana, filosofia romana – Carneade e compagnia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo. Grice:
“I love Dandolo; you know why? Because he was an amateur, not a professional; I
mean, he was a country gentleman and an earl, so if he philosophised it wasn’t
for the colour of the money! Plus, he owned a lovely ‘palazzo,’ which I would
call ‘villa’! Neoguelfo. Figlio dal conte Vincenzo e Mariana Grossi. Il padre era
esponente della Municipalità di Venezia, ma dopo il trattato di Campoformio,
con il quale si sancì la fine della Repubblica, dovette esulare in Francia.
Venne in seguito nominato da Napoleone senatore del Regno italico e conte. Fu
anche governatore civile della Dalmazia. Passa quindi un'infanzia assai
agitata; fu cresciuto da una "cameriera disattenta" e poi sballottato
per vari collegi. Si laurea a Pavia. Passa alcuni anni girando per l'Europa e
conducendo una vita mondana. In questo periodo venne a contatto con
illustri personalità culturali politiche dell'epoca. Venne sospettato dal
governo austriaco di aver partecipato alle congiure degli anni precedenti, e
per questo fatto rientrare in modo coatto in Italia (senza tuttavia essere
perseguitato). In Italia, si dedica ampiamente alla filosofia, e sposa la
sorella di Bargnani; uno dei cospiratori mazziniani. Morta la sposa affida ad
un amico i figli. Sposa la contessa Ermellina Maselli, da cui ebbe altri due
figli. I primi due figli presero parte alle Cinque giornate e ad altre
operazioni belliche e lo stesso Tullio fu uno dei principali autori della
rivoluzione e capo della rivolta varesina (scoppiata in concomitanza con quella
di Milano), ma a Roma, durante la difesa della repubblica di Mazzini, Su figlio
muore e l’altro rimase gravemente ferito. Questo evento tocca molto Tullio che
tuttavia, pur dovendosi prendere cure molto onerose del superstite, continua
comunque i suoi studi di filosofia. Sui due figli raccolse un gran numero di
documenti, memorie e storie pubblicati in “Lo spirito della imitazione di Gesù
Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescent:
corrispondenze di lettere famigliari: riicordi biografici dell'adolescenza
d'Enrico e d'Emilio Dandolo, Milano). Un filosofo che fece delle critiche alla
sua attività fu Tommaseo, ma risultò essere piuttosto duro ed aspro, tanto da
scrivere. “Fin da giovane scarabocchiò librettucci compilati o piuttosto
arruffati. Né di quelli che scrisse dal venticinque al cinquantacinque sapresti
quale sia il più decrepito e il più puerile. Ma fece due opere buone, un
figliolo che morì valentemente in Roma assediata da Galli vendicatori delle
oche; e un altro figliolo che scrisse la storia, e direi quasi la vita della
Legione Lombarda capitanata da Manara, libro di senno virile e d'affetto pio.”
I suoi saggi trattano gli argomenti più vari: dalla pedagogia
all'autobiografia, da quelli di carattere storico a quelli religiosi. Molti di
essi sono schizzi letterari e filosofici o riguardano descrizioni di viaggi,
città e munomenti. Inoltre, scrisse molto intorno alla storia romana antica,
alla nascita del Cristianesimo, al Medioevo e al Rinascimento, pubblicando
anche molti discorsi e documenti inediti. Più che ad un contributo critico,
mira a dare un'informazione non faziosa per una migliore conoscenza del passato.
Questi suoi scritti storici sono molto diversi fra di loro. In alcuni predilige
uno stile aulico, mentre in altri un tono popolare e facile; trattando ora gli
argomenti con approssimazione ed ora dando al racconto la coinvolgenza di un
romanzo. Altre opere: “Roma”; “Napoli” (Milano); “Firenze”; “Torino”; “La
Svizzera”; “Il Cantone de' Grigioni” (Milano); “Prospetto della Svizzera, ossia
ragionamenti da servire d'introduzione alle lettere sulla Svizzera); “La
Svizzera considerata nelle sue vaghezze pittoresche, nella storia, nelle leggi
e ne' costume”; “Venezia”; “Il secolo di Pericle”; “Schizzi di costume”, “Il secolo
d'Augusto”; “Semplicità” (o rapidi cenni sulla letteratura e sulle arti”; “Album
storico poetico morale, compilato per cura di V. de Castro” (Padova); “Reminiscenze
e fantasie. Schizzi letterari, Peregrinazioni. Schizzi artistici e filosofici
(Torino); Roma e l'Impero sino a Marco Aurelio” (Milano); “Firenze sino alla
caduta della Repubblica”; “Il Medio Evo elvetico”; “Racconti e leggende”; “La
Svizzera pittoresca, o corse per le Alpi e pel Jura a commentario del Medio Evo
elvetico; “I secoli dei due sommi italiani Dante e Colombo; “Il Settentrione
dell'Europa e dell'America nel secolo passato; “L'Italia nel secolo passato; Il
Cristianesimo nascente; La Signora di Monza. Le streghe del Tirolo. Processi
famosi del secolo decimosettimo per la prima volta cavati dalle filze
originali, ibid. 1855 (rist. anast., Milano); Il pensiero pagano ai giorni
dell'Impero. Studii, Il pensiero cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; Il
pensiero pagano e cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; “Monachesimo e
leggende. Saggi storici; “Roma e i papi. Studi storici, filosofici, letterari
ed artistici, Il secolo di Leone Decimo. Studii, Lo spirito della imitazione di
Gesù Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescenti
(corrispondenza di lettere famigliari). Ricordi biografici dell'adolescenza
d'Enrico e d'Emilio Dandolo, Milano); “La Francia nel secolo passato, “Corse
estive nel Golfo della Spezia; Il secolo decimosettimo, Ragionamenti
preliminari ed indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma
pagana e Roma cristiana pubblicati ad annunzio e prospetto dell'opera, Assisi (estr. da Stella dell'Umbria); “Ricordi di Tullio
Dandolo”; “Lettera a D. Sensi. Indice della materia, Assisi); “Ricordi”; “Ricordi
inediti di G. Morone gran cancelliere dell'ultimo duca di Milano, a cura di D.,
Milano; Alcuni brani delle storie patrie di Giuseppe Ripamonti per la prima
volta tradotti dall'originale latino dal conte T. Dandolo, Il potere politico
cristiano. Discorsi pronunciati dal Ventura di RaulicaR. P., a cura di Dandolo,
Milano); “Vicende memorabili narrate da Alessandro Verri precedute da una vita
del medesimo di G. A. Maggi, a cura di D., A. F. Roselly de Lorgues. Ricordi,
primo e secondo periodo, Assisi. di Roberto Guerri, direttore delle Civiche
raccolte storiche di Milano. Colloqui
col Manzoni, T. Lodi (Firenze). Treccani, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiano. LA FILOSOFIA ROMANA. Nei primi secoli
della repubblica i romani non diedersi pensiero di filosofia. Appena ne
conobbero il nome. Intenti da principio a difendersi, poi a consolidare la loro
dominazione sui popoli vicini, la loro saviezza fu figlia della sperienza e
d'un ammirabile buon senso affinato dalle difficoltà esteriori in mezzo a cui
si trovarono collocati, e dal godimento di un'interiore libertà, le cui
procelle incessanti valevano ad elevare ed afforzare gli animi. Volle taluno
che le instituzioni del re Numa non andassero digiune di pitagorismo. Gli è da
credere piuttosto, avuto riguardo all'ordine cronologico, che Pitagora
attignesse nelle dottrine sacerdotali del secondo re di Roma qualcuna delle sue
teoriche intorno la religione. Allorchè i romani strinsero i primi legami
co' greci delle colonie italiche e siciliane, non credettero di ravvisare che
leggerezza mollezza e corruzione in que' popoli i quali a ricambio
qualificarono i romani di barbari. Sul finire della prima guerra punica fu resa
nota ai vincitori la letteratura drammatica de greci; e vedemmo Livio Andronico
avere per primo tradotto tragedie, le quali cacciarono di scanno i versi fescennini,
i giuochi scenici etruschi e le informi atellane. Ennio, oltre ai componimenti
poetici di cui facemmo menzione, voltò in latino la storia sacra di Evemero,
scritto ardito, inteso a dimostrare che gli dei della Grecia altro non erano
che antichi uomini dalla superstizione divinizzati. I romani non videro nelle
ipotesi del filosofo che un oggetto di mera curiosità. Non erano ombrosi come
gl’ateniesi, non avevano peranco sperimentato qualc’azione efficace la
filosofia esercitar potesse sulla religione. Accolsero del pari con
indifferenza la sposizione poetica che del sistema d'Epicuro loro presentò
Lucrezio. Germi erano questi gettati in terreno non preparato ancora à
riceverli. La conquista non tardò a dischiudere colla Grecia più facili
mezzi di comunicazione. I conquistatori trasportarono in patria schiavi tra’
quali vi avevano non filosofi, ma retori e grammatici; e loro fidarono
l'educazione de' proprii figli. L'introduzione degli studii filosofici in
Roma risale alla celebre ambasceria di Carneade accademico, Critolao
peripatetico, Diogene stoico. Avidi di brillare e lusingati dall'ammirazione
che destavano in un popolo non avvezzo a sottili investigazioni, quei tre
fecero pompa di tutta la profondità e desterità della loro dialettica ad
abbagliare la romana gioventù che loro s'affoltava intorno, incantata di
scovrire usi dianzi ignorati della parola. I magistrati s'adombrarono di
cotesto subitano commovimento. I vecchi Se. natori armaronsi di tutta
l'autorità delle prische costumanze per respingere studi speculativi, che teme
vano come pericolosi e disprezzavano come futili. Catone il censore ottenne che
si allontanassero tosto dalla romana gioventù i retori che davano opera a
distruggere le più venerate tradizioni e a smovere le fondamenta della morale.
I sofismi di Carneade, il quale faceva pompa della spregevole arte di sostenere
a piacimento le opinioni più contraddittorie, forne a Catone plausibili
argomenti di vituperarlo. Sicchè i primordi della filosofia furono
contrassegnati in Roma da sfavorevoli apparenze. Il rigido Censore non prevede
che, un secolo dopo, quella filosofia che aveva voluto proscrivere, meglio
approfondita e meglio conosciuta, sarebbe il solo rifugio del suo pronipote
contro le ingiurie della fortuna e la clemenza di Cesare. Non possiamo
trattenerci dal simpatizzare con que’ vecchioni, i quali opponevano al torrente
da che avvisavano minacciata la patria lor capegli canuti e la loro antica
esperienza, evocando a respignere pericolose novatrici dottrine la religione
del passato e le tradizioni di seicent anni di vittorie di libertà
divirtù. Ma se a codesto spontaneo sentimento tien dietro la riflessione,
saremo costretti di riconoscere che a rintuzzare il progresso della
filosofia ed anco de sofismi di Grecia, il senato mal si appose con quel
suo violento procedere. Tutto ciò che è pericoloso racchiude in sè un principio
falso che è sempre facil cosa scovrire. Affermare il contrario sarebbe
muovere accusa alla Divinità, quasi ch'ella con innestare il male nella conoscenza
del vero avesse teso un laccio all’umana intelligenza. Convien dunque
adoperarsi a dimostrare la falsità delle opinioni perniziose, non
proscriverle alla cieca, quasi rifuggendo esaminarle conscii
dell'impossibilità di confurtarle. Sì ardua impresa rispondere agli
ateniesi sofisti? o sì difficile dimostrare che quelle loro argomentazioni
pro e contra lo stesso principio di morale erano assurde? O sì
temerario lo appellarsene, ne' cuori romani, a’sentimenti innati del vero e del
giusto, il risvegliare in quelle anime ancor nuove sdegno e disprezzo per
teoriche, le quali, consistendo tutte in equivoci, dovevano vituperosamente
cadere dinanzi la più semplice analisi? Catone anda altero dell'ottenuta
vittoria. Gli ambasciadori ateniesi furono tosto rimandati. Per un secolo
ancora severi editti, frequentemente rinnovati, lottarono contro ogni nuova
dottrina. Ma l' impulso era dato, nè poteva fermarsi. I giovani romani
conservarono impresse nella memoria le dottrine dei sofisti. Era poi e
riguardarono la dialettica di Carneade non tanto come un sistema che conveniva
esaminare, quanto come una proprietà che stava bene difendere. Giunti ad età
provetta nel bivio d'abbandonare ogni speculazione filosofica o di disobbedire
alle leggi, furono tratti a disobbedire dalla loro inclinazione per le lettere,
passione la quale, dacchè è nata, va crescendo ogni dì, siccome quella che ha
riposte in sè medesima le proprie soddisfazioni. Gli uni tennero dietro alla
filosofia nel suo esiglio ad Atene. Altri mandarono colà i loro figli. I
capitani degli eserciti furono i primi a lasciarsi vincere apertamente da
questa tendenza generale degli spiriti. L'accademico Antioco fu compagno di
Lucullo. Catone il censore cedè egli stesso, a malgrado delle sue declamazioni,
alla seduzione dell'esempio, ed assistè alle lezioni del peripatetico Nearco.
Silla fece trasportare in Roma la biblioteca d'Apellico di Teo. Catone d'Utica
allorch'era tribuno militare in Macedonia peregrino in Asia a solo oggetto
d'ottenere che lo stoico Atenodoro abbandonasse il suo ritiro di Pergamo e si
conducesse a dimorare con lui. Pure gli spiriti che con siffatto
entusiasmo s'abbandonarono alle filosofiche investigazioni non trovavansi da
studii anteriori preparati ad astratte speculazioni. Ne avvenne che la filosofia
penetra in coteste menti dirò come in massa e nel suo insieme. Ma non
s'indentificò col rimanente delle loro opinione. La sua efficacia fu nel tempo
stesso più gagliarda e mento continua che in Grecia. Più gagliarda nelle circostanze
importanti nelle quali l'uomo trascinato fuori del circolo delle sue abitudini
cerca appoggi, motivi d'agire, conforti straordinarii. Meno continua perchè, se
niun evento tnrbava l'ordine abituale, ella ridiventava pe’ romani una scienza,
piuttostochè una regola di condotta applicata a tutti i casi della vita
sociale. Che se non iscorgiamo in Roma individui che a somiglianza dei sapienti
della Grecia consacrassero alla filosofia esclusivamente il loro tempo. Non ci
appare nè anche, ad eccezione di Socrate, che i greci abbiano saputo trarre
dalla filosofia quegli efficaci soccorsi che invigorivano gli illustri
cittadini di Roma in mezzo ai campi, nelle guerre civili, tra le proscrizioni,
allora suprema. I romani si divisero in sette. Effetto della maniera
d'insegnamento di cui i retori greci usavano con essi. Per la maggior parte
schiavi od affrancati, dovevano costoro, qualunque fosse il loro convincimento
o la loro preferenza per queste o quelle dottrine, studiarsi di piacere a'
padroni; ond'è che chiaritisi come una tale ipotesi respignesse colla sua
severità o stancasse colla sua sottigliezza, affrettavansi di sostituirne altra
più accetta. Tali sono i risultamenti della dipendenza. L’amore stesso del vero
non basta ad affrancare l'uomo dal giogo. S’egli non abjura le sue opinioni, ne
cangia le forme; se non rinnega i suoi principii, li sfigura. Allorchè a
questi retori schiavi succedettero i retori stipendiati, le dottrine diventarono
derrata di cui itanto per greci trafficarono, e della quale per
conseguenza lasciarono la scelta a' compratori. Le varie sette non trovarono
in Roma uguale favore. L'epicureismo benchè in bei versi esposto ed insegnato
da Lucrezio, vi fu dapprima respinto, non la sua morale di cui bene non si
conoscevano ancora i corollarii, quanto per la raccomandazione che faceva
d'attenersi ad una vita speculativa e ritirata, aliena non meno da fatiche che
da pericoli. Gli è questo difatti il principale rimprovero che fa Cicerone alla
filosofia epicurea. I cittadini d'uno stato libero non sanno concepire la
possibilità di porre in dimenticanza la patria, perciocchè ne posseggono una; e
considerano come colpevole debolezza quell'allontanamento da ogni carriera
attiva, che sotto il dispotismo diventa bisogno è virtù di tulli gli uomini
integri e generosi. L'epicureismo ebbesi per altro un illustre seguace; nè qui
vo' accennare d'Atlico, che senza principii senza opinioni fu bensì amico caldo
e fedele, ma cittadino indifferente e di funesto esempio, avvegnachè sotto
forme eleganti insegnò alla moltitudine ancora indecisa e vacillante come
chicchessia può accortamente isolarsi e tradire con decenza i proprii doveri
verso la patria. Il romano di cui intendo parlare è Cassio che fino
dall'infanzia si consacrò alla causa della libertà, e rinunziando ai piaceri alle
dolcezze della vita, non ebbe che un pensiero un interesse una passione, la
patria. Fu centro della cospirazione contro Cesare; e dolendosi di non potere
sperare in un'altra vita, muore dopo avere corso un arringo continuamente in
contraddizione colle sue dottrine. Le sette di Pitagora, di Aristotile, e
di Pirrone incontrarono a Roma ostacoli d'altra maniera. La prima, per una
naturale conseguenza del segreto in cui si avvolse fino dal suo nascere,
contrasse affinità con estranie superstizioni; perciocchè uno degli
inconvenienti del mistero, anche quando n'è pura l'intenzione primitiva, è di
fornire all' impostura facile mezzo d'impadronirsene. Nigido Figulo è il solo
pitagorico di qualche grido che abbia fiorito in Roma. L'oscurità aristotelica
ebbe poche attrattive per menti più curiose che meditative. L'esagerazione
pirronista per ultimo ripugna alla retta ragione de’ romani. Il platonismo che
ancor non era ciò che di. venne due secoli dopo per opera de' novelli
platonici. Lo scetticismo moderato della seconda accademia, e lo stoicismo
furono i sistemi adottati in Roma. Lucullo, Bruto, Varrone sono platonici. Cicerone,
a cui piacque porre a riscontro tutte le varie dottrine, inclina per
l'indecisione accademica. Lo stoicismo solo fu caro alla grand'anima di Catone
Uticense. “Non possum legere librum Ciceronis de Se. nectute, de
Amicitia, de Officiis, de Tusculanis Quæstionibus, quin aliquoties exosculer
codicem, ac venerer sanctum illud pectus aflatum celesti Qumine. ERASM.
in Conviv --. M. Tullio adotta egli per convinzione i sistemi filosofici della
nuova accademia, o diè loro la preferenza perchè più propizii all’oratore in
fornirgli arme con cui combattere i proprii avversarii! Corse grand' intervallo
tra un Cicerone ambizioso, e un Cicerone disingannato. Ciò che pel primo era
oggetto subordinato a speranze a divisamenti avvenire, diventa pel secondo un
bisogno del cuore, un'intensa occupazione della mente. Ei pose affetto alle
dottrine del platonismo riformato; e a quelle parti della morale in esse
contenuta di cui si tenne men soddisfatto, altre ne sostituì fornitegli dallo
stoicism. E propriamente ecclettico, od amatore del vero e del buono ovunque lo
riscontrava. Ad imitazione di Platone pose in dialoghi i suoi scritti
filosofici. Per eleganza di stile ed elevatezza di concetti non cede al
modello. Per chiarezza e per ordine lo vince. Ne cinque libri, De finibus,
intorno la natura del bene e del male si propose una meta sublime; la ricerca
cioè del bene supremo; in che cosa consista; come si consegna; ove dimori. Tu
cerchi però inutil mente in quelle pagine da cui traluce tanta sapienza
plausibile soluzione del quesito. Gli antichi ingolfandosi in cotali disamine
faceano ricerca di ciò che trovare non potevano; chè gli è impossibile che il
bene supremo rinvengasi in ordine di cose che necessariamente è imperfetto.Verità
che il Vangelo ci rese ovvia insegnandoci come la felicità sognata dai gentili
pel loro saggio non sia fatta per uomo mortale, essondechè stanza le è
riserbata imperibile sublime. In che cosa consiste il sommo bene? Ecco di
che venivano continuamente richiesti i filosofi. Epicuro ed Aristippo
rispondevano, nel piacere; Jeronimo, nell'assenza del dolore; Platone, nella
comprensione del vero, e nella virtù che ne è conseguenza; Aristotile, nel
vivere conformemente alla natura. Cicerone associa le sentenze di Platone e
d'Aristotile, e si appose meglio di quanti nell'arduo arringo l'avevano
preceduto. Dalle più elevate astrazioni sceso ad argomenti che si
collegano co' bisogni e co' vantaggi dell'uomo, M. Tullio si propose nelle
Tusculane di cercare i mezzi adducenti alla felicità. Cinque ne noverò; il
dispregio della morte; la pazienza ne' dolori; la fermezza nelle varie prove;
l'abitudine di combaltere le passioni, e finalmente la persuasione che la virtù
dee unicamente cercare premio in sè stessa: e la dimostrazione di cotesti
assiomi si fa vaga, sotto la penna del filosofo, di tutte le grazie
dell'eloquenza. All' Anima, egli scrive, tu cercheresti inutilmente un'origine
terrestre, perocchè nulla in sè accoglie di misto e concreto; non un atomo
d'aria d'acqua di fuoco. In cotesti elementi sapresti tu scorgere forza di
memoria d'intelligenza di pensiero, valevole a ricordare il passato a
provvedere al futuro ad abbracciare il presente? Prerogative divine sono queste,
nè troveresti mai da chi sieno state agli uomini largite, se non 'da Dio. È
l'anima pertanto informata di certa quale sua singolar forza e natura ben
diverse da quelle che reggono i corpi tutti a noi noti. Checchè dunque in noi
sia che sente intende vuole vive; divina cosa certo è cotesta; eterna quindi
necessariamente esser deve. Nè la divinità stessa, quale ce la figuriamo,
comprenderla in altra guisa possiamo, che come libera intelligenza scevra
d'ogni mortale contatto, che tutto sente e muove, d’eterno moto ella stessa
fornita. L’anima umana per genere e per natura somiglia a Dio. “Dubiterai
tu, a veder le meraviglie dell'universo, che tal opera stupenda non abbiasi (se
dal nulla fu tratta, come afferma Platone) un creatore; o se creata non fu,
come pensa Aristotile, che ad alcun possente moderatore non sia data in
custodia? Tu Dio non vedi; pur le opere sue tel rivelano: così ti si fa palese
dell'anima, comechè non vista, la divina vigoria, nelle operazioni della
memoria nel raziocinio nel santo amore della virtù.” I discepoli d'Epicuro,
commentando, esagerando ciò che vi avea d'incerto d'oscuro nei principii del
loro maestro. l'universo nato dal caso affermarono, negarono la provvidenza,
piegarono all'ateismo. Tullio si fa a combatterli nel suo libro Della natura
degli Dei. Le lettere antiche non inspiraronsi mai di più sublime
eloquenza. Vedi primamente la terra, collocata nel centro del mondo,
solida, rotonda, in sè stessa da ogni parte per interior forza ristrella; di fiori
d'erbe d'arbori di messi ammantarsi. Mira la perenne freschezza delle fonti, le
trasparenti acque de' fiumi, il verdeggiare vivacissimo delle rive, la
profondità delle cave spelonche, delle rupi l'asperità, delle strapiombanti
vette l’elevazione, delle pianure l'immensità, e quelle recon. dite vene d'oro
e d'argento, e quell' infinita possa di marmi. Quante svariate maniere
d'animali! quale aleggiare e gorgheggiar d'uccelli e pascere d'armenti, ed
inselvarsi di belve! E che cosa degli uomini dirò, che della terra costituiti
cultori non consentono alla ferina immanità di toruarla selvaggia, all’animalesca
stupidità di devastarla, sicchè per opera loro campi isole lidi mostransi vaghi
di case, popolati di città! Le quali cose se a quella guisa colla mente comprendere
potessimo, come le veggiamo cogli occhi; niune in gettare uno sguardo sulla
terra potrebbe dubitar più oltre che esista ia provvidenza divina. “Ed
infatti, come vago è il mare! come gioconda dell'universo la faccia! Qual moltitudine
e varietà d'isole é amenità di piani, e disparità d'animali, sommersi gli uni
nei gorghi, gnizzanti gli altri alla superficie, nati questi a rapido moto,
quelli all’imobi, lità delle loro conchiglie! E l'acre che col mare con: fina
qua diffuso e lieve s'innalza, là si condensa e accoglie in nugoli, e la terra
colle piove feconda; e ad ora ad ora pegli spazii trascorrendo ingencra i vento
ti, e fa che le stagioni subiscano dal freddo al caldo loro consuete mutazioni,
e le penne de' volatori sostiene, e gli animali mantien vivi.” 5 Giace ultimo
l'etere dalle nostre dimore disco. stissimo, che il cielo e tutte cose ricigne,
remoto confine del mondo; per entro al quale ignei corpi con maravigliosa
regolarità compiono il loro corso. Il sole, uno d'essi, che per mole vince di
gran volte la terra, intorno a questa s'aggira, col sorgere e il tramontare
segnando i confini del giorno e della notte; coll'avvicinarsi e il discostarsi
quelli delle stagioni; sicchè la terra, allorehè il benefico astro s'allontana,
da certa qual tristezza è conquisa; pare che invece insieme col ciclo ši
allegri allorchè torna. La luna, che a dire de matemateci, è più che una mezza
terra, trascorre pe' medesimi spazii del sole, ed ora facendoglisi incontro;
ora dipartendosi, que' raggi che da lui riceve a noi trasmette; ed avvengonle
mutazioni di luce; perciocchè talora postasi innanzi al sole lo splendore ne
oscura; talora nell'ombra della terra s'immerge e d'improvviso scompare. Per
quegli spazii medesimi le stelle che denominiamo vaganti girano intorno a noi e
sorgono e tramontano ad uno stessso modo; il moto delle quali ora è affrettato
ora s'allenta ora cessa; spettacolo di cui altro avere non vi può più
ammirando e più bello. Tiene dietro la moltitudine delle non vaganti stelle,
delle quali sì precisa è la reciproca giacitura, che si poterono ad esse
applicar nomi di determinate figure. “E tanta magnificenza d'astri, tanta
pompa di cielo, qual sano intelletto mai potrà figurarsele surte dal
raccozzarsi di corpi qua e là fortuitamente? Chi potrà credere che forze d'
intelligenza e di- ragione sprovvedute fossero state capaci di dar compimento a
tali opere delle quali, senza somma intelligenza e robusta ragione, ci
sforzeremmo inutilmente di comprendere, non dirò come si sieno fatte, ma solo
quali veramente sieno?” Dopo d'avere additato virtù e religione siccome
scaturigini del bene, maestre di felicità, dopo d'avere spaziato pegli immensi
campi d'un'alta e confortevole metafisica, dopo di avere falto tesoro negli
insegnamenti della greca filosofia di ciò ch'essa mise in luce di più puro e
sublime intorno l'anima e Dio; argomento degno della gran mente di Cicerone era
la felicità, non più studiata e ricercata pegli individui, ma per le nazioni;
ed a sì nobile soggetto consacrò i suoi trattati, in gran parte perduti, Della
repubblica e Delle leggi. Nei frammenti che ce ne restano scorgiamo essersi il
filosofo serbato fedele al suo assioma favorito: - nella giustizia divina
contenersi l'unica sanzione dell'umana giustizia. u Fondamento primo
d'ogni legislazione, egli scrive, sia un generale convincimento che gli
Dei sono di tutto arbitri, di tutto moderatori; che benefattori del. l'uman
genere scrutano che cosa è in sè stesso ogni uomo, che cosa fa, che cosa pensa,
con quale spirito pratica il culto; sicchè i buoni sanno discernere dagli
empii. Ecco di che gli animi voglionsi compene. trati, onde abbiano la coscienza
dell' utile e del vero.” Ma se M. Tullio della virtù della felicità delle leggi
ravvisava nella religione le scaturiggini, la religione voleva che santa e pura
fosse, onninamente sgombra dalle supestizioni dalle credulità, da che
vituperata miravala. A tal uopo dettò l'aureo trattato De divinatione, nel
quale usò d'un argomentare nel tempo stesso seyero e faceto, con abbandonarsi
in isferzare la credulità e la sciocchezza a'voli più opposti della sua
proteiforme eloquenza. Capolavoro di Cicerone è il libro Degli Officii,
ossia de' doveri morali degli uomini in qualunque condizione si trovino essi
collocati. I Greci ebbero costume di spaziare troppo ne' campi delle
filosofiche astrazioni; le loro dottrine trovarono meno facile applicazione a'
casi pratici della vita, perchè sovraccaricate di vane disputazioni, oppurtune
più spesso a trastullare l'imaginazione, che ad illuminare l'intelletto. Tullio
grande e saggio anche in questo volle spoglia la sua filosofia di quell'
ingombro, e ricondussela alla più semplice e precisa espressione degli
inculcati doveri. 6 Cicerone (scrive- a proposito del libro degli Officii un
critico tedesco) fu dotato di luminosa intelligenza di rello giudizio di
gran. de altività, doti opportunissime a coltivare la ragione, a fornirle
argomento d' incessanti meditazioni. Ma Cicerone non possedeva lo spirito
speculativo che si richiede a poter ben addentrarsi ne' primi principii delle
scienze: il tempo venivagli meno a minute indagini, la sua indole stessa fare
non gliele poteva famigliari. Uomo di stato più che filosofo, le scienze morali
lo interessavano per quel tanto che gli servivano a rischiarare le proprie idee
intorno ad argomenti politici. Vissulo in mezzo a rivoluzioni, quali traversie
non ebbe egli a sopportare ! Niun politico si trovò mai in situazione più
propizia per fare tesoro d'osservazioni intorno l'indole della civile società,
la diversità de' caratteri, l'influenza delle passioni. Pure cotesta situazione
sua stessa era poco alla a fornirgli opportunità d’approfondire idec astralte o
meditare sulla natura delle forze invisibili, i cui visibili risultamenti
s'appalesano nell' umano consorzio. La situazione politica in cui M.
Tullio si trovò collocato improntò la sua morale d'un carattere speciale. Gli
uomini dei quali ed a’ quali ragiona sono quasi sempre della classe a cui
spetla d'amministrare la repubblica: talora, ma più di rado, rivolgesi agli
studiosi delle lettere e delle scienze. Per la moltitudine de cittadini hannovi
bensì qua e là precetti generali comuni applicabili agli uomini tutti; ma
cercheresti inutilmente l'applicazione di que' precelli alle circostanze d'una
vita oscura e modestà. Caso invero singolare! Mentre le forme del
reggimento repubblicano raumiliavano l'orgoglio politico con dargli a base il
favore popolare, i pregiudizii dell'antica società alimentavano l'orgoglio
filosofico, con accordare il privilegio dell'istruzione unicamente a coloro che
per nascita o per fortune erano destinati a governare i loro simili. In
conseguenza di questo modo di vedere i precetti morali di Cicerone degenerarono
sovente in politici insegnamenti. Coi trattati “Dell' amicizia” e “Della
vecchiezza” M. Tullio a confortevoli meditazioni ebbe ricorso onde ricreare la
propria mente dalla tensione di più ardui studii e dagli insulti della fortuna.
E veramente che cosa avere vi può sulla terra di più dolce e santo d'una fedele
amicizia? Che cosa vi ha di più dignitoso e simpatico d'una vecchiezza onorata
e felice? Cice, rone in descrivere quelle pure e nobili dilettazioni consulto
il proprio cuore: beato chi trova in sè stesso l' inspirazione e la coscienza
della virtù!” -- Wikipedia Ricerca Mitologia romana narrazioni
mitologiche dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sull'argomento mitologia romana non cita le fonti
necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La mitologia romana riguarda
le narrazioni mitologiche della civiltà legata all'antica Roma, e può essere
suddivisa in tre parti: Periodo repubblicano: nata nei primi anni della
storia di Roma, si distingueva nettamente dalla tradizione greca ed etrusca,
soprattutto per quanto riguarda le modalità dei riti. Periodo imperiale
classico: spesso molto letteraria, consiste in estese adozioni della mitologia
greca ed etrusca. Periodo tardo-imperiale: consiste nell'assunzione di molte
divinità di origine orientale, tra le quali il Mitra persiano, sincretizzato
nel culto del Sol Invictus. Il mito di Romolo e Remo Natura dei primi
miti romaniModifica È possibile affermare che i primi romani avessero miti.
Detta in altro modo: finché i loro poeti non entrarono in contatto con gli
antichi greci verso la fine della Repubblica, i romani non ebbero storie sulle
loro divinità paragonabili al mito dei Titani o alla seduzione di Zeus da parte
di Era, ma ebbero miti propri come quelli di Marte e di Fauno. A
quell'epoca i romani già avevano: un sistema di rituali ed una gerarchia
sacerdotale ben definiti; un insieme molto ricco di leggende storiche sulla
fondazione e sviluppo della loro città che avevano per protagonisti degli umani
ma vedevano anche interventi divini. Prima mitologia sulle divinità Modifica
Il modello romano comportò un modo molto diverso di definire il concetto di
divinità rispetto a quello greco che ci è noto. Per esempio se avessimo chiesto
ad un antico greco chi fosse Demetra, avrebbe probabilmente risposto
raccontando la famosa leggenda del suo folle dolore per il rapimento della
figlia Persefone da parte di Ade. Al contrario un romano antico avrebbe
risposto che Cerere aveva un sacerdote ufficiale chiamato flamine, che era più
giovane dei flamini di Giove, Marte e Quirino (la Triade arcaica), ma più
anziano dei flamini di Flora e Pomona. Avrebbe anche potuto dire che era
inserita in una triade con altre due divinità agresti, Libero e Libera e
avrebbe anche potuto elencare tutte le divinità minori con funzioni specifiche
che la assistevano: Sarritor (il sarchiatore), Messor (il mietitore), Convector
(il carrista), Conditor (il magazziniere), Insitor (il seminatore) e altri
ancora. Così la mitologia romana arcaica, almeno per quello che riguardava gli
dei, era costituita non da storie, ma piuttosto da complesse interrelazioni
reciproche tra dei e uomini e all'interno della sfera umana, dall'una parte, e
della sfera divina dall'altra. La religione originaria dei primi romani
venne modificata in periodi successivi dall'aggiunta di numerose e conflittuali
credenze e dall'assimilazione di gran parte della mitologia greca. Quel poco
che sappiamo della religione romana arcaica lo conosciamo non attraverso fonti
contemporanee, ma grazie a scrittori tardi che cercarono di salvare le antiche
tradizioni dall'abbandono in cui erano cadute, come lo studioso del I secolo
a.C. Marco Terenzio Varrone. Altri scrittori classici, come il poeta Ovidio nei
suoi Fasti, furono fortemente influenzati dai modelli ellenistici e nei loro
lavori impiegarono spesso miti greci per riempire i vuoti della tradizione
romana. Prima mitologia sulla "storia" romanaModifica In
contrasto con la scarsità di materiale narrativo arrivatoci sugli dei, i Romani
avevano una ricca fornitura di leggende quasi storiche sulla fondazione e sulle
prime fasi dello sviluppo della loro città. I primi re di Roma come Romolo e
Numa avevano una natura quasi interamente mitica ed il materiale leggendario
può estendersi fino ai racconti della prima repubblica. In aggiunta a queste
tradizioni in gran parte indigene, fin dai tempi antichi materiale tratto da
leggende eroiche greche venne inserito in questo blocco originario, facendo
diventare, ad esempio, Enea un antenato di Romolo e Remo. L'Eneide e i primi
libri di Livio sono le migliori fonti esistenti per questa mitologia
umana. Divinità romaneModifica Ulteriori informazioni Si propone di
dividere questa pagina in due, creandone un'altra intitolata Divinità romane.
Dèi greci e romaniModifica La pratica rituale romana dei sacerdoti ufficiali
distingueva nettamente due classi di dèi, gli dèi indigeni (di indigetes) e i
nuovi dèi (di novensiles). Gli dei indigeni erano gli dèi originari dello
stato romano e i loro nomi e la loro natura erano rivelati dai titoli degli
antichi sacerdoti e dalle feste fissate sul calendario; trenta dèi di questo
tipo erano onorati con feste speciali. I nuovi dèi erano divinità più
tardi i cui culti vennero introdotti nella città in periodi storici, di solito
in una data conosciuta e in risposta a una specifica crisi o a una determinata
necessità. Le divinità romane arcaiche includevano, oltre agli dèi
indigeni, un insieme di dèi cosiddetti specialisti i cui nomi venivano invocati
nel corso di diverse attività, come la mietitura. Frammenti di antichi rituali che
accompagnano tali azioni come l'aratura o la semina rivelano che in ogni fase
delle operazioni veniva invocata una divinità specifica, il cui nome derivava
sempre dal verbo che identificava l'operazione stessa. Tali divinità possono
essere raggruppate sotto la definizione generale di dei assistenti o ausiliari,
che venivano invocati a fianco delle divinità più grandi. Il culto romano
arcaico, più che essere politeista, credeva a molte essenze di tipo divino:
degli esseri invocati i fedeli non conoscevano molto più che il nome e le
funzioni e il numen di questi esseri, ossia il loro potere, si manifestava in
modi altamente specializzati. Il carattere degli dèi indigeni e le loro
feste mostrano che i Romani arcaici non solo erano membri di una comunità agreste,
ma amavano anche combattere ed erano spesso impegnati in guerre. Gli dei
rappresentavano chiaramente le necessità pratiche della vita quotidiana,
secondo le esigenze della comunità romana a cui appartenevano. I loro riti
venivano celebrati scrupolosamente con offerte ritenute adatte. Così Giano e
Vesta custodivano la porta e il focolare, i Lari proteggevano i campi e la
casa, Pale il pascolo, Saturno la semina, Cerere la crescita del grano, Pomona
i frutti, Consus e Opi la mietitura. Tavola illustrata degli Acta
Eruditorum del 1739 raffigurante divinità romane Anche Giove supremo, il
signore degli dèi, era onorato perché recasse assistenza alle fattorie e ai
vigneti. In una accezione più vasta egli era considerato, grazie all'arma del
fulmine, il direttore delle attività umane e, per mezzo del suo dominio
incontrastato, il protettore dei Romani durante le campagne militari oltre i
confini della loro comunità. Rilevanti nei tempi arcaici furono gli dei Marte e
Quirino, che venivano spesso identificati. Marte era il dio dei giovani e
specialmente dei soldati; veniva onorato a marzo e a ottobre. Gli studiosi
moderni ritengono che Quirino fosse il protettore della comunità in armi.
A capo del pantheon originario vi era la triade composta da Giove, Marte e
Quirino (i cui tre sacerdoti, o flamini, appartenevano all'ordine più elevato),
insieme a Giano e Vesta. Questi dèi nei tempi arcaici avevano una individualità
molto ridotta e le loro storie personali non conoscevano matrimoni e
genealogie. Diversamente dagli dei Greci, si riteneva che non agissero come i
mortali e così non esistono molti racconti sulle loro imprese. Questo culto
arcaico era associato a Numa Pompilio, il secondo re di Roma, che si credeva
avesse avuto come consorte e consigliera la dea romana delle fontane e del
parto, Egeria, spesso considerata una ninfa nelle fonti letterarie
successive. Tuttavia, nuovi elementi vengono aggiunti in un periodo
relativamente tardo. Alla casa reale dei Tarquini la leggenda ascrive
l'introduzione della grande triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva, che
occupò il primo posto nella religione romana. Altre aggiunte furono il culto di
Diana sull'Aventino e l'introduzione dei libri sibillini, profezie di storia
mondiale, che, secondo la leggenda, vennero acquistate da Tarquinio alla fine
del VI secolo a.C. dalla Sibilla cumana. Divinità straniereModifica
L'assorbimento degli dèi dei popoli vicini avvenne quando lo stato romano
conquistò il territorio circostante. I Romani generalmente garantivano agli dèi
locali dei territori conquistati gli stessi onori degli dèi caratteristici
dello stato romano. In molti casi le divinità di recente acquisizione venivano
formalmente invitate a trasferire la propria dimora nei nuovi santuari di Roma.
Nel 203 a.C. l'oggetto di culto rappresentante Cibele venne trasferito da
Pessinos in Frigia e accolto con le dovute cerimonie a Roma. Inoltre, lo
sviluppo della città attraeva stranieri, a cui era consentito mantenere il
culto dei propri dèi. In questo modo Mitra giunse a Roma e la sua popolarità
tra le legioni ne fece diffondere il culto fino in Britannia. Oltre a Castore e
Polluce, gli insediamenti greci in Italia, una volta conquistati, sembra che
abbiano introdotto nel pantheon romano Diana, Minerva, Ercole, Venere e altre divinità
di rango inferiore, alcune delle quali erano divinità italiche, altre
derivavano originariamente dalla cultura della Magna Grecia. Le divinità romane
importanti venivano alla fine identificate con gli dei e le dee greche che
erano più antropomorfiche e assumevano molti dei loro attributi e miti.
Principali divinità romaneModifica AnimaliModifica Lupo Picchio Sirena Strige
Dèi e deeModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento
mitologia è ritenuta da controllare. Abbondanza: personificazione
dell'abbondanza e della prosperità nonché la custode della cornucopia Abeona:
protettrice delle partenze, dei figli che lasciano per la prima volta la casa
dei genitori o che muovono i loro primi passi. Adeona: protettrice del ritorno,
in particolare di quello dei figli verso casa dei genitori. Aequitas:
l'origine, il principio ispiratore di matrice divina, del diritto. Aeracura:
dea ctonia e della fertilità Aesculanus: divinità romana protettrice dei
mercanti e preposta alla coniazione delle monete Aio Locuzio: dio
dell'avvertimento misterioso, avvisò Roma dell'invasione dei Galli nel 390 a.C
Alemonia: dea della fertilità per cui le si dedicavano dei sacrifici per avere
figli, ma era anche responsabile della salute del bimbo nel ventre materno. Era
infatti lei che si occupava del suo nutrimento mentre viveva nel corpo della
madre, garantendo quindi altresì la salute del corpo della madre Alma: colei
che portava la vita Angerona: dea del silenzio o dei piaceri, protettrice degli
amori segreti, guaritrice dalle malattie cardiache, dal dolore e dalla
tristezza Angizia: divinità ctonia adorata dai Marsi, dai Peligni e da altri
popoli osco-umbri, associata al culto dei serpenti Anguana: una creatura legata
all'acqua, dalle caratteristiche in parte simili a quelle di una ninfa Anna
Perenna: dea che presiedeva il perpetuo rinnovarsi dell'anno Annona: un'antica
dea italica, dea dell'abbondanza e degli approvvigionamenti Antevorta: dea del
futuro, presiede alla nascita dei bambini quando sono in posizione cefalica
Attis: paredro di Cibele, il servitore autoeviratosi, che guida il carro della
dea. Aquilone: dio del vento del nord Aurora: dea dell'aurora Auster: dio del
vento del sud Averna: una dea della morte Bacco: dio della follia, delle feste,
del vino, dell'uva, dell'ebrezza e della vendemmia Barbatus: dio a cui si
rivolgevano i ragazzi non solo perchè facesse crescere copiosa la barba, ma
anche per non tagliarsi quando ci si liberava di essa con una lama piuttosto
affilata Bellona: dea che incarna la guerra Bona Dea: antica divinità laziale,
il cui nome non poteva essere pronunciato, dea della fertilità, della
guarigione, della verginità e delle donne Bonus Eventus: una delle dodici
divinità che presiedevano all'agricoltura e concetto di successo Bubona: dea
protettrice dei buoi Candelifera: dea romana della nascita Caligine: dea della
nebbiosa oscurità primordiale, generò dapprima Caos, poi, Notte, Giorno
(Emera), Erebo ed Etere Caos: dio del caos primordiale Cardea: dea della
salute, delle soglie e cardini della porta e delle maniglie, associata anche al
vento Carmenta (Carmentis): dea protettrice della gravidanza e della nascita e
patrona delle levatrici Carna: dea con il compito di proteggere gli organi
interni, in particolare dei bambini, e più in generale di assicurare il
benessere fisico all'uomo Cerere: divinità materna della terra,
dell'agricoltura, del grano, della fertilità, dei raccolti e della carestia
Cibele (Cibelis): dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici.
Clementia: dea della clemenza e della giustizia Cloacina: dea protettrice della
Cloaca Maxima, la parte più antica ed importante del sistema fognario di Roma
Concordia: spirito dell'armonia della comunità Conso: divinità del seme del
grano, dei depositi per la sua conservazione, dei granai e degli
approvvigionamenti Cupido: dio dell'amore divino, del desiderio sessuale,
dell'erotismo e della bellezza Cunina: dea della tenerezza, protettrice dei
lattanti, che veniva supplicata a lungo quando il pargolo era insonne e non faceva
dormire, o quando aveva la febbre, o male al pancino Cura: dea della vita e
dell'umanità Dea Tacita: dea degli inferi che personifica il silenzio Devera:
una delle tre divinità che insieme a Pilumnuse Intercidona proteggevano le
ostetriche e le donne in travaglio Diana: dea della Luna, delle selve, degli
animali selvatici, delle giovani fanciulle vergini e della caccia, custode
delle fonti e dei torrenti Disciplina: personificazione della disciplina
Discordia: dea della discordia, del caos e del male Dis Pater: dio del
sottosuolo Domidicus: dio che guida la casa sposa Domizio: dio che installa la
sposa Dria: dea che assicurava un buon flusso esente da dolori nelle
mestruazioni Edulica: dea spesso invocata perché alla madre non mancasse il
latte Edusa: dea che provvedeva a far provare al bambino il desiderio della
semplice acqua Egeria: dea romana delle fontane e del parto Epona: dea dei
cavalli e dei muli Ercole: dio del salvataggio Erebo: dio ancestrale
dell'oscurità, le cui nebbie circondavano il centro della Terra Esculapio: dio
della medicina Etere: dio dell'aria superiore che solo gli dei respirano
Fabulinus: dio che insegna ai bambini a parlare Falacer: dio del Cermalus
(un'altura del Palatino) Fama: personificazione della voce pubblica Fascinus: incarnazione
del divino fallo Fauno: dio dei pascoli, delle selve, delle foreste, della
natura, dei campi, dell'agricoltura, della campagna e della pastorizia Favonio:
dio del vento dell'ovest Febo o Apollo: dio del Sole, delle arti, della musica,
della profezia, della poesia, delle arti mediche, delle pestilenze e della
scienza Fecunditas: dea della fertilità Felicitas: divinità dell'abbondanza,
della ricchezza e del successo, presiedeva alla buona sorte Ferentina: dea
dell'acqua e della fertilità Feronia: una dea romana della fertilità di origine
italica, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli
schiavi riusciti a liberarsi Febris: dea della Febbre, associata alla
guarigione dalla malaria Fides: personificazione della lealtà Flora: dea della
primavera e dei fiori Fontus o Fons: dio delle fonti Fornace: dea del forno in
cui si cuoce il pane Fortuna: dea del caso e del destino Furie:
personificazioni femminili della vendetta Furrina: dea delle acque Giano: dio
dei bivi, delle scelte, dell'inizio e della fine Giorno: dea del giorno Giove:
re degli dei, dio del fulmine e del tuono Giunone: regina degli dei, dea della
donne e del matrimonio Giustizia: personificazione della giustizia Giuturna:
dea dei corsi d'acqua dolce del Lazio Insitor: dio della protezione della
semina e degli innesti Inuus: dio del rapporto sessuale Iride: dea
dell'arcobaleno e messaggera degli dei Iuventas: dea della giovinezza
Jugatinus: dio che unisce la coppia in matrimonio Lari: spiriti protettori
degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon
andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale Laverna:
protettrice dei ladri e degli impostori Levana: dea protettrice dei neonati
riconosciuti dal padre Libero (Liber): dio italico della fecondità, del vino e
dei vizi Libertas: divinità romana della libertà Libitina: divinità arcaica
romana, incaricata di badare ai doveri ed ai riti che si tributavano ai morti e
che perciò presiedeva ai funerali Lua: dea a cui erano consacrate le armi dei
nemici sconfitti Lucina: dea del parto, salvaguardava inoltre le donne nel
lavoro Luna: personificazione della Luna Luperco: dio protettore della
fertilità Lympha: dea che influenzava l'approvvigionamento idrico Maia: dea
della fecondità e del risveglio della natura in primavera Mani: anime dei
defunti. Esse talvolta venivano identificate con le divinità dell'oltretomba
Manturna: dea che teneva la sposa a casa Marìca: divinità italica. Ninfa
dell'acqua e delle paludi, era signora degli animali e protettrice dei neonati
e della fecondità Marte: dio della guerra violenta Matres: divinità femminili
dell'abbondanza e della fertilità Mefite: dea delle acque, invocata per la
fertilità dei campi e per la fecondità femminile Mena (21°figlia di Giove): dea
della fertilità e delle mestruazioni Mors: personificazione della morte
Mercurio: messaggero degli dei, dio della velocità, dell'astuzia, delle strade,
del commercio, dei messaggi, dei viaggiatori, dei ladri, dell'eloquenza,
dell'atletica, delle trasformazioni di ogni tipo, della destrezza e della
farmacia, protettore dei messaggeri, dei ladri e dei viaggiatori Minerva: dea
dell'intelligenza, delle tattiche militari, della tessitura e delle arti
casalinghe Mitra (Mithra): dio delle legioni e dei guerrieri Muse: 9 divinità
delle arti Mutuno Tutuno: divinità matrimoniale fallica Nemesi: dea della
vendetta, dell'equilibrio e del castigo Nettuno: dio del mare, dei terremoti,
dei maremoti, delle piogge, del vento marino, delle tempeste e della siccità Notte:
dea della notte Numeria: dea italica della matematica, preposta al conto dei
mesi del parto Nundina: dea che si occupava della purificazione dei nuovi nati
Opi: dea della terra e dispensatrice dell'abbondanza agraria Orco: dio degli
Inferi Ore: dee delle ore Ossilao: dio che si doveva occupare che le ossa dei
bambini crescessero sane e robuste Palatua: dea del Palatino Pale: dio degli
allevatori e del bestiame Partula: dea del parto, che determina la durata di
ogni gravidanza Pax: dea della pace Pavenzia: dea che si occupava di proteggere
i bambini dagli spaventi improvvisi Pellonia: divinità che faceva scappare i
nemici Penati: spiriti protettori di una famiglia e della sua casa ed anche
dello Stato Pertuda: dea che consente la penetrazione sessuale Picumnus: dio
della fertilità, dell'agricoltura, del matrimonio, dei neonati e dei bambini
Pietas: dea del compimento del proprio dovere nei confronti dello Stato, delle
divinità e della famiglia Pilunno: dio protettore dei neonati nelle case contro
le malefatte di Silvano Plutone: dio della morte e degli inferi Pomona: dea dei
frutti Potina: dea che si occupava di accompagnare il bimbo nello svezzamento
Portuno: dio dei porti e delle porte Postvorta: dea del passato, presiede la
nascita dei bambini quando essi sono in posizione podalica Prema: dea che tiene
la sposa sul letto Priapo: dio della fertilità maschile Proserpina: dea dei
fiori e della primavera Providentia: personificazione divina dell'abilità di
prevedere il futuro Psiche: dea delle anime, personificazione dell'Anima
gemella, ossia l'amore umano e protettrice delle fanciulle Pudicizia: dea
romana della castità coniugale Quirino: dio delle curie e protettore delle
pacifiche attività degli uomini liberi Robigus: dio romano della ruggine del
grano Roma: dea della patria e della città di Roma Rumina: dea delle donne
allattanti Salacia: dea dell'acqua salata e custode delle profondità
dell'oceano Salus: personificazione dello stare bene, della salute e della
prosperità Sanco: dio protettore dei giuramenti Saturno: titano del tempo e
della fertilità Securitas: personificazione della sicurezza Silvano: dio dei
boschi Senectus: dio della vecchiaia Sogno: dio dei sogni Sole:
personificazione del Sole Sol Indiges: antica divinità solare Sol Invictus:
antica divinità solare Somnus: dio del sonno e padre dei sogni Soranus: dio
solare infero Speranza: dea della speranza Statano: divinità che aiutava i
bimbi ad avere forza sulle gambe e quindi a camminare speditamente Statulino:
dio che era accanto ai bambini nel muovere i primi passi perché non cadessero
donandogli la stabilità Sterculo: dio inventore della concimazione dei campi e
degli escrementi Stimula e Sentia: dee che, negli adolescenti, affinavano i
sensi ed i ragionamenti, curandone l’intelligenza ed il raziocinio, li
rendevano consapevoli e gli insegnavano da un lato l’indipendenza e dall'altro
l'onere dei loro doveri Strenia: simbolo del nuovo anno, di prosperità e buona
fortuna Subigus: dio che sottomette la sposa alla volontà del marito Summano:
dio dei tuoni e dei fenomeni atmosferici notturni Terminus: dio dei confini dei
poderi e delle pietre terminali Tellus: dea romana della Terra e protettrice
della fecondità, dei morti e contro i terremoti Tiberino: dio delle sorgenti e
del fiume Tevere Trivia: dea della magia, degli incroci, degli incantesimi,
degli spettri e protettrice degli incroci di tre strade ed era la potente
signora dell'oscurità, regnava sui demoni malvagi, sulla notte, sulla Luna, sui
fantasmi e sui morti, associata anche ai cicli lunari rappresentava la Luna
calante. Era invocata da chi praticava la magia nera e la necromanzia Uterina:
assistente alla puerpera nel momento delle doglie che aiutava a superare il
dolore delle doglie Vacuna: patrona del riposo dopo i lavori della campagna. Divinità
di ampio utilizzo, ma soprattutto riconosciuta e invocata per la fertilità,
legata alle fonti, alla caccia, e al riposo Vaticano: dio la cui funzione era
assistere i neonati nel loro primo vagito Veiove: protettore dell'Asylum, il
bosco sacro di rifugio che si trovava nella sella del Campidoglio Venere: dea
della bellezza, dell'amore e del desiderio Verità: dea e personificazione della
verità Vertumno: dio della nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla
maturazione dei frutti Vesta: dea del focolare, della casa e del cibo Vica
Pota: dea della vittoria e della conquista Victoria: dea della vittoria e dei
giochi Viduus: dio minore, deputato a separare l'anima dal corpo dopo la morte
Virginiensis: dea che scioglie la cintura della sposa Viriplaca: dea romana che
"placa la rabbia dell'uomo" Virtus: divinità del coraggio e della
forza militare, la personificazione della virtus (virtù, valore) romana
Volturno: dio del fiume Volturno e patrono del vento caldo di sud-est Volupta:
personificazione del piacere sensuale Vulcano: dio del fuoco, della metallurgia
e dei vulcani, protettore dei fabbri Festività Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Festività romane. Consualia Fontinalia
Fornacalia Lupercalia Nettunalia Parentalia Saturnali Primavera sacra Floralia
Località Modifica Averno
(lat.Avernus) Campidoglio Cariddi Lete Palatino Stige (lat.Styx) Personaggi,
eroi e demoni Modifica
Almone - eroe Anteo - eroe Ascanio - eroe Caca - demone Caco - demone Camene -
demoni Camerte - eroe Caronte - demone Cidone e Clizio - eroi Clauso - eroe
Clelia - eroe Curiazi - eroe Didone - personaggio Egeria - demone Enea - eroe
Ercole - eroe Eurialo e Niso - eroi Evandro - eroe Fauna - demone Fauno -
demone Feziali - eroe Flamini - personaggi Galatea - demone Lamiro e Lamo -
eroi Laride e Timbro - eroi Lavinia - personaggio Lica - eroe Luca - eroe
Marica - demone Messapo - eroe Murrano - eroe Numa Pompilio - eroe Orazi - eroi
Pallante - eroe Pico - demone Pontefice massimo - personaggio Publio Cornelio
Scipione Psiche - personaggio Ramnete - eroe Rea Silvia - personaggio Remo -
eroe Reto - soldato Romolo e Remo - eroi Salii - personaggi Salio - eroe
Serrano - eroe Sibilla - personaggio Tagete - demone Tarquito - eroe Terone -
eroe Tirro - personaggio Turno - eroe Ufente - eroe Umbrone - eroe Venulo -
eroe Vestali - personaggi Volcente - eroe Popoli Modifica Aborigeni Equi Latini Marsi Messapi Rutuli Sabini
Troiani Volsci Note Bibliografia Modifica
Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani. Il racconto, Torino, Einaudi,
2010. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, Utet, 1999. Voci correlate Modifica
Religione romana Sacerdozio (religione romana) Numen Mitologia Mitologia
etrusca Mitologia greca Dodici dei (religione romana) Quirino (divinità) Altri
progetti Modifica Collabora a Wikibooks
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BNCF 30362 · LCCN( EN ) sh85089423 · J9U( EN , HE ) 987007558138205171
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Portale Letteratura Portale Mitologia Ultima modifica 5 ore
fa di Pulciazzo PAGINE CORRELATE Lista di divinità lista di un progetto Wikimedia
Dèi Consenti dodici dèi principali della mitologia romana Triade arcaica
Wikipedia Il Conte Tullio Dandolo. Tullio Dandolo. Dandolo. Keywords: storia
della filosofia romana – ambasceria di Carneade – e tutto il resto! -- “Il
secolo di Augusto”; “Roma e l’impero fino a Marc’Aurelio” “Corse estive nel
Golfo della Spezia”; roma pagana “indici ragionati degli studi del conte Tullio
Dandolo su Roma pagana” -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dandolo” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688599022/in/photolist-2mRnYF2-2mPqEYR-2mKG3XG-2mKxzFL-2mKC3nj
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